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Concordato preventivo e il controllo del tribunale nella fase di ammissibilità della proposta

Concordato preventivo e il controllo del tribunale nella fase di ammissibilità della proposta

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 11882 del 18/06/2020

Con sentenza del 18 giugno 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che in tema di concordato preventivo, il controllo del tribunale nella fase di ammissibilità della proposta, ai sensi degli artt. 162 e 163 L.F. (R.D. n. 267 del 1942), ha per oggetto principalmente la completezza e la regolarità della domanda. Di talché, quanto all’attestazione del professionista circa la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano, il giudice si deve limitare al riscontro di quegli elementi necessari a far sì che detta relazione – inquadrabile nel tipo effettivo richiesto dal legislatore, dunque aggiornata e con la motivazione delle verifiche effettuate, della metodologia e dei criteri seguiti – possa alla funzione, che le è propria, di fornire elementi di valutazione per i creditori.


Cass. civ. Sez. I 18_06_2020 n. 11882




Concordato preventivo e contratto-quadro di anticipazione bancaria

Concordato preventivo e contratto-quadro di anticipazione bancaria o mandato all’incasso ed annesso patto di compensazione

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 11524 del 15/06/2020

Con sentenza del 15 giugno 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che l’art. 169-bis L.F., il quale consente al debitore proponente un concordato di chiedere al giudice delegato lo scioglimento dei contratti pendenti, è applicabile al contratto-quadro di anticipazione bancaria contro cessione di credito o mandato all’incasso ed annesso patto di compensazione, fino quando la banca, nell’anticipare al cliente l’importo dei crediti non ancora scaduti vantati da quest’ultimo nei confronti dei terzi, non abbia ancora raggiunto il tetto massimo convenuto tra le parti.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 11524 del 15/06/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

B. S.p.A., per fusione fra P. e S., che in precedenza aveva incorporato L. S.p.A. – ricorrente –

contro

C. S.r.l. – controricorrente –

avverso il decreto del Tribunale di Firenze, depositato il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere __;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale __ che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso, nonché richiesta alla Corte di enunciazione principio di diritto ove ritenuto necessario. Il P.G. viene autorizzato al deposito di note con la richiesta ex art. 363 c.p.c.;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato __ che si riporta;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato __ che si riporta.

Svolgimento del processo

Con decreto depositato il __ il Tribunale di Firenze – sezione Fallimentare – ha rigettato il reclamo proposto da B. avverso il provvedimento con cui il Giudice Delegato nella procedura di concordato preventivo della società C. S.r.l., in data __, in applicazione della L.F., art. 169 bis, ha autorizzato lo scioglimento del contratto di apertura di credito n. (OMISSIS) NDG (OMISSIS) stipulato dall’allora società in bonis con il predetto istituto di credito (dal quale B., era, peraltro, receduta in data __ per grave inadempimento di C.). Si trattava di un contratto di anticipazione bancaria nel cui ambito l’art. _ prevedeva la cessione pro-solvendo dei crediti vantati da C. S.r.l. nei confronti di terzi “all’atto delle operazioni, a garanzia di quanto ad essa dovuto per capitale, interessi e spese” ed il patto di compensazione, in modo tale che “le somme incassate dalla banca sono portate ad estinzione o decurtazione di ogni ragione di credito della banca nei confronti del cliente per capitale, interessi, spese ed accessori, in dipendenza delle operazioni”.

Il Tribunale di Firenze ha rigettato il reclamo rilevando, in primo luogo, che non vi era possibilità di operare una riconduzione ben precisa tra le missive (inviate via PEC) con cui la banca sollecitava i terzi al pagamento diretto delle fatture alla banca cessionaria e le ricevute delle PEC in cui si faceva generico riferimento a cessioni di credito, mai indicate nell’oggetto in modo specifico.

Inoltre, con riferimento alla problematica dello scioglimento del contratto di apertura di credito in conto corrente per cui è procedimento, dopo aver evidenziato che si trattava di un contratto anticipi su fatture, effetti, ricevute bancarie presentati salvo buon fine con le clausole accessorie della cessione di credito verso il debitore pro-solvendo e patto di compensazione, ha osservato che “l’incasso e la successiva compensazione non sono solo diritti a favore dell’istituto di credito, ma anche obblighi in capo allo stesso e nell’interesse del cliente perché garantiscono l’effettiva operatività di quelle garanzie che mettono anche il cliente al riparo della richiesta di restituzione”.

Ne consegue che non essendosi la prestazione di B. esaurita nella sola erogazione dell’anticipazione, il contratto doveva ritenersi ancora pendente, con assoggettabilità del medesimo alla disciplina L.F., ex art. 169.

Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso per cassazione B. S.p.A. affidandolo a tre motivi.

C. .r.l. in concordato preventivo si è costituita in giudizio con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato le memorie ex art. 378 c.p.c..

Il Procuratore Generale ha concluso per l’inammissibilità ricorso, chiedendo in ogni caso, per l’importanza e delicatezza della questione sottoposta all’esame di questa Corte, che sia pronunciato il principio di diritto ex art. 363 c.p.c..

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione o falsa applicazione della L.F., art. 169 bis nella parte in cui il provvedimento impugnato ha autorizzato lo scioglimento del contratto di credito bancario nel quale, prima dell’apertura del concordato, la Banca aveva già eseguito la propria prestazione e restava da eseguire la controprestazione restitutoria.

Evidenzia l’istituto ricorrente che pur avendo il giudice autorizzato formalmente lo scioglimento del contratto-quadro, dalla motivazione emergeva inequivocabilmente l’intendimento del collegio di estenderne gli effetti ai vari contratti di anticipazione con cessione di credito e patto di compensazione via via stipulati e ancora in corso, nei quali, al sopravvenire del concordato preventivo di C., il pagamento dei crediti ceduti non era ancora avvenuto.

Sul punto, l’istituto ricorrente rileva che, allorquando sia stata erogata dalla banca un’anticipazione di un credito del cliente verso terzi, la Banca ha esaurito la propria fondamentale prestazione, dovendo solo l’affidato eseguire la controprestazione, che può avvenire con l’intervento del terzo debitore del credito anticipato quando vi sia stata una cessione di credito a scopo di garanzia o un mandato in rem propriam a riscuoterlo con patto di compensazione.

Nell’uno e nell’altro caso non vi è un contratto pendente di cui può essere autorizzato lo scioglimento, a norma della L.F., art. 169 bis.

  1. ricorrente censura la motivazione del provvedimento impugnato secondo cui l’utilizzo della garanzia da parte del contraente istituto di credito sarebbe una sorta di prestazione aggiuntiva rispetto alla prestazione contrattuale dallo stesso già in precedenza eseguita, tale da modificare il sinallagma contrattuale, non considerando tale affermazione che per stabilire se al momento dell’apertura di una procedura concorsuale un contratto non sia stato eseguito da entrambe le parti, occorre aver riguardo alle obbligazioni fondamentali che a ciascuna di esse derivano dal contratto e non anche alle prestazioni accessorie.
  2. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 115 c.p.c. e, in subordine, dell’art. 101 c.p.c., comma 2.

Espone B. ricorrente che, avendo il provvedimento impugnato sollevato il dubbio della certezza della data e quindi dell’opponibilità delle cessioni dei crediti anticipati nonché della loro notifica ai debitori ceduti, evidenzia, sul punto, che nessuna contestazione sulla certezza della data era stata sollevata da C. S.r.l., con la conseguenza che tale fatto doveva intendersi provato, a norma dell’art. 115 c.p.c., in quanto non specificamente contestato.

In ogni caso, se il Tribunale avesse inteso sollevare d’ufficio la questione dell’opponibilità delle cessioni di credito, avrebbe dovuto, a norma dell’art. 101 c.p.c., comma 2, assegnare alle parti termini per formulare le proprie osservazioni sulla questione sollevata.

  1. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione della L.F., artt. 45 e 169, artt. 1264, 2914 e 2704 c.c., in relazione alla L. n. 3 del 2003, art. 27 e del D.P.R. n. 68 del 2005, artt. 2 e 6.

Espone l’istituto ricorrente che ove fossero ritenute superabili le violazioni di norme processuali denunciate nel precedente motivo, in ogni caso, il decreto impugnato ha disatteso le disposizioni di legge sulle notificazioni in via telematica mediante posta elettronica certificata, applicabili anche alle notificazioni di atti giudiziari ed a fortiori alle notificazioni di cessioni di crediti a norma dell’art. 1264 c.c..

  1. Il ricorso è inammissibile, Va preliminarmente osservato che affinché sia proponibile il ricorso straordinario per cassazione, a norma dell’art. 111 Cost., non è sufficiente che i provvedimenti abbiano una qualsiasi idoneità ad incidere positivamente o negativamente sulle aspettative dei creditori, essendo necessario che si tratti di provvedimenti di natura giurisdizionale destinati a produrre effetti di diritto sostanziale con efficacia di giudicato e ad incidere in modo definitivo sui diritti soggettivi delle parti. In tale prospettiva, questa Corte ha già ritenuto (Cass. n. 17520/2015) la non impugnabilità dei provvedimenti assunti a norma della L.F., art. 169 bis, – e di quelli emessi dal Tribunale in sede di reclamo – sulla richiesta del debitore di essere autorizzato alla sospensione o allo scioglimento dei contratti in corso, costituendo atti di esercizio del potere di amministrazione e gestione dei beni del debitore e delle funzioni di direzione della procedura concorsuale, non deputati a risolvere controversie su diritti.

Infatti, in ipotesi di autorizzazione da parte del G.D. (o diniego) allo scioglimento dei contratti, a norma della L.F., art. 169 bis, la parte non soddisfatta può adire il giudice e contestare la ritenuta sussistenza (o insussistenza) dei presupposti per lo scioglimento del contratto attraverso una domanda da proporsi nell’ambito di un giudizio a cognizione piena.

Va, peraltro, rilevato che questa Corte, nonostante l’accertata inammissibilità del ricorso, intende comunque occuparsi della questione sottoposta al suo esame e formulare il principio di diritto nell’interesse della legge, a norma dell’art. 363 c.p.c., trattandosi di questione di particolare importanza su cui si è aperto un fiorente ed articolato dibattito in dottrina e su cui i giudici di merito si sono divisi.

In primo luogo, va osservato che a seguito dell’entrata in vigore del D.L. 27 giugno 2015, n. 83, art. 8, comma 1, lett. a), convertito con modificazioni nella L. 6 agosto 2015, n. 22, art. 132, con il quale la locuzione “in corso di esecuzione”, presente nella rubrica della L.F., art. 169 bis, è stata sostituita da quella “pendenti”, il legislatore ha voluto in modo inequivocabile ricondurre la nozione di contratti “pendenti” di cui alla L.F., art. 169 bis a quella di “rapporti pendenti” di cui alla L.F., art. 72, comma 1, con la conseguenza che deve farsi riferimento a fattispecie negoziali che non abbiano avuto compiuta esecuzione da entrambe le parti al momento della presentazione della domanda di concordato preventivo.

Se è pur vero che la L.F., art. 169 bis, non contiene un espresso richiamo ad entrambe le parti, tuttavia, l’utilizzo di una locuzione identica a quella della rubrica della L.F., art. 72, non fa residuare alcun dubbio in ordine alla intenzione del legislatore, rivelata, peraltro, dalla relazione alla legge di conversione, inequivocabile sul punto. Dunque, alla luce anche della chiara formulazione legislativa (confermata anche all’art. 97 dell’introducendo Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza che fa espresso riferimento ad entrambe le parti), la L.F., art. 169 bis, non è applicabile ai contratti a prestazioni corrispettive in cui una delle parti abbia già compiutamente eseguito la propria obbligazione.

A questo punto, si pone la questione, che ha formato oggetto del presente procedimento (ma che caratterizza la maggior parte del contenzioso su tale materia), se la L.F., art. 169 bis, sia o meno applicabile ai contratti di anticipazione bancaria in conto corrente contro cessione di credito o mandato all’incasso con annesso patto di compensazione, c.d. linee di credito autoliquidanti, e, in particolare, se lo scioglimento possa o meno eventualmente investire quelle operazioni di anticipazione nelle quali la banca, anteriormente all’apertura della procedura di concordato preventivo, abbia già effettuato la propria erogazione a favore del cliente, mentre la riscossione del credito a copertura della anticipazione sia avvenuta successivamente.

Il Tribunale di Firenze, in proposito, sul rilievo che la Banca, con l’erogazione dell’anticipazione riguardante il credito che il cliente vantava nei confronti di terzi, non avesse esaurito la propria prestazione, residuando in capo al medesimo istituto l’obbligo di provvedere anche all’incasso dello stesso credito presso terzi (attività da porre in essere nell’interesse dello stesso cliente), ha ritenuto applicabile la L.F., art. 169 bis. Inoltre, lo stesso Tribunale, nell’affermare che l’operatività dell’istituto dello scioglimento L.F., ex art. 169 bis, è pienamente coerente con i principi della par condicio creditorum e di cristallizzazione del credito, impedendo che taluni creditori possano essere soddisfatti integralmente con l’attivo concordatario con pregiudizio di altri creditori, ha fatto chiaramente intendere di ritenere che gli effetti dello scioglimento investano anche le anticipazioni già erogate, con conseguente obbligo della Banca di restituire alla procedura le somme incassate dai terzi.

Questo Collegio non condivide tale impostazione.

Va, preliminarmente, osservato che generalmente la linea di credito c.d. autoliquidante consta di un contratto-quadro che disciplina le singole operazioni di anticipazione in conto corrente contro cessione di credito pro solvendo, come nel caso esaminato dal Tribunale di Firenze, o con mandato all’incasso con annesso patto di compensazione.

Non vi è dubbio che con riferimento al contratto-quadro, non sussistano elementi ostativi allo scioglimento del contratto L.F., ex art. 169 bis, atteso che, fino a quando non venga meno il rapporto contrattuale esistente tra le parti, la banca è tenuta ad erogare le anticipazioni su fatture o ricevute bancarie o titoli di credito, a tempo determinato o indeterminato, e fino al tetto massimo convenuto tra le parti. Pertanto se il fido concesso, nei precisi termini sopra illustrati, non è ancora stato interamente utilizzato, la banca è tenuta (fino al limite pattuito) ad erogare il credito in coincidenza con la presentazione delle fatture (o altri documenti commerciali) e l’obbligazione dello stesso istituto non può quindi ritenersi interamente eseguita, con la conseguenza che tale rapporto è suscettibile di scioglimento.

A conclusioni diverse deve, invece, addivenirsi con riferimento alle operazioni di anticipazione già eseguite in esecuzione del contratto-quadro in un periodo anteriore all’apertura del concordato preventivo, a fronte delle quali la banca non abbia ancora incassato il credito.

In proposito, deve distinguersi l’ipotesi in cui, all’atto dell’anticipazione, il debitore proponente avesse ceduto in garanzia pro solvendo un proprio credito verso terzi, da quella in cui avesse conferito alla banca il mandato all’incasso con annesso patto di compensazione, venendo in considerazione due distinti istituti giuridici soggetti ad una diversa disciplina (seppur in entrambi i casi, come sarà approfondito nel corso delle trattazione, la banca non è tenuta a restituire le somme incassate).

In particolare, la cessione di credito a scopo di garanzia (come detto, pro solvendo), ha un’immediata efficacia traslativa del credito ceduto dal cliente della banca, la quale, essendone divenuta già titolare al momento dell’erogazione dell’anticipazione, potrà disporre come meglio crede e quindi trattenersi le somme che incasserà dal terzo.

Ove ricorra tale fattispecie, l’eventuale pattuizione di un patto di compensazione (come nel caso esaminato dal Tribunale di Firenze) è del tutto irrilevante, atteso che il diritto della Banca di incamerare le somme incassate dal terzo non deriva dal patto di compensazione, ma dalla acquisita titolarità, a monte, del credito.

Non vi è dubbio che, in relazione a quanto sopra illustrato, in caso di anticipazione contro cessione di credito, gli effetti dell’operazione si esauriscono al momento del perfezionamento dell’accordo e non si pone quindi neppure la questione della pendenza del singolo contratto di anticipazione bancaria.

Nel caso, invece, di anticipazione bancaria con mandato all’incasso e patto di compensazione, non può parimenti ritenersi pendente la singola operazione di anticipazione, avendo la banca, con l’erogazione della somma al cliente, già compiutamente eseguito la propria prestazione. Né la previsione a favore della Banca di un mandato all’incasso, con patto di compensazione, consente di ritenere che la banca sia tenuta ad una prestazione aggiuntiva che rientri nel sinallagma contrattuale. In realtà, trattandosi di mandato in rem propriam esclusivamente finalizzato a realizzare la funzione di garanzia, a copertura della somma anticipata dalla banca, l’attività di incasso della banca, attiene soltanto alla modalità di satisfazione del proprio credito. La banca ha senz’altro un proprio interesse, è onerata ad incassare presso il terzo il credito dal cliente, se intende soddisfare, a sua volta, il proprio credito, ma non ha un obbligo giuridico, tanto è vero che, in caso di mancato incasso del credito, l’unica conseguenza è la mancata riduzione (o eventualmente estinzione) dell’esposizione debitoria in conto corrente del cliente: costui, a sua volta, ha un evidente interesse a che la banca incassi il credito presso il terzo (per ridurre o estinguere il proprio debito), ma che, come sopra anticipato, non rientra nel sinallagma contrattuale, non comportando certo il mancato incasso della banca, conseguente ai mancato pagamento del terzo, la propria liberazione dal debito sorto per effetto dell’anticipazione.

In ogni caso, anche ove si volesse ritenere che l’attività di incasso dei crediti del cliente verso i terzi rientrasse tra le obbligazioni della banca, si tratterebbe comunque di una prestazione di natura accessoria, non idonea ad incidere sulla nozione di compiuta esecuzione della prestazione a norma della L.F., art. 72.

In proposito, questa Corte già statuito che “Ai fini della L.F., art. 72, per stabilire se al momento della dichiarazione di fallimento il contratto non sia stato eseguito da entrambe le parti, occorre avere riguardo alle obbligazioni fondamentali che a ciascuna di esse derivano dal negozio e non anche alle prestazioni accessorie. (Cass. n. 3708/1983 non disattesa da sentenze successive e a sua volta conforme a Cass. n. 1007/81; Cass. n. 2336/75; Cass. n. 2248/75; Cass. n. 3422/74). Tale impostazione giuridica è stata, peraltro, recepita dall’art. 97 dell’introducendo Codice della Crisi e dell’Insolvenza, che prevede nella prima parte del comma 1 che “salvo quanto previsto dall’art. 91, comma 2, i contratti ancora ineseguiti o non compiutamente eseguiti nelle prestazioni principali da entrambe le parti alla data del deposito della domanda di accesso al concordato preventivo, proseguono anche durante il concordato”.

In conclusione, avendo la banca esaurito la propria prestazione (quantomeno principale) con l’effettuazione della anticipazione, ne consegue l’inapplicabilità della L.F., art. 169 bis, alle singole operazioni di anticipazione ancora in corso.

Va, peraltro, osservato che il quadro normativo riguardanti le c.d. operazioni autoliquidanti e i rapporti delle medesime con la procedura di concordato preventivo sta per essere completamente modificato in conseguenza della imminente entrata in vigore del Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza (in un primo tempo prevista per il 15 agosto 2020, ora prorogata al 1 settembre 2021 in virtù del D.L. 8 aprile 2020, n. 23) e soprattutto del decreto correttivo approvato dal Consiglio dei Ministri nel gennaio 2020, che è intervenuto all’art. 15 a variare in modo significativo il D.Lgs. n. 14 del 2019, art. 97.

In particolare, è stato aggiunto il comma 14 che così recita: “Nel contratto di finanziamento bancario costituisce prestazione principale ai sensi del comma 1 anche la riscossione diretta da parte del finanziatore nei confronti dei terzi debitori della parte finanziata. In caso di scioglimento, il finanziatore ha diritto di riscuotere e trattenere le somme corrisposte dai terzi debitori fino al rimborso integrale delle anticipazioni effettuate nel periodo compreso tra i centoventi giorni antecedenti il deposito della domanda di accesso di cui all’art. 40 e la notificazione di cui al comma 6”.

È evidente che la norma sopra menzionata – che configurerà l’attività di riscossione diretta della banca nei confronti terzi come prestazione principale – avrà un carattere del tutto innovativo, introducendo per i contratti di finanziamento bancario pendenti al momento dell’apertura della procedura di concordato preventivo (come era già stato previsto al comma 12 dello stesso art. 97 per il contratto di leasing) una nuova disciplina del tutto peculiare, con effetti, peraltro, in caso di scioglimento, circoscritti ad un breve lasso temporale.

D’altra parte, la natura innovativa dell’introducendo del C.C.I.I. art. 97, comma 13, emerge in modo inequivocabile dalla relazione illustrativa del decreto correttivo secondo cui “In materia esiste un vivace contrasto giurisprudenziale e dunque esistono incertezze sul piano interpretativo che incidono negativamente sulla propensione degli istituti di credito a sostenere l’attività delle imprese che abbiano presentato domanda di concordato preventivo, anche in considerazione di condotte opportunistiche che nella prassi si sono a volte riscontrate da parte dei debitori beneficiari del finanziamento. La nuova disposizione, al fine di sanare i contrasti interpretativi, prevede in modo espresso che anche la riscossione diretta da parte del finanziatore nei confronti dei terzi debitori della parte finanziata costituisce prestazione principale ai sensi dell’art. 97, comma 1. Ciò vuol dire che l’erogazione dell’anticipazione da parte del finanziatore non esaurisce le obbligazioni a suo carico e che, tra queste, vi è quella di procedere alla riscossione dei crediti del finanziato, sicché, fino a quando l’attività di riscossione non sia stata ultimata, il contratto deve considerarsi pendente”.

Dunque, che si tratti di norma del tutto nuova non deriva soltanto dalla sua peculiare struttura e dalla circostanza che saranno considerati compensabili gli incassi della banca successivi all’apertura della procedura di concordato preventivo, solo se ed in quanto derivanti da operazioni di anticipazione effettuate in un determinato lasso temporale, ma anche dal rilievo che la stessa norma, secondo gli intendimenti del legislatore, sarà introdotta per porre fine ai contrasti interpretativi sorti a seguito dell’introduzione della L.F., art. 169 bis.

In conclusione, la futura modifica, che sarà apportata dal decreto correttivo sopra esaminato, alla disciplina delle operazioni c.d. autoliquidanti rafforza ancora di più il convincimento che, invece, secondo il quadro normativo attualmente esistente, la Banca, con l’erogazione dell’anticipazione al cliente, ha compiutamente eseguito la sua prestazione. Ne consegue l’inapplicabilità della L.F., art. 169 bis.

Si pone, a questo punto la problematica se, indipendentemente dalla possibilità o meno di scioglimento della singola operazione di anticipazione che sia avvenuta precedentemente all’apertura della procedura di concordato preventivo, la banca, una volta incassato il credito del cliente, sia obbligata o meno a restituire le somme al debitore proponente, allorquando esista una pattuizione che consente alla Banca il diritto di ritenere le somme riscosse, ossia il c.d. patto di compensazione o di annotazione ed elisione nel conto delle partite di segno opposto.

Sul punto, va osservato che questa Corte ha più volte statuito che “in tema di anticipazione su ricevute bancarie regolata in conto corrente, se le relative operazioni siano compiute in epoca antecedente rispetto all’ammissione del correntista alla procedura di amministrazione controllata, è necessario accertare, qualora il correntista successivamente ammesso al concordato preventivo – agisca per la restituzione dell’importo delle ricevute incassate dalla banca, se la convenzione relativa all’anticipazione su ricevute regolata in conto contenga una clausola attributiva del diritto di incamerare le somme riscosse in favore della banca (cd. patto di compensazione o, secondo altra definizione, patto di annotazione ed elisione nel conto di partite di segno opposto); solo in tale ipotesi, difatti, la banca ha diritto a compensare il suo debito per il versamento al cliente delle somme riscosse con il proprio credito, verso lo stesso cliente, conseguente ad operazioni regolate nel medesimo conto corrente, a nulla rilevando che detto credito sia anteriore alla ammissione alla procedura concorsuale ed il correlativo debito, invece, posteriore, poiché in siffatta ipotesi non può ritenersi operante il principio della cristallizzazione dei crediti, con la conseguenza che né l’imprenditore durante l’amministrazione controllata, né gli organi concorsuali – ove alla prima procedura ne sia conseguita altra – hanno diritto a che la banca riversi in loro favore le somme riscosse (anziché porle in compensazione con il proprio credito)”. (Cass. n. 17999 del 01/09/2011; vedi anche Cass. n. 3336/2016; Cass. n. 2539/1998; Cass. n. 1997 n 7194; Cass. n. 4205/01).

In particolare, la sentenza n. 7194/1997, che tra le prime ha affrontato la questione in oggetto, ha evidenziato che dal principio che l’ammissione ad una procedura concorsuale minore non determina lo scioglimento del rapporto di conto corrente bancario e di quelli di volta in volta in esso confluenti “discende necessariamente che la prosecuzione attiene al rapporto nella sua interezza e, dunque, si estende a tutte le clausole pattizie che lo regolano, ivi compresa quella con le quali le parti abbiano attribuito alla banca il diritto di incamerare le somme riscosse”.

Il patto, infatti, è essenzialmente interdipendente al negozio di credito connesso al mandato a riscuotere, nel senso che attenendo esso alla regolamentazione delle modalità di satisfazione del credito della banca, in sua carenza l’operazione non sarebbe stata posta in essere, sicché negozio e patto non possono che rimanere inscindibilmente connessi. In simile prospettiva, però, risulta inammissibile, prima ancora sul piano logico che su quello giuridico, qualsiasi costruzione giuridica incentrata sulla prosecuzione – nel corso di una procedura concorsuale minore – del complesso unitario rapporto di conto corrente bancario, compresa l’obbligazione di dar esecuzione al mandato all’incasso, ma con esclusione del patto (va ribadito, inscindibile rispetto a quel rapporto) della c.d. “compensazione attraverso il mezzo tecnico della annotazione in conto delle somme riscosse ad elisione delle partite di debito verso la banca”.

Tale impostazione giuridica – che focalizza l’attenzione sul collegamento negoziale e funzionale esistente tra il contratto di anticipazione ed il mandato all’incasso con patto di compensazione, così rivelando la causa concreta di tutta l’operazione, di talché in assenza del patto in oggetto la stessa operazione non sarebbe mai stata posta in essere – consente di cogliere la ragione per cui, in presenza del patto di compensazione, non può ritenersi operante il principio di cristallizzazione dei crediti.

Infatti, proprio perché in virtù del collegamento esistente tra il contratto di anticipazione ed il mandato all’incasso con patto di compensazione, può fondatamente ritenersi che i rispettivi debiti e crediti delle parti traggano origine da un unico, ancorché complesso, rapporto negoziale, in una tale eventualità, è configurabile la c.d. compensazione impropria, e non quindi la compensazione in senso stretto di cui agli artt. 1241 e ss. c.c., (disciplinata nella procedura fallimentare dalla L.F., art. 56) che presuppone l’autonomia dei rapporti cui si riferiscono i contrapposti crediti delle parti.

In particolare, in caso di compensazione impropria, la valutazione delle reciproche pretese delle parti comporta soltanto un semplice accertamento contabile di dare ed avere, con elisione automatica dei rispettivi crediti fino alla reciproca concorrenza, ed a ciò il giudice può procedere senza incontrare ostacolo nelle limitazioni vigenti per la compensazione in senso tecnico giuridico (vedi Cass. n. 30220/2019; Cass. n. 4825/2019).

Dunque, ove i rispettivi debiti e crediti delle parti derivino ad un unico rapporto negoziale – ed è proprio il caso della linea di credito c.d. autoliquidante, nella quale la fonte di rimborso dell’erogazione finanziaria della banca è predeterminata, ed è stata pattuita sin dall’inizio dalle parti la canalizzazione del pagamento del terzo a favore dell’istituto di credito – non trova applicazione la L.F., art. 56, il quale (come le norme sulla compensazione disciplinata dal codice civile) attribuisce rilevanza al momento in cui i reciproci debiti e crediti delle partì vengono a coesistenza.

L’elisione automatica dei rispettivi crediti fino alla reciproca concorrenza è la conseguenza di un mero accertamento contabile di dare e avere di poste attive e passive che, per effetto del patto di compensazione, vengono annotate nel medesimo conto corrente.

È evidente, invece, che ove il mandato all’incasso della banca fosse stato espletato in difetto del patto di compensazione stipulato a monte, verrebbe meno il collegamento negoziale sopra evidenziato e la conseguente unicità del rapporto negoziale, con conseguente applicabilità delle norme sulla compensazione in senso stretto e, in materia fallimentare, della L.F., art. 56, che non consente la compensazione tra i crediti reciproci se non entrambi preesistenti all’apertura della procedura di concordato preventivo (vedi sul punto la fattispecie esaminata da Cass. n. 22277/2017).

In conclusione, alla luce di quanto sopra illustrato, l’esistenza del patto con cui è stato attribuito alla banca il diritto di incamerare le somme riscosse all’esito della singola operazione di anticipazione, e l’operatività dell’istituto della c.d. compensazione impropria, consentono alla banca di trattenersi legittimamente le somme riscosse dopo l’apertura del concordato preventivo.

Va pertanto formulato, a norma dell’art. 363 c.p.c., il seguente principio di diritto: “La L.F., art. 169 bis, che consente al debitore proponente un concordato di chiedere al giudice delegato lo scioglimento dei contratti pendenti, è applicabile al contratto-quadro di anticipazione bancaria contro cessione di credito o mandato all’incasso ed annesso patto di compensazione, fino quando la banca, nell’anticipare al cliente l’importo dei crediti non ancora scaduti vantati da quest’ultimo nei confronti dei terzi, non abbia ancora raggiunto il tetto massimo convenuto tra le parti. La L.F., art. 169 bis è inapplicabile alla singola operazione di anticipazione bancaria in conto corrente contro cessione di credito o mandato all’incasso con annesso patto di compensazione, ancora in corso al momento dell’apertura del concordato, avendo la banca, con l’erogazione della anticipazione, già compiutamente eseguito la propria prestazione. Il collegamento negoziale e funzionale esistente tra il contratto di anticipazione bancaria ed il mandato all’incasso con patto di compensazione, che consente alla banca di incamerare e riversare in conto corrente le somme derivanti dall’incasso dei singoli crediti del proprio cliente nei confronti di terzi, dando luogo ad un unico rapporto negoziale, determina l’applicazione dell’istituto della c.d. compensazione impropria tra i reciproci debiti e crediti della banca con il cliente e la conseguente inoperatività del principio di “cristallizzazione” dei crediti, rendendo, pertanto, del tutto irrilevante che l’attività di incasso della banca sia svolta in epoca successiva all’apertura della procedura di concordato preventivò. A prescindere dalla formulazione del principio di diritto ex art. 363 c.p.c., l’accertata inammissibilità del ricorso comporta la condanna del Banco Popolare BPM al pagamento delle spese processuali sostenute dalla procedura, che si liquidano come in dispositivo”.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro __, di cui Euro __ per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 20 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2020.

Cass. civ. Sez. I 15_06_2020 n. 11524




Concordato preventivo: nuovo piano

Concordato preventivo: il termine per il deposito di un nuovo piano e di una nuova proposta concordatari

Tribunale Ordinario di Roma, Sezione Civile, Sentenza del 29/05/2020

Con sentenza del 12 marzo 2020, il Tribunale Ordinario di Terni, Sezione Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che il termine per il deposito di un nuovo piano e di una nuova proposta concordatari ex art. 9, comma 2, D.L. 08/04/2020, n. 23, può essere concesso dal tribunale su istanza del debitore nell’ambito di procedimenti di concordato preventivo pendenti alla data del 23 febbraio 2020, anche nella fase precedente all’ammissione, laddove però siano stati depositati proposta e piano, tenuto conto che la disciplina emergenziale (come del resto quella ordinaria del concordato, soprattutto in continuità) è ispirata al favor debitoris; pertanto, una lettura sistematica delle diverse misure regolate dall’art. 9 D.L. 08/04/2020, n. 23, induce a ritenere che il legislatore abbia inteso offrire agli imprenditori strumenti di tutela che coprano tutte le fasi della procedura di concordato preventivo.

Nel caso di specie occorre rilevare che il debitore aveva provveduto al deposito del piano e della proposta entro il termine assegnato e già prorogato ai sensi dell’art. 161, comma 6, L.F., ma risultava fissata con decreto ex art. 162 L.F. la convocazione del debitore per discutere di profili di inammissibilità della proposta e del piano scaturenti dalle modifiche apportate.


 

 

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Opposizione all’esecuzione forzata e natura del titolo

L’opposizione all’esecuzione forzata fondata su un titolo esecutivo giurisdizionale e l’opposizione all’esecuzione forzata basata su un titolo di natura contrattuale

Tribunale Ordinario di Terni, Sezione Civile, Sentenza del 12/03/2020

Con sentenza del 12 marzo 2020, il Tribunale Ordinario di Terni, Sezione Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che mentre con l’opposizione all’esecuzione forzata fondata su un titolo esecutivo giurisdizionale possono farsi valere soltanto i fatti posteriori alla formazione del provvedimento costituente titolo esecutivo, non essendo ammissibile un controllo a ritroso della legittimità e della fondatezza del provvedimento stesso fuori dell’impugnazione tipica e del procedimento che ad essa consegue, la medesima esigenza, invece, non si riscontra allorché l’esecuzione forzata sia basata su un titolo di natura contrattuale: in tal caso, pertanto, il debitore può contrastare la pretesa esecutiva del creditore con la stessa pienezza dei mezzi di difesa consentita nei confronti di una domanda di condanna o di accertamento del debito, e il giudice dell’opposizione può rilevare d’ufficio non solo l’inesistenza, ma anche la nullità del titolo esecutivo nel suo complesso o in singole sue parti, non vigendo in materia il principio processuale della conversione dei vizi della sentenza in mezzi di impugnazione.


 

 

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La spedizione per posta ordinaria di un assegno – concorso di colpa del mittente

La spedizione per posta ordinaria di un assegno costituisce condotta idonea a giustificare l’affermazione del concorso di colpa del mittente

Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Civili, Sentenza n. 9769 del 26/05/2020

Con sentenza del 26 maggio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Civili, in merito di recupero crediti ha stabilito che la spedizione per posta ordinaria di un assegno, ancorché munito di clausola di intrasferibilità, costituisce, in caso di sottrazione del titolo e riscossione da parte di un soggetto non legittimato, condotta idonea a giustificare l’affermazione del concorso di colpa del mittente, comportando, in relazione alle modalità di trasmissione e consegna previste dalla disciplina del servizio postale, l’esposizione volontaria del mittente ad un rischio superiore a quello consentito dal rispetto delle regole di comune prudenza e del dovere di agire per preservare gli interessi degli altri soggetti coinvolti nella vicenda, configurandosi, dunque, come un antecedente necessario dell’evento dannoso, concorrente con il comportamento colposo eventualmente tenuto dalla banca nell’identificazione del presentatore.


Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Civili, Sentenza n. 9769 del 26/05/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Primo Presidente –

Dott. __ – Presidente di sez. –

Dott. __ – Presidente di sez. –

Dott. __ – Presidente di sez. –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. __ R.G. proposto da:

B. S.p.A. – ricorrente –

contro

U. S.p.A. – intimata –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. __, depositata il __;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere Dott. __;

uditi gli Avv.ti __ e __;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato generale Dott. __, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

  1. M. S.p.A. convenne in giudizio B. S.p.A., per sentirla condannare al pagamento della somma di Euro __, oltre rivalutazione ed interessi, a titolo di risarcimento dei danni derivanti dalla negoziazione di tre assegni di traenza non trasferibili, emessi da S. S.p.A., su incarico di essa attrice, all’ordine di C., D. e R..

Premesso che i predetti titoli, inviati ai beneficiari a mezzo di plichi postali semplici, erano stati sottratti prima di pervenire a destinazione e posti all’incasso presso le agenzie della convenuta, previa esibizione di documenti d’identità falsificati, l’attrice sostenne di aver dovuto effettuare un nuovo pagamento in favore dei beneficiari.

Si costituì la convenuta, e resistette alla domanda, chiedendone il rigetto.

1.1. Con sentenza del __, il Tribunale di Roma rigettò la domanda.

  1. L’impugnazione proposta da U. S.p.A. (già M. S.p.A.) è stata accolta dalla Corte d’appello di Roma, che con sentenza del __ ha condannato B S.p.A. al pagamento della somma richiesta, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.

A fondamento della decisione, la Corte ha richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui la banca che abbia effettuato il pagamento di un assegno non trasferibile in favore di chi non era legittimato a riceverlo ne risponde, ai sensi del R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736, art. 43, comma 2, indipendentemente dalla configurabilità di un errore colposo nell’identificazione del prenditore, dal momento che la predetta disposizione detta una disciplina autonoma che deroga sia a quella prevista dall’art. 1992 c.c. per il pagamento dei titoli a legittimazione variabile, sia a quella generale delle obbligazioni prevista dall’art. 1182 c.c.. Ha affermato che tale disciplina si applica anche alla banca negoziatrice, la quale si limita ad anticipare la valuta acquistando la legittimazione all’esercizio del diritto cartolare, precisando che, nel caso dell’assegno di traenza, la responsabilità della stessa, giustificata dall’impossibilità per B. trattaria di verificare l’autenticità delle firme e dall’esigenza di tutela dei terzi interessati alla circolazione del titolo, ha natura contrattuale e trova fondamento in un obbligo professionale di protezione, volto ad assicurare che l’assegno sia introdotto nel circuito di pagamento bancario in conformità delle regole che ne presidiano la circolazione e l’incasso. Ha escluso l’applicabilità dell’art. 1227 c.c., in relazione al comportamento imprudente dell’attrice consistente nell’invio degli assegni tramite corrispondenza ordinaria, osservando che tale circostanza non aveva spiegato alcuna efficacia causale nella produzione del danno, determinato esclusivamente dal sopravvenuto inadempimento dell’istituto di credito, il quale aveva interrotto il nesso di causalità tra la predetta condotta l’evento dannoso. Ha ritenuto infine che la prova del danno emergesse dallo stesso indebito pagamento degli assegni, il quale aveva comportato la mancata liberazione della compagnia assicuratrice dall’obbligazione nei confronti dei beneficiari dei titoli.

  1. Avverso la predetta sentenza la B. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in sei motivi, illustrati anche con memoria. U. non ha svolto difese scritte.

Con ordinanza del __, la Prima Sezione civile ha rimesso gli atti al Primo Presidente, il quale ha disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, per la risoluzione di una questione di massima di particolare importanza, concernente la possibilità di ravvisare un concorso del danneggiato, ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 1, nella spedizione di un assegno a mezzo posta (sia essa ordinaria, raccomandata o assicurata), con riguardo al pregiudizio patito dal debitore che non sia liberato dal pagamento, in quanto il titolo venga trafugato e pagato a soggetto non legittimato in base alla legge cartolare di circolazione.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione del R.D. n. 1736 del 1933, artt. 43 e 73 dell’art. 81 c.p.c. e dell’art. 1223 c.c., sostenendo che la legittimazione all’esercizio dell’azione di pagamento fondata sugli assegni non spettava alla compagnia assicuratrice, ma esclusivamente ai beneficiari dei titoli. Contesta inoltre la configurabilità di una concorrente azione risarcitoria, in quanto non ricollegabile alla mera persistenza dell’obbligazione a carico dell’attrice, la quale costituiva una conseguenza del contratto di assicurazione, ma a rapporti ulteriori, contrattuali ed extracontrattuali, con la banca trattaria ed i presentatori degli assegni, aventi un collegamento indiretto e complesso con il danno lamentato.

1.1. Il motivo è infondato.

In caso di pagamento dell’assegno non trasferibile in favore di un soggetto diverso da quello effettivamente legittimato, la domanda di rimborso del relativo importo proposta dal traente o dal richiedente nei confronti della banca trattaria o negoziatrice si distingue da quella avente ad oggetto il pagamento dell’assegno, non avendo natura cambiaria, ma risarcitoria, in quanto trova fondamento non già nell’inadempimento del debito incorporato nel titolo, al cui pagamento la banca è tenuta esclusivamente nei confronti del prenditore, ma nella violazione dell’obbligo di procedere all’identificazione di colui che ha presentato il titolo all’incasso, previsto dal R.D. n. 1736 del 1933, art. 43 a tutela di tutti i soggetti interessati alla regolare circolazione del titolo (cfr. Cass., Sez. Un., 26/06/2007, n. 14712; Cass., Sez. III, 22/05/2015, n. 10534). L’accoglimento di tale domanda presuppone ovviamente la prova del danno, che tuttavia, nel caso dell’assegno di traenza, emesso dalla banca trattaria a fronte della costituzione della relativa provvista da parte del richiedente, non postula la dimostrazione dell’avvenuta effettuazione di un nuovo pagamento in favore del prenditore, potendo essere ravvisato nella mera perdita dell’importo versato o addebitato, a causa dello indebito pagamento del titolo; l’emissione e la spedizione di quest’ultimo non comportano infatti il trasferimento della titolarità del predetto importo in favore del beneficiario, il quale ne acquista la disponibilità giuridica soltanto a seguito del pagamento o dell’accreditamento effettuato dalla banca (cfr. Cass., Sez. III, 10/03/2008, n. 6291).

  1. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione del D.M. 9 aprile 2001, art. 6 emesso in attuazione del D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, art. 22, comma 2, e della direttiva n. 97/67/CE, nonché degli artt. 1227, 1228 e 2049 c.c., del D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156, art. 28 e della Delib. dell’AGCOM 20 giugno 2013, osservando che, nel ritenere irrilevante il comportamento tenuto dall’attrice, la sentenza impugnata non ha tenuto conto della nuova disciplina del servizio postale, introdotta dal predetto decreto ministeriale in sostituzione di quella di cui al D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156. Afferma infatti che, mentre quest’ultimo prescriveva l’obbligo di spedizione mediante plico assicurato soltanto per i valori esigibili al portatore, in tal modo escludendo la possibilità d’imputare al mittente le conseguenze dell’invio di assegni non trasferibili tramite plico raccomandato, l’art. 6 cit., applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, estende il predetto obbligo a tutti i valori, consentendo quindi di ravvisare un rapporto di causalità tra l’omessa assicurazione del plico ed il danno derivante dalla perdita del valore nello stesso contenuto.
  2. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione degli artt. 1175 e 1176 c.c., dell’art. 43 c.p., comma 1, e dell’art. 2 Cost., rilevando che, nell’escludere l’apporto causale del comportamento tenuto dall’attrice, la sentenza impugnata non ha considerato che la spedizione degli assegni mediante plico assicurato o quanto meno raccomandato, anziché tramite corrispondenza ordinaria, rappresentava una cautela suggerita da elementari regole di prudenza e diligenza, nonché da un doveroso riguardo per la sfera giuridica dei destinatari. Richiama in proposito la L.R. Sicilia 8 luglio 1977, n. 47, art. 15, il D.P.R. n. 29 settembre 1973, n. 602, art. 42-bis e il D.Lgs. 26 febbraio 1994, n. 46, art. 42-bis, comma 5, che prescrivono la spedizione a mezzo raccomandata di titoli di credito, rimborsi IRPEF e rimborsi dovuti dagli esattori delle imposte, anche di minimo importo, osservando che, a dispetto delle regole di prudenza cui s’ispirano tali disposizioni e degl’innumerevoli casi di sottrazione da parte di falsari, è proseguita nel tempo la prassi dell’invio di assegni circolari a mezzo di corrispondenza ordinaria, laddove criteri di elementare cautela avrebbero consigliato di effettuare il pagamento mediante bonifico o consegna diretta dei titoli, o quanto meno attraverso l’invio in plico raccomandato. Aggiunge che l’abbandono della predetta prassi era imposto anche dalle disposizioni generali desumibili di cui agli artt. 1175 e 1176 c.c., nonché dai principi desumibili dall’art. 2 Cost. e dall’art. 43 c.p., aventi carattere inderogabile.
  3. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione dell’art. 41 c.p. e dell’art. 1227 c.c., osservando che, nel ritenere che il comportamento da essa tenuto nella negoziazione degli assegni avesse comportato l’interruzione del nesso causale tra il danno e la condotta dell’attrice, la sentenza impugnata non ha considerato che i fatti sopravvenuti in tanto possono costituire causa esclusiva dell’evento dannoso, in quanto, oltre ad essere di per sé soli idonei a produrlo, presentino carattere di assoluta imprevedibilità ed eccezionalità. Tali caratteri risultano completamente assenti nel caso della sommaria negoziazione degli assegni, la quale costituisce un fatto piuttosto frequente, già verificatosi per altri titoli risultati successivamente sottratti, e comunque inidoneo a determinare l’incasso degli assegni, in mancanza dell’incauta spedizione degli stessi tramite corrispondenza ordinaria. Secondo la ricorrente, il ricorso a tale mezzo di trasmissione deve considerarsi di per sé sufficiente a giustificare l’affermazione del nesso causale tra il danno lamentato e il comportamento colposo dell’attrice, avendone quest’ultima accettato i prevedibili rischi, al fine di evitare le spese postali, nella convinzione di poter riversare sulla banca le conseguenze dell’eventuale sottrazione degli assegni.
  4. Con il quinto motivo, la ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, ai fini dell’esclusione del nesso causale tra l’evento dannoso ed il comportamento dell’attrice, ha omesso di prendere in esame le considerazioni svolte nella comparsa di costituzione in appello, in cui essa appellata aveva insistito sui rischi connessi al sistema adottato dall’attrice per la spedizione degli assegni, ed aveva evidenziato la possibilità di provvedere al pagamento mediante accredito informatico sui conti correnti dei beneficiari, consegna diretta dei titoli o bonifico bancario, nonché la possibilità di adottare ulteriori cautele, quali l’annotazione degli estremi degli assegni in un file da trasmettere alle banche, al fine di evitarne l’indebito pagamento.
  5. Con il sesto motivo, la ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che, nella valutazione del comportamento tenuto dall’attrice, la sentenza impugnata non ha tenuto conto della disastrosa esperienza anteriore ai fatti di causa, contraddistinta dal pluriennale ricorso della compagnia assicuratrice alla spedizione degli assegni tramite corrispondenza ordinaria, e dalla sistematica sottrazione di un ingente numero di titoli, successivamente negoziati presso tutte le banche da esperti falsari.
  6. I cinque motivi devono essere esaminati congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto profili diversi della medesima questione, concernenti rispettivamente a) l’obbiettiva configurabilità di un rapporto di causalità tra la riscossione dell’assegno non trasferibile da parte di un soggetto non legittimato e la spedizione del titolo mediante posta ordinaria, b) l’individuazione delle regole d’imputazione giuridica dell’evento al mittente, e c) la compatibilità della responsabilità di quest’ultimo con quella della banca trattaria o negoziatrice per l’omissione della dovuta diligenza nell’identificazione del presentatore del titolo. Pur riguardando l’accertamento del nesso causale, il cui riscontro si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, la questione non può ritenersi estranea all’ambito del giudizio di legittimità, in quanto, coinvolgendo l’individuazione del criterio da adottare per la selezione, tra tutte le possibili concause dell’illecito, degli antecedenti in concreto rilevanti per la produzione del danno, ed in particolare la verifica della conformità della scelta operata dal giudice di merito alle norme sostanziali che disciplinano la fattispecie accertata, attiene alla sussunzione di quest’ultima nell’ipotesi normativa, il cui controllo rientra nei poteri di questa Corte, ferma restando la spettanza al giudice di merito della valutazione delle conseguenze derivanti dall’adozione del predetto criterio di selezione (cfr. Cass., Sez. III, 10/04/2019, n. 9985; 25/02/2014, n. 4439; 7/12/ 2005, n. 26997).

I predetti profili hanno costituito per lo più oggetto di cumulativa considerazione da parte della giurisprudenza di questa Corte, la quale è pervenuta ad esiti alquanto differenziati, proprio in virtù dell’avvenuta valorizzazione, nei singoli casi, dell’uno o dell’altro aspetto.

Alcune pronunce hanno infatti attribuito un rilievo preminente (se non esclusivo) alla responsabilità della banca trattaria o negoziatrice, affermando che il titolo e la configurazione giuridica della stessa assorbono totalmente (pur in presenza di altri mezzi bancari utilizzabili per il trasferimento di valuta) le modalità di trasmissione delle quali il richiedente si sia avvalso per l’invio dell’assegno al prenditore beneficiario (cfr. Cass., Sez. I, 16/05/ 2003, n. 7653): a sostegno di tale affermazione, è stato richiamato il principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il R.D. n. 1736 del 1933, art. 43 nel regolare l’adempimento dell’assegno non trasferibile, detta una disciplina autonoma, che deroga sia a quella dei titoli di credito a legittimazione variabile prevista dall’art. 1992 c.c., comma 2, sia a quella generale delle obbligazioni prevista dall’art. 1189 c.c., stabilendo che la banca che abbia eseguito il pagamento in favore di chi non era legittimato non è liberata dall’originaria obbligazione finché non paghi al prenditore esattamente individuato (o al banchiere giratario per l’incasso), e ciò indipendentemente dalla sussistenza dell’elemento della colpa nell’errore sull’identificazione dello stesso prenditore (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. I, 22/02/2016, n. 3405; 9/02/1999, n. 1098). Un altro orientamento ha invece escluso la stessa configurabilità del nesso di causalità, sostenendo che la condotta del mittente che abbia inserito l’assegno non trasferibile in una corrispondenza non assicurata, quand’anche qualificabile come colposa o imprudente, non assume alcuna rilevanza causale rispetto all’evento dannoso, il quale si verifica esclusivamente in conseguenza del comportamento colposo posto in essere dall’istituto di credito negoziatore, emittente o trattario, comportamento valutabile alla stregua di un fatto sopravvenuto rispetto alla trasmissione del titolo per corrispondenza ordinaria, ed idoneo ad interrompere il nesso di causalità (cfr. Cass., Sez. III, 22/08/2018, n. 20911; Cass., Sez. VI, 4/11/2014, n. 23460; Cass., Sez. I, 31/03/2010, n. 7949). Ai predetti argomenti si accompagna spesso il rilievo, talora svolto anche in via autonoma, secondo cui la responsabilità del mittente non è ricollegabile neppure all’inosservanza del divieto, posto dal D.P.R. n. 156 del 1973, art. 83 di includere nella corrispondenza ordinaria denaro, preziosi e carte di valore esigibili al portatore, trattandosi di una disposizione operante esclusivamente nei rapporti tra il mittente ed il gestore del servizio postale, e comunque non riferibile agli assegni, che non sono titoli al portatore (cfr. Cass., Sez. I, 15/05/2019, n. 12984; 4/11/2014, n. 23460; Cass., Sez. III, 30/03/2010, n. 7618).

In tale panorama giurisprudenziale, prevalentemente convergente verso l’esclusione di una colpa concorrente del mittente, non mancano tuttavia voci dissonanti, costituite da pronunce che, pur non escludendo in linea di principio il predetto concorso, hanno dichiarato inammissibile la relativa questione, ritenendola attinente al merito (cfr. Cass., Sez. I, 11/03/2019, n. 6979; 2/12/2016, n. 24659; 22/02/2016, n. 3406), o da pronunce che hanno ritenuto applicabile il divieto di cui al D.P.R. n. 156 del 1973, art. 83 anche ai titoli all’ordine, in virtù di un’interpretazione analogica di tale disposizione (cfr. Cass., Sez. III, 21/12/2017, n. 30665).

7.1. Gli orientamenti indicati hanno il loro comune presupposto, non sempre chiaramente enunciato, ed anzi talvolta deliberatamente relegato in secondo piano (cfr. per tutte Cass., Sez. I, 16/05/2003, n. 7653, cit.), nella sottolineatura della funzione assegnata alla clausola d’intrasferibilità, consistente nel garantire il richiedente o il prenditore proprio contro il rischio del furto, dello smarrimento o della distruzione del titolo, e ritenuta quindi incompatibile con l’accollo sia pure parziale della relativa responsabilità al mittente; in quanto volta a dare l’assoluta sicurezza del pagamento al prenditore, tale funzione giustificherebbe inoltre un’interpretazione particolarmente rigorosa della disciplina dettata dal R.D. n. 1736 del 1933, art. 43, comma 2, in virtù della quale dovrebbe ritenersi che il pagamento dello assegno non trasferibile effettuato in favore di una persona diversa da quella indicata come prenditore non abbia effetto liberatorio nel confronti del solvens, nel senso che, essendo rimessa alla sua diligenza la realizzazione della predetta funzione, egli paga a suo rischio e pericolo, e se cade in errore è tenuto a pagare una seconda volta (cfr. Cass., Sez. I, 13/05/2005, n. 10118; 29/08/2003, n. 12698). Nella sua formulazione originaria, tale indirizzo escludeva la natura risarcitoria dell’obbligazione posta a carico della banca trattaria o negoziatrice, ravvisandovi invece la medesima obbligazione cambiaria originaria, che la banca era tenuta ad adempiere nuovamente mediante il pagamento in favore del soggetto legittimato, non potendosi considerare validamente effettuato quello eseguito in favore del presentatore (cfr. Cass., Sez. I, 22/02/2000, n. 1978; 9/02/1999, n. 1098; 7/10/ 1958, n. 3133): in quest’ottica, si escludeva anche la necessità di un’indagine in ordine all’imputabilità dell’errore commesso nell’identificazione del prenditore, affermandosi che la banca era tenuta al nuovo pagamento a prescindere dalla natura colposa del comportamento tenuto in occasione di quello precedente; e tale precisazione è rimasta ferma anche in seguito, nonostante la diffusione del diverso orientamento, divenuto poi prevalente, che riconosce la natura risarcitoria dell’obbligazione, ricollegandola non già all’inadempimento del debito cambiario, ma all’inosservanza del dovere, posto a carico della banca dal R.D. n. 1736 del 1933, art. 43, comma 2, di procedere all’identificazione del presentatore dell’assegno, mediante l’adozione di tutte le cautele e gli accorgimenti in concreto suggeriti dalla diligenza professionale (cfr. Cass., Sez. VI, 21/02/2017, n. 4381; Cass., Sez. I, 19/07/2016, n. 14777; 22/02/2016, n. 3405), Com’è noto, la predetta affermazione, tutt’altro che pacifica nella giurisprudenza di legittimità (cfr. in contrario Cass., Sez. 23/12/2016, n. 26947; 4/08/2016, n. 16332; 26/01/2016, n. 1377), ha costituito oggetto di revisione da parte di queste Sezioni Unite, che con una recente sentenza hanno enunciato il principio secondo cui la banca negoziatrice dell’assegno (bancario, di traenza o circolare) munito di clausola d’intrasferibilità, chiamata a rispondere del danno cagionato dal pagamento effettuato a persona diversa dall’effettivo beneficiario, per errore nell’identificazione del legittimo portatore del titolo, è ammessa a provare che l’inadempimento non le è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza richiesta dall’art. 1176 c.c., comma 2, (cfr. Cass., Sez. Un., 21/05/2018, n. 12477). A sostegno di tale conclusione, è stata richiamata la precedente sentenza delle stesse Sezioni Unite che, risolvendo il contrasto di giurisprudenza riguardante la responsabilità della banca, ne aveva escluso la natura extracontrattuale, ravvisandovi invece un’ipotesi di responsabilità contrattuale c.d. da contatto sociale, fondata sull’obbligo professionale di protezione (preesistente, specifico e volontariamente assunto), posto a carico della banca nei confronti di tutti i soggetti interessati al buon fine della sottostante operazione, di far sì che il titolo sia introdotto nel circuito di pagamento bancario in conformità delle regole che ne presidiano la circolazione e l’incasso (cfr. Cass., Sez. Un., 26/06/2007, n. 14712). Nel ribadire tale principio, la nuova pronuncia ne ha evidenziato l’incompatibilità con la natura oggettiva della responsabilità, predicabile soltanto in riferimento a fattispecie d’illecito extracontrattuale, precisando che, al fine di sottrarsi alla responsabilità, la banca è tenuta a provare di aver assolto alla propria obbligazione con la diligenza dovuta, che è quella nascente, ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, dalla sua qualità di operatore professionale, tenuto a rispondere anche in ipotesi di colpa lieve. E’ stato inoltre chiarito che lo scopo della clausola di intrasferibilità consiste non solo nell’assicurare all’effettivo prenditore il conseguimento della prestazione dovuta, ma anche e soprattutto nell’impedire la circolazione del titolo: ed a conferma di tale assunto è stato richiamato il R.D. n. 1736 del 1933, art. 73 il quale esclude l’ammortamento dell’assegno non trasferibile proprio perché lo stesso non può essere azionato da un portatore di buona fede, conferendo nel contempo al prenditore, ma solo come conseguenza indiretta, la maggior sicurezza di poterne ottenere un duplicato denunciandone lo smarrimento, la distruzione o la sottrazione al trattario o al traente.

Viene in tal modo a cadere, definitivamente, il primo degli argomenti a favore della tesi che esclude il concorso di colpa del mittente, e precisamente l’affermazione dell’incompatibilità tra la responsabilità di quest’ultimo ed il titolo e la configurazione di quella della banca: argomento, questo, già fortemente indebolito, peraltro, dall’esclusione della natura cambiaria della obbligazione gravante sulla banca, e dalla conseguente individuazione della fonte della sua responsabilità nell’inadempimento di un’obbligazione ex lege o di un’obbligazione da contatto sociale. In quanto non ricollegabile all’inadempimento del debito cambiario, imputabile esclusivamente ai soggetti tenuti ad adempierlo, ma ad un’anomalia intervenuta nel processo di trasmissione e pagamento del titolo, non necessariamente addebitabile alla banca trattaria o negoziatrice, la responsabilità di quest’ultima non esclude infatti, in linea di principio, quella concorrente di altri soggetti eventualmente intervenuti nel predetto processo, che con il loro comportamento abbiano contribuito a cagionare il danno.

7.2. Quanto poi al nesso di causalità, occorre richiamare il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità civile, secondo cui tale materia è regolata dai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., in virtù dei quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non), nonché dal criterio della c.d. causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno di una serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano, ad una valutazione ex ante, del tutto inverosimili (cfr. Cass., Sez. I, 23/12/ 2010, n. 26042; Cass., Sez. III, 30/04/2010, n. 10607; Cass., Sez. lav., 14/04/2010, n. 8885). E’ stato precisato in particolare che, in presenza di un evento dannoso riconducibile a più azioni od omissioni, il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 40 c.p., in virtù del quale deve riconoscersi a ciascuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41 c.p., comma 2 in base al quale l’evento dannoso può essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta soltanto se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (cfr. Cass., Sez. III, 22/10/2013, n. 23915; 10/10/2008, n. 25028; 22/ 10/2003, n. 15789). L’interruzione del nesso causale può essere anche l’effetto del comportamento dello stesso danneggiato, quando il fatto di costui si ponga come unica ed esclusiva causa dell’evento dannoso, sì da privare di efficienza causale e da rendere giuridicamente irrilevante il comportamento dell’autore dell’illecito (cfr. Cass., Sez. III, 19/07/2018, n. 19180; 12/09/ 2005, n. 18094; 8/11/2002, n. 15704); quando invece il comportamento colposo del soggetto danneggiato non sia stato tale da interrompere il nesso di causalità tra il fatto del terzo e l’evento dannoso, ma abbia solo concorso alla produzione di quest’ultimo, trova applicazione l’art. 1227 c.c., comma 1, il quale afferma il principio secondo cui il danno che taluno arreca a sé medesimo non può essere posto a carico dell’autore della causa concorrente (cfr. Cass., Sez. III, 3/12/2002, n. 17152). Tali principi, enunciati con riguardo al comportamento del danneggiato sopravvenuto alla commissione del fatto illecito, sono stati ritenuti applicabili anche al comportamento coevo o anteriore, purché legato da nesso eziologico con l’evento dannoso, essendosi affermato che il fatto colposo cui fa riferimento l’art. 1227 c.c., comma 1, comprende qualsiasi condotta negligente o imprudente che abbia costituito causa concorrente dell’evento (cfr. Cass., Sez. III, 15/03/2006, n. 5677; 18/05/1979, n. 2861).

Applicando i predetti principi alla fattispecie in esame, risulta oggettivamente difficile negare che, in caso di sottrazione di un assegno non trasferibile non consegnato direttamente al prenditore, le modalità prescelte per la trasmissione del titolo possano spiegare un’efficienza causale ai fini della riscossione del relativo importo da parte di un soggetto non legittimato: se è vero, infatti, che il pagamento dell’assegno è subordinato al riscontro della corrispondenza tra il soggetto indicato come prenditore e colui che presenta il titolo all’incasso, e quindi all’identificazione di tale soggetto, alla quale la banca deve procedere mediante l’adozione di tutte le cautele e gli accorgimenti suggeriti dalla diligenza professionale, è anche vero, però, che tale pagamento non può aver luogo in mancanza della materiale disponibilità dell’assegno, la cui presentazione alla banca ne costituisce un presupposto indispensabile. Il possesso del documento rappresenta infatti una condizione essenziale per l’esercizio del diritto in esso incorporato, allo stesso modo della qualità di prenditore di colui che presenta il titolo all’incasso: qualora pertanto la sottrazione sia stata cagionata o comunque agevolata dall’adozione di modalità di trasmissione inidonee a garantire, per quanto possibile, che l’assegno pervenga al destinatario, non può dubitarsi che la scelta delle predette modalità costituisca, al pari dell’errore nell’identificazione del presentatore, un antecedente necessario dell’evento dannoso, che rispetto ad esso non si presenta come una conseguenza affatto inverosimile o imprevedibile.

Le stesse parti, nella specie, hanno fatto ripetutamente cenno alla preoccupante frequenza con cui, in caso di trasmissione degli assegni per posta ordinaria, si verificano siffatte sottrazioni, a fronte delle quali il gestore del servizio postale non è in grado di fornire adeguate garanzie di buon esito della spedizione, se è vero che, come si è detto, lo stesso regolamento del servizio vieta d’inserire nella posta ordinaria denaro ed altri oggetti di valore. Il conseguente rischio che l’assegno cada in mani diverse da quelle del destinatario, e sia quindi presentato all’incasso da un soggetto diverso dallo effettivo prenditore, non può ritenersi d’altronde scongiurato né dalla clausola d’intrasferibilità, la cui funzione precipua non consiste, come si è detto, nell’evitare il predetto evento, ma nell’impedire la circolazione del titolo, né dall’imposizione a carico della banca dell’obbligo di procedere all’identificazione del presentatore, dal momento che il puntuale adempimento di tale obbligo è reso sempre più difficoltoso dallo sviluppo di perfezionate tecniche di contraffazione dei documenti, la cui falsificazione spesso non è rilevabile neppure mediante un controllo accurato, ai fini del quale, com’è noto, la giurisprudenza di legittimità è costante nell’escludere la necessità del ricorso ad attrezzature tecnologiche sofisticate e di difficile reperimento o del possesso da parte dell’impiegato addetto delle qualità di un esperto grafologo (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. VI, 19/06/2018, n. 16178; Cass., Sez. I, 4/08/2016, n. 16332; 26/01/2016, n. 1377).

In tale contesto, la scelta di avvalersi della posta ordinaria per la trasmissione dell’assegno al beneficiario, pur in presenza di altre forme di spedizione (posta raccomandata o assicurata) o di strumenti di pagamento ben più moderni e sicuri (quali il bonifico bancario o il pagamento elettronico), si traduce nella consapevole assunzione di un rischio da parte del mittente, che non può non costituire oggetto di valutazione ai fini dell’individuazione della causa dell’evento dannoso: quest’ultima, infatti, non è identificabile esclusivamente con il segmento terminale del processo che ha condotto al verificarsi dell’evento, ma dev’essere individuata tenendo conto dell’intera sequenza dei fatti che lo hanno determinato, escludendo ovviamente quelli che non hanno spiegato alcuna incidenza su di esso, per essere stati superati da altri fatti successivi di per sé soli sufficienti a cagionarlo. Tale esposizione volontaria al rischio, o comunque la consapevolezza di porsi in una situazione di pericolo, è stata ritenuta da questa Corte sufficiente a giustificare il riconoscimento del concorso di colpa del danneggiato, ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 1, in virtù della considerazione che la riduzione della responsabilità del danneggiante è configurabile non solo in caso di cooperazione attiva del danneggiato nel fatto dannoso posto in essere dal danneggiante, ma in tutti i casi in cui il danneggiato si esponga volontariamente ad un rischio superiore alla norma, in violazione di norme giuridiche o di regole comportamentali di prudenza avvertite come vincolanti dalla coscienza sociale del suo tempo, con una condotta (attiva od omissiva che sia) che si inserisca come antecedente necessario nel processo causale che culmina con il danno da lui subito. Premesso infatti che lo svolgimento di qualsiasi attività sociale ed economica comporta inevitabilmente l’assoggettamento ad un certo livello di rischio, al quale è impossibile sottrarsi senza andare incontro a limitazioni incompatibili con una normale partecipazione alla convivenza civile, e la cui accettazione non consente di porre a carico del soggetto le conseguenze dannose della propria condotta, non potendosi pretendere in ogni situazione il rispetto di regole di massima prudenza, si è affermato invece che costituisce fonte di responsabilità non solo la condotta tenuta in violazione di precise norme giuridiche, ma anche quella che comporti l’esposizione volontaria o comunque consapevole ad un rischio che, secondo regole di prudenza comportamentale avvertite come vincolanti dalla comunità, si ponga al di sopra della soglia della normalità, dal momento che in tal caso il comportamento tenuto dal danneggiato si inserisce nel processo eziologico che conduce all’evento dannoso, divenendo un segmento della catena causale (cfr. Cass., Sez. III, 6/12/2018, n. 31540; 26/05/ 2014, n. 11698; 23/05/2014, n. 15332).

7.3. Il richiamo alla necessità che l’esposizione a rischio non si risolva nell’adozione di una condotta genericamente imprudente, ma si traduca in una violazione di norme giuridiche o comportamentali ritenute socialmente vincolanti, trova riscontro nella lettera dell’art. 1227 c.c., comma 1, che, subordinando la riduzione del risarcimento alla riconducibilità del danno a un fatto colposo del danneggiato, si riferisce ad un comportamento che si ponga in contrasto con una regola di condotta. Si giustifica in tal senso l’affermazione della dottrina e della giurisprudenza secondo cui, nell’ambito della predetta disposizione, la colpa non costituisce un mero criterio d’imputazione soggettiva del fatto, ma la misura della rilevanza causale dello stesso, nel senso che, in mancanza di tale requisito, il comportamento del danneggiato non può considerarsi causa o concausa del danno.

Nella specie, occorre dunque chiedersi se, al di là della sua oggettiva idoneità ad innescare la sequenza causale che conduce al pagamento dello assegno in favore di un soggetto diverso da quello effettivamente legittimato, la trasmissione del titolo per posta ordinaria, che comporta l’esposizione del mittente al rischio della sottrazione o dello smarrimento, si ponga in contrasto con norme giuridiche o con regole di condotta suggerite dalla comune prudenza.

In proposito, pur dovendosi dare atto dell’ormai ampia diffusione di strumenti bancari ben più rapidi e sicuri, e non necessariamente più costosi, dell’assegno, occorre rilevare l’inesistenza di norme giuridiche che escludano l’utilizzazione di tale mezzo per i pagamenti a distanza, spesso imposta, peraltro, dall’indisponibilità da parte del beneficiario di un conto corrente o di un deposito bancario sul quale poter fare affluire l’accredito. Va inoltre confermata l’impossibilità di attribuire efficacia giuridicamente vincolante alle norme che disciplinano il servizio postale, le quali, in quanto operanti esclusivamente nei rapporti tra il gestore del predetto servizio ed i soggetti che se ne avvalgono per la spedizione della propria corrispondenza, non possono costituire un riferimento normativo utile, almeno in via diretta, ai fini della disciplina dei rapporti con i terzi. La mera inosservanza del divieto, posto dal D.P.R. n. 156 del 1973, art. 83 d’includere denaro, oggetti preziosi e carte di valore esigibili al portatore nella corrispondenza ordinaria o in quella raccomandata, così come quella dell’art. 84 medesimo D.P.R., il quale impone di assicurare le lettere ed i pacchi contenenti i predetti beni, non costituisce dunque una ragione sufficiente a fondare l’affermazione del concorso di colpa del mittente. Per la medesima ragione, deve ritenersi non pertinente il richiamo alle analoghe disposizioni dettate, a seguito della privatizzazione dell’Ente Poste, dalla Carta della qualità del servizio pubblico postale (nelle diverse versioni, susseguitesi nel tempo, emanate con D.M. 9 aprile 2001 e con D.M. 26 febbraio 2004) e dalle Condizioni generali di servizio per l’espletamento del servizio universale postale di Poste italiane, approvate dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni con Delib. 20 giugno 2013, n. 385/13/CONS. Ai fini che qui interessano, occorre prendere invece in esame le modalità di prestazione del servizio postale, così come disciplinate dal predetto testo unico e dalle successive modificazioni, in modo da verificare se, in relazione all’oggetto della spedizione ed alle garanzie di sicurezza previste per ciascuna modalità di trasmissione, possa ritenersi giustificata l’affermazione che la scelta effettuata dal mittente ne abbia comportato l’esposizione ad un margine di rischio superiore a quello ritenuto accettabile alla stregua delle regole di comune prudenza. Nella specie, va richiamata la disciplina dettata dal D.M. 26 febbraio 2004, vigente all’epoca della spedizione dell’assegno il cui pagamento costituisce oggetto del presente giudizio, la quale, nel delineare le caratteristiche dei prodotti forniti dal servizio postale, si limita a stabilire, per la posta ordinaria, che la stessa consente la spedizione di corrispondenza verso qualsiasi località del territorio nazionale o estero, nonché a richiedere, per la puntualità del recapito, il rispetto degli orari di impostazione e l’indicazione del codice di avviamento postale, laddove, relativamente alla posta raccomandata ed assicurata, aggiunge che la stessa consente al mittente di ottenere una certificazione della spedizione con valore legale e di richiedere un avviso di ricevimento, nonché di assicurare il contenuto del plico, prevedendo inoltre la tracciatura elettronica della spedizione, ovverosia la possibilità di ottenere informazioni su dove la stessa si trova, sia per telefono che attraverso internet. Tali disposizioni vanno integrate con quelle, anch’esse vigenti ratione temporis (e superate solo dalla dettagliata disciplina introdotta dalle Condizioni generali approvate dall’AGCOM), del D.P.R. 29 maggio 1982, n. 655, recante il regolamento di esecuzione dei libri I e II del codice postale, il quale prevede, all’art. 38, che la corrispondenza ordinaria è recapitata mediante immissione nelle apposite cassette domiciliari, consegna a persone di famiglia del destinatario o al portiere dello stabile o consegna presso negozi, stabilimenti, uffici, manifatture e simili, cui il destinatario sia addetto, mentre la corrispondenza raccomandata può essere recapitata soltanto mediante consegna alle predette persone, e quella assicurata soltanto mediante consegna al destinatario; gli artt. 100 e 105 dispongono inoltre che il destinatario di oggetti raccomandati o assicurati o chi sia ammesso ad agire in suo nome non può ritirarli senza averne rilasciato ricevuta all’agente incaricato del recapito.

La semplice lettura di tali disposizioni pone in risalto le particolari cautele apprestate dalla normativa per la spedizione, la trasmissione e la consegna della posta raccomandata ed assicurata, rispetto alle corrispondenti modalità previste per la posta ordinaria, rendendo altresì evidenti le motivazioni poste a fondamento del divieto imposto al mittente d’immettere in quest’ultima denaro od oggetti di valore. In particolare, la possibilità di seguire in tempo reale lo stato di lavorazione del plico ed il percorso dallo stesso compiuto dal momento della spedizione a quello della consegna, nonché la previsione che quest’ultima abbia luogo a mani del destinatario o di persona di famiglia o addetta al suo servizio, anziché mediante la semplice immissione nella cassetta, se non possono considerarsi di per sé sufficienti ad impedire lo smarrimento o la sottrazione del plico, consentono però al mittente, in caso di ritardo prolungato nella consegna, di attivarsi tempestivamente per evitarne il pagamento o quanto meno per segnalare l’anomalia alla banca trattaria, affinché adotti le necessarie precauzioni. Per converso, l’utilizzazione della posta ordinaria implica la perdita di ogni controllo in ordine alla fase della trasmissione, della quale il mittente non è in grado di conoscere né il percorso né lo stato di avanzamento, essendosi privato della possibilità di verificarne l’esito, almeno fino a quando il destinatario del plico non ne segnali la mancata ricezione.

Ciò comporta, nel caso in cui il servizio di posta ordinaria venga utilizzato per la spedizione di un assegno, l’assunzione da parte del mittente di un evidente rischio, consistente nella sottrazione del titolo e nella sua presentazione all’incasso da parte di un soggetto non legittimato, che lo espone all’obbligo di effettuare un nuovo pagamento in favore del beneficiario rimasto insoddisfatto, impedendogli nel contempo di rivalersi nei confronti della banca trattaria o negoziatrice, ove la stessa abbia incolpevolmente provveduto al pagamento dell’assegno. Si tratta di un rischio non solo ingiustificato, avuto riguardo al valore economico dell’oggetto spedito ed alla possibilità di avvalersi di forme di corrispondenza che offrono adeguate garanzie (oltre che di strumenti di pagamento più sicuri), ma idoneo anche ad accrescere la probabilità di pagamenti a soggetti non legittimati, e quindi a comportare un aggravamento della posizione della banca trattaria o negoziatrice, maggiormente esposta alla possibilità di andare incontro a responsabilità, e quindi costretta a munirsi di strumenti tecnici sempre più sofisticati e costosi per l’identificazione dei presentatori ed il contrasto dell’uso di documenti falsificati. In quest’ottica, pertanto, l’utilizzazione della posta ordinaria si pone in contrasto non solo con le regole di comune prudenza, le quali suggerirebbero di avvalersi di modalità di trasmissione più idonee ad assicurare il controllo sul buon esito della spedizione, ma anche con il dovere di agire in modo da preservare gl’interessi di tutti i soggetti coinvolti nella vicenda, ove ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a proprio carico, e ciò in ossequio al principio solidaristico di cui all’art. 2 Cost., che a livello di legislazione ordinaria trova espressione proprio nella regola di cui all’art. 1227 c.c., operante sia in materia extracontrattuale, in virtù nell’espresso richiamo di tale disposizione da parte dell’art. 2056 c.c., sia in materia contrattuale, come riflesso dell’obbligo di comportarsi secondo correttezza e buona fede, previsto dall’art. 1175 c.c. in riferimento sia alla formazione che all’interpretazione e all’esecuzione del contratto (cfr. Cass., Sez. Un., 21/11/2011, n. 24406; Cass., Sez. III, 26/05/2014, n. 11698; 5/03/2009, n. 5348).

7.4. In conclusione, la questione sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite dev’essere risolta mediante l’enunciazione del seguente principio di diritto: “La spedizione per posta ordinaria di un assegno, ancorché munito di clausola d’intrasferibilità, costituisce, in caso di sottrazione del titolo e riscossione da parte di un soggetto non legittimato, condotta idonea a giustificare l’affermazione del concorso di colpa del mittente, comportando, in relazione alle modalità di trasmissione e consegna previste dalla disciplina del servizio postale, l’esposizione volontaria del mittente ad un rischio superiore a quello consentito dal rispetto delle regole di comune prudenza e del dovere di agire per preservare gl’interessi degli altri soggetti coinvolti nella vicenda, e configurandosi dunque come un antecedente necessario dell’evento dannoso, concorrente con il comportamento colposo eventualmente tenuto dalla banca nell’identificazione del presentatore”.

  1. Alla stregua di tale principio, non può condividersi la sentenza impugnata, nella parte in cui, dopo aver affermato l’obbligo della banca negoziatrice degli assegni di risarcire alla compagnia assicuratrice il danno derivante dal pagamento eseguito in favore di soggetti diversi da quelli effettivamente legittimati, in virtù dell’accertata violazione del R.D. n. 1736 del 1933, art. 43 ha escluso la configurabilità del concorso di colpa dell’attrice, in relazione all’avvenuta spedizione degli assegni per posta ordinaria, attribuendo all’inadempimento dell’obbligo posto a carico della banca un’efficacia causale esclusiva nella produzione dell’evento dannoso, e ravvisandovi pertanto un fatto sopravvenuto idoneo a determinare l’interruzione del nesso di causalità con la condotta della mittente.
  2. La sentenza impugnata va pertanto cassata, nei limiti segnati dai motivi accolti, con il conseguente rinvio della causa alla Corte d’appello di Roma, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, e rinvia alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a).

Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020.

Cass. civ. Sez. Unite 26_05_2020 n. 9769




Onere della prova relativa all’estinzione di un debito

Onere della prova relativa all’estinzione di un debito

Corte Suprema di Cassazione, Sezione II Civile, Ordinanza n. 10322 del 29/05/2020

Con ordinanza del 29 maggio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione II Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che in tema di onere della prova relativa all’estinzione di un debito, qualora il debitore abbia dimostrato di avere corrisposto somme idonee ad estinguere il debito per il quale sia stato convenuto in giudizio, essendo stato eseguito con riferimento ad un determinato credito, spetta al creditore-attore, che pretende di imputare il pagamento ad estinzione di altro credito, dimostrare sia l’esistenza di più debiti del convenuto scaduti, sia la sussistenza dei presupposti per l’applicazione di uno dei criteri sussidiari di imputazione stabiliti dall’art. 1193 c.c.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione II Civile, Ordinanza n. 10322 del 29/05/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

M. – ricorrente –

contro

D. e V. – intimati –

avverso la sentenza n. __ della Corte d’Appello di Reggio Calabria, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del __ dal Consigliere Dott. __.

Svolgimento del processo

  1. Con atto di citazione, notificato il __, D. e V. proponevano opposizione, innanzi al Tribunale di Locri, avverso il Decreto Ingiuntivo con il quale veniva loro ingiunto il pagamento, in favore di M., della somma di Euro __, a titolo di compenso per l’attività professionale svolta nel __ dal suo dante causa, M., nell’interesse dell’impresa Edile V., di loro proprietà. Gli opponenti deducevano che le prestazioni professionali svolte dal ragioniere sarebbero state regolarmente retribuite attraverso l’erogazione di alcuni assegni bancari.

1.1 Si costituiva in giudizio M., in qualità di erede di F., chiedendo il rigetto dell’opposizione.

  1. All’esito dei giudizi di merito, la Corte d’Appello di Reggio Calabria, con sentenza del __, confermava la sentenza del Tribunale di Locri, che aveva accolto l’opposizione ed aveva revocato il decreto ingiuntivo opposto.

2.1 La Corte territoriale riteneva che non fosse sufficiente, ai fini della prova del credito vantato dal professionista, la produzione della parcella vistata dal competente ordine professionale, in quanto rilevante soltanto in relazione al giudizio di congruità della prestazione.

2.2 Il giudice d’appello accertava che D. e V. avevano dato prova dell’avvenuto pagamento delle prestazioni professionali svolte dal dante dell’appellante causa attraverso la produzione di nove assegni bancari, aventi efficacia estintiva del credito vantato da M. e che sarebbe spettato al creditore dimostrare l’esistenza di più debiti scaduti in capo ai convenuti, ai fini dell’imputazione del pagamento; M., invece, si era limitato ad allegare, in modo generico, la riferibilità degli assegni incassati a compensi relativi a prestazioni svolte antecedentemente all’anno __.

Infine, per quel che ancora rileva nel presente giudizio, la Corte territoriale riteneva che i testi escussi nell’interesse di M. non avessero provato che i pagamenti effettuati dall’impresa Edile V. in favore del professionista si riferissero a prestazioni professionali espletate negli anni precedenti al __.

  1. Per la cassazione della sentenza, ha proposto ricorso M. sulla base di quattro motivi, illustrati con memoria depositata in prossimità dell’udienza.

3.1 D. e V. sono rimasti intimati.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo di ricorso, si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il vizio e difetto di motivazione in ordine al valore probatorio della parcella professionale. Secondo il ricorrente, avrebbe errato la corte territoriale nel ritenere che la parcella professionale, corredata dal parere del Consiglio dell’Ordine di appartenenza del professionista, fosse inidonea a fornire la prova del credito ma contenesse un mero giudizio di congruità in ordine alla tariffa applicata per l’attività svolta.

1.1 Il motivo è inammissibile.

1.2 La censura presuppone come ancora esistente il controllo di legittimità sulla motivazione della sentenza nei termini in cui esso era possibile prima della modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5, apportata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito – nella L. n. 134 del 2012, che ha limitato il vizio motivazionale soltanto in caso di omesso esame di uno specifico fatto decisivo che sia stato oggetto di discussione tra le parti, rimanendo – alla stregua della detta novella legislativa – esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. civ., SS.UU., Sent. n. 8053/2014).

1.3 Nella specie, i ricorrenti non lamentano l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ma contestano la decisione della corte di merito sul valore probatorio della parcella professionale, che è peraltro conforme all’orientamento di questa Corte, secondo cui la parcella professionale, corredata dal parere espresso dal competente consiglio dell’ordine di appartenenza del professionista ha – per il combinato disposto degli artt. 633 e 636 c.p.c. – valore di prova privilegiata e carattere vincolante per il giudice esclusivamente ai fini della pronuncia dell’ingiunzione. Essa non ha, invece, valore probatorio nel giudizio di opposizione, in cui il creditore, in favore del quale è stata emessa l’ingiunzione assume la veste sostanziale di attore e su di lui incombono i relativi oneri probatori (Cassazione civile sez. VI, 15/01/2018, n. 712; Cass. civ. Sez. II, 30/07/2004, n. 14556).

  1. Con il secondo motivo di ricorso, si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione degli artt. 2697 e 1193 c.c. e, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la motivazione insufficiente e contraddittoria in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., ed agli artt. 2729 e 1988 c.c.. Il ricorrente deduce che D. e V. non avrebbero assolto l’onere della prova relativa all’estinzione del debito derivante delle prestazioni professionali svolte dal suo dante causa, M.. Infatti, non solo gli assegni bancari non sarebbero adeguato mezzo probatorio per dimostrare l’estinzione del debito fatto valere in giudizio, ma neppure sarebbe stato dimostrato il collegamento tra tale debito e quello cartolare risultante dagli assegni. Infine, il ricorrente si duole del fatto che il giudice d’appello non avrebbe dovuto riconoscere valore probatorio agli assegni bancari in quanto alcuni di questi sarebbero postdatati.

2.1 Il motivo è infondato.

2.2 Secondo questa Corte, ai sensi dell’art. 2697 c.c., qualora il debitore abbia dimostrato di avere corrisposto somme idonee ad estinguere il debito per il quale sia stato convenuto in giudizio, essendo stato eseguito con riferimento ad un determinato credito, spetta al creditore-attore, che pretende di imputare il pagamento ad estinzione di altro credito, dimostrare sia l’esistenza di più debiti del convenuto scaduti, sia la sussistenza dei presupposti per l’applicazione di uno dei criteri sussidiari di imputazione stabiliti dall’art. 1193 c.c. (Cass. civ. Sez. II, 27/07/2006, n. 17102; Cass. civ. Sez. III Sent., 23/06/2009, n. 14620).

2.3 Nella specie, la corte territoriale, sulla base delle acquisizioni probatorie, la cui valutazione è sottratta al sindacato di legittimità, ha accertato che, mentre D. e V. hanno provato la consegna di nove assegni bancari emessi in favore di M., quest’ultimo non ha dimostrato che detti assegni si riferissero a compensi relativi a prestazioni svolte in precedenza dal professionista.

La corte territoriale ha fatto corretta applicazione sia del principio dell’onere della prova, in quanto, una volta dedotta l’estinzione del debito con la produzione degli assegni era onere del creditore dimostrare che gli assegni si riferissero ad altre prestazioni, sia dei criteri di imputazione dei pagamenti.

A nulla rileva la circostanza che gli assegni fossero post datati in quanto l’assegno postdatato, inteso nella sua obiettiva idoneità strumentale a costituire mezzo di pagamento equivalente al denaro, non perde le sue caratteristiche di titolo di credito, per cui gli atti estintivi di debiti, effettuati con assegni postdatati, non costituiscono mezzi anormali di pagamento (Cassazione civile sez. I, 15/06/2018, n. 15794).

  1. Con il terzo motivo di ricorso, si deduce il vizio di motivazione per omessa ed inesatta rilevazione e valutazione delle prove testimoniali che avrebbero confermato non solo la circostanza relativa all’esecuzione delle prestazioni professionali ed il mancato pagamento, ma anche la circostanza per cui i pagamenti effettuati dall’impresa, attraverso l’emissione di alcuni assegni bancari, si sarebbero riferiti a prestazioni svolte in anni precedenti al __.

3.1 Il motivo è inammissibile oltre che per quanto rilevato sub 1.2 anche perché si risolve in una diversa valutazione delle prove, che è di esclusiva competenza del Giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità (ex multis Cass., Sez. U., sentenza n. 24148 del 25 ottobre 2013).

  1. Con il quarto motivo di ricorso, si deduce il vizio di omessa motivazione in ordine alle ragioni per le quali non è stata accolta né la richiesta di esibizione dei documenti, al fine di provare le ulteriori prestazioni svolte dal ragioniere, cui imputare i pagamenti delle somme indicate negli assegni, né quella del carnet di assegni al quale sarebbero appartenuti anche quelli oggetto di discussione, al fine di provare che la data di richiesta del carnet di assegni non corrispondeva a quella in essi indicata.

4.1 II motivo è inammissibile, in quanto non è possibile dedurre attraverso la censura del vizio motivazionale, che attiene all’esame di un fatto decisivo per il giudizio, l’omessa pronuncia su questioni processuali (Cass. Civ., Sez. II, 25.1.2018, n. 1876).

Inoltre, il provvedimento di cui all’art. 210 c.p.c., che non può avere natura esplorativa, è espressione di una facoltà discrezionale rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, il cui mancato esercizio non può, quindi, formare oggetto di ricorso per cassazione, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione (Cassazione civile sez. lav., 27/01/2017, n. 2148; Cassazione civile sez. II, 29/10/2010, n. 22196).

  1. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
  2. Essendo la parte rimasta intimata, nulla deve essere disposto in ordine alle spese.
  3. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, se dovuto a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 11 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2020.

Cass. civ. Sez. II Ord. 29_05_2020 n. 10322




Omologa di una proposta di concordato preventivo

Omologa di una proposta di concordato preventivo che prevede nella sua fase esecutiva un’operazione straordinaria

Tribunale Ordinario di Roma, Sezione Civile, Sezione specializzata in materia di imprese, Sentenza del 24/03/2020

Con sentenza del 24 marzo 2020, il Tribunale Ordinario di Roma, Sezione Civile, Sezione specializzata in materia di imprese, in tema di recupero crediti, ha stabilito che a seguito dell’omologa di una proposta di concordato preventivo, che prevede nella sua fase esecutiva un’operazione straordinaria mediante la scissione parziale della società proponente e l’assunzione in capo a quella beneficiaria soltanto di taluni tra i debiti concordatari, il Tribunale di Roma afferma che la beneficiaria non risponde in solido con la scissa per i debiti rimasti in capo a quest’ultima, salvo che il concordato omologato sia stato successivamente risolto per inadempimento della proponente.


Tribunale Ordinario di Roma, Sezione Civile, Sezione specializzata in materia di imprese, Sentenza del 24/03/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Tribunale di Roma

Sezione specializzata in materia di impresa

Sedicesima Sezione civile

riunito nella camera di consiglio del 4 febbraio 2020, composto dai Sig.ri magistrati:

dott. __ – Presidente,

dott. __ – Giudice,

dott. __ – Giudice relatore,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nella causa civile di primo grado iscritta al n. __ del ruolo contenzioso generale dell’anno __ rimessa al Collegio per la decisione all’udienza del __ con concessione alle parti del termine di giorni sessanta per il deposito di comparsa conclusionale e di giorni venti per repliche e vertente

tra

B. Soc. Coop. p.a. – attrice

e

V. S.p.A. – convenuta

Oggetto: rapporti sociali

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con atto di citazione ritualmente notificato, la B. Soc. Coop. p.a. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Velletri, la V. S.p.A. al fine di sentire accogliere le seguenti conclusioni: “accertare e dichiarare che la convenuta è tenuta, per i titoli e ragioni di cui alla narrativa, a pagare alla società attrice la somma di Euro __, o quella somma maggiore e/o minore che verrà accertata in corso di causa, oltre interessi e rivalutazione dal __ al dì dell’effettivo pagamento e – comunque – nei limiti del patrimonio netto così come conferito dalla scissa V. S.p.A. alla convenuta, a seguito di scissione del __ per atto Notaio __; conseguentemente condannare la V. S.p.A. al pagamento, in favore della attrice, della somma di Euro __, o quella somma maggiore e/o minore che verrà accertata in corso di causa, oltre interessi e rivalutazione dalla data del __ al dì dell’effettivo pagamento e comunque nei limiti del patrimonio netto ad essa conferito con la scissione parziale come intercorsa. Vittoria di spese”.

A fondamento della svolta domanda, la B. Soc. Coop. p.a. rappresentava che: alla data del __, la attrice vantava un credito, dell’importo complessivo di Euro __, nei confronti della società V. S.p.A. derivante da un contratto di conto corrente risalente al __ e da un contratto di anticipo fatture (n. __) del __; detto credito non è mai stato contestato dalla debitrice; attesa la grave situazione economica-finanziaria in cui la V. S.p.A. versava, la medesima proponeva, in data __, domanda di concordato preventivo al Tribunale di Velletri che, con decreto del __, dichiarava aperta la procedura di concordato preventivo della società V. S.p.A.; il concordato prevedeva, per il credito portato dalla attuale attrice, indicato in Euro __ ed inserito tra i chirografari di “classe B”, il pagamento del __% del totale di quanto dovuto entro il __; per la realizzazione del concordato, o meglio in concomitanza della presentazione dello stesso, la V. S.p.A. dava corso anche ad una scissione parziale (subordinatamente all’omologa del concordato), mediante creazione di una newco, V. S.p.A., cui veniva assegnato un attivo dichiarato in Euro __; veniva previsto, quindi, che la beneficiaria provvedesse al pagamento di debiti per un totale di Euro __, mediante trasferimento dalla scissa alla newco dell’intero importo dei debiti privilegiati maturato nei confronti del personale preso in carico dalla newco e quanto dovuto ai creditori chirografari di cui alla classe A, come previsto nella proposta di concordato e come specificamente previsto nell’atto di scissione del __ per atto __; inoltre, nella proposta di concordato, la nuova società si impegnava all’acquisto del marchio dalla V. S.p.A., al controvalore indicato di Euro __, con pagamento frazionato in __ rate mensili e con garanzia ipotecaria sui beni immobili conferiti dalla V. S.p.A. nella scissione; il concordato, sottoposto all’approvazione dei creditori, con provvedimento del __, veniva omologato dal Tribunale di Velletri; la procedura concorsuale, a distanza di oltre cinque anni dall’omologazione, lungi dal realizzare le aspettative dei creditori, in particolare quelli chirografari della “classe B”, non adempiva alle obbligazioni discendenti dalla proposta e l’odierna attrice non riceveva alcun pagamento; attesa la mancata realizzazione di quanto prospettato, la attrice, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2056-quater c.c., intende agire, nei limiti del patrimonio netto conferito alla beneficiaria, per il pagamento della somma di Euro __, oltre interessi e come riconosciuta dalla V.A. S.p.a. ed indicata dalla stessa, quale credito ante cessione, nella proposta di concordato.

Si costituiva la V. S.p.A. la quale rassegnava le seguenti conclusioni: “1. in via principale, rigettare tutte le domande attoree, in quanto totalmente infondate, per via della carenza di legittimazione passiva della V. S.p.A.; 2. in via subordinata, rigettare tutte le domande attoree, in quanto totalmente infondate, per via della carenza di legittimazione attiva della B. Soc. Coop. p. a.; 3. in via ulteriormente subordinata, accertare che la V. S.p.A. è, ad oggi, tenuta al pagamento del credito vantato della parte attrice, non già in via integrale, ma nella minor misura del _% dell’importo del patrimonio netto positivo (e, così, ad oggi, di un credito pari a Euro __, ovvero al minor importo, sino all’azzeramento, ritenuto di giustizia), di cui all’atto di scissione oggetto di causa, così come ove del caso risultante, in capo alla V. S.p.A., al tempo della pronuncia che, eventualmente, accogliesse parzialmente la domanda attorea, e tenendo conto di tutti i pagamenti già operati, e che ancora fossero medio tempore operati, dalla V. S.p.A. alla A. S.p.A. in liquidazione, in esecuzione del piano concordatario; e, per l’effetto, ad oggi, rigettare parzialmente le domande della B. Soc. Coop. p. a. ovvero, là dove, in pendenza di giudizio, la V. S.p.A. versasse alla A. S.p.A. in liquidazione la intera somma residua di Euro __, rigettare totalmente le domande formulate dalla B. Soc. Coop. p. a.; 4. in via ultra-subordinata, accertare che la V. S.p.A. è, ad oggi, tenuta al pagamento del credito vantato della parte attrice, non già in via integrale, ma nella minor misura del _% dell’importo del patrimonio netto positivo (e, così, ad oggi, di un credito pari a Euro __, ovvero al minor importo, sino all’azzeramento, ritenuto di giustizia), di cui all’atto di scissione oggetto di causa, così come ove del caso risultante, in capo alla V. S.p.A., al tempo della pronuncia che, eventualmente, accogliesse parzialmente la domanda attorea, e tenendo conto di tutti i pagamenti già operati, e che ancora fossero medio tempore operati, dalla V. S.p.A. alla A. S.p.A. in liquidazione, in esecuzione del piano concordatario; e, per l’effetto, ad oggi, rigettare parzialmente le domande della B. Soc. Coop. p. a. ovvero, là dove, in pendenza di giudizio, la V. S.p.A. versasse alla A. S.p.A. in liquidazione la intera somma residua di Euro __, rigettare totalmente le domande formulate dalla B. Soc. Coop. p. a.. In ogni caso, con condanna della B. Soc. Coop. per azioni, oltre che ai sensi dell’art. 96 c.p.c., anche al pagamento, in favore della V. S.p.A., degli onorari e delle spese legali del presente giudizio, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali nella misura di legge”.

Con ordinanza depositata in data __, il Tribunale di Velletri dichiarava la propria incompetenza in favore del Tribunale di Roma – Sezione specializzata in materia di impresa.

Con atto di citazione ritualmente notificato, dunque, la B. Soc. Coop. p.a. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Roma dichiarato competente, la V. S.p.A. rassegnando le seguenti conclusioni: “piaccia all’ecc.mo Tribunale adito Sezione Specializzata delle Imprese, ogni contraria istanza ed eccezione respinta, accertare e dichiarare che la convenuta è tenuta, per i titoli e ragioni di cui alla narrativa dell’atto introduttivo dell’originario giudizio riprodotto in parte motiva, a pagare alla società attrice la somma di Euro __, o quella somma maggiore e/o minore che verrà accertata in corso di causa, oltre interessi e rivalutazione dal __ al di dell’effettivo pagamento e – comunque – nei limiti del patrimonio netto così come conferito dalla scissa V. S.p.A. alla convenuta, a seguito di scissione del __ per atto Notaio __, conseguentemente: condannare la V. S.p.A. al pagamento, in favore della attrice, della somma di Euro __, o quella somma maggiore e/o minore che verrà accertata in corso di causa, oltre interessi e rivalutazione dalla data del __ al di dell’effettivo pagamento e comunque nei limiti del patrimonio netto ad essa conferito con la scissione parziale come intercorsa. Vittoria di spese”.

Si costituiva la V. S.p.A. la quale chiedeva l’accoglimento delle seguenti conclusioni: “1. in via principale, rigettare tutte le domande attoree, in quanto totalmente infondate, per via della carenza di legittimazione passiva della V. S.p.A.; 2. in via subordinata, rigettare tutte le domande attoree, in quanto totalmente infondate, per via della carenza di legittimazione attiva della B. Soc. Coop. p. a.; 3. in via ulteriormente subordinata, accertare che la V. S.p.A. è ove del caso tenuta al pagamento del credito vantato della parte attrice, non già in via integrale, ma nella minor misura del _% dell’eventuale importo del patrimonio netto positivo, di cui all’atto di scissione oggetto di causa, così come ove del caso risultante, in capo alla V. S.p.A., al tempo della pronuncia che, eventualmente, accogliesse parzialmente la domanda attorea, e tenendo conto di tutti i pagamenti medio tempore operati dalla V. S.p.A. alla A. S.p.A. in liquidazione, in esecuzione del piano concordatario; e, per l’effetto, rigettare, totalmente o, in via subordinata, parzialmente, le domande della B. Soc. Coop. p. a.; 4. in via ultra-subordinata, accertare che la V. S.p.A. è ove del caso tenuta al pagamento del credito vantato della parte attrice, non già in via integrale, ma nella minor misura del __% dell’eventuale importo del patrimonio netto positivo, di cui all’atto di scissione oggetto di causa, così come ove del caso risultante, in capo alla V. S.p.A., al tempo della pronuncia che, eventualmente, accogliesse parzialmente la domanda attorea, e tenendo conto di tutti i pagamenti medio tempore operati dalla V. S.p.A. alla A. S.p.A. in liquidazione, in esecuzione del piano concordatario; e, per l’effetto, rigettare, totalmente o, in via subordinata, parzialmente, le domande della B. Soc. Coop. p. a.”.

Istruita la causa esclusivamente mediante acquisizione della documentazione versata in atti, successivamente, all’udienza del __, le parti precisavano le rispettive conclusioni e la causa veniva rimessa per la decisione al Collegio – trattandosi di causa ricompresa nell’art. 50 bis c.p.c. – con concessione alle parti del termine di giorni sessanta per il deposito di comparsa conclusionale e di giorni venti per repliche.

  1. La vicenda sottesa alla presente controversia. L’operazione di scissione di A. S.p.A.

Ai fini di una migliore comprensione della domanda appare opportuno riepilogare i termini dell’operazione di scissione che ha visto coinvolta la società A. S.p.A. e dalla quale origina la presente controversia.

In data __, A. S.p.A. presentava al Tribunale di Velletri domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo. Per quel che interessa in questa sede, il piano concordatario prevedeva l’esecuzione, subordinatamente alla omologazione della proposta, di una scissione parziale della società ricorrente, scissione da attuarsi mediante costituzione della società beneficiaria, V. S.p.A., che avrebbe proseguito, mantenendo i medesimi livelli occupazionali, l’attività della scissa, consistente, tra l’altro, nella raccolta e nel trasporto di rifiuti solidi urbani nei comuni interessati. Alla società beneficiaria, oggi convenuta, venivano attribuiti, quali elementi attivi, le attrezzature, i mezzi e i beni strumentali, necessari per la prosecuzione dell’attività; la proprietà di un immobile sito in __, Contrada __; i crediti nei confronti del Comune di __, dell’INPS e delle società di leasing. Alla medesima società beneficiaria venivano attribuiti, quali elementi passivi, tutti i rapporti di lavoro subordinato con il personale già alle dipendenze di A. S.p.A.; tutti i rapporti con i fornitori strategici; i debiti verso il personale già alle dipendenze di A. S.p.A.; i debiti ad essi connessi verso gli enti previdenziali; i debiti verso gli anzidetti fornitori strategici.

Al contrario, era previsto che, a seguito dell’operazione di scissione, sarebbero rimasti in capo ad A. S.p.A.: le rimanenti immobilizzazioni materiali, i crediti e le liquidità di cassa (per un valore di complessivi Euro __); gli ulteriori rapporti e debiti, diversi dai rapporti di lavoro subordinato (e relativi debiti, anche connessi) e dai rapporti con i fornitori strategici (e relativi debiti).

Veniva, altresì, previsto l’obbligo di pagamento, da parte della neo-costituita V. S.p.A. in favore di A. S.p.A. dell’importo di complessivi Euro __ (da eseguirsi in n. _ rate mensili e garantito attraverso l’iscrizione di ipoteca sull’immobile assegnato), per l’acquisizione del marchio.

Infine, il piano prevedeva la messa in liquidazione di A. S.p.A., allo scopo di procedere alla liquidazione concordataria degli assets rimasti in capo alla stessa, onde poter procedere alla ripartizione di quanto eventualmente ricavato tra i creditori, secondo l’ordine dei crediti riconosciuto nel piano concordatario.

Il piano concordatario, infatti, prevedeva la suddivisione dei crediti secondo le seguenti categorie. I crediti privilegiati del personale, già alle dipendenze di A. S.p.A., sarebbero stati onorati integralmente e sarebbero stati ad esclusivo carico di V. S.p.A.. Gli ulteriori crediti sarebbero stati ripartiti in tre classi, costituite, secondo criteri di omogeneità di posizione giuridica e di interessi economici, da: i) crediti di “classe A”: crediti dei fornitori di beni e servizi strategici, occorrenti per la prosecuzione dell’attività, che sarebbero stati anch’essi ad esclusivo carico della beneficiaria V. S.p.A., a seguito della scissione parziale; ii) crediti di “classe B”: altri crediti (chirografari), che sarebbero rimasti esclusivamente in capo ad A. S.p.A., pur a seguito della scissione parziale; iii) crediti di “classe C”: crediti verso gli istituti erariali e previdenziali, che sarebbero rimasti anch’essi, in via esclusiva, in capo ad A. S.p.A., pur a seguito della scissione parziale.

Per tutti i crediti oggetto delle tre classi anzidette era previsto il pagamento, non già integrale, ma nella misura del _% (poi ridotta al _%, a seguito della relazione del commissario giudiziale del __).

Il credito di B. oggi attrice era (pacificamente) compreso tra i crediti (chirografari) di “Classe (…)”, tra quei crediti, cioè, che sarebbero rimasti, in via esclusiva, in capo alla sola A. S.p.A., pur a seguito della scissione parziale, e che erano stati riconosciuti, non già integralmente, ma nella misura del _% (poi ridotta al _%).

Con provvedimento depositato il __, il Tribunale di Velletri ammetteva A. S.p.A. alla procedura di concordato preventivo. In data __, si teneva l’adunanza dei creditori, all’esito della quale risultava raggiunta la maggioranza dei voti favorevoli complessivamente espressi dai creditori, e, inoltre, la maggioranza dei voti favorevoli espressi dai creditori di ciascuna delle tre classi di crediti: B. Soc. Coop. esprimeva voto favorevole. Infatti, con nota del __, B. dichiarava di “dare l’assenso alla proposta di Concordato Preventivo depositata in data __, così come integrata dalla ricorrente in data __, per i crediti vantati da B. Soc. Coop. p. a. a titolo chirografario, così come evidenziato nella lettera del __, per complessivi Euro __”.

Veniva, così, fissata l’udienza ex art. 180 L.F., in occasione della quale tre creditori proponevano opposizione. Il Tribunale di Velletri, pronunziatosi negativamente su dette opposizioni, omologava il concordato preventivo di A. S.p.A., con provvedimento depositato in data __ che, non reclamato, diveniva definitivo.

In data __, quindi, in esecuzione dell’omologato piano concordatario, veniva stipulato l’atto di scissione parziale di A. S.p.A., mediante la costituzione di V. S.p.A. alla quale venivano assegnati gli assets sopra indicati.

Conseguentemente, A. S.p.A. veniva messa in liquidazione.

Va, infine, precisato che, nelle more del presente giudizio, con sentenza depositata in data __, il Tribunale di Velletri dichiarava il fallimento di A. S.p.A. con risoluzione del concordato preventivo della società stessa.

  1. L’ammissibilità di una scissione in esecuzione di un concordato preventivo.

Non serve dilungarsi particolarmente sulla legittimità di una operazione di scissione in esecuzione di un concordato preventivo, legittimità, d’altra parte, mai posta in dubbio neppure da parte attrice.

In questa sede, appare sufficiente ricordare, da un lato, che l’attuale dettato dell’art. 2506 c.c. non preclude più la possibilità di scindere una società sottoposta a procedura concorsuale, a differenza di quanto disposto anteriormente alla riforma del 2003 (art. 2504-septies c.c.), e, dall’altro, che l’art.160, primo comma, L.F., contempla espressamente la possibilità di promuovere la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei creditori attraverso qualsiasi forma, anche mediante operazioni straordinarie – e, dunque, anche attraverso operazioni di scissione (App. Firenze, 8 marzo 2016; Trib. Ancona, 9 aprile 2015; Trib. Prato, 21 luglio 2014; Trib. Mantova, 11 luglio 2014) nel quadro di una logica, di recente consolidata, che mira alla soluzione della crisi o dell’insolvenza di impresa attraverso processi di ristrutturazione patrimoniale, finanziaria od organizzativa dell’impresa medesima. D’altra parte, l’art. 186-bis L.F. valorizza la continuità aziendale della società sottoposta a procedura, obiettivo rispetto al quale può certamente essere funzionale l’esecuzione di un’operazione di scissione.

Sulla base dei dati normativi ora sommariamente riportati, non appare revocabile in dubbio la legittimità di una operazione di scissione eseguita nell’ambito di un concordato preventivo.

  1. La domanda proposta da B. Soc. Coop.
  2. Soc. Coop. asserisce di vantare un credito nei confronti di A. S.p.A. derivante da alcuni rapporti bancari intercorsi con la società da ultimo menzionata e, precisamente, da un contratto di conto corrente stipulato in data __ e da un contratto anticipo fatture (n. (…)) risalente al __. Alla data del __, il credito ammontava ad Euro __ (Euro __ per saldo in linea capitale del conto corrente, oltre ad Euro __ per interessi passivi maturati dal __ al __; per Euro __ quale saldo del conto anticipi su fatture). A dire di parte attrice, detti crediti non sono mai stati contestati dalla debitrice, anzi dalla stessa confermati sin dal ricorso per la presentazione del concordato preventivo.

Come sopra già evidenziato e come dedotto dalla difesa di parte attrice, la proposta concordataria presentata da A. S.p.A. prevedeva per il credito portato dalla attuale attrice, indicato in Euro __ ed inserito tra i chirografari nella “classe B”, il pagamento del _% del totale di quanto dovuto entro il __ (percentuale poi ridotta al _%).

Non avendo la società scissa provveduto al pagamento di quanto dovuto (tale fatto è pacifico tra le parti), la B. Soc. Coop. ha instaurato il presente giudizio al fine di ottenere la condanna della società beneficiaria alla corresponsione della predetta somma di Euro __.

In particolare, secondo parte attrice, la scissione parziale comporta, ai sensi dell’art. 2506-quater c.c., la responsabilità solidale della beneficiaria per i debiti anteriori alla scissione della società scissa, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato. Il diritto della odierna attrice ad agire nei confronti della beneficiaria troverebbe, dunque, fondamento tanto nell’art. 2506-quater c.c. quanto nell’art. 184 L.F., dovendosi ritenere che, anche in costanza di concordato preventivo, il creditore che vanta un credito nei confronti della società scissa, maturato nel periodo ante scissione, possa agire autonomamente nei confronti della società beneficiaria.

In altre parole, parte attrice ritiene che, ai sensi dell’art. 184, comma 1, primo periodo, L.F. ovvero dell’art. 2506-quater, comma 3, c.c., a seguito dell’omologazione, ciascun creditore, sebbene il suo debito non sia stato assunto dalla società scissionaria neo-costituita, potrebbe, da un lato, indifferentemente rivolgersi, per il pagamento, alla società scissa ovvero alla società beneficiaria, benché, nel piano concordatario, fosse stata esclusa l’assunzione del relativo debito da parte della beneficiaria medesima e, dall’altro, esigere dalla società beneficiaria il pagamento dell’intero credito, benché, nel piano concordatario, ne fosse stato previsto il pagamento parziale.

  1. L’applicabilità dell’art. 184 L.F..

Sotto un primo profilo, la B. Soc. Coop. deduce che V. S.p.A. e A. S.p.A. sarebbe tenuta a corrispondere l’intero credito che l’attrice vanta nei confronti della società scissa (A. S.p.A.) alla luce del disposto di cui all’art. 184 L.F..

La disposizione ora richiamata, infatti, prevede, da un lato, l’obbligatorietà del concordato omologato per tutti i creditori, che non potranno pretendere dal loro debitore più di quanto stabilito nella proposta concordataria (art. 184, primo comma, prima parte) e, dall’altro, la salvezza dei diritti creditori (senza alcun limite) nei confronti di coobbligati e fideiussori (art. 184, primo comma, seconda parte). Secondo la prospettazione di parte attrice, ciò significa che, indipendentemente dall’esito del concordato, il creditore può agire per l’intero suo credito presso qualsiasi coobbligato e, – essendo ciascuna società coinvolta nella scissione, ai sensi dell’art. 2506-quater c.c., solidalmente responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico – anche nei confronti della società beneficiaria neo-costituita in sede di scissione.

Il rilievo non è, ad avviso di questo Collegio, fondato.

Come condivisibilmente argomentato da parte convenuta, il secondo periodo del primo comma dell’art. 184 L.F. costituisce una deroga alla disposizione contenuta nel primo periodo della medesima norma, ed opera, dunque, nel suo stesso ambito. L’anzidetto secondo periodo, infatti, si riferisce anch’esso ai “creditori anteriori al decreto di apertura della procedura di concordato”, stabilendo che essi, pur nell’obbligatorietà del concordato preventivo, “conservano impregiudicati i diritti contro i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso”.

Già sul piano logico, ciò comporta che i “coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso”, richiamati dall’art. 184, primo comma, secondo periodo, L.F., possono essere solo ed esclusivamente i coobbligati, i fideiussori e gli obbligati in via di regresso anteriori al decreto di apertura della procedura di concordato preventivo. Se, infatti, i creditori di cui alla disposizione citata sono “i creditori anteriori al decreto di apertura della procedura di concordato, i coobbligati, i fideiussori e gli obbligati in via di regresso” non possono che essere anch’essi anteriori al decreto di apertura della procedura di concordato preventivo e ciò per la considerazione che non può esservi un credito se non vi è un debito, e viceversa.

Conseguentemente, la norma richiamata da parte attrice non è applicabile, non venendo neppure in rilievo, per quei coobbligati, fideiussori o obbligati in via di regresso che fossero tali successivamente al decreto di apertura della procedura di concordato preventivo e in esecuzione del piano concordatario.

Ciò posto, poiché la scissione parziale di A. S.p.A. e, dunque, la stessa costituzione di V. S.p.A., con la conseguente assunzione di alcuni debiti a carico di quest’ultima, è avvenuta successivamente al decreto di apertura della procedura di concordato preventivo (recte: successivamente all’omologazione della proposta concordataria), deve necessariamente concludersi che la Banca non può invocare l’art. 184, comma 1, secondo periodo, L.F., per esercitare le proprie ragioni di credito nei confronti di V. S.p.A.. Appare, infatti, del tutto evidente come, in epoca anteriore alla procedura concordataria, il soggetto che parte attrice chiama a rispondere come garante o, comunque, coobbligato, non era neppure esistente.

D’altra parte, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. un., 16 febbraio 2015, n.3022), l’art. 184, primo comma, ultima parte, L.F., per il quale i creditori anteriori al decreto di apertura della procedura di concordato preventivo conservano impregiudicati i diritti contro i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso, trova la sua ragione giustificativa nella considerazione che i rapporti contrattuali, a carattere personale o reale, stipulati dai creditori della società con soggetti terzi estranei alla stessa e comportanti obbligazioni a carico di questi ultimi restano al di fuori del concordato e dei suoi effetti.

Ciò posto, appare del tutto evidente come V. S.p.A. non possa dirsi estranea agli effetti del concordato preventivo di A. S.p.A. in ragione della (evidente) circostanza che la sua stessa costituzione deriva da una operazione straordinaria posta in essere nell’ambito e per effetto del piano concordatario di quest’ultima.

Consegue dalle precedenti considerazioni l’inapplicabilità, al caso di specie, del disposto di cui al secondo periodo del primo comma dell’art. 184 L.F..

  1. L’applicabilità dell’art. 2506-quater c.c. alle società risultanti da una scissione eseguita nell’ambito di un concordato preventivo.

Sotto altro profilo, B. attrice afferma l’applicabilità dell’art. 2506-quater c.c. alle società risultanti da una scissione eseguita nell’ambito di un concordato preventivo, con la conseguenza che l’odierna attrice avrebbe diritto a vedere soddisfatto il proprio (intero) credito, originariamente vantato nei confronti di A. S.p.A., dalla società beneficiaria V. S.p.A..

Non vi è dubbio che l’effetto più rilevante della scissione per i creditori sociali sia rappresentato dal trasferimento dei loro diritti, e quindi delle passività della scissa, a carico di una diversa società, la beneficiaria. Come è stato chiaramente messo in luce dalla dottrina, l’effetto riorganizzativo del patrimonio sociale genera una rottura della relazione originaria fra il creditore e il patrimonio della società debitrice. In conseguenza di tale rottura, la scissione è potenzialmente foriera di diversi tipi di pregiudizio alle aspettative del ceto creditorio, tra i quali quelli derivanti dal frazionamento della garanzia patrimoniale della società che opera la scissione.

La tutela di contro tale rischio è demandata alla regola posta dall’art. 2506-quater, ult. comma c.c.. Come è noto, tale disposizione codicistica prevede che ciascuna società coinvolta nella scissione è solidalmente responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico.

L’art. 2506-quater, ultimo comma, c.c. esprime un principio inderogabile rispetto ai creditori (ma modulabile diversamente sul piano dei rapporti interni tra le società risultanti dalla scissione) i quali, in qualche modo, subiscono l’effetto riorganizzativo del patrimonio sociale che si produce con la scissione e che genera una rottura della relazione originaria tra creditore e patrimonio netto della scissa. Il frazionamento patrimoniale può, in particolare, essere foriero di rischi avverso la garanzia patrimoniale del creditore, comportando la disgregazione patrimoniale una riduzione del patrimonio originariamente posto a garanzia dei debiti.

Ciò posto, la tematica in esame – quella della compatibilità dell’applicazione della richiamata disposizione con il sistema del concordato preventivo e, più in generale, quella del rapporto tra diritto societario e diritto della crisi di impresa (considerazioni del tutto analoghe potrebbero valere con riferimento all’applicabilità dell’istituto dell’opposizione dei creditori ex art. 2503 c.c.) – è stata, soltanto in via occasionale, esaminata dalla giurisprudenza di merito e non constano precedenti della giurisprudenza di legittimità. In particolare, la prima ha, in talune occasioni, affermato che l’inserimento, all’interno di un piano di concordato in continuità aziendale, di un’operazione di scissione parziale proporzionale non rende di per sé non operativa la norma di cui all’art. 2506-quater, ultimo comma, c.c., che prevede la responsabilità patrimoniale solidale delle società coinvolte nella scissione (così, Trib. Ravenna, 29 ottobre 2015).

Questo Collegio non condivide, nella sua assolutezza, tale orientamento.

In particolare, ferma restando l’inderogabilità della norma, occorre chiedersi se, nel caso in cui la scissone rappresenti la modalità realizzativa di un concordato preventivo, l’interferenza con la disciplina del concordato, ed in particolare con l’autoregolamentazione concordataria della crisi o dell’insolvenza possa giustificare, secondo il principio di specialità, la non applicazione della regola societaria comune della responsabilità limitata solidale delle società risultanti dalla scissione.

Come correttamente evidenziato dalla difesa della parte convenuta, la previsione di cui all’art. 184, primo comma, primo periodo, L.F. è destinata a prevalere sull’art. 2506-quater, terzo comma, c.c., quando l’operazione di scissione avvenga in esecuzione di un piano concordatario, e subordinatamente all’omologazione della relativa proposta. E questo perché l’interesse di uno o più singoli creditori, tutelato dall’art. 2506-quater, terzo comma, c.c., non può certamente prevalere sull’interesse della intera massa dei creditori né sullo stesso principio della par condicio creditorum, tutelati dall’art. 184, comma 1, primo periodo, L.F..

Ed una simile conclusione è pienamente giustificabile, sul piano sistematico, sulla base della considerazione che nelle società in crisi si assiste ad un’inversione gerarchica degli interessi rilevanti – prima l’interesse dei creditori e poi quello del socio -, cui deve coerentemente corrispondere il capovolgimento degli assetti di potere: dal potere della maggioranza assembleare al potere della maggioranza dei creditori, con la conseguenza che, approvato il concordato, la logica della maggioranza prevarrebbe su quella del singolo creditore che – incluso in una classe di crediti il cui soddisfacimento sia previsto nel piano ad opera (esclusivamente) dalla società scissa o dalla società beneficiaria – non potrebbe, successivamente, rivolgersi per ottenere il pagamento alla società alla quale non è stato assegnato il relativo debito.

D’altra parte, appare del tutto evidente come, ad opinare diversamente, si assisterebbe ad una grave violazione della par condicio creditorum e ad una grave lesione della fattibilità economico-finanziaria del piano concordatario.

Infatti, ove si ritenesse applicabile l’art. 2506-quater, ultimo comma, c.c., alle scissioni eseguite in attuazione di un concordato, la società beneficiaria, alla quale non è stata assegnata una determinata categoria di debiti, si troverebbe sempre e comunque esposta alla possibilità di essere chiamata a rispondere dei debiti che, in ragione del piano concordatario, dovrebbero essere onorati dalla società scissa. Peraltro, in tal caso, la società beneficiaria sarebbe esposta per l’intero debito originario della scissa, non prevedendo la richiamata disposizione codicistica una limitazione della responsabilità alla eventuale riduzione prevista nel piano concordatario medesimo. Ma va da sé che, in tal modo, verrebbe ad escludersi, in ogni caso, la stessa ipotizzabilità di una qualunque proposta concordataria che preveda la scissione quale modalità attuativa del piano concordatario.

Inoltre, se tutti gli originari creditori della scissa potessero rivolgersi indifferentemente a tutte le società coinvolte nella scissione, i tempi e le modalità di soddisfazione dei creditori sarebbero sostanzialmente sottratte agli organi della procedura di concordato e sarebbero affidati, anche all’interno delle singole classi, al solo criterio prior in tempore potior in iure.

Tali ragioni inducono a concludere che il piano di concordato che preveda, per la sua attuazione, l’esecuzione di una operazione di scissione, possa legittimamente determinare quale delle società coinvolte nella scissione sia tenuta – in via esclusiva – a provvedere al soddisfacimento di una data classe di creditori. E va da sé che l’approvazione, da parte dei creditori, del piano concordatario renda quella determinazione intangibile con conseguente esclusione dell’applicazione, alla fattispecie, della regola ordinaria della responsabilità solidale di tutte le società coinvolte nell’operazione straordinaria.

  1. L’applicabilità dell’art. 2506-quater c.c. in seguito alla risoluzione del concordato ed alla dichiarazione di fallimento della società scissa.

Se, dunque, può legittimamente sostenersi la inapplicabilità della responsabilità solidale di cui all’art. 2506-quater c.c. in caso di scissioni poste in essere in esecuzione di un piano concordatario, occorre ora verificare come incida, su tale ricostruzione, la intervenuta, successiva risoluzione del concordato stesso e la dichiarazione di fallimento della società scissa.

Come già sopra ricordato, infatti, nel caso di specie, nelle more del presente giudizio, con sentenza depositata in data __, il Tribunale di Velletri dichiarava il fallimento di A. S.p.A. con risoluzione del concordato preventivo della società stessa.

Ad avviso del Collegio, la risoluzione del concordato ed il fallimento della società scissa non possono comportare un qualche effetto sulla operazione straordinaria di scissione in sé considerata, determinandone l’invalidità ovvero l’inefficacia. Osta ad una simile conclusione il principio di irretrattabilità degli effetti della scissione di cui all’art. 2504-quater c.c., richiamato dall’art. 2506-ter, u.c., c.c., in forza del quale, una volta eseguite le iscrizioni nel registro delle imprese dell’atto di scissione, l’invalidità di quest’ultima non può più essere pronunziata.

In altre parole, una volta intervenuta l’iscrizione nel registro delle imprese, non può essere più posto nel nulla l’effetto riorganizzativo sulla struttura societaria derivante dal compimento di una operazione straordinaria.

Ciò posto, ritiene il Tribunale che, a seguito della risoluzione del concordato, non si giustifichi più la mancata applicazione alla fattispecie della regola generale (e già ricordata come inderogabile) della solidarietà tra le società interessate dalla scissione di cui all’ultimo comma dell’art. 2506-quater c.c.

In altre parole, attesa l’impossibilità di intervenire sull’atto di scissione quale atto di riorganizzazione societaria (e, in particolare, sulla stessa costituzione della società beneficiaria), non resta che concludere che la risoluzione del concordato, una volta che la scissione abbia prodotto i suoi effetti, operi sul piano della immediata ed integrale esigibilità dei crediti vantati nei confronti della società prima ammessa al concordato e poi fallita, nei confronti di tutte le società risultanti dalla scissione e ciò con la precisazione che ciò avviene sia pure in concorso con gli altri crediti, di diversa origine e provenienza, insorti nei confronti di beneficiaria.

La responsabilità della società beneficiaria, infatti, si presenta come effetto compatibile con la situazione derivante dalla riorganizzazione concordataria.

Né, d’altra parte, il curatore del fallimento della società scissa avrebbe, come invece vorrebbe la convenuta, a disposizione strumenti per recuperare al fallimento (e poi destinare ai creditori) il patrimonio netto attribuito alla società beneficiaria.

In definitiva, l’applicazione dell’art. 2506-quater, u.c. in tanto può essere esclusa in quanto il concordato nel cui ambito l’operazione di scissione è stata eseguita viene ad essere portato a termine: ove, invece, il concordato preventivo venga dichiarato risolto, tornano ad applicarsi le regole societarie ordinarie e, dunque, non potendo predicarsi una qualche forma di invalidazione dell’operazione di scissione e la conseguente riunificazione dei patrimoni oramai definitivamente assegnati alle singole beneficiarie, anche la responsabilità solidale delle società coinvolte nella scissione.

Non appare pleonastico osservare come una simile conclusione è anche quella che tutela nel miglior modo possibile la posizione dei creditori sociali i quali votano a favore di un piano concordatario che preveda l’operazione di scissione e l’assegnazione del proprio credito ad una sola delle società coinvolte nell’operazione medesima nella (legittima) aspettativa che quel piano venga poi attuato.

In conclusione, a seguito dell’intervenuta dichiarazione di fallimento della società A. S.p.A. in liquidazione, ritiene questo Collegio che la B. Soc. Coop. sia legittimata a rivolgersi a V. S.p.A. per il pagamento del credito da essa vantata nei confronti della società scissa.

  1. Il valore del patrimonio netto assegnato alla società beneficiaria.

Come è noto, l’art. 2506-quater, u.c., c.c. prevede che la responsabilità solidale delle società coinvolte nella scissione è limitato al valore effettivo del patrimonio netto assegnato (alla beneficiaria) o rimasto (alla scissa).

Al fine di valutare se B. Soc. Coop. possa chiedere a V. S.p.A. il pagamento del credito dalla prima vantato nei confronti di A. S.p.A. occorre, dunque, esaminare l’entità del patrimonio netto assegnato, in sede di scissione, alla convenuta.

In particolare, secondo la difesa della convenuta, non sussiste alcun patrimonio netto positivo in capo alla V. S.p.A. con la conseguenza che la Banca non sarebbe, in ogni caso, legittimata a richiedere alla società beneficiaria dalla scissione il pagamento del proprio credito. Evidenzia, infatti, la convenuta che, se, per un verso, la scissione de qua aveva determinato, in capo a V. S.p.A., la creazione di un patrimonio netto positivo di Euro __, per altro verso, nel piano concordatario era previsto che, allo scopo di riportare tale valore all’interno di A. S.p.A. in liquidazione, e, così, a favore della massa dei suoi creditori, V. dovesse versare ad A. l’anzidetto importo di Euro __ in n. _ rate mensili (obbligazione, peraltro, assolta dalla convenuta).

Effettivamente, nel ricorso per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo di A. S.p.A. si legge (pag. _) che “l’attivo assegnato alla newco sarà così realizzato: 1) quanto a Euro __ in _ rate mensili posticipate oltre interessi legali per l’acquisizione del marchio (…)”; nella relazione redatta ai sensi dell’art. 172 L.F. parimenti si legge (pag. _) che “l’attivo assegnato alla newco sarà così realizzato: 1) quanto a Euro __, pari al valore del patrimonio netto della newco, a titolo di cessione del marchio con pagamento rateizzato in _ rate mensili oltre interessi legali con garanzia ipotecaria a valere su una porzione dell’immobile ad essa assegnato”. Nella medesima relazione veniva, poi, evidenziato che “il patrimonio netto assegnato alla newco verrà compensato dal ricavato della vendita del marchio che sarà corrisposto in forma dilazionata e garantito in via ipotecaria in virtù dei ricavi rinvenienti dalla prosecuzione senza soluzione di continuità dell’attività in capo a quest’ultima”.

Infine, nel decreto di omologa si legge espressamente che il patrimonio netto assegnato a V. S.p.A. è pari ad Euro __ e che esso “dovrà essere oggetto di restituzione all’attivo della procedura concordataria, a titolo di cessione del marchio, con pagamento rateizzato in _ rate mensili oltre interessi legali”.

Va, peraltro, evidenziato che, in data __, è stato stipulato un contratto preliminare di cessione del marchio di A. S.p.A. in liquidazione in favore di V. S.p.A. (rep. (…), racc. (…)).

Ebbene, pur a fronte di una certa imprecisione lessicale contenuta nei richiamati atti (ove si parla di restituzione del patrimonio netto in favore della scissa ovvero di compensazione del medesimo con il ricavato della vendita del marchio), deve ritenersi che il pagamento dell’importo Euro __ non sia avvenuto in forza della scissione e per l’effetto dell’attribuzione di un determinato patrimonio netto, ma in ragione dell’acquisto, da parte della società beneficiaria, del marchio che era rimasto nella proprietà della società scissa. In questa prospettiva, deve ritenersi che V. S.p.A. abbia formato con A. S.p.A. un contratto di compravendita con la quale essa ha acquistato il marchio provvedendo al pagamento, in forma rateale, del prezzo determinato in Euro __.

Intesa in questi termini l’operazione è completamente neutra sul piano della individuazione e della determinazione del valore del patrimonio netto alla società beneficiaria. Infatti, ferma restando l’individuazione del patrimonio netto per come sopra individuato, la società beneficiaria ha provveduto ad utilizzare le proprie risorse per acquisire il marchio: ma se così è, vuol dire che le parti hanno inteso attribuire a quel marchio il valore di Euro __ che poi la società beneficiaria ha corrisposto alla scissa. Consegue che l’odierna convenuta, pur avendo perso la disponibilità economica dell’importo indicato, ha acquisito, per un valore corrispondente, il marchio il quale è stato, evidentemente, oggetto di una normale compravendita.

In definitiva, deve dirsi che il valore del patrimonio netto attribuito a V. S.p.A. in sede di scissione di A. S.p.A. è stato pari ad Euro __.

  1. La prova del credito vantato da B. soc. coop..

Chiarito che la società convenuta può essere effettivamente chiamata a rispondere del credito vantato da B. Soc. Coop. nei confronti di A. S.p.A., occorre ora soffermarsi sugli aspetti probatori in ordine all’esistenza stessa del credito e della sua entità.

In particolare, va evidenziato come la società attrice è gravata dell’onere probatorio relativo al suo credito, non potendo certo beneficiare di una eventuale non contestazione da parte della società convenuta in giudizio.

Infatti, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita.

Ciò posto, l’onere di contestazione riguarda fatti sfavorevoli che siano, però, consistenti in fatto proprio della parte ovvero in un fatto comune alle parti ovvero ancora in un fatto caduto sotto la percezione del convenuto.

Ebbene, appare del tutto evidente come la società beneficiaria costituita nell’ambito di una operazione di scissione societaria non possa dirsi gravata dell’onere di contestare specificatamente il credito vantato dal creditore della società scissa, in quanto, rispetto a quel credito, essa – sebbene solidalmente responsabilità per effetto del disposto di cui all’art. 2506-quater c.c. – è completamente estranea. Anzi, nell’ipotesi (verificatasi nel caso di specie) in cui la società beneficiaria sia di nuova costituzione, essa, al momento del sorgere dell’obbligazione (e, nella fattispecie, in esame, anche al momento della chiusura del rapporto negoziale), non era neppure esistente come soggetto giuridico.

Ciò posto, nell’ambito del presente giudizio, parte attrice ha prodotto tutti i documenti rappresentativi del credito e della sua formazione e precisamente: contratto di conto corrente n. (…) (doc. _); contratti di concessione affidamenti (doc. _); contratto di conto anticipi (doc. _); nonché tutti gli estratti conto (docc. _ e _).

  1. Soc. Coop. ha, dunque, dato prova del proprio credito, di Euro __ (oltre interessi dal __), nei confronti di A. S.p.A. e, dunque, in ragione della responsabilità solidale più volte illustrata, di V. S.p.A..

Né potrebbe sostenersi – come invece vorrebbe parte convenuta secondo la quale l’accertamento dell’effettiva entità di tale credito si riflette, tal quale, nei riguardi di V. S.p.A. – che la responsabilità della odierna convenuta per il credito così determinato debba essere limitata all’importo ammesso al passivo di A. S.p.A. in liquidazione pari ad Euro __.

Infatti, il decreto che ha reso esecutivo lo stato passivo del fallimento di A. S.p.A. in liquidazione (a prescindere da ogni considerazione in ordine alle vicende relative alla sua impugnazione) con l’ammissione parziale di B. ha valore solo endoconcorsuale con efficacia preclusiva limitata all’interno della procedura fallimentare. Tuttavia, al di fuori del contesto concorsuale e, dunque, anche nei confronti di un soggetto che sia, comunque, tenuto a rispondere di quel debito (nel caso di specie, ai sensi dell’art. 2506-quater, terzo comma, c.c.), continuano ad applicarsi gli ordinari principi e non gli accertamenti compiuti nell’ambito della procedura.

  1. Conclusioni.

In definitiva, la V. S.p.A. deve essere condannata al pagamento, in favore di B. Soc. Coop. della somma di Euro __, oltre interessi, nella misura legale, dalla data del __ e fino all’effettivo soddisfo.

La novità della questione concernente l’applicabilità degli artt. 184 L.F. e 2506-quater c.c. alle ipotesi di scissioni societarie poste in essere in esecuzione di un concordato preventivo e l’intervenuto solo in corso di causa fallimento di A. S.p.A. in liquidazione giustificano la compensazione integrale, tra le parti, delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale di Roma, definitivamente pronunciando in composizione collegiale, nel contraddittorio tra le parti, così provvede:

1) condanna V. S.p.A. al pagamento, in favore di B. Soc. Coop., della somma di Euro __, oltre interessi, nella misura legale, dalla data del __ e fino all’effettivo soddisfo;

2) compensa integralmente, tra le parti le spese del presente giudizio.

Così deciso nella camera di consiglio del Tribunale di Roma in data 4 febbraio 2020.

Depositata in Cancelleria il 24 marzo 2020.

Tribunale Roma Sez. spec. in materia di imprese 24_03_2020

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Il debitore garantito da ipoteca su un bene di un terzo

Il debitore garantito da ipoteca su un bene di un terzo non è legittimato passivo dell’azione esecutiva che abbia ad oggetto tale immobile

Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 10808 del 05/06/2020

Con sentenza del 5 giugno 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che il debitore garantito da ipoteca su un bene di un terzo non è legittimato passivo dell’azione esecutiva che abbia ad oggetto tale immobile e, pertanto, non deve essergli notificato l’atto di pignoramento, ma soltanto, come previsto dall’art. 603 c.p.c., il precetto e il titolo esecutivo (fatta salva l’eccezione in tema di credito fondiario di cui all’art. 41, comma 1 del D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385). Tuttavia, ai sensi dell’art. 604, comma 2, c.p.c., nel corso del processo esecutivo, egli deve essere sentito tutte le volte in cui deve essere sentito anche il terzo proprietario assoggettato all’esecuzione e tale omissione dà luogo ad un vizio della procedura che, fintanto che la stessa non sia conclusa, può essere fatto valere con l’opposizione ex art. 617 c.p.c..


Cass. civ. Sez. III 05_06_2020 n. 10808




Azione revocatoria ordinaria

Azione revocatoria ordinaria ed esistenza di una ipoteca sul bene oggetto dell’atto dispositivo

Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 11121 del 10/06/2020

Con sentenza del 10 giugno 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che in tema di azione revocatoria ordinaria, l’esistenza di una ipoteca sul bene oggetto dell’atto dispositivo, ancorché di entità tale da assorbirne, se fatta valere, l’intero valore, non esclude la connotazione di quell’atto come “eventus damni” (presupposto per l’esercizio della azione pauliana), atteso che la valutazione tanto della idoneità dell’atto dispositivo a costituire un pregiudizio, quanto della possibile incidenza, sul valore del bene, della causa di prelazione connessa alla ipoteca, va compiuta con riferimento non al momento del compimento dell’atto, ma con giudizio prognostico proiettato verso il futuro, per apprezzare l’eventualità del venir meno, o di un ridimensionamento, della garanzia ipotecaria.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 11121 del 10/06/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al numero __ del ruolo generale dell’anno __, proposto da:

L. e D. – ricorrenti –

nei confronti di:

Fallimento (OMISSIS) S.r.l.  – controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Perugia n. __, pubblicata in data __;

udita la relazione sulla causa svolta alla pubblica udienza in data __ dal consigliere Dott. __;

uditi:

il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale Dott. __, che ha concluso per la dichiarazione di inammissibilità o, in subordine, per il rigetto del ricorso;

l’avvocato __, per delega dell’avvocato __, per i ricorrenti.

Svolgimento del processo

Il curatore del fallimento della società (OMISSIS) S.r.l. ha agito in giudizio nei confronti di L. e D. per ottenere la dichiarazione di inefficacia, ai sensi dell’art. 2901 c.c., dell’atto con cui L. (nei cui confronti la curatela vanta crediti risarcitori in relazione all’attività dallo stesso svolta quale unico socio ed amministratore della società fallita) aveva ceduto a D. i suoi diritti di nuda proprietà, pari alla quota della metà, su un appartamento con autorimessa di pertinenza, riservato al venditore il diritto di abitazione.

La domanda è stata rigettata dal Tribunale di Terni.

La Corte di Appello di Perugia, in riforma della decisione di primo grado, la ha invece accolta.

Ricorrono L. e D., sulla base di sei motivi.

Resiste con controricorso il curatore del fallimento della società (OMISSIS) S.r.l.

Il ricorso è stato inizialmente trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380 bis.1 c.p.c., ma la Corte, con ordinanza interlocutoria in data 8 ottobre 2019, ha disposto la trattazione in pubblica udienza.

La curatela controricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

  1. In via preliminare, va rigettata l’istanza di rinvio formulata del difensore dalla parte controricorrente, genericamente motivata in base ad altri impegni professionali.

L’istanza di rinvio dell’udienza di discussione della causa per grave impedimento del difensore, ai sensi dell’art. 115 disp. att. c.p.c., deve infatti fare espresso riferimento alla impossibilità (nella specie non adeguatamente indicata e comprovata) di sostituzione mediante delega conferita ad un collega, facoltà tale da rendere riconducibile all’esercizio professionale del sostituito l’attività processuale svolta dal sostituto, venendo altrimenti a prospettarsi soltanto un problema attinente all’organizzazione professionale del difensore, non rilevante ai fini del differimento dell’udienza (cfr. Cass., Sez. U, Ordinanza n. 4773 del 26/03/2012, Rv. 621382 – 01; con riferimento alla facoltà di sostituzione ora confermata dalla L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 9, comma 2, cfr. anche, ex multis: Sez. 1, Sentenza n. 19583 del 27/08/2013, Rv. 627728 – 01; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 22094 del 17/10/2014, Rv. 632913 – 01; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 10546 del 03/05/2018, Rv. 648768 01; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 25783 del 15/10/2018, Rv. 650983 – 01).

  1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la Corte di appello omesso di accertare che i beni oggetto dell’atto impugnato in revocatoria, quanto ai diritti di 1/2, erano di proprietà di L. e non invece della (OMISSIS) S.r.l., come erroneamente affermato dal giudice di secondo grado”.

Il motivo è infondato.

Nella sentenza impugnata la (OMISSIS) S.r.l. è erroneamente indicata quale soggetto titolare del diritto ceduto solo nella prima pagina, mentre nella motivazione e nel dispositivo si fa sempre riferimento a L. o comunque ad una persona fisica.

La predetta erronea indicazione costituisce pertanto un mero errore materiale, che non ha alcuna incidenza sulla coerenza del percorso motivazionale della decisione e non ne impedisce la agevole comprensione.

D’altra parte, il fatto di cui la parte ricorrente lamenta l’omesso esame non risulta in realtà controverso (è pacifico che il titolare dei diritti per cui è causa sia L., in proprio), il che esclude la stessa sussumibilità della censura nel parametro di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

  1. Con il secondo motivo si denunzia “Violazione o falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione a quanto previsto dall’art. 2901 c.c., comma 1, n. 1 e comma 1, n. 2, per avere la Corte di appello ritenuto che il fallimento della (OMISSIS) S.r.l. avesse subito un pregiudizio in conseguenza della stipula dell’atto di cessione dei diritti e per avere affermato la sussistenza del presupposto oggettivo della azione revocatoria, costituito dall’eventus damni”.

Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata è conforme, in diritto, all’indirizzo di questa Corte, secondo il quale “in tema di azione revocatoria ordinaria, l’esistenza di una ipoteca sul bene oggetto dell’atto dispositivo, ancorché di entità tale da assorbirne, se fatta valere, l’intero valore, non esclude la connotazione di quell’atto come eventus damni (presupposto per l’esercizio della azione pauliana), atteso che la valutazione tanto della idoneità dell’atto dispositivo a costituire un pregiudizio, quanto della possibile incidenza, sul valore del bene, della causa di prelazione connessa alla ipoteca, va compiuta con riferimento non al momento del compimento dell’atto, ma con giudizio prognostico proiettato verso il futuro, per apprezzare l’eventualità del venir meno, o di un ridimensionamento, della garanzia ipotecaria” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016, Rv. 640191 – 01; nel medesimo senso, cfr.: Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 20671 del 08/08/2018, Rv. 650481 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 25733 del 22/12/2015, Rv. 638077 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 16793 del 13/08/2015, Rv. 636390 – 01; cfr. altresì, sempre in tal senso: Sez. 3, Ordinanza n. 30736 del 26/11/2019, Rv. 655974 – 01): dunque occorre sempre, in proposito, un accertamento in fatto, da effettuare caso per caso (con giudizio prognostico proiettato verso il futuro e non esclusivamente al momento dell’atto).

Nella specie, la corte di appello ha ritenuto che la probabile futura estinzione, almeno parziale, del mutuo ipotecario oggetto di accollo – al di là del valore effettivo dell’immobile rispetto all’importo di quest’ultimo – e la conservazione del diritto di abitazione in capo a L. fossero circostanze idonee ad indurre a ritenere che la realizzazione dei crediti della curatela, se i diritti ceduti fossero rimasti nel patrimonio di L., non sarebbe stata certamente impossibile e che essa in definitiva era stata resa più difficoltosa dall’atto di cessione. Dunque l’accertamento in fatto della sussistenza in concreto dell’eventus damni, con giudizio prognostico proiettato verso il futuro, risulta correttamente effettuato dai giudici di merito, sulla base dell’esame del materiale probatorio, e tale accertamento è sostenuto da motivazione non apparente né insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come tale non censurabile nella presente sede.

  1. Con il terzo motivo si denunzia “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere il giudice di secondo grado affermato che l’asserito credito del fallimento sarebbe stato anteriore rispetto all’atto di cessione dei diritti, senza esporre alcuna motivazione a sostegno del proprio assunto”.

Con il quarto motivo si denunzia “Violazione o falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione a quanto previsto dagli artt. 2901 c.c., L.F., art. 146 e art. 2908 c.c., per avere la Corte di appello affermato che il preteso credito del fallimento sarebbe sorto anteriormente all’atto di cessione dei diritti”.

Con il quinto motivo si denunzia “Violazione o falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione a quanto previsto dagli artt. 2908, 2901 c.c. e art. L.F., art. 146 per avere la Corte di appello affermato che l’elemento psicologico della azione revocatoria era integrato dalla scientia damni”. Il terzo, il quarto ed il quinto motivo riguardano la questione della anteriorità o meno del credito rispetto all’atto di cessione oggetto di impugnazione e la conseguente individuazione dell’elemento soggettivo in concreto necessario ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria (cd. scientia damni), in termini di mera consapevolezza in capo al debitore ed al terzo di arrecare pregiudizio alle ragioni del creditore ovvero di necessità di una dolosa preordinazione dell’atto al fine di pregiudicare tali ragioni (cd. animus nocendi; participatio fraudis), ai sensi dell’art. 2901 c.c., comma 1, n. 1.

Si tratta di motivi connessi, che possono essere esaminati congiuntamente.

Essi sono in parte inammissibili ed in parte infondati.

4.1 Il credito vantato dalla curatela attrice nei confronti di L. è costituito dalla pretesa risarcitoria derivante dalla dedotta responsabilità di quest’ultimo, quale socio e amministratore della società fallita, pretesa esercitata in giudizio dal curatore fallimentare ai sensi della L.F., art. 146.

Secondo i ricorrenti si tratterebbe di un’azione costituiva, con la conseguenza che l’eventuale credito potrebbe dirsi sorto solo a seguito dell’accoglimento della domanda della curatela, mentre l’atto di cessione in contestazione era addirittura anteriore all’instaurazione del relativo giudizio.

Tale assunto non è fondato in diritto.

L’azione proposta dal curatore ai sensi della L.F., art. 146 costituisce un’ordinaria azione risarcitoria di condanna, che cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma – quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali – implicando una modifica della legittimazione attiva, ma non della natura giuridica e dei presupposti delle due azioni (cfr. in proposito, ad es.: Cass., Sez. 1, Sentenza n. 23452 del 20/09/2019, Rv. 655305 02; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 19340 del 29/09/2016, Rv. 641306 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 24715 del 04/12/2015, Rv. 638140 – 01). Le predette azioni sono del resto di per sè entrambe ben esperibili anche prima e a prescindere dal fallimento, che comunque risulta nella specie dichiarato anteriormente all’atto di cessione oggetto di revoca.

Non trattandosi di un’azione costitutiva, ma di una ordinaria azione di condanna, è applicabile il principio generale costantemente affermato da questa Corte, secondo cui “per l’esercizio dell’azione revocatoria è sufficiente una ragione di credito eventuale, mentre il requisito dell’anteriorità del credito rispetto all’atto impugnato in revocatoria deve essere riscontrato in base al momento in cui il credito stesso insorga e non a quello del suo accertamento giudiziale” (cfr., ex multis: Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 22161 del 05/09/2019, Rv. 654936 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 1968 del 27/01/2009, Rv. 606331 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 12678 del 17/10/2001, Rv. 549698 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 8013 del 02/09/1996, Rv. 499434 – 01).

In particolare, nel caso di credito litigioso – comunque idoneo a determinare l’insorgere della qualità di creditore che abilita all’esperimento dell’azione revocatoria – per stabilire se esso sia o meno sorto anteriormente all’atto di disposizione del patrimonio è necessario fare riferimento alla data del contratto, se di fonte contrattuale, o alla data dell’illecito se si tratta di credito risarcitorio da fatto illecito, come correttamente statuito nella sentenza di primo grado, sul punto confermata dalla corte di appello.

4.2 In fatto, la corte territoriale ha poi espressamente affermato che il credito della curatela era anteriore all’atto di cessione oggetto di revoca e dalla decisione impugnata, nonché dagli stessi atti di parte, emerge chiaramente l’anteriorità dell’illecito oggetto della pretesa risarcitoria del fallimento rispetto all’atto di cessione, in quanto derivante da condotte poste in essere dal L. nella qualità di amministratore della (OMISSIS) S.r.l. certamente prima dell’atto in questione (che risulta addirittura successivo alla dichiarazione di fallimento).

Parte ricorrente non indica in modo adeguatamente specifico, nel ricorso, se, ed eventualmente in quali atti e in quali termini, la circostanza di fatto dell’anteriorità dell’illecito posto a base della pretesa della curatela rispetto all’atto da revocare fosse stato oggetto di specifiche contestazioni nel corso del giudizio di primo grado, quale sia stato il contenuto della decisione di primo grado in proposito ed in che termini sia stata riproposta la questione nel giudizio di appello.

Sembrerebbe emergere dall’esposizione contenuta nel ricorso che il tribunale abbia espressamente disatteso la tesi in diritto dei convenuti secondo la quale il credito del fallimento poteva ritenersi sorto solo a seguito della sentenza di condanna (cfr., in particolare: pag. 6 ricorso).

Non è però adeguatamente chiarito se tale questione di diritto – peraltro manifestamente infondata, come già visto – era stata specificamente riproposta in appello: dal ricorso si apprende esclusivamente che gli appellanti avevano insistito a sostenere che il credito della curatela era posteriore alla cessione ma non se ed in che termini fosse stata eventualmente censurata la contraria affermazione del tribunale; in particolare, non risulta adeguatamente e specificamente richiamato (come sarebbe stato necessario ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) il contenuto della comparsa di costituzione di appello in cui sarebbero state effettuate le relative deduzioni, il che impedisce in radice di valutare nel merito la questione dell’esistenza ed adeguatezza della motivazione della decisione impugnata in ordine all’elemento soggettivo dell’azione revocatoria.

Sfugge in definitiva alle censure contenute nei motivi di ricorso in esame la sentenza della corte di appello, nella parte in cui, sul presupposto di fatto che il credito vantato dalla curatela fosse anteriore all’atto dispositivo, ha conseguentemente ritenuto, del tutto correttamente in diritto, che, ai fini dell’esperibilità dell’azione di cui all’art. 2901 c.c., fosse sufficiente la consapevolezza in capo al debitore ed al terzo di arrecare pregiudizio alle ragioni del creditore (cd. scientia damni).

  1. Con il sesto motivo si denunzia “Violazione o falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione a quanto previsto dall’art. 2727 c.c. e art. 2729 c.c., comma 1, per avere la Corte di merito presunto dal rapporto di coniugio tra L.P. e la Dott.ssa D.S.F. e dalla ritenuta (ma inesistente) convivenza tra di essi la sussistenza della scientia damni”.

Anche questo motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

La decisione della corte di appello, in diritto, è certamente conforme al principio, più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità (e che va in questa sede ribadito), secondo cui, “in tema di azione revocatoria ordinaria, quando l’atto di disposizione sia successivo al sorgere del credito, unica condizione per il suo esercizio è la conoscenza che il debitore abbia del pregiudizio delle ragioni creditorie, nonché, per gli atti a titolo oneroso, l’esistenza di analoga consapevolezza in capo al terzo, la cui posizione, sotto il profilo soggettivo, va accomunata a quella del debitore; la relativa prova può essere fornita tramite presunzioni, il cui apprezzamento è devoluto al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove congruamente motivato” (Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 16221 del 18/06/2019, Rv. 654318 – 02; Sez. 3, Sentenza n. 5618 del 22/03/2016, Rv. 639362 – 01 Sez. 3, Sentenza n. 27546 del 30/12/2014, Rv. 633992 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 17327 del 17/08/2011, Rv. 619033 – 01), con la ulteriore precisazione che la predetta prova può essere ricavata anche da presunzioni semplici, ivi compresa la sussistenza di un vincolo parentale tra il debitore ed il terzo, quando tale vincolo renda estremamente inverosimile che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria gravante sul disponente (Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 1286 del 18/01/2019, Rv. 652471 01; Sez. 3, Sentenza n. 13447 del 29/05/2013, Rv. 626640 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 5359 del 05/03/2009, Rv. 607194 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 2748 del 11/02/2005, Rv. 579523 – 01).

I ricorrenti non sembrano neanche direttamente contestare i suddetti principi di diritto (peraltro consolidati e ai quali va certamente dato seguito), mettendo in realtà in discussione solo la congruità degli elementi utilizzati dalla corte territoriale nello svolgimento della sua argomentazione presuntiva.

Ma sotto questo profilo, nonostante la rubrica del motivo di ricorso in esame faccia riferimento ad una censura di violazione di norme di diritto, l’impugnazione si risolve in definitiva nella contestazione di un accertamento di fatto, sostenuto da motivazione non apparente né insanabilmente contraddittoria sul piano logico e, come tale, non censurabile in sede di legittimità, nonché nella inammissibile richiesta di una nuova e diversa valutazione delle prove.

  1. Il ricorso è rigettato.

Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo.

Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte:

– rigetta il ricorso;

– condanna i ricorrenti a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore della curatela controricorrente, liquidandole in complessivi Euro __, oltre Euro __ per esborsi, spese generali ed accessori di legge.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a).

Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2020.

Cass. civ. Sez. III 10_06_2020 n. 11121




Il fallimento del debitore esecutato nell’espropriazione presso terzi di crediti

Il fallimento del debitore esecutato, nell’espropriazione presso terzi di crediti, non comporta né la caducazione dell’ordinanza di assegnazione né la cessazione ipso iure della materia del contendere nel giudizio di opposizione

Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 10820 del 05/06/2020

Con sentenza del 5 giugno 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che nell’espropriazione presso terzi di crediti, il fallimento del debitore esecutato, dichiarato dopo la pronuncia dell’ordinanza di assegnazione di cui all’art. 553 c.p.c., e nelle more del giudizio di opposizione agli atti esecutivi contro di essa proposto dal terzo pignorato, non comporta né la caducazione dell’ordinanza di assegnazione, né la cessazione ipso iure della materia del contendere nel giudizio di opposizione; non spetta al giudice dell’opposizione stabilire se gli eventuali pagamenti compiuti dal terzo pignorato in esecuzione dell’ordinanza di assegnazione siano o meno efficaci, ai sensi dell’art. 44 L.F., in considerazione del momento in cui vennero effettuati.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 10820 del 05/06/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

G. S.r.l. – ricorrente –

contro

C., S., Fallimento (OMISSIS) S.r.l., P. e V. – intimati

avverso la sentenza n. __ del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere Dott. __;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato __.

Svolgimento del processo

La società G. S.r.l., essendo munita di titolo esecutivo giudiziale, iniziò l’esecuzione nei confronti della propria debitrice (OMISSIS) S.r.l., pignorando i crediti vantati da quest’ultima nei confronti di due amministrazioni comunali: C. e S..

Secondo quanto riferito nel ricorso, tutt’e due le amministrazioni comunali resero una positiva dichiarazione di quantità.

Di conseguenza, con ordinanza del __, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, dinanzi al quale pendeva la procedura esecutiva, pronunciò ordinanza di assegnazione a favore di G. S.r.l.:

a) del credito vantato dalla (OMISSIS) nei confronti di S., per l’importo di Euro __;

b) del credito vantato dalla (OMISSIS) nei confronti di C., per l’importo di Euro __.

C. propose opposizione ex art. 617 c.p.c. avverso l’ordinanza di assegnazione suddetta.

A fondamento della propria opposizione C. dedusse che il giudice dell’esecuzione aveva assegnato al creditore procedente un credito eccedente la misura stabilita dall’art. 546 c.p.c., comma 1; e in ogni caso che parte del credito assegnato alla società procedente era ancora inesigibile.

Nella fase sommaria del giudizio di opposizione il giudice dell’esecuzione rigettò l’istanza di sospensione, con provvedimento confermato in sede collegiale.

C., terzo pignorato, introdusse la fase di merito con atto notificato il __.

Poco dopo, il __, il Tribunale di Roma dichiarò fallita la società (OMISSIS), che come s’è visto era il debitore esecutato.

Di conseguenza, all’udienza del __ il giudice della fase di merito dell’opposizione agli atti dichiarò interrotto il giudizio.

Il giudizio venne riassunto da C.; nel giudizio riassunto si costituì la curatela del fallimento (OMISSIS) S.r.l., chiedendo dichiararsi l’improcedibilità dell’azione esecutiva promossa da G. S.r.l., e la condanna di quest’ultima a restituire alla curatela le somme “riscosse in virtù dell’ordinanza di assegnazione dopo la dichiarazione di fallimento” (così il ricorso, p. __).

Con sentenza 6 marzo 2017 n. 823 il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere dichiarò cessata la materia del contendere del giudizio di opposizione.

A fondamento della propria decisione il Tribunale ha adottato una motivazione che può così sintetizzarsi:

– nell’esecuzione mobiliare presso terzi la procedura non può considerarsi definita fino a quando non sia avvenuta la distribuzione delle somme ai creditori;

– pertanto, se il debitore esecutato fallisce prima di tale momento, “l’intervento del curatore che chieda l’interruzione della procedura di espropriazione individuale comporta l’improcedibilità della stessa ai sensi della L.F., art. 51” (il Tribunale ha richiamato, su questo punto, la sentenza di questa Corte n. 6968 del 1999);

– la procedura di pignoramento presso terzi introdotta da G., di conseguenza, doveva ritenersi improcedibile, e caducati dovevano ritenersi tutti gli atti di essa, ivi compresa l’ordinanza di assegnazione;

– essendo improcedibile il giudizio di esecuzione, e caducata l’ordinanza di assegnazione, non vi era più motivo di decidere nel merito il giudizio di opposizione agli atti esecutivi.

La suddetta sentenza è stata impugnata per cassazione dalla Gas Plus Italiana con ricorso fondato su due motivi.

Nessuna delle parti intimate si è difesa.

La causa, già fissata nell’adunanza camerale del __, con ordinanza interlocutoria __ n. __ è stata rimessa alla pubblica udienza, sul presupposto della sua particolare rilevanza nomofilattica.

Motivi della decisione

Col primo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 553, 617 e 618 c.p.c.; nonché della L.F., art. 51.

Nella illustrazione del motivo la ricorrente contesta la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto improcedibile la procedura esecutiva di pignoramento presso terzi (e, di conseguenza, cessata a materia del contendere nel giudizio di opposizione agli atti esecutivi).

La censura viene fondata dalla ricorrente sui seguenti argomenti:

a) la procedura di espropriazione presso terzi termina con la pronuncia dell’ordinanza di assegnazione, a nulla rilevando la pendenza di un giudizio di opposizione agli atti esecutivi (il quale costituisce un ordinario giudizio di cognizione, e non ha l’effetto di protrarre la pendenza della procedura esecutiva);

b) poiché la procedura esecutiva di pignoramento presso terzi si conclude con la pronuncia dell’ordinanza di assegnazione, non può valere a farla rivivere la circostanza che, dopo la pronuncia della suddetta ordinanza, il debitore esecutato sia dichiarato fallito, e ciò quand’anche si volesse aderire all’opinione che ritiene inefficaci i pagamenti eseguiti dal terzo pignorato dopo il fallimento;

c) in ogni caso, il fallimento del debitore esecutato, dichiarato dopo la pronuncia dell’ordinanza di assegnazione, non poteva comportare la caducazione dell’ordinanza di assegnazione, ma solo – a tutto concedere – l’inefficacia dei pagamenti successivi al fallimento;

d) infine, la sentenza impugnata era erronea nella parte in cui aveva ritenuto caducata l’ordinanza di assegnazione anche nella parte in cui aveva disposto l’assegnazione a G. del credito vantato dalla (OMISSIS) nei confronti di C., il quale era rimasto estraneo al giudizio di opposizione agli atti esecutivi.

L’illustrazione del motivo si conclude con l’affermazione che il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere non avrebbe dovuto dichiarare cessata la materia del contendere, ma avrebbe dovuto da un lato rilevare l’avvenuta chiusura della procedura esecutiva presso terzi; e dall’altro decidere nel merito l’opposizione agli atti, a prescindere da qualsiasi valutazione circa l’inefficacia di eventuali pagamenti eseguiti da C. (terzo pignorato) dopo il fallimento della (OMISSIS) (debitore esecutato), dal momento che tale questione non formava oggetto del thema decidendum.

1.1. Il motivo è fondato.

La sentenza impugnata, infatti, contiene effettivamente i due errori di diritto denunciati dalla società ricorrente e cioè l’avere affermato:

a) che nella procedura di espropriazione presso terzi il fallimento del debitore esecutato, dichiarato dopo la pronuncia dell’ordinanza di assegnazione, renda improcedibile la procedura esecutiva;

b) che nella procedura di espropriazione presso terzi il fallimento del debitore esecutato, dichiarato dopo la pronuncia dell’ordinanza di assegnazione, comporti l’inefficacia sopravvenuta di questa.

1.2. La prima delle suddette affermazioni è erronea per le ragioni che seguono.

L’improcedibilità è l’impossibilità giuridica che un procedimento giudiziario prosegua. Improcedibile può dunque essere dichiarato soltanto un procedimento pendente: ma la procedura esecutiva di espropriazione di crediti si esaurisce con la pronuncia dell’ordinanza di assegnazione. Da quel momento, cessando di essere pendente, nemmeno potrà essere dichiarata Improcedibile.

1.3. La procedura esecutiva di espropriazione di crediti presso terzi ha la funzione di soddisfare il creditore non già – come accade nelle altre forme dell’esecuzione forzata – attribuendogli il ricavato di una vendita forzata od assegnandogli una res determinata, ma trasferendo al creditore procedente la titolarità del credito vantato dal debitore nei confronti del terzo.

Questo trasferimento avviene per effetto dell’ordinanza prevista dall’art. 553 c.p.c., e consiste in un mutamento del soggetto attivo dell’obbligazione dovuta dal terzo pignorato.

Se dunque scopo dell’espropriazione di somme di denaro è quello di trasferire un credito dal debitor debitoris al creditore procedente; e se l’ordinanza di assegnazione realizza questo trasferimento, deve concludersi che, con la pronuncia di quella ordinanza, la procedura esecutiva ha raggiunto il suo scopo ed è da quel momento conclusa e definita.

Questi principi sono stati ripetutamente affermati da questa Corte, a partire da Sez. 3, Sentenza n. 1768 del 14/07/1967, Rv. 328631 01 (“l’assegnazione al creditore del credito verso terzi del debitore esecutato (…) importa (…) il trasferimento al creditore del credito pignorato e, quindi, la conclusione dell’espropriazione presso terzi”), fino alla recente decisione pronunciata da Sez. 3 -, Sentenza n. 5489 del 26/02/2019, Rv. 652835 – 01. Nello stesso senso, tra questi due estremi, si sono altresì pronunciate, ex multis, Sez. 3 -, Sentenza n. 13163 del 25/05/2017, Rv. 644407 – 01; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 11660 del 07/06/2016, Rv. 640208 – 01; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 615 del 17/01/2012, Rv. 620956 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 17520 del 23/08/2011, Rv. 619217 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 4505 del 24/02/2011, Rv. 617249 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 25946 dell’1/12/2007, Rv. 600955- 01; Sez. L, Sentenza n. 3138 del 28/06/1989, Rv. 463250 – 01.

Corollario di quanto precede è che l’eventuale proposizione di una opposizione agli atti esecutivi, ex art. 617 c.p.c., avverso l’ordinanza di assegnazione del credito pignorato, di cui all’art. 553 c.p.c., non vale a prorogare o riattivare una espropriazione già esaurita, ma ha il solo effetto di introdurre un ordinario giudizio di cognizione (Sez. 3, Sentenza n. 17520 del 23/08/2011, Rv. 619217 – 01). Soltanto nel caso in cui l’opposizione dovesse essere accolta, in tutto od in parte (ovviamente per motivi attinenti al corretto pregresso svolgimento della procedura esecutiva), potrebbe porsi un problema di reviviscenza della procedura esecutiva.

1.4. Alla conclusione che precede non osta il disposto dell’art. 2928 c.c., secondo il quale il diritto dell’assegnatario verso il debitore si estingue solo con la riscossione del credito assegnato.

Tale previsione, infatti, non ha l’effetto di perpetuare la procedura esecutiva, la cui funzione è già stata assolta mediante l’assegnazione, ma ha solo un effetto di diritto sostanziale, cioè attribuire all’assegnazione del credito pignorato l’effetto di un trasferimento con efficacia pro solvendo. Tale effetto fu voluto dal legislatore a maggior tutela del creditore, consistente nel garantire al creditore che, in caso di mancata riscossione, potrà intraprendere un nuovo procedimento esecutivo in base al medesimo titolo (Sez. 3, Sentenza n. 26036 del 29/11/2005, Rv. 585719 – 01; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 11660 del 07/06/2016, Rv. 640208 – 01).

1.5. Nemmeno è ostativa alla conclusione che precede la circostanza che il debitore esecutato sia stato dichiarato fallito dopo la pronuncia dell’ordinanza di assegnazione e, per di più, nelle more del giudizio di opposizione agli atti esecutivi.

Il suddetto fallimento, infatti, non rende ipso iure improcedibile né la procedura esecutiva, né il giudizio di opposizione agli atti esecutivi proposto dal terzo pignorato contro l’ordinanza di assegnazione.

Quanto alla procedura esecutiva, s’è già detto che essa si conclude con l’adozione dell’ordinanza di assegnazione e che non può predicarsi l’improcedibilità di un procedimento già concluso.

Un problema di procedibilità potrebbe porsi soltanto secundum eventum del giudizio di opposizione, ove questa fosse accolta.

Quanto al giudizio di opposizione agli atti ex art. 617 c.p.c. avverso l’ordinanza di assegnazione, neppure di esso il fallimento del debitore esecutato provoca l’improcedibilità. Il suddetto giudizio, infatti, investe la regolarità di un atto del procedimento esecutivo e non ha ad oggetto pretese verso il fallimento, nemmeno nel caso in cui (nei giudizi soggetti ratione temporis al regime introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 20, n. 4) l’opposizione avesse ad oggetto il subprocedimento di accertamento del credito dell’esecutato verso il terzo.

In tal caso, infatti, l’opposizione avrebbe ad oggetto l’accertamento dell’esistenza d’una ragione di credito del fallimento, e non di un debito del fallimento; con la conseguenza che il relativo giudizio sfugge al divieto di azioni esecutive individuali di cui alla L.F., art. 51, né, d’altro canto, l’interesse del creditore all’accertamento dell’obbligo del terzo viene meno per effetto del fallimento del debitore (così già Sez. 3 -, Ordinanza n. 9624 del 19/04/2018, Rv. 648425 – 01, in motivazione).

1.6. Nei termini che precedono deve ritenersi superato il precedente di questa Corte pronunciato da Sez. 1, Sentenza n. 6968 del 06/07/1999, Rv. 528319 – 01, come s’è detto invocato dal Tribunale a fondamento della propria decisione.

Ritiene infatti questo Collegio che la motivazione su cui poggia il suddetto precedente non possa ulteriormente essere condivisa.

In quel caso, il debitore esecutato aveva proposto opposizione agli atti esecutivi avverso l’ordinanza di assegnazione del credito, deducendo vizi formali.

Sopravvenuto il fallimento del debitore nelle more del giudizio di opposizione, la curatela intervenne in causa, eccependo l’improcedibilità dell’esecuzione, ai sensi della L.F., art. 51, e sostenendo che tale norma sarebbe applicabile al giudizio di opposizione agli atti esecutivi in quanto l’esecuzione non si conclude con l’assegnazione, che viene disposta pro solvendo ai sensi dell’art. 553 c.p.c., ma con l’effettivo pagamento delle somme.

La sentenza di questa Corte 6968/99 ritenne fondata tale censura, sulla base di tre argomenti così riassumibili:

a) sino a quando non sia avvenuta la distribuzione delle somme ai creditori, la procedura esecutiva non può considerarsi definita ai fini in esame, non essendo sufficiente il mero provvedimento di assegnazione che, pur determinando il trasferimento del credito pignorato dal debitore esecutato al suo creditore, non importa l’immediata liberazione del debitore;

b) la L.F., art. 44, comma 1, prevede che tutti i pagamenti eseguiti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori, e tale regola non può venir meno per il fatto che il pagamento avvenga in esecuzione d’una ordinanza di assegnazione;

c) la pendenza del giudizio di opposizione, sia pure agli atti esecutivi, non consente di considerare esaurito il procedimento di esecuzione, ripercuotendosi la decisione proprio su tale procedimento attraverso la verifica della regolarità dei singoli atti, oggetto dell’opposizione.

1.6.1. Al primo di tali argomenti sembra tuttavia agevole replicare che esso sovrappone due piani da tenere distinti: quello degli effetti dell’ordinanza di assegnazione e quello degli effetti del pagamento.

L’ordinanza di assegnazione impone una cessione coattiva del credito e conclude l’esecuzione. Il pagamento invece non è un atto dell’esecuzione, ma un negozio giuridico. Il terzo assegnato che adempia il proprio debito nelle mani del creditore assegnatario non compie un atto dell’esecuzione, ma adempie una obbligazione che preesisteva all’esecuzione stessa. E se dunque il pagamento è un atto “esterno” all’esecuzione per espropriazione di crediti, non può ammettersi che resti pendente questa, fino a che non sia eseguito quello.

1.6.2. Al secondo degli argomenti spesi dalla Cass. 6968/99 a sostegno della tesi qui confutata (e cioè la sanzione di inefficacia prevista dalla L.F., art. 44) è agevole replicare che esso non è pertinente rispetto alla soluzione del problema qui in esame.

Altro, infatti, è stabilire se il fallimento del debitore esecutato comporti ope legis la caducazione dell’ordinanza di assegnazione; ben altro è stabilire se il pagamento effettuato in esecuzione di quella ordinanza sia efficace o meno, ai sensi della L.F., art. 44. Il pagamento eseguito in ottemperanza all’ordinanza di assegnazione prima del fallimento verrebbe comunque travolto dall’accoglimento dell’opposizione; così come, all’opposto, anche se l’ordinanza d’assegnazione fosse eseguita dopo il fallimento, il creditore potrebbe conservare interesse a coltivare il giudizio di opposizione agli atti esecutivi, al fine di conservare un titolo da far valere nei confronti del fallito, se tornasse in bonis.

1.6.3. Al terzo degli argomenti spesi dalla Cass. 6968/99 a sostegno della tesi qui confutata (l’esecuzione pende fino a quando pende l’opposizione), infine, è agevole replicare che, quale che fosse la condivisibilità di tale argomento all’epoca in cui venne speso (nel caso deciso da Cass. 6968/99 l’ordinanza di assegnazione venne adottata il 10.1.1996), essa oggi, non solo contrasta col consolidato orientamento di questa Corte già in precedenza richiamato, ma comunque non è più coerente con la netta dicotomia introdotta dal legislatore tra il giudizio di esecuzione e quello di opposizione.

1.7. In conclusione, ha errato il giudice di merito nel dichiarare improcedibile una procedura esecutiva che, per quanto detto, doveva ritenersi già conclusa, senza esaminare nel merito il contenuto dell’opposizione agli atti esecutivi.

1.8. Il secondo errore commesso dal Tribunale è consistito nel dichiarare caducata l’ordinanza di assegnazione del __.

L’ordinanza di assegnazione, infatti, in primo luogo non perse la propria efficacia per effetto dell’improcedibilità dell’esecuzione giacché, per quanto detto, non poteva dichiararsi improcedibile una esecuzione già conclusa.

Né la caducazione degli effetti dell’ordinanza di assegnazione poteva farsi discendere ipso iure dalla sopravvenuta dichiarazione di fallimento del debitore esecutato.

Come già detto, infatti, l’ordinanza di cui all’art. 553 c.p.c. ha lo scopo di produrre una cessione coattiva del credito e dunque di mutarne il soggetto attivo. Si tratta d’un atto che se adottato, come nel caso di specie, prima del fallimento, non risente degli effetti di quest’ultimo, perché non costituisce un pagamento.

Soltanto se e quando il terzo pignorato, dopo la dichiarazione di fallimento del debitore esecutato, dovesse adempiere la propria obbligazione nelle mani del creditore assegnatario, potrà eventualmente sorgere il problema di stabilire se tale pagamento sia efficace, ai sensi della L.F., art. 44: problema che, tuttavia, non ha formato oggetto della sentenza impugnata, né del ricorso per cassazione; e per risolvere il quale non vi è necessità di ipotizzare, insostenibilmente, che sopravvenuta la dichiarazione di fallimento del terzo debitore, perda efficacia l’ordinanza di assegnazione.

Infatti l’opposizione agli atti esecutivi intrapresa contro l’ordinanza di assegnazione per vizi suoi propri (o comunque per errores in procedendo che infirmano la procedura esecutiva) non risente in via diretta della dichiarazione di fallimento del debitore, se non in relazione alla disciplina sull’interruzione del giudizio, ove in concreto applicabile; mentre esula dal suo ambito e dal suo oggetto ogni vicenda successiva all’assegnazione, ivi compresa l’eventuale esecuzione coattiva della relativa ordinanza e perfino il pagamento in base ad essa, solo il secondo dei quali essendo attinto dall’inefficacia dei pagamenti successivi alla dichiarazione di fallimento, da far valere con le ordinarie azioni accordate a tal fine agli organi della massa.

1.9. La sentenza impugnata va dunque cassata su questo punto con rinvio al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, in persona di diverso giudicante, il quale, infine provvedendo anche sulle spese del presente giudizio di legittimità, riesaminerà l’opposizione agli atti proposta dal Comune di Calvi Risorta applicando il seguente principio di diritto: nell’espropriazione presso terzi di crediti il fallimento del debitore esecutato, dichiarato dopo la pronuncia dell’ordinanza di assegnazione di cui all’art. 553 c.p.c., e nelle more del giudizio di opposizione agli atti esecutivi contro di essa proposto dal terzo pignorato, non comporta né la caducazione dell’ordinanza di assegnazione, né la cessazione ipso iure della materia del contendere nel giudizio di opposizione; non spetta al giudice dell’opposizione stabilire se gli eventuali pagamenti compiuti dal terzo pignorato in esecuzione dell’ordinanza di assegnazione siano o meno efficaci, ai sensi della L.F., art. 44, in considerazione del momento in cui vennero effettuati.

  1. Col secondo motivo la società ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 24 Cost., artt. 101, 183 e 190 c.p.c. Lamenta la nullità del procedimento, per non esserle stati concessi i termini di cui all’art. 183 c.p.c., formalmente richiesti.

2.1. Il motivo resta assorbito dall’accoglimento del primo.

Esso, lo si rileva ad abundantiam, sarebbe stato comunque fondato, dal momento che il giudice di merito non dispone di alcuna discrezionalità in merito alla richiesta di concessione dei termini di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6.

  1. Le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio.

P.Q.M.

la Corte di cassazione accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Santa Maria Capua Vetere, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo Presidente del collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a).

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Terza civile della Corte di cassazione, il 21 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 giugno 2020.

Cass. civ. Sez. III 05_06_2020 n. 10820




Notificazione del ricorso per dichiarazione di fallimento

Notificazione del ricorso per dichiarazione di fallimento

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 10511 del 03/06/2020

Con ordinanza del 3 giugno 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che in materia di notificazione del ricorso per dichiarazione di fallimento, ai sensi dell’art. 15 della legge fallimentare (R.D. n. 267 del 1942), una volta che la notificazione a cura della cancelleria all’indirizzo di posta elettronica certificata del debitore sia risultata impossibile o non abbia avuto esito positivo, l’onere della notificazione ricade definitivamente sul ricorrente, sicché, ove sia stata disposta la rinnovazione della notificazione da questi eseguita, essa è effettuata a cura del ricorrente medesimo, senza che debba essere preceduta da un nuovo tentativo di notificazione a cura della cancelleria all’indirizzo di posta elettronica certificata del debitore.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 10511 del 03/06/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

(OMISSIS) S.r.l. in Liquidazione – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. in Liquidazione ed I. S.p.a. – intimati –

avverso l’ordinanza n. __ della Corte Suprema di Cassazione di Roma, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal cons. Dott. __.

Svolgimento del processo

  1. – (OMISSIS) S.r.l. in liquidazione ricorre per revocazione, ai sensi del combinato disposto dell’art. 391 bis c.p.c. e art. 395 c.p.c., n. 4, nei confronti di Fallimento (OMISSIS) S.r.l. in liquidazione nonché I. S.p.A., contro l’ordinanza di questa Corte del __, numero __, dichiarativa dell’inammissibilità del ricorso avverso sentenza della Corte d’Appello di Roma di rigetto del reclamo alla sentenza di fallimento.
  2. – Gli intimati non svolgono difese.

Motivi della decisione

  1. – Il ricorso denuncia l’errore revocatorio in cui la Corte di cassazione sarebbe incorsa, nell’ordinanza revocanda, per aver omesso di pronunciare su uno dei due motivi posti a sostegno della pregressa impugnazione, entrambi concernenti la validità della notificazione del ricorso per dichiarazione di fallimento:

– il primo motivo (esaminato) secondo cui alla L.F., art. 15 non si applicherebbe alle società cancellate, quale (OMISSIS) S.r.l. in liquidazione;

– il secondo motivo (la ricorrente assume non esaminato) in forza del quale, anche ad ammettere l’applicabilità alle società cancellate del congegno previsto da detta norma, la notificazione sarebbe stata in ogni caso viziata perché, dopo un primo tentativo, preceduto dalla fase destinata a svolgersi a cura della cancelleria, mediante notificazione via PEC, era stato effettuato un secondo tentativo, su ordine di rinnovazione disposto dal giudice, perfezionatosi mediante deposito nella casa comunale, senza, tuttavia, che tale notificazione in rinnovazione fosse stata preceduta dalla notificazione via PEC da parte della cancelleria.

  1. – Il ricorso è inammissibile.

Come ricorda la stessa società ricorrente, nel ricorso per revocazione, l’omesso esame di un motivo di ricorso per cassazione intanto configura un errore di fatto revocatorio, in quanto consista in un errore di percezione, in una svista sull’effettiva formulazione del motivo (Cass. 31 agosto 2017, n. 20635), essendo esclusa dall’area degli errori revocatori la sindacabilità di errori di giudizio.

L’errore di percezione in questo caso non sussiste, giacché emerge dall’ordinanza numero 26277 del 2016 che, nell’occasione, la Corte di cassazione si è espressamente rappresentata la formulazione non di uno, bensì di due motivi (si veda in particolare l’ultimo capoverso dei fatti di causa, a pag. 3 dell’ordinanza) entrambi concernenti vizi della notifica del ricorso L.F., ex art. 15.

  1. – Attesa l’inammissibilità del ricorso, va affermato nell’interesse della legge il principio di diritto di cui si dirà, ai sensi dell’art. 363 c.p.c..

Nel caso di specie è accaduto quanto segue:

– depositato il ricorso per dichiarazione di fallimento ed adottato il decreto di convocazione del debitore, la cancelleria ha tentato senza successo la notificazione via PEC del ricorso e del decreto, sicché alla notificazione ha poi provveduto il creditore istante, ma senza l’osservanza dei termini a comparire;

– il Tribunale, all’udienza del __, ha autorizzato la rinnovazione della notificazione, fissando una nuova udienza;

– l’ufficiale giudiziario incaricato della notificazione in rinnovazione ha tentato senza successo la notificazione presso la ex sede della società e poi ha notificato mediante deposito presso la casa comunale.

Ciò detto, bisogna rammentare che la L.F., art. 15, comma 3, stabilisce, per quanto rileva, che: “Il ricorso e il decreto devono essere notificati, a cura della cancelleria, all’indirizzo di posta elettronica certificata del debitore… L’esito della comunicazione è trasmesso, con modalità automatica, all’indirizzo di posta elettronica certificata del ricorrente. Quando, per qualsiasi ragione, la notificazione non risulta possibile o non ha esito positivo, la notifica, a cura del ricorrente, del ricorso e del decreto si esegue esclusivamente di persona… presso la sede risultante dal registro delle imprese. Quando la notificazione non può essere compiuta con queste modalità, si esegue con il deposito dell’atto nella casa comunale”.

Secondo la ricorrente, in caso di disposta rinnovazione della notificazione, occorrerebbe procedere nuovamente, anzitutto, al tentativo da parte della cancelleria a mezzo PEC, e solo in caso di nuovo esito negativo potrebbe darsi corso alla successiva fase di notificazione ad iniziativa del ricorrente.

Al quesito, in effetti, l’ordinanza impugnata per revocazione non ha dato espressa risposta, limitandosi a richiamare la motivazione di una decisione di questa stessa Corte, secondo cui “a fronte della non utile attivazione di tale primo meccanismo segue la notificazione presso la sede legale dell’impresa…; in caso di esito negativo di tale duplice meccanismo di notifica, il deposito dell’atto introduttivo… presso la casa comunale”.

Vale allora qui osservare che la tesi della società ricorrente è priva di base normativa, ed anzi contrasta con la lettera della previsione poc’anzi trascritta.

Il D.L. n. 179 del 2012, come convertito, intervenuto sul citato art. 15, ha attenuato il meccanismo che in precedenza faceva gravare sull’istante l’onere di instaurazione del contraddittorio, ponendolo, in prima battuta, a carico dell’ufficio giudiziario, dovendo la cancelleria notificare il ricorso e decreto all’indirizzo di posta certificata del debitore risultante dal registro delle imprese ovvero dall’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti, con la precisazione che l’esito della comunicazione è trasmesso all’indirizzo di posta elettronica certificata del ricorrente.

Ma il compito della cancelleria, con riguardo alla notificazione, qui cessa: la norma, difatti, fa discendere dall’impossibilità ed anche dal mero insuccesso della notificazione via PEC il concretizzarsi, ormai definitivo, a carico del creditore istante, sia pure soltanto in seconda battuta, dell’onere degli adempimenti finalizzati all’instaurazione del contraddittorio attraverso una formalità, a fini garantistici, particolarmente rigorosa, quale l’esecuzione della notificazione esclusivamente di persona (e non a mezzo del servizio postale) a norma dell’art. 107, comma 1 dell’Ordinamento degli ufficiali giudiziari, presso la sede risultante dal registro delle imprese. In via residuale, poi, è prevista una disposizione di chiusura, che contempla il deposito dell’atto nella casa comunale.

Una volta che per qualsiasi ragione il giudice disponga la rinnovazione della notificazione, cioè, il dato letterale non consente di ritenere che il congegno debba regredire alla fase in cui la notificazione è affidata alla cancelleria: ove la notificazione via PEC a cura di cancelleria non sia risultata possibile o non abbia avuto esito positivo, essa è affidata alla cura del creditore istante. È quest’ultimo che deve notificare, e nulla rileva che vi riesca subito, o in sede di rinnovazione.

Il principio di diritto è dunque il seguente: “In materia di notificazione del ricorso per dichiarazione di fallimento, ai sensi della L.F., art. 15, una volta che la notificazione a cura della cancelleria all’indirizzo di posta elettronica certificata del debitore sia risultata impossibile o non abbia avuto esito positivo, l’onere della notificazione ricade definitivamente sul ricorrente, sicché, ove sia stata disposta la rinnovazione della notificazione da questi eseguita, essa è effettuata a cura del ricorrente medesimo, senza che debba essere preceduta da un nuovo tentativo di notificazione a cura della cancelleria all’indirizzo di posta elettronica certificata del debitore”.

  1. – Nulla per le spese. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato se dovuto.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso ed enuncia il principio di diritto nell’interesse della legge ex art. 363 c.p.c., dando atto ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, che sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 4 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2020.

Cass. civ. Sez. I Ord. 03_06_2020 n. 10511




Legge fallimentare e trasformazione regressiva di una società di capitali in società semplice

Legge fallimentare e trasformazione regressiva di una società di capitali in società semplice

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 10302 del 29/05/2020

Con ordinanza del 29 maggio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che a fronte della trasformazione regressiva di una società di capitali in società semplice, con conseguente cancellazione della società trasformata dal registro delle imprese e di iscrizione di quella derivata dalla trasformazione nell’apposito registro speciale, la decorrenza del termine annuale di cui all’art. 10 della legge fallimentare (R.D. n. 267 del 1942) va calcolato dalla detta cancellazione, con conseguente iscrizione nel registro speciale di cui all’art. 2 del D.P.R. n. 558 del 1999.

 


Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 10302 del 29/05/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

(OMISSIS) S.s. – ricorrente –

contro

F. S.r.l., e per essa quale mandataria D. S.p.A. – denominazione assunta da U. S.p.A. – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della Corte d’Appello di Firenze, pubblicata il __;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del __ dal Cons. Dott. __;

lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha chiesto il rigetto del ricorso, con le conseguenze di legge.

Svolgimento del processo

  1. – (OMISSIS) società semplice ricorre per un mezzo, nei confronti del Fallimento (OMISSIS) società semplice nonché di D. S.p.A., quale mandataria di F. S.r.l., contro la sentenza del __ con cui la Corte d’Appello di Firenze ha respinto il reclamo avverso la sentenza dichiarativa del fallimento.

La Corte territoriale, in particolare, nel replicare al motivo di reclamo della società fallita, la quale aveva tra l’altro evidenziato di essere stata cancellata dal registro delle imprese prima dell’anno calcolato a ritroso dalla dichiarazione di fallimento, ha osservato che, per contro, “non si è verificata la cancellazione dal registro delle imprese di cui alla L.F., art. 10, ma solo la trasformazione del tipo di società (da società a responsabilità limitata a società semplice) e oltretutto non essendovi stata l’estinzione della società, evidente presupposto della norma richiamata, visto che la società, come trasformata, si è iscritta altrove, secondo la produzione della stessa reclamante”.

  1. – F. S.r.l. ha resistito con controricorso, mentre il Fallimento non ha spiegato difese.
  2. – Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione

  1. – L’unico motivo di ricorso denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione della L.F., art. 10, comma 1, unitamente agli artt. 2188, 2195, 2196 c.c., L. n. 580 del 1993, art. 8 e D.P.R. n. 558 del 1999, art. 2, nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto irrilevante, ai fini dell’operatività del termine di cui al citato art. 10, l’avvenuta cancellazione da oltre un anno della società dalla sezione ordinaria del registro delle imprese, escludendo tale operatività in virtù della successiva permanenza dell’iscrizione della società nella sola sezione speciale del suddetto registro.
  2. – Il ricorso va accolto.

2.1. – Occorre premettere in fatto che in data __ è stata iscritta nel registro delle imprese la trasformazione di (OMISSIS) S.r.l. in società semplice, a seguito della modificazione dell’oggetto sociale in “attività di gestione del patrimonio immobiliare ai fini del mero godimento dello stesso senza alcuna caratteristica di imprenditorialità”, con conseguente cancellazione della società dalla sezione ordinaria del registro ed iscrizione nella sezione cosiddetta speciale di cui alla L. n. 580 del 1993, art. 8 ed al D.P.R. n. 558 del 1999, art. 2.

E deve aggiungersi che la società afferma di avere, a far data dalla trasformazione, effettivamente cessato ogni attività imprenditoriale, affermazione, questa, che non trova smentita nella sentenza impugnata, la quale non si è per nulla soffermata sul punto, mentre appare essere contrastata nel controricorso, ove si sottolinea, riguardo alla trasformazione, “la natura meramente fittizia di una simile dichiarazione di intento, volta piuttosto a conseguire i benefici fiscali e civilistici legati alla dichiarata natura non commerciale della società, che a rappresentare la reale situazione di fatto”.

Dopodiché, il fallimento è stato dichiarato con sentenza del __, ossia dopo il decorso di un anno dall’iscrizione della trasformazione e conseguente cancellazione dalla sezione ordinaria del registro delle imprese e contestuale emigrazione in quella speciale.

2.2. – Si tratta dunque di stabilire quali effetti determini la trasformazione regressiva da società a responsabilità limitata a società semplice, con conseguente cancellazione dal registro delle imprese ed iscrizione nel registro speciale, sempre – come si dirà -che l’apparenza della trasformazione coincida con la sua sostanza, per i fini dell’applicazione della L.F., art. 10, comma 1, secondo cui: “Gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo”.

2.3. – Vale osservare che il previgente art. 2498 c.c., disciplinava il passaggio da società in nome collettivo e da accomandita semplice in società di capitali, mentre il legislatore non contemplava l’operazione inversa di trasformazione da società di capitali a società di persone: trasformazione che, però, in generale, era pacificamente ritenuta ammissibile.

Si discuteva, tuttavia, in particolare, dell’ammissibilità della trasformazione da e in società semplice, trasformazione talora esclusa, in dottrina, essenzialmente per due ragioni: l’assenza, allora, di un regime di pubblicità e la peculiare tutela dei creditori particolari che, con la variazione del tipo, non avrebbero potuto agire per la liquidazione della quota.

All’attualità, viceversa, non è lecito dubitare dell’ammissibilità di detta trasformazione, perché l’art. 2500 sexies c.c., contempla in generale la trasformazione da società di capitali in società di persone. Nell’ambito delle trasformazioni omogenee regressive, è perciò ammessa la trasformazione in società semplice, sempre che sia osservato il limite operativo di cui all’art. 2249 c.c.: e, cioè, la società semplice risultante dall’operazione deve necessariamente esercitare attività non commerciale. L’operazione di trasformazione darà cioè luogo al mutamento di destinazione del complesso aziendale, da commerciale a non commerciale.

2.4. – Posto che una società a responsabilità limitata può dunque trasformarsi in una società semplice, occorre chiedersi se il fenomeno di detta trasformazione, che per definizione non determina l’estinzione della società, come subito meglio si dirà, faccia nondimeno scattare il congegno previsto dall’art. 10 citato.

È cosa nota, difatti, che, nella giurisprudenza di questa Corte, la trasformazione di una società da un tipo ad un altro previsto dalla legge, sebbene connotato da personalità giuridica, non si traduce nell’estinzione del soggetto trasformato e nella creazione di un nuovo soggetto in luogo del precedente, ma configura una vicenda meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto, la quale comporta soltanto una variazione di assetto e di struttura organizzativa, senza incidere sui rapporti processuali e sostanziali che fanno capo all’originaria organizzazione societaria (p. es. tra le molte Cass. 14 dicembre 2006, n. 26826, in fattispecie in cui nell’atto introduttivo dell’impugnazione era stata indicata come parte istante la società anteriore alla trasformazione, circostanza ritenuta perciò ininfluente; Cass. 23 aprile 2007, n. 9569, attinente a vicenda tributaria, in caso di trasformazione regressiva da società di capitali in società semplice, ove si precisa che, essendo rimasta ferma l’identità e l’integrità dell’impresa commerciale già gestita nella forma precedente, la nuova società doveva qualificarsi come irregolare, ancorché nel relativo atto fosse stata qualificata semplice; Cass. 10 febbraio 2009, n. 3269, in caso di cartella di pagamento indirizzata alla società con la denominazione anteriore alla trasformazione; Cass. 27 ottobre 2010, n. 21961, la quale esclude che la società di persone risultante dalla trasformazione possa rivendicare la qualità di terzo acquirente ai fini di quanto previsto dall’art. 2652, n. 6, c.c.; Cass. 20 giugno 2011, n. 13467, in tema di indicazione nell’atto introduttivo del giudizio come parte istante la società anteriore alla trasformazione; Cass. 19 maggio 2016, n. 10332, in caso di trasformazione di una S.n.c. in S.a.s., in caso di liquidazione della quota agli eredi del socio deceduto; Cass. 9 ottobre 2017, n. 23575, in fattispecie in parte analoga a quella in esame di trasformazione di una S.p.a. in società semplice, ma con la decisiva differenza che in quel caso la società semplice svolgeva attività di impresa (avendo assunto il ruolo di direzione e coordinamento di un gruppo imprenditoriale); Cass. 19 giugno 2019, n. 16511, su cui si tornerà, secondo cui la trasformazione di una S.r.l. in comunione d’azienda non preclude il fallimento; viceversa, in diversa fattispecie, secondo Cass. 14 gennaio 2015, n. 496, non ricorre un fenomeno di trasformazione, ma si ha soluzione di continuità, nel caso di recesso di un socio da una società in nome collettivo composta da due soli soci, qualora quello superstite non abbia ricostituito la pluralità della compagine sociale decidendo al contempo di continuare l’attività come imprenditore individuale, il che dà luogo ad una successione tra soggetti distinti).

In definitiva, la trasformazione si qualifica per una decisiva caratteristica, ossia l’effetto della continuità dei rapporti giuridici; l’art. 2498 c.c., è chiaro nel prevedere che con la “trasformazione l’ente trasformato conserva i diritti e gli obblighi e prosegue in tutti i rapporti anche processuali dell’ente che ha effettuato la trasformazione”. La norma, posta in apertura del capo dedicato alla trasformazione, fusione e scissione, adotta – va sottolineato – il vocabolo neutro ente, riferendosi al soggetto trasformato, di guisa che l’esclusione di soluzione di continuità, e dunque la conservazione dei diritti ed obblighi, ricorre non soltanto nell’ipotesi in cui una società si trasformi in una società di un diverso tipo, ma in qualunque ipotesi di trasformazione.

Ora, il rilievo, indiscutibile, che la trasformazione societaria non determini l’estinzione del soggetto trasformato e la creazione di un nuovo soggetto, non è però risolutiva, per i fini dell’applicazione della L.F., art. 10, giacché la cospicua dilatazione del fenomeno della trasformazione, nell’attuale assetto normativo, che contempla non solo la trasformazione progressiva, ma anche quella regressiva, ivi compresa quella da società di capitali a società semplice, ed inoltre la trasformazione eterogenea, p. es. da e in comunione di azienda, comporta un fenomeno in passato sostanzialmente sconosciuto, ossia che, pur senza soluzione di continuità, un soggetto imprenditore possa trasformarsi in un soggetto non imprenditore: circostanza, questa, evidentemente non indifferente in vista dell’applicazione della disciplina fallimentare, per l’ovvia considerazione che, ai sensi della L.F., art. 1, sono soggetti alle disposizioni sul fallimento gli imprenditori che esercitano una attività commerciale e non coloro che imprenditori non siano.

Non risponde insomma più al vero, ormai, l’affermazione, in passato comunemente accolta, prima di Corte Cost. 21 luglio 2000, n. 319, in riferimento alla L.F., art. 10, secondo cui occorreva prendere atto che, mentre per l’imprenditore individuale, al quale come persona fisica fanno capo attività imprenditoriali, esse possono venir meno senza che venga meno la persona fisica, per l’imprenditore collettivo la fine dell’impresa non può non coincidere con la fine del soggetto, in quanto quest’ultimo esiste solo in funzione dell’attività che esercita e quindi fintantoché la svolge.

2.5. – Questa Corte ha recentemente avuto modo di osservare che la L.F., art. 10, nel fissare il limite temporale massimo entro cui la dichiarazione di fallimento può intervenire, mira allo scopo di non estendere all’infinito gli effetti di una attività di impresa non più attuale (Cass. 19 giugno 2019, n. 16511). Al che si aggiunge, ovviamente, l’ulteriore ratio consistente nell’esigenza di tutelare i creditori, ai quali è dato lo spazio temporale dell’anno, da iniziative unilaterali, ipoteticamente arbitrarie, da parte del debitore in ordine alla cessazione dell’impresa. E cioè la L.F., art. 10, che ammette la fallibilità dell’impresa cessata, mira: a) ad evitare che la condotta del debitore possa vanificare le aspettative dei creditori provocando, con la dissoluzione dell’impresa, quella della loro garanzia; b) ad evitare un’indefinita incertezza in ordine alla stabilità dei rapporti giuridici coinvolti.

In particolare la cancellazione dal registro delle imprese, cui si riferisce della L.F., art. 10, comma 1, che riguarda sia gli imprenditori individuali che collettivi, è il riflesso della cessazione dell’attività di impresa. Sicché, come pure è stato di recente osservato, l’applicazione della disciplina normativa dettata dalla L.F., art. 10, presuppone l’intervento di un fenomeno estintivo dell’impresa ovvero della compagine sociale attinta dall’istanza di fallimento nei limiti temporali previsti dalla norma in esame, con effetti successori che investono il patrimonio dell’ente e la relativa legittimazione sostanziale e processuale di quest’ultimo (Cass. 19 giugno 2019, n. 16511).

In definitiva, ciò che fa scattare il decorso dell’anno, per gli imprenditori collettivi, è sì la cancellazione del registro delle imprese, ma quale riflesso della cessazione dell’impresa, quale che ne sia la ragione: e difatti, per converso, se vi è la cancellazione, ma l’attività prosegue, e fintanto che prosegue, il termine non corre affatto, come nell’ipotesi del trasferimento della società all’estero (Cass., Sez. Un., 11 marzo 2013, n. 5945).

2.6. – L’art. 2188 c.c. istituisce il registro delle imprese per le iscrizioni previste dalla legge, mentre l’art. 2193 c.c., stabilisce che i fatti dei quali la legge prescrive l’iscrizione, se non sono stati iscritti, non possono essere opposti ai terzi da chi è obbligato a richiederne l’iscrizione, a meno che questi provi che i terzi che abbiano avuto conoscenza; per converso l’ignoranza dei fatti dei quali la legge prescrive l’iscrizione non può essere opposta dai terzi dal momento in cui l’iscrizione è avvenuta.

Sono soggetti all’obbligo dell’iscrizione nel registro delle imprese, ai sensi dell’art. 2195 c.c., gli imprenditori commerciali che esercitano le attività ivi indicate, attività tra le quali non ricorrono quelle riservate alle società semplici, che hanno necessariamente ad oggetto un’attività non commerciale (art. 2249 c.c., comma 2).

Dunque le società semplici non sono soggette all’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, sezione ordinaria, di cui all’art. 2188 c.c. (quantunque il D.Lgs. n. 228 del 2001, art. 2, rubricato “Iscrizione al registro delle imprese”, stabilisca che “L’iscrizione degli imprenditori agricoli, dei coltivatori diretti e delle società semplici esercenti attività agricola nella sezione speciale del registro delle imprese di cui all’art. 2188 c.c. e segg., oltre alle funzioni di certificazione anagrafica ed a quelle previste dalle leggi speciali, ha l’efficacia di cui all’art. 2193 c.c.”).

La L. 29 dicembre 1993, n. 580, art. 8, istituisce presso la camera di commercio l’ufficio del registro delle imprese di cui all’art. 2188 c.c.. L’ufficio “provvede alla tenuta del registro delle imprese in conformità agli artt. 2188 c.c. e segg., nonché alle disposizioni della presente legge e al regolamento di cui al comma 6 bis del presente articolo…” (comma 3). L’iscrizione nelle sezioni speciali – questo l’aspetto come subito si aggiungerà rilevante per le società semplici – ha funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia (comma 5).

Il regolamento cui si riferisce la norma è stato dettato con D.P.R. 14 novembre 1999, n. 558, il quale, all’art. 2, sotto la rubrica “Iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese”, stabilisce al comma 1, prima parte, che “Sono iscritti in una sezione speciale del registro delle imprese gli imprenditori agricoli di cui all’art. 2135 c.c., i piccoli imprenditori di cui all’art. 2083 c.c. e le società semplici”.

Ora, è ben vero che detta sezione speciale è anch’essa parte, sia pure ancillare, del registro delle imprese: ma è altrettanto evidente che la L.F., art. 10, laddove menziona la “cancellazione dal registro delle imprese”, prende in considerazione il registro di cui all’art. 2188 c.c., al quale devono essere iscritti gli imprenditori commerciali: e ciò per l’ovvia ragione che la norma si riferisce ad imprenditori.

2.7. – Ne deriva che, in ipotesi di trasformazione regressiva di una società di capitali in società semplice, con conseguente cancellazione della società trasformata dal registro delle imprese e di iscrizione di quella derivata dalla trasformazione nell’apposito registro speciale, la decorrenza del termine annuale di cui alla L.F., art. 10, va calcolato dalla detta cancellazione, con conseguente iscrizione nel registro speciale di cui del D.P.R. 14 novembre 1999, n. 558, art. 2.

2.8. – Bisogna però ribadire che, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, ove la società semplice derivante dalla trasformazione regressiva prosegua in realtà nell’attività di impresa (ed insomma ove la trasformazione non sia che un espediente finalizzato a sottrarsi alla fallibilità), essa assume, per i fini in discorso, le vesti della società irregolare (Cass. 28 aprile 1999, n. 4270; Cass. 23 aprile 2007, n. 9569), intendendosi per tale, ai fini del decorso del termine in questione (e senza che ciò implichi, qui, una presa di posizione sull’atteggiarsi del fenomeno nel suo complesso), non solo la società per la quale non siano stati ab origine osservati gli adempimenti di carattere pubblicitario previsti dal legislatore (v. già Cass. 8 marzo 1963, n. 569), ma anche la società regolarmente iscritta che divenga irregolare in un momento successivo (irregolarità c.d. sopravvenuta), a seguito della cancellazione dal registro delle imprese, con continuazione dell’esercizio della propria attività.

In simile frangente, va dunque fatta applicazione del principio, formatosi con riguardo al tema dell’applicabilità del termine annuale alle società non iscritte nel registro delle imprese, che impone sì l’applicazione del termine menzionato, ma dal momento in cui l’effettiva, e non fittizia, cessazione dell’attività venga palesata all’esterno.

In tal senso è stato affermato che, in tema di fallimento, il principio, emergente dalla sentenza 21 luglio 2000, n. 319 e dalle ordinanze 7 novembre 2001, n. 361 ed 11 aprile 2002, n. 131 della Corte costituzionale, secondo cui il termine di un anno dalla cessazione dell’attività, prescritto dalla L. F., art. 10, ai fini della dichiarazione di fallimento, decorre, tanto per gli imprenditori individuali quanto per quelli collettivi, dalla cancellazione dal registro delle imprese, anziché dalla definizione dei rapporti passivi, non esclude l’applicabilità del predetto termine anche alle società non iscritte nel registro delle imprese, nei confronti delle quali il necessario bilanciamento tra le opposte esigenze di tutela dei creditori e di certezza delle situazioni giuridiche impone d’individuare il dies a quo nel momento in cui la cessazione dell’attività sia stata portata a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, o comunque sia stata dagli stessi conosciuta, anche in relazione ai segni esteriori attraverso i quali si è manifestata (Cass. 28 agosto 2006, n. 18618; Cass. 13 marzo 2009, n. 6199; per l’applicabilità del termine annuale alle società non iscritte, a far data dal momento in cui la cessazione dell’attività è resa nota ai terzi, v. pure Cass. 25 luglio 2016, n. 15346; Cass. 8 novembre 2013, n. 25217).

  1. – La sentenza è cassata e rinviata alla Corte d’Appello di Firenze in diversa composizione, la quale si atterrà ai principi dianzi richiamati e provvederà anche sulle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte d’appello di Firenze in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 4 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2020.

Cass. civ. Sez. I Ord. 29_05_2020 n. 10302




La speciale disciplina relativa al fallimento

La speciale disciplina relativa al fallimento opera in un regime di spossessamento pieno dell’imprenditore insolvente

Corte Suprema di Cassazione, Sezione V Civile, Sentenza n. 10108 del 28/05/2020

Con sentenza del 28 maggio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione V Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che la speciale disciplina relativa al fallimento opera in un regime di spossessamento pieno dell’imprenditore insolvente, laddove in caso di procedura di concordato preventivo i beni dell’imprenditore insolvente o in crisi restano di proprietà dell’imprenditore, sotto la vigilanza degli organi della procedura (c.d. spossessamento attenuato). Difatti, il commissario giudiziale (organo della procedura) ha compiti di mera vigilanza e il liquidatore giudiziale, nominato in caso di concordato per cessione dei beni, si occupa della liquidazione dei beni del debitore, senza far venir meno la figura dell’imprenditore o degli organi sociali, che continuano ad essere soggetti passivi degli obblighi tributari e di contabilità. Il liquidatore non ha la legittimazione ad agire o resistere, in relazione ai giudizi, compresi quelli tributari, di accertamento delle ragioni di credito e pagamento dei relativi debiti, ancorché influenti sul riparto che segue le operazioni di liquidazione, potendo, al più, spiegare intervento, in quanto la legittimazione processuale spetta all’imprenditore sottoposto al concordato preventivo.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione V Civile, Sentenza n. 10108 del 28/05/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. __ R.G. proposto da:

B. S.p.A. – ricorrente –

contro

A. – controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Puglia, Sezione Staccata di Lecce n. __ depositata in data __ udita la relazione svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere D’Aquino Filippo;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale __, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avv. __ per parte ricorrente, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso e l’Avv. __ dell’Avvocatura Generale dello Stato per il controricorrente, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

  1. S.p.A., società successivamente incorporata nell’attuale ricorrente, ha impugnato – in qualità di cessionaria del credito IRPEF, derivante da ritenute di acconto sugli interessi attivi relativi alle somme depositate dal concordato preventivo “OMISSIS” – il silenzio rifiuto di rimborso del credito, già richiesto a rimborso dalla società cedente OMISSIS nella dichiarazione Unico __.

La CTP di Lecce ha rigettato il ricorso e la CTR della Puglia, Sezione Staccata di Lecce, con sentenza in data __, ha rigettato l’appello della contribuente. Ha rilevato il giudice di appello che l’obbligo di operare le ritenute sugli interessi – previsto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 26, comma 2, in capo ai sostituti di imposta che siano in procedura concorsuale – deve riguardare un periodo più ampio di quello ordinario concernendo, in particolare, l’intero periodo complessivo della durata della procedura dall’inizio alla chiusura della procedura concorsuale; ha, quindi, concluso il giudice di appello che il recupero di tale credito può avvenire solo all’atto della conclusione della procedura di concordato preventivo, prima del cui evento non può ritenersi sussistente il requisito della certezza del credito ceduto.

Propone ricorso per cassazione parte contribuente affidato a due motivi, ulteriormente illustrati da memoria; resiste con controricorso l’Ufficio.

Motivi della decisione

1 – Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., del (TUIR) D.P.R. n. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 7, 74 (già art. 93), 183 (già art. 124), nonché del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, art. 5, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che il periodo di riferimento per ritenere certo e determinabile il credito da ritenute di acconto sia da riferire all’intera durata della procedura concorsuale. Ritiene il ricorrente che l’art. 183 TUIR, comma 2, che prevede l’unicità del periodo di imposta, non sia applicabile alla procedura concorsuale del concordato preventivo, sia in forza del fatto che vi sia spossessamento dell’imprenditore, con conseguente soggettività passiva dell’imposta in capo all’imprenditore, per cui le disposizioni di cui all’art. 183 TUIR non potrebbero ritenersi applicabili al caso di specie.

Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., del (TUIR) D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 7, 74 (già art. 93), 183 (già art. 124), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 43-bis, del D.M. 30 settembre 1997, n. 384, art. 1, comma 2, nonché del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 40 e ss., nella medesima parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto l’unicità del periodo di imposta in relazione alla durata della procedura concorsuale al fine del recupero delle ritenute di acconto. Rileva il ricorrente come il credito da imposte dirette si è formato nell’anno di imposta __ per effetto delle ritenute a titolo di acconto sugli interessi attivi, la cui dichiarazione non è mai stata oggetto di rettifica; rileva come in materia di concordato preventivo il reddito di impresa si determina secondo le ordinarie regole fissate dal TUIR in materia di reddito di imprese, quindi, il credito da ritenute di acconto sugli interessi attivi, non essendo state scomputate, possono essere oggetto di rimborso; deduce, pertanto, come nessuna incertezza possa essere predicata in relazione al suddetto credito.

2 – Va preliminarmente rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, non trattandosi di un nuovo accertamento in fatto ma di questione interpretativa relativamente all’applicazione al concordato preventivo del regime speciale della tassazione delle ritenute a titolo di acconto sugli interessi attivi previsto per le procedure concorsuali liquidatorie (fallimento e liquidazione coatta amministrativa).

3 – I due motivi, i quali possono essere esaminati congiuntamente, sono fondati.

3.1 – La liquidazione dell’imposta sul reddito (anche di impresa) in presenza di precedenti versamenti eseguiti dal contribuente in acconto di imposta è disciplinata dall’art. 79 TUIR, che prevede che “i versamenti eseguiti dal contribuente in acconto dell’imposta e le ritenute alla fonte a titolo di acconto si scomputano dall’imposta a norma dell’art. 22”. Principio al quale fanno eccezione le ritenute in acconto di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 26, comma 1 e 2 (ritenute sugli interessi attivi), le quali, per i contribuenti (comprese le imprese in bonis) si scomputano nel periodo di imposta in cui si sono prodotti. A questo obbligo per gli enti finanziari di operare una ritenuta a titolo di acconto sugli interessi corrisposti, si accompagna, per i contribuenti in bonis, la facoltà prevista dall’art. 80 TUIR di computare l’eccedenza in diminuzione dell’imposta relativa al periodo di imposta successiva, ovvero di chiederne il rimborso in sede di dichiarazione.

3.2 – Diversa è, invece, la tassazione dei redditi delle imprese assoggettate a fallimento o a liquidazione coatta amministrativa. Per tali soggetti di imposta la tassazione non opera in relazione ai risultati economici della gestione di ciascun periodo di imposta (quali quelli risultanti dall’utile di bilancio rettificato a termini dell’arti 83 TUIR), ma su quanto eventualmente residui all’esito del pagamento dei creditori concorsuali in sede di riparto finale. La base imponibile non attiene alle rettifiche apportate all’utile di bilancio, ma a una grandezza patrimoniale, data dalla differenza tra il residuo attivo risultante al termine della procedura e il patrimonio netto all’inizio della procedura (art. 183 TUIR, comma 2). Ove il patrimonio netto iniziale, derivante dal confronto tra attività e passività risultanti dal periodo di imposta infrannuale (sino alla dichiarazione di fallimento) risulti nullo in forza della superiorità delle passività rispetto alle attività, nonché ove anche il residuo attivo finale sia inesistente (essendo l’attivo ripartito integralmente tra i creditori), nella procedura concorsuale liquidatoria non vi è reddito tassabile.

3.3 – Altra particolarità (per quanto più rileva in questa sede) è costituita dalla deroga apportata dall’art. 183 TUIR, comma 2, al principio della tassazione per singoli periodi di imposta costituiti dai vari periodi in ragione d’anno (art. 76 TUIR), essendo il periodo oggetto di tassazione pari all’intero periodo concorsuale “compreso tra l’inizio e la chiusura del procedimento concorsuale” (cd. maxiperiodo concorsuale). Ne consegue che il momento in cui diviene certa la posta patrimoniale del residuo attivo, idonea a determinare il reddito eventualmente prodottosi durante la procedura, è il momento conclusivo della procedura concorsuale (Cass., Sez. V, 7 marzo 2019, n. 6630; Cass., Sez. V, 14 novembre 2011, n. 14127).

3.4 – Questo sistema di tassazione del reddito delle imprese dichiarate fallite (in futuro liquidazione giudiziale) e delle imprese in liquidazione coatta amministrativa non si applica alle imprese assoggettate alla procedura di concordato preventivo, essendo l’art. 183 TUIR espressamente riferito alle sole procedure concorsuali del fallimento e della LCA. 3.5 – Detta disposizione non può essere, invero, neanche oggetto di applicazione estensiva al concordato preventivo, stante la diversità strutturale della procedura concordataria rispetto al fallimento o alla LCA. 3.5.1 – In primo (e decisivo) luogo, la speciale disciplina relativa al fallimento (come anche della LCA) opera in un regime di spossessamento pieno dell’imprenditore insolvente, laddove in caso di procedura di concordato preventivo i beni dell’imprenditore insolvente o in crisi restano di proprietà dell’imprenditore, sotto la vigilanza degli organi della procedura (cd. spossessamento attenuato). Difatti, il commissario giudiziale (organo della procedura) ha compiti di mera vigilanza e il liquidatore giudiziale, nominato in caso di concordato per cessione dei beni, si occupa della liquidazione dei beni del debitore, senza far venir meno la figura dell’imprenditore o degli organi sociali, che continuano ad essere soggetti passivi degli obblighi tributari e di contabilità (Cass., Sez. V, 8 giugno 2011, n. 12422); tanto che il liquidatore non ha la legittimazione ad agire o resistere, in relazione ai giudizi, compresi quelli tributari, di accertamento delle ragioni di credito e pagamento dei relativi debiti, ancorché influenti sul riparto che segue le operazioni di liquidazione, potendo, al più, spiegare intervento, in quanto la legittimazione processuale spetta all’imprenditore sottoposto al concordato preventivo (Cass., Sez. V, 28 luglio 2017, n. 18823).

3.5.2 – In secondo luogo, non può ritenersi che il legislatore abbia implicitamente sentito la necessità di imporre per il concordato preventivo una frattura nella successione degli esercizi di imposta, non essendovi un diverso soggetto obbligato fiscalmente in luogo dell’imprenditore insolvente.

Non è un caso che anche in materia di IVA, il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 74-bis, detti una disciplina specifica al solo caso della dichiarazione di fallimento o di LCA. Disciplina che impone all’organo gestorio di redigere, all’atto della dichiarazione di apertura della procedura, due distinte dichiarazioni IVA, la prima avente ad oggetto le operazioni effettuate dall’imprenditore dichiarato fallito dall’inizio dell’anno sino alla data della dichiarazione di fallimento (cd. segmento temporale prefallimentare); la seconda, limitata alla parte residua dell’anno di imposta, relativa alle sole operazioni imponibili successive alla pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento. Tali dichiarazioni competono al curatore quale soggetto legittimato in luogo dell’imprenditore dichiarato fallito a presentare tale dichiarazione, al fine di evitare che si verifichi una frattura nella continuità del rapporto IVA dell’imprenditore fallito (Cass., Sez. V, 29 maggio 2019, n. 14620). Frattura che non si verifica, invece, in assenza di spossessamento del debitore, in caso di apertura del procedimento di concordato preventivo.

3.5.3 – Né può ricavarsi il principio secondo cui nel sistema delle imposte sui redditi le vicende di natura liquidatoria siano di per sé presupposto per una deroga rispetto ai criteri ordinari di applicazione del tributo, ove il procedimento di concordato venga attuato in conformità di una proposta di cessione dei beni ai creditori.

3.5.4 – Un ulteriore motivo a sostegno della inestensibilità al concordato preventivo delle previsioni relative al maxiperiodo di imposta sui redditi proprio del fallimento e della LCA, è dato dal fatto che il TUIR non prevede l’introduzione di un regime speciale relativo alle grandezze tassabili che, come visto supra 3.2, nel fallimento sono costituite da grandezze patrimoniali (art. 183 TUIR, comma 2).

Diversamente, il legislatore apporta singole deroghe ai criteri di determinazione della ricchezza imponibile ai fini del reddito. Le deroghe previste dal TUIR alle modalità di tassazione dei redditi attengono alla esclusione dal reddito delle plusvalenze realizzate con la vendita dei beni ai creditori e alla esclusione dal reddito delle sopravvenienze attive derivanti dalla riduzione concordataria dei debiti verso i creditori ex artt. 86 e 88 TUIR (Cass., Sez. V, 21 maggio 2007, n. 11701). Non viene, pertanto, messo in discussione il principio che il reddito di impresa nel concordato preventivo segua le regole ordinarie, salve le specifiche deroghe imposte dal TUIR.

3.6 – Da tali elementi deve ritenersi che la tassazione dei redditi nel concordato preventivo non presuppone alcuna frattura nel soggetto di imposta, che rimane sempre l’imprenditore, non essendovi alcuno spossessamento (come avviene per il fallimento e la LCA) dell’imprenditore insolvente e non potendosi, conseguentemente, fare applicazione dell’art. 183 TUIR, comma 1, ai fini della configurazione del maxiperiodo di imposta. La società in concordato preventivo deve, conseguentemente, procedere alla redazione delle dichiarazioni per ciascun anno di imposta, come qualunque contribuente in bonis, potendo scomputare le eccedenze di imposta da ritenute in acconto in ciascuno periodo di imposta nelle quali le ritenute si siano prodotte.

Deve, pertanto, enunciarsi il seguente principio di diritto: “l’art. 183 TUIR, comma 1, previsto in tema di tassazione del reddito delle procedure di fallimento e di liquidazione coatta amministrativa e che prevede che il reddito tassabile sia quello compreso tra il periodo di apertura della procedura e il momento della chiusura della stessa, non si applica alla procedura di concordato preventivo, per la quale l’imprenditore continua ad assolvere gli obblighi tributari senza una specifica regolamentazione. Ne consegue che le ritenute in acconto operate a termini del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 26, comma 2, possono essere scomputate nel periodo di imposta nel quale i redditi si sono prodotti”.

La sentenza impugnata, nella parte in cui afferma l’unicità del periodo di imposta nel concordato preventivo analogamente a quanto accade per il fallimento a termini dell’art. 183 TUIR, non si è uniformata a tale principio e va, pertanto, cassata, con rinvio alla CTR della Puglia, Sezione Staccata di Lecce, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata con rinvio alla CTR della Puglia, Sezione Staccata di Lecce, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 15 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2020.

Cass. civ. Sez. V 28_05_2020 n. 10108




Il decreto emesso dal tribunale in sede di reclamo

Il decreto emesso dal tribunale in sede di reclamo sul provvedimento reso dal giudice delegato in ordine all’impugnativa del programma di liquidazione

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 4346 del 20/02/2020

Con sentenza del 20 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che il decreto emesso dal tribunale in sede di reclamo, ai sensi dell’art. 36, comma 2, L.F., sul provvedimento reso dal giudice delegato in ordine all’impugnativa del programma di liquidazione adottato dal curatore non ha natura definitiva e decisoria, in quanto non incide con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale, rientrando viceversa tra i provvedimenti di controllo sull’esercizio del potere amministrativo del curatore, espresso attraverso un atto avente funzione pianificatrice e di indirizzo; ne consegue che il decreto non è impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 4346 del 20/02/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. __ R.G. proposto da:

C. – ricorrente –

contro

B. S.p.A. – controricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – controricorrente –

avverso il provvedimento del Tribunale di Viareggio, depositato in data __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere Dott. __;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa __, che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;

udito, per il ricorrente, l’Avv. __, che ha chiesto accogliersi il proprio ricorso;

uditi, per i controricorrenti B. S.p.A. e Fallimento (OMISSIS) S.r.l., rispettivamente l’Avv. __ e gli Avv.ti __ e __, che hanno chiesto la dichiarazione di inammissibilità del ricorso ovvero il suo rigetto.

Svolgimento del processo

Con il decreto impugnato il Tribunale di Lucca – decidendo sul reclamo proposto, ai sensi della L.F., art. 36, comma 2, da C. nei confronti della curatela del Fallimento (OMISSIS) S.r.l. in liquidazione avverso il provvedimento del giudice delegato – ha confermato quest’ultimo, provvedimento con il quale era stato respinto, a sua volta, il reclamo avanzato, ai sensi della L.F., art. 36, comma 1, dal predetto ente locale nei confronti del programma di liquidazione predisposto dal curatore fallimentare.

Il tribunale toscano ha, in primo luogo, ricordato che: a) la (OMISSIS) S.r.l. era una società patrimoniale operativa, costituita ai sensi dell’art. 113, comma 13 TUEL, interamente partecipata da C., nata nell’anno __ dalla trasformazione di S. S.r.l.; b) la predetta società era incaricata, fra l’altro, di gestire i seguenti servizi pubblici locali: servizio idrico integrato, impianti sportivi, igiene del territorio e discarica, edilizia residenziale, illuminazione pubblica, accertamento e riscossione delle entrate comunali, patrimoniali e tributarie; c) in data __ l’assemblea straordinaria della predetta società aveva deliberato un aumento di capitale sociale da __ a __ di Euro, liberato mediante conferimento in proprietà di una serie di cespiti patrimoniali appartenenti al socio unico, C.; d) sempre nello stesso anno, l’assemblea straordinaria della società patrimoniale aveva deliberato un altro aumento del capitale sociale, liberato mediante conferimento in proprietà di un complesso immobiliare appartenente sempre al socio unico, denominato “(OMISSIS)” (c.d. (OMISSIS)), posto sulla nota passeggiata di Viareggio, costituito da un immobile a destinazione turistico-congressuale (bar, ristorante, centro congressi, stabilimento balneare); e) contestualmente era stato deliberato anche un prestito obbligazionario di Euro __; f) la società era stata, poi, dichiarata fallita dal Tribunale di Lucca con sentenza n. 133/2015 (pronunciamento che era stato successivamente confermato dalla Corte di appello di Firenze, con sentenza numero 811/2016); g) il curatore aveva predisposto, in seguito, un programma di liquidazione, includendo tra i beni liquidabili anche il “(OMISSIS)” (c.d. (OMISSIS)), gli impianti sportivi, nonché una serie di appartamenti acquistati dalla stessa (OMISSIS) S.r.l. per far fronte alla c.d. emergenza abitativa, escludendo, invece, i beni costituenti le c.d. reti infrastrutturali, che afferivano al servizio idrico e all’illuminazione pubblica; h) il Comune di Viareggio aveva, dunque, contestato il programma di liquidazione, lamentando che nell’attivo liquidabile fossero stati inclusi beni assoggettati al regime giuridico del patrimonio indisponibile e, per tale motivo, inalienabili.

Il Tribunale ha dunque osservato che: 1) che non era fondata l’eccezione preliminare sollevata dai resistenti, secondo la quale C. avrebbe dovuto proporre domanda di rivendicazione dei beni L.F., ex art. 93, atteso che C. non aveva allegato di essere l’attuale proprietario dei beni in questione né pertanto aveva titolo per la loro restituzione, avendo in realtà fondato il proprio interesse a ricorrere in relazione all’esito della procedura fallimentare; 2) era invece fondata l’altra eccezione sollevata dai resistenti, relativa al complesso immobiliare c.d. (OMISSIS), posto che quest’ultimo era già stato venduto, L.F., ex art. 104 ter, comma 7, e la reclamante non aveva tempestivamente impugnato il provvedimento autorizzatorio della vendita adottando dal giudice delegato, precludendosi pertanto la possibilità di reclamo, ai sensi della L.F., art. 36; 3) infondata anche l’ulteriore eccezione di violazione del contraddittorio sollevata dalla reclamante, atteso che la L.F., art. 36 prevede, in realtà, un contraddittorio deformalizzato, assicurato, nel caso di specie, dallo scambio di scritti difensivi; 4) nel merito, non era corretta la lettura fornita dal reclamante dell’art. 113 TUEL, osservando che il trasferimento dei beni di proprietà comunale ad un soggetto privato modifica, in realtà, il regime giuridico dei beni conferiti o alienati a tale soggetto e dovendosi considerare che la (OMISSIS) S.r.l. non è un ente pubblico, ma un semplice soggetto di diritto privato, sicché il trasferimento della proprietà dei beni dall’ente pubblico territoriale ad un tale soggetto non poteva non mutare anche il regime giuridico dei beni trasferiti; 5) secondo la più corretta lettura dell’art. 113, commi 2 e 13 TUEL, ad essere incedibile non era la proprietà delle dotazioni patrimoniali della società partecipata con capitale interamente pubblico, ma soltanto la quota di partecipazione in tale società, dovendosi ritenere che il conferimento dei beni oggetto di dotazione patrimoniale nel capitale della società partecipata dovesse necessariamente mutare il regime giuridico dei beni conferiti; 6) in difetto della natura pubblica del soggetto proprietario (e, precisamente, di ente territoriale pubblico) il bene oggetto di conferimento perde la qualità di bene pubblico e diventa un bene privato, secondo quanto disposto letteralmente dagli artt. 822 c.c. e ss., i quali delineano un regime giuridico speciale soltanto per i beni c.d. pubblici, in quanto appartenenti allo Stato, alle province e ai comuni (i c.d. enti pubblici territoriali); 7) i beni appartenenti agli enti pubblici non territoriali sono, invece, soggetti alle regole del codice civile (art. 830 c.c., comma 1), salvo diverse disposizioni delle leggi speciali e che, tuttavia, se essi sono destinati a un pubblico servizio, si applica l’art. 828 c.c., comma 2, secondo cui i beni del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano; 8) la (OMISSIS) S.r.l. in liquidazione (ascrivibile alle società in house) non è un ente pubblico (territoriale o non), ma un soggetto di diritto privato, sicché il trasferimento della proprietà dei beni dall’ente pubblico territoriale ad un soggetto privato, così come consentito dal disposto normativo di cui all’art. 113, comma 13 TUEL, ratione temporis applicabile, mutava il regime giuridico dei beni oggetto di trasferimento; 9) tale soluzione trovava conforto anche nel recente T.U. sulle società partecipate (D.Lgs. n. 175 del 216), che ha connotato in termini civilistici la disciplina di tali società, prevedendone espressamente il fallimento; 10) l’interpretazione accolta aveva anche l’ulteriore pregio di responsabilizzare gli amministratori locali, atteso che la scelta del modello privatistico implica anche l’accettazione dei rischi di tale modello, con la possibilità della dichiarazione di insolvenza della società partecipata e della alienazione dei relativi beni.

Il provvedimento, pubblicato il __, è stato impugnato da C. con ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui la Curatela del Fallimento (OMISSIS) S.r.l. in liquidazione e B. S.p.A. hanno resistito con controricorso.

Tutte le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

Con il primo motivo la parte ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost., comma 6, della L.F., artt. 36 e 104 ter e dell’art. 100 c.p.c. – si duole dell’erroneità della decisione impugnata laddove aveva ritenuto carente di interesse il reclamante per la impugnazione della liquidazione del complesso immobiliare relativo al cd. (OMISSIS). Si osserva che la decisione era stata il frutto di un travisamento dei fatti, posto che non era vera la circostanza che il complesso immobiliare in questione era stato alienato, ai sensi della L.F., art. 104 ter, comma 7, prima dell’approvazione del programma di liquidazione e al di fuori delle sue previsioni liquidatorie, e che inoltre non esiste alcuna preclusione all’impugnazione del programma di liquidazione, in conseguenza della mancata reazione a provvedimenti autorizzatori di vendite cd. anticipate.

Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 113, commi 3 e 13, degli artt. 826, 828 c.c., della L.F., art. 46, comma 1, n. 5 e si propone, in subordine, questione di legittimità costituzionale dell’art. 826 c.c., comma 3 e art. 830 c.c., nonché del D.Lgs. n. 267 del 2000, artt. 113, commi 3 e 23. Si osserva che il conferimento di beni pubblici appartenenti al patrimonio indisponibile dell’ente locale in una società patrimoniale, ex art. 113, comma 13 TUEL, non muta il regime giuridico degli stessi o comunque su di essi permane un vincolo di destinazione che ne esclude la pignorabilità e, dunque, anche la liquidazione in sede fallimentare. Si evidenzia che tale opzione interpretativa era confortata sia da una interpretazione di tipo teleologico che da una lettura sistematico-evolutivo dei testi normativi: sotto il primo profilo, si rileva che il legislatore non aveva inteso sottrarre i beni strumentali e patrimoniali degli enti locali dal regime giuridico proprio dei beni pubblici, volendo solo fornire ai Comuni e alle Province uno strumento più elastico per la gestione del proprio patrimonio; sotto altro profilo, si evidenzia, invece, come l’ordinamento, anche in tempi recenti, avesse disciplinato ipotesi di conferimento di beni demaniali o del patrimonio indisponibile a società di capitali, senza con ciò mutarne il relativo regime giuridico, come avvenuto nel caso della S.p.A. Patrimonio dello Stato, istituita con il D.L. n. 63 del 2002, art. 7. Si ricordano, inoltre, sempre da parte del ricorrente, a conferma della fondatezza della doglianza, i processi di privatizzazione formale degli enti pubblici proprietari di beni demaniali o patrimoniali, che non ne avevano mutato il regime giuridico (come nella ipotesi delle Ferrovie dello Stato). Solleva la parte ricorrente, in caso di contraria interpretazione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 826 c.c., comma 3, dell’art. 830 c.c., del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 113, comma 13, perché, laddove interpretati nel senso di escludere, tra i beni del patrimonio indisponibile, quelli conferiti nella società patrimoniale, si rischierebbe un trattamento irragionevolmente diversificato rispetto alle due fattispecie da ultimo ricordare (Patrimonio dello Stato e Ferrovie dello Stato), con violazione del principio di uguaglianza e dell’art. 42 Cost., comma 1.

Con il terzo motivo si denuncia sempre violazione dell’art. 826 c.c., comma 3, in relazione ai motivi di doglianza prospettati in sede di reclamo e ritenuti assorbiti.

Ante omnia, occorre esaminare il profilo pregiudiziale di ammissibilità del ricorso straordinario in ordine al provvedimento impugnato, e cioè il decreto emesso dal tribunale in sede di reclamo, ai sensi della L.F., art. 36, comma 2, su provvedimento reso dal G.D. in ordine alla impugnativa del programma di liquidazione adottato dal curatore.

Ritiene la Corte che il ricorso straordinario è, in subiecta materia, inammissibile.

Sul punto, occorre richiamare la costante giurisprudenza espressa da questa Corte secondo la quale il ricorso straordinario per cassazione previsto dall’art. 111 Cost., comma 7, è proponibile avverso ogni provvedimento giurisdizionale, anche se emesso in forma di decreto o di ordinanza, che abbia, però, i caratteri della decisorietà e della definitività, e cioè che pronunci – o venga comunque ad incidere – irrevocabilmente e senza possibilità di impugnazioni su diritti soggettivi (cfr. anche Sez. 1, Sentenza n. 24155 del 12/11/2014).

In realtà, è noto l’orientamento di questa Corte secondo cui la norma costituzionale sopra richiamata, nel definire sentenza il provvedimento avverso il quale è sempre ammesso il ricorso in Cassazione, non va interpretata in senso formale – basandosi cioè sulla forma del provvedimento – bensì sostanziale: in tal senso il rimedio deve ritenersi esperibile avverso ogni provvedimento giurisdizionale, anche se emesso in forma di decreto o di ordinanza, che abbia, però, i caratteri della decisorietà e della definitività. E che, dunque, se fosse sottratto ad ogni impugnazione, arrecherebbe a colui il cui diritto è stato sacrificato un pregiudizio non altrimenti rimediabile (cfr. ex multis, S.U. n. 3073/2003; Sez. 1 n. 9151/1995; cfr. anche Sez. 1, Sentenza n. 3452 del 20/02/2015; Sez. 6, Ordinanza n. 8968 del 05/05/2015).

Tali caratteri non ricorrono nel provvedimento qui impugnato. Si tratta, invero, di un provvedimento privo di carattere decisorio, non essendo in grado di incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale (cfr. Cass. Sez. 1 n. 5377/06; S.U. n 4915/06), oltre che non definitivo, posto che lo stesso si inquadra nell’ambito dell’esercizio dei poteri di controllo del G.D. (prima) e del tribunale (dopo), previsti dalla L.F., art. 36, commi 1 e 2, sull’attività gestoria svolta dal curatore del patrimonio fallimentare.

Sul punto, non può essere dimenticata la giurisprudenza già espressa da questa Corte di legittimità in relazione alla dichiarata inammissibilità del ricorso straordinario ex art. 111 Cost., nei confronti dei provvedimenti resi dagli organi di controllo della procedura su altri atti gestori adottati dal curatore fallimentare.

È stato infatti affermato, in una occasione, che, verbatim, “il decreto col quale il tribunale fallimentare provvede, ai sensi della L.F., art. 36, sul reclamo avverso il decreto del giudice delegato adito contro gli atti di amministrazione del curatore (nella specie, lo scioglimento dal contratto preliminare) non ha natura decisoria, in quanto non risolve una controversia su diritti soggettivi, rientrando viceversa tra i provvedimenti di controllo sull’esercizio del potere amministrativo del curatore. Ne consegue che esso non è impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., potendo i terzi interessati contestare gli effetti dell’attività nelle sedi ordinarie…” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 8870 del 01/06/2012).

Più recentemente, il principio ora ricordato è stato riaffermato, in altro arresto reso da questa Corte (Cass. Sez. 6, Ordinanza n. 11217 del 09/05/2018). Ed invero, è stato messo in evidenza che, in tal caso, si trattava di una misura annoverabile tra i provvedimenti che attengono all’esercizio della funzione di controllo circa l’utilizzo, da parte del curatore, del potere di amministrazione del patrimonio del fallito, dovendosi pertanto negare al decreto anzidetto natura decisoria, così come questa Corte aveva avuto già modo di affermare in situazioni finanche di maggiore rilevanza effettuale (v. Cass. n. 8870-12, cit. supra; ma anche: Cass. n. 5425-94; e Cass. n. 1240-13).

Ciò posto (e venendo ad esaminare la fattispecie oggi in esame), occorre preliminarmente ricordare, ancora in termini generali e ricostruttivi dell’istituto qui in esame, che – anche secondo le definizioni rinvenibili nella più autorevole dottrina – il programma si presenta come il progetto, che il curatore deve redigere ed al quale deve attenersi per quanto concerne le modalità e i termini per la realizzazione dell’attivo, costituendo una mappa dell’attività del curatore, tanto più importante e significativa perché soggetta, secondo la previsione della L.F., art. 104 ter all’approvazione del comitato dei creditori. Così, con il programma di liquidazione la precedente libertà del curatore di dettare i tempi e i modi della liquidazione è incanalata in tempi definiti e schemi predeterminati e la liquidazione deve, dunque, essere programmata attraverso un articolato piano che consacri precisi e analitici impegni operativi. Il programma di liquidazione costituisce, invero, un atto a formazione progressiva e plurisoggettiva, in quanto condiviso, a vario titolo, dagli organi della procedura, nell’ambito del quale si pianifica, pertanto, la liquidazione dell’attivo fallimentare, in guisa da dotare la stessa di un elemento di efficienza collegato all’essenza della programmazione, elemento di ottimizzazione dell’attività liquidatoria.

Non può, così, nascondersi la funzione pianificatrice e di indirizzo del programma, sì da confermare come la pianificazione sia elemento che permea di sé l’intera procedura liquidatoria, giacché il legislatore definisce il programma, in seno alla L.F., art. 104 ter “l’atto di pianificazione e di indirizzo in ordine alle modalità e ai temimi previsti per la realizzazione dell’attivo”.

Nessun dubbio può, dunque, residuare sulla natura gestoria ed organizzatoria del programma di liquidazione compilato dal curatore.

Ne consegue che l’impugnativa del programma di liquidazione, ai sensi della L.F., art. 36, commi 1 e 2, riguarda, in realtà, un atto gestorio a contenuto non decisorio, in quanto la stessa non risolve, in realtà, una controversia su diritti soggettivi, rientrando la relativa decisione tra i provvedimenti che integrano l’esercizio della funzione di controllo circa l’utilizzo, da parte del curatore, del potere di amministrazione del patrimonio del fallito. Pertanto, il detto provvedimento reso in sede di reclamo L.F., ex art. 36, comma 2, non può certo ritenersi impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., potendo, invero, i terzi interessati contestare nelle sedi ordinarie gli effetti che dall’attività così esercitata si pretendono far derivare (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 18622 del 11/08/2010; Conff.: Sez. 1, Sentenza n. 6909 del 30/07/1996; Sez. 1, Sentenza n. 1584 del 14/02/1995; Sez. 1, Sentenza n. 7493 del 24/08/1994; Sez. 1, Sentenza n. 7207 del 03/08/1994; Sez. Un., Sentenza n. 3167 del 23/05/1984; Sez. 1, Sentenza n. 3829 del 05/07/1979; Sez. 3, Sentenza n. 2946 del 18/10/1971; cfr. anche Sez. 1, Sentenza n. 24019 del 26/11/2010). Principio che va, dunque, ribadito, in termini più generali, in relazione a qualsiasi provvedimento reso dal tribunale su reclamo proposto ai sensi della L.F., art. 36, contro i provvedimenti del giudice delegato che abbiano respinto i ricorsi proposti contro le decisioni del curatore, in materia di amministrazione del patrimonio fallimentare (cfr. anche più recentemente, Cass. n. 5271/2018; Cass. 1902/2018; Cass. 22383/2019).

La dichiarazione di inammissibilità del ricorso straordinario così proposto determina l’assorbimento delle ulteriori questioni prospettate dalle parti.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, in favore di ciascuna parte, in Euro __ per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro __ ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 6 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2020.

Cass. civ. Sez. I Sent. 20_02_2020 n. 4346




Impresa già ammessa al concordato preventivo poi omologato ed inadempimento dei debiti concorsuali

Nell’ipotesi di impresa già ammessa al concordato preventivo poi omologato, ed in caso di inadempimento dei debiti concorsuali, il creditore insoddisfatto può senz’altro avanzarne istanza di fallimento

Corte d’Appello di Messina, Sezione I Civile, 20/02/2020

Con sentenza del 20 febbraio 2020, la Corte d’Appello di Messina, Sezione I Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che nell’ipotesi di impresa già ammessa al concordato preventivo poi omologato, ed in caso di inadempimento dei debiti concorsuali, il creditore insoddisfatto può senz’altro avanzarne istanza di fallimento, ai sensi dell’art. 6 L.F., a prescindere dall’intervenuta risoluzione del detto concordato, essendo ormai venuto meno – dopo la riforma dell’art. 186 L.F. introdotta dal D.Lgs. n. 169 del 2007 – ogni automatismo tra risoluzione del concordato e dichiarazione di fallimento e dovendo l’istante proporre la domanda di risoluzione, anche contestualmente a quella di fallimento, solo quando faccia valere il suo credito originario e non nella misura già falcidiata.


Corte d’Appello di Messina, Sezione I Civile, 20/02/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

CORTE DI APPELLO DI MESSINA

PRIMA SEZIONE CIVILE

La Corte d’ Appello di Messina, composta dai Signori Magistrati:

1) dott.ssa __ – Presidente

2) dott.ssa __ – Consigliere rel.

3) dott. __ – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel procedimento iscritto al n. __ R.G., avente ad oggetto: reclamo ex art. 18 L.F., posto in decisione all’udienza del __, vertente tra:

Società – Reclamante

e

Fallimento società – Reclamata

e nei confronti di

Banca – Reclamata

Con l’intervento del P.G.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ricorso depositato il __ la Società, in persona del Liquidatore, ha proposto reclamo a norma dell’art.18 L.F. avverso la sentenza del Tribunale di Messina. n. __, pubblicata il __ e comunicata il __, che ha dichiarato il fallimento di essa società, già in concordato preventivo, su istanza della Banca, la quale ha fatto valere l’omesso soddisfacimento del proprio credito nella misura falcidiata dopo l’omologazione del concordato.

La società reclamante, sulla scia della sentenza n. 1148/2019 della Corte di Appello di Firenze, che si pone in contrasto con l’indirizzo giurisprudenziale richiamato in sentenza, censura la sentenza laddove è stata dichiarata ammissibile la declaratoria di fallimento in assenza della preliminare risoluzione del concordato preventivo omologato ex art. 186 L.F. ed è stato ritenuto che i debiti falcidiati costituiscono nuove obbligazioni rispetto al medesimo debito ammesso al concordato, con la possibilità di ritenere l’insolvenza al patto concordatario come nuova insolvenza del debitore imprenditore rispetto a quella originaria valutata con la omologa del concordato preventivo.

Al fine di escludere la possibilità della dichiarazione di fallimento omisso medio, la reclamante invoca, infine, l’art. 168 L.F., che riconosce ai creditori ammessi al concordato la possibilità di agire esecutivamente una volta che il concordato sia stato omologato e sia divenuto definitivo.

Ha concluso, quindi, per la riforma della sentenza impugnata e la revoca del fallimento.

Si sono costituiti in giudizio il Fallimento della società, e la Banca, che hanno contestato la fondatezza del reclamo, chiedendone il rigetto, con la rifusione delle spese processuali.

RAGIONI DELLA DECISIONE

L’infondatezza del primo motivo è del tutto evidente ove si consideri che il Tribunale di Messina, che ha ritenuto possibile per il creditore avanzare domanda di fallimento, ai sensi dell’art. 6 L.F., nei confronti dell’impresa, già ammessa al concordato preventivo omologato, a prescindere dall’intervenuta risoluzione del detto concordato, non ha fatto altro che aderire all’indirizzo giurisprudenziale di legittimità e di merito (Cass. ord. n. 17703/2017; sent. 29632/2017; sent. n. 26002/2018; Tribunale Arezzo n. 28/2018) ormai consolidato in materia, al quale anche questa Corte ritiene di aderire, secondo il quale non sussistono preclusioni alla dichiarazione di fallimento di società con concordato preventivo omologato ove si faccia questione – come è nella fattispecie (in cui la Banca ha fatto valere l’omesso soddisfacimento del proprio credito nella misura falcidiata dopo l’omologazione del concordato) – dell’inadempimento di debiti già sussistenti alla data del ricorso ex art.160-161 L.F. e però modificati con detta omologazione, dovendosi verificare all’epoca della decisione così sollecitata i presupposti di cui agli artt. 1 e 5 L.F. In tal caso l’azione esperita dal creditore costituisce legittimo esercizio della propria autonoma iniziativa ai sensi dell’art.6 L.F., non condizionata dal precetto di cui all’art.184 L.F. e dunque a prescindere dalla risoluzione del concordato preventivo, il cui procedimento andrebbe attivato – previamente o concorrentemente – solo se l’istante facesse valere non il credito nella misura ristrutturata (e dunque falcidiata) ma in quella originaria, circostanza non ricorrente, come sopra precisato, nella fattispecie (cfr. ordinanza n. 17703/2017 della S.C. sez. 6: Nell’ipotesi di impresa già ammessa al concordato preventivo poi omologato, ed in caso di inadempimento dei debiti concorsuali, il creditore insoddisfatto può senz’altro avanzarne istanza di fallimento, ai sensi dell’art. 6 L.F., a prescindere dall’intervenuta risoluzione del detto concordato, essendo ormai venuto meno – dopo la riforma dell’art. 186 L.F. introdotta dal D.Lgs. n. 169 del 2007 – ogni automatismo tra risoluzione del concordato e dichiarazione di fallimento e dovendo l’istante proporre la domanda di risoluzione, anche contestualmente a quella di fallimento, solo quando faccia valere il suo credito originario e non nella misura già falcidiata).

Né vale invocare il carattere prevalentemente privatistico del concordato rispetto a quello pubblicistico del fallimento, atteso che all’autonomia privata è pur sempre riconducibile, oltre che il ricorso per risoluzione o annullamento del concordato, anche l’istanza di fallimento proposta dai creditori o dallo stesso debitore.

Col secondo motivo la società reclamante censura la sentenza laddove il Tribunale ha ritenuto che i debiti falcidiati costituiscono nuove obbligazioni rispetto al debito ammesso al concordato e l’inadempimento al patto concordatario nuova insolvenza del debitore imprenditore rispetto a quella originaria valutata con la omologa del concordato preventivo.

Sostiene di contro la reclamante, sulla scia della sentenza della Corte di Appello di Firenze citata, che l’inadempimento delle obbligazioni concordatarie non costituisce nuova insolvenza, dal momento che la causa del debito sarebbe sempre rappresentata dal titolo originario, stante che la falcidia attiene solo alla quantificazione e non anche alla causa petendi.

In effetti, è agevole replicare che ciò che muta non è il titolo originario del credito concordatario, bensì la capacità (rectius: l’incapacità) del debitore di far fronte ai debiti concordatari, nonostante la loro riduzione a fronte della falcidia di cui all’accordo omologato.

Nel caso di specie non vi è dubbio che la società, successivamente al concordato preventivo, si è trovata di fronte ad una nuova insolvenza, in quanto incapace, a prescindere dall’imputabilità della causa, di soddisfare i creditori nei termini e nei modi convenuti nella proposta concordataria, così come validamente e puntualmente argomentato dal Giudice di prime cure.

Con l’ultimo motivo la reclamante si duole del fatto che il Tribunale di Messina non abbia tenuto conto della possibilità del creditore, dopo l’omologa ed una volta scaduto il termine annuale per la risoluzione del concordato, di intraprendere individualmente l’esecuzione su beni del concordato stesso ai sensi di quanto disposto dall’art. 168 L.F..

Anche tale censura è priva di pregio.

Il fatto che il creditore concordatario possa avvalersi, per la tutela del proprio credito, della possibilità di intraprendere l’esecuzione sui beni del concordato (nella specie la vendita dell’unico cespite immobiliare rimasto invenduto), non esclude che lo stesso creditore possa optare per la presentazione dell’istanza di fallimento.

Peraltro, non riconoscere la possibilità di promuovere istanza di fallimento omisso medio comporterebbe la necessità per i creditori di promuovere azioni esecutive individuali con conseguente alterazione del sistema concordatario, in ordine alle modalità solutorie e al rispetto dell’ordine dei diritti di prelazione.

In conclusione, il Giudice di primo grado ha fatto corretta applicazione dei principi affermati dalla S.C., sicché la sentenza impugnata, che non è contestata per il resto, va integralmente confermata, previo rigetto del reclamo.

Sulla società reclamante, in quanto soccombente, grava il pagamento delle spese del giudizio, che si liquidano, tenuto conto della non complessità delle questioni trattate, come in dispositivo.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17 L. 24 dicembre 2012, n. 228, si dà atto della sussistenza dei presupposti dell’obbligo di versamento, a carico di parte reclamante, di un importo a titolo di contributo unificato pari a quello corrisposto per l’impugnazione, trattandosi di procedimento iniziato dopo il 1° febbraio 2013.

P.Q.M.

rigetta il reclamo proposto da Società, in liquidazione, in persona del liquidatore, con ricorso depositato il __ e conferma la sentenza impugnata.

Condanna la società reclamante al pagamento delle spese del giudizio, liquidate, in favore della curatela del fallimento, in Euro __, oltre rimborso spese forfettarie nella misura del 15%, IVA e CPA, e nella stessa misura di Euro __ in favore di Banca, oltre rimborso spese forfettarie nella misura del 15%, IVA e CPA, nonché al pagamento dell’ulteriore contributo in misura pari a quello versato.

Così deciso in Messina, il 7 febbraio 2020.

Depositata in Cancelleria il 20 febbraio 2020.

Corte d'Appello Messina Sez. I Sent. 20_02_2020

 

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Le fattispecie di esenzione dalla revocatoria fallimentare

Le fattispecie di esenzione dalla revocatoria fallimentare che hanno carattere eccezionale

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 4340 del 20/02/2020

Con sentenza del 20 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in materia di recupero crediti ha stabilito che:

  • nell’ambito delle procedure concorsuali, le fattispecie di esenzione dalla revocatoria fallimentare di cui all’art. 67 L.F. hanno carattere eccezionale, sicché ne è esclusa l’estensione al di fuori delle ipotesi ivi specificamente contemplate. (Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto non riconducibile alla lett. f) dell’art. 67, comma 3, L.F. l’esame di fattibilità della domanda di concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione del debito, trattandosi di prestazione professionale specifica e non continuativa);
  • il pagamento effettuato in favore del consulente della società anteriormente alla dichiarazione di fallimento non rientra nell’esenzione dalla revocatoria di cui all’art. 67, comma 3, lett. g), L.F., qualora il servizio reso dal consulente si sia risolto in un mero esame preliminare di fattibilità per l’impresa della soluzione concordataria, senza estrinsecarsi nell’atto a rilevanza esterna della presentazione della domanda di accesso al concordato; non sussiste, infatti, in tale ipotesi, ad una valutazione “ex ante”, l’astratta configurabilità della strumentalità necessaria e diretta fra prestazione e procedura concorsuale che è requisito costitutivo ai fini dell’esenzione.

 

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 4340 del 20/02/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – rel. Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

B. – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. in Liquidazione – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della Corte d’Appello di Firenze, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Cons. Dott. __;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. __, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato __ per la ricorrente, che ha chiesto l’accoglimento;

udito l’Avvocato __ per il controricorrente, che ha chiesto il rigetto.

Svolgimento del processo

La Corte di appello di Firenze, con la sentenza n. __, pubblicata il __, ha respinto l’appello proposto da B. nei confronti della curatela del Fallimento (OMISSIS) S.r.l., avverso la sentenza del Tribunale di Prato, che, in accoglimento della domanda revocatoria proposta dalla curatela fallimentare, ha dichiarato l’inefficacia del pagamento di __ Euro effettuato dalla società debitrice in favore di B. in data __, condannando quest’ultima alla restituzione di detto importo.

La Corte territoriale, in particolare, ha escluso l’operatività di entrambe le ipotesi di esenzione invocate dalla ricorrente, di cui alla L.F., art. 67, lett. f) e g).

Quanto alla fattispecie di cui alla lett. f), la Corte, individuata la ratio della disposizione nella tutela di soggetti da ritenersi deboli, in quanto esposti a subire le vicende dell’impresa, escludeva la configurabilità di un rapporto di collaborazione incompatibile con la figura di un commercialista, e, quanto alla lett. g), rilevava che non vi era stata neppure la presentazione della domanda di concordato preventivo, onde non si era verificato alcun vantaggio per la massa dei creditori del debitore poi fallito.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione, con due motivi, B..

Il Fallimento di (OMISSIS) S.r.l. resiste con controricorso.

In prossimità dell’odierna udienza entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione

Il primo motivo denuncia la violazione della L.F., art. 67, comma 3, lett. f), in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), censurando la statuizione del tribunale che ha erroneamente escluso l’esenzione indicata in epigrafe.

Ad avviso della ricorrente, l’esenzione suddetta comprende anche le prestazioni poste in essere dai consulenti d’impresa che operino come collaboratori della stessa, in virtù di contratto d’opera o di lavoro autonomo.

In particolare, le stesse circostanze allegate dalla curatela, vale a dire il fatto che la società avesse la propria sede presso lo studio professionale della ricorrente, unita al fatto che la ricorrente aveva gestito in modo continuato i rapporti della debitrice con banche, clienti, fornitori e dipendenti era sufficiente a dimostrare la configurabilità di un rapporto di collaborazione continuativo e non anche un’attività svolta una tantum, con la conseguenza di dover ritenere applicabile l’esenzione in oggetto al caso di specie.

Il motivo è infondato.

Il credito oggetto di revocatoria riguarda infatti una specifica prestazione posta in essere da B., vale a dire l’esame fattibilità domanda di concordato preventivo L.F., ex art. 160 e degli accordi di ristrutturazione L.F., ex art. 182 bis e non appare dunque riconducibile alla fattispecie di cui alla lett. f) che fa riferimento al corrispettivo di un’attività non occasionale ma continuativa.

Tale esenzione, che trova la sua giustificazione nell’esigenza di consentire la continuità dell’impresa in crisi, concerne (oltre alla diversa ipotesi delle prestazioni di lavoro dei dipendenti) il corrispettivo di una prestazione lavorativa autonoma, resa però con carattere di continuità e coordinazione, in quanto inerente ad un rapporto di collaborazione.

Nel caso di specie, al contrario, il titolo in virtù del quale viene invocata l’esenzione è costituito dal compenso per una specifica prestazione professionale (esame di fattibilità di una domanda di concordato preventivo), al di fuori dunque, di un rapporto di collaborazione con l’impresa, dovendo ritenersi, secondo quanto accertato dalla Corte territoriale, che il credito in esame derivi da una prestazione di natura occasionale avente un oggetto specifico.

Da ciò la inapplicabilità dell’esenzione.

Deve dunque affermarsi che non è riconducibile alla fattispecie di cui alla L.F., art. 67, comma 3, lett. g), il compenso di una specifica prestazione di opera intellettuale, come quella in esame.

Il secondo motivo denuncia violazione della L.F., art. 67, comma 3, lett. g), in relazione alla statuizione della sentenza impugnata che ha escluso l’esenzione sul rilievo della mancata presentazione della domanda di concordato preventivo, con la conseguenza che il servizio di cui alla lett. g) era rimasto un fatto interno alla vita aziendale.

La Corte, in particolare, ha ritenuto che l’esenzione dalla revocatoria postuli un vantaggio derivante alla massa dei creditori dalla consecuzione tra concordato preventivo e fallimento.

Il motivo è infondato, pur dovendo correggersi la motivazione della sentenza impugnata.

È pacifico che la ratio dell’esenzione in esame, criterio interpretativo particolarmente utile a fronte di un testo legislativo involuto ed ambiguo, va ricercata nell’esigenza di favorire l’accesso a modelli di soluzione della crisi alternativi al fallimento, esentando dalla revocatoria una serie di atti funzionali all’accesso al concordato preventivo ed alle procedure di composizione negoziale della crisi, come previsto alla L.F., art. 67, comma 3, lett. a), d), e), f), g).

Identica funzione viene tradizionalmente attribuita alla prededuzione L.F., ex art. 111, comma 2), ultimo inciso, in relazione ai crediti sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali.

Tale identità di ratio, non fa però venir meno le differenze strutturali e funzionali degli istituti e non implica piena identità dei relativi presupposti.

L’esenzione da revocatoria opera infatti su un piano diverso rispetto alla prededuzione e sembra prescindere dall’interesse dei creditori, postulando piuttosto una valutazione ex ante, al momento del compimento dell’atto astrattamente revocabile. Deve dunque ritenersi che sia estranea alla fattispecie in esame la valutazione dell’idoneità dell’atto alla realizzazione dell’interesse dei creditori: va pertanto disposta sul punto la correzione della motivazione della sentenza impugnata.

L’ipotesi di esenzione da revocatoria di cui alla L.F., art. 67, lett. g), richiede, però, che si tratti di una prestazione necessaria all’accesso alla procedura di concordato preventivo, dovendo ritenersi che essa non operi in relazione a tutte quelle obbligazioni caratterizzate da un sia pur labile collegamento con la procedura concorsuale, a pena di dilatare oltre misura ed in contrasto con la natura eccezionale dell’esenzione, la fattispecie in esame.

Deve dunque ritenersi che, ove la domanda di concordato preventivo non sia stata neppure presentata, venga meno in radice la stessa astratta configurabilità di una relazione di strumentalità tra la prestazione, risoltasi in un mero esame preliminare di fattibilità, che non si è estrinsecato in alcun atto avente rilevanza esterna (come appunto la presentazione della domanda) e l’accesso alla procedura di concordato preventivo, nesso di strumentalità che costituisce elemento costitutivo della fattispecie in oggetto.

Se infatti è vero che l’evoluzione della vicenda concorsuale (la mancata ammissione alla procedura) non può di per sé escludere l’applicazione dell’esenzione, è però necessario che le prestazioni per la quali l’esenzione si invoca si qualifichino per una relazione di diretta e concreta strumentalità rispetto (all’accesso) alla procedura concorsuale; il che postula, quanto meno, la proposizione della domanda di concordato, quale atto che dà coerenza alle prestazioni e servizi svolti in favore della debitrice e ne consente la valutazione di adeguatezza ed inerenza.

In assenza della domanda di concordato, invero, non sembra neppure possibile verificare l’effettivo nesso di strumentalità tra servizi ed ammissione alla procedura, non potendo, come già rilevato, applicarsi l’esenzione in esame ad ogni tipo di attività di consulenza ed assistenza all’impresa che sia in qualche modo collegata all’eventuale accesso ad una procedura di concordato preventivo.

E ciò, si ripete, non già in relazione alle conseguenze dell’atto sugli interessi del ceto creditorio, ma alla valutazione ex ante ed in termini oggettivi della prestazione, che deve pur sempre caratterizzarsi per un nesso diretto di strumentalità (all’accesso) alla procedura, nesso che postula dunque quanto meno che la domanda sia presentata.

Va inoltre precisato che, stante il carattere eccezionale dell’esenzione, essa non può estendersi al di fuori dell’ipotesi ivi specificamente contemplata del concordato preventivo, laddove altre fattispecie esonerative trovano, com’è noto, espressa applicazione anche al c.d. piano di risanamento attestato o agli accordi di ristrutturazione.

Il ricorso va dunque respinto e le spese, regolate secondo soccombenza, si liquidano come da dispositivo.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in __ Euro, di cui __ Euro per esborsi, oltre a rimborso forfettario per spese generali, in misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 6 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2020.

 

Cass. civ. Sez. I Sent. 20_02_2020 n. 4340




La domanda di concordato con riserva: inammissibilità e deposito di una nuova domanda

La domanda di concordato c.d. “con riserva” inammissibilità e deposito di una nuova domanda

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 4342 del 20/02/2020

Con sentenza del 20 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che respinta l’istanza di proroga e scaduto il termine di cui all’art. 161, comma 6, L.F., la domanda di concordato c.d. “con riserva” va dichiarata inammissibile, ex art. 162 L.F., salva la facoltà per il proponente, in pendenza dell’udienza fissata per tale declaratoria o per l’esame di eventuali istanze di fallimento, di depositare una nuova domanda, ex art. 161, comma 1, L.F., da cui si ricavi la rinuncia a quella con riserva e sempre che non si traduca in un abuso dello strumento concordatario.


 

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 4342 del 20/02/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso, recante il n. __ R.G., proposto da:

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – ricorrente –

contro

(OMISSIS) S.r.l. – intimata –

avverso la sentenza della Corte di Appello di Firenze depositata in data __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno __ dal Consigliere Dott. __;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi, per il fallimento ricorrente, gli Avv.ti __, con delega, e __, che hanno chiesto l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1. La (OMISSIS) S.r.l. depositò innanzi al Tribunale di Firenze, in data __, domanda di concordato preventivo cd. in bianco, e l’adito giudice le assegnò il termine fino al __ per la presentazione della proposta, del piano e della ulteriore documentazione, fissando, altresì, l’udienza per la comparizione delle parti al __.

1.1. Una tempestiva istanza di proroga di quel termine, proposta dalla stessa società, fu respinta dal tribunale predetto, ed il __, dopo il suo spirare, ma prima della menzionata udienza, la medesima società depositò un’altra domanda di concordato, L.F., ex art. 161, comma 1, completa di tutta la documentazione. All’udienza indicata, il tribunale dichiarò l’inammissibilità della domanda concordataria originaria e, in accoglimento dell’istanza del Pubblico Ministero, pronunciò il fallimento della società.

2. Quest’ultima propose reclamo L.F., ex art. 18, deducendo l’autonomia della seconda domanda di concordato, che implicitamente aveva comportato rinuncia alla precedente, e lamentando che l’inammissibilità sancita dal tribunale sulla nuova proposta non rientrava tra le ipotesi specificamente previste dalla legge.

2.1. L’adita Corte d’appello di Firenze, con sentenza del __, n. __, revocò l’impugnata dichiarazione di fallimento e trasmise gli atti al tribunale affinché valutasse la nuova proposta concordataria del __.

2.2. Per quanto qui ancora di interesse, quella corte opinò che “la proposta di nuovo concordato depositata in data __ doveva necessariamente interpretarsi come un’autonoma domanda contenente la implicita rinuncia ad una proposta, già di per se perenta, di concordato con riserva”, e giustificò tale conclusione assumendo che: i) “la nuova proposta di concordato era intervenuta quando ormai il termine concesso per l’attuazione del piano nella proposta in bianco era già perento, sicchè dal mancato deposito del piano entro il termine originario non poteva che discendere, quale necessaria conseguenza, la dichiarazione, da parte del Giudicante, della sua inammissibilità”; ii) “a seguito di una scontata inammissibilità della prima proposta, sebbene non ancora pronunciata dal Tribunale, non si vede come si possa negare la circostanza che la società istante, attraverso la nuova proposta, ritenesse di dover abbandonare la originaria istanza ed introdurre una nuova domanda di concordato pieno ai sensi della L.F., art. 161, comma 1, facoltà non preclusa dal legislatore che ha inteso colpire con la inammissibilità solo le ipotesi tassative ivi specificamente contemplate”; iii) “la nuova proposta di concordato è intervenuta nella tempistica indicata proprio per paralizzare eventuali istanze di fallimento e, dunque, il Tribunale, nel considerarla inammissibile perché non esplicitamente rinunciata la prima proposta o non definita la prima istanza in bianco – si è assestato su una interpretazione meramente formalistica, omettendo ogni valutazione circa il merito della seconda proposta di concordato che poteva essere considerata e vagliata intendendo per rinunciata, perché ormai inammissibile, la prima proposta”.

3. Avverso la descritta sentenza, il Fallimento (OMISSIS) S.r.l. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, ulteriormente illustrati da memoria ex art. 380-bis c.p.c., mentre la società da ultimo indicata non ha svolto attività difensiva in questa sede.

Motivi della decisione

1. I formulati motivi denunciano, rispettivamente:

I) “Violazione dell’art. 1362 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) con riferimento alla interpretazione della domanda di concordato preventivo del __”. Si ascrive alla corte fiorentina di essersi esclusivamente affidata, nell’interpretare la domanda di concordato del __, ad un elemento extratestuale (“…per la Corte d’appello sarebbe stata errata l’iniziativa della Società di depositare una nuova domanda di concordato nell’alveo della precedente domanda L.F., ex art. 161, comma 6, anziché rinunciare a questa domanda e presentarne una ex novo, e la Società non poteva che essere a conoscenza di tale stato di cose e non poteva che volere una cosa diversa da quella che risulterebbe attenendosi alle carte come fatto dal Tribunale tramite una “interpretazione meramente formalistica”. Cfr. pag. _ del ricorso), di avere completamente pretermesso il tenore letterale di detta domanda e di aver ritenuto irrilevante il fatto eccepito dal fallimento nella propria memoria di costituzione – che quest’ultima fosse stata depositata nel medesimo procedimento di concordato già pendente, con lo stesso numero di ruolo;

II) “Omissione di pronuncia (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) sulle (ulteriori) eccezioni di inammissibilità della domanda”. Si critica la decisione impugnata per non essersi pronunciata in ordine ad una serie di censure relative all’ammissibilità della nuova domanda di concordato, mosse dalla curatela in sede di costituzione nel giudizio di reclamo.

2. Il primo motivo è inammissibile.

2.1. Invero, giova premettere che questa Suprema Corte ha chiarito che, allorché già penda una procedura di concordato preventivo, non è configurabile una ulteriore domanda di concordato con carattere di autonomia rispetto a quella originaria – che dia, cioè, luogo ad una nuova e separata procedura, che ricominci dal suo inizio con l’audizione del debitore – perché, con riguardo allo stesso imprenditore ed alla medesima insolvenza, il concordato non può che essere unico, e, dunque, unica la relativa procedura ed il suo esito (cfr. Cass. n. 495 del 2015).

2.1.1. Tale pronuncia, che richiama espressamente Cass. n. 2594 del 2006, va intesa non nel senso che la successiva presentazione della domanda di concordato cd. “piena” implichi di per sé (ovverosia per implicita rinuncia) la caducazione della precedente domanda cd. “in bianco”, bensì in quello che, poiché rispetto al medesimo imprenditore ed alla medesima insolvenza il concordato non può che essere unico, qualora la procedura di concordato sia pendente non è configurabile una ulteriore domanda di ammissione avente carattere di autonomia, “a meno che da quest’ultima non si desuma l’inequivoca volontà del proponente (pur se non espressa con formule sacramentali) di rinunciare a quella in precedenza depositata” (cfr. Cass. n. 6277 del 2016).

2.1.2. Ma quest’ultima affermazione deve essere declinata anche nel senso che “respinta l’istanza di proroga e scaduto il termine concesso L.F., ex art. 161, comma 6, la domanda di concordato deve essere dichiarata inammissibile dal tribunale, ai sensi della L.F., art. 162, comma 2; che, tuttavia, va fatta salva la facoltà per il proponente, in pendenza dell’udienza fissata per la dichiarazione di inammissibilità, ovvero anche per l’esame di eventuali istanze di fallimento, di depositare una nuova domanda di concordato, ai sensi della L.F., art. 161, comma 1 (corredata della proposta, del piano e dei documenti), dalla quale si desuma la rinuncia a quella con riserva, sempre che la nuova domanda non si traduca in un abuso dello strumento concordatario” (cfr. Cass. n. 6277 del 2016. In senso sostanzialmente conforme si veda anche, in motivazione, la più recente Cass. n. 25479 del 2019).

2.2. È evidente, quindi, che la presentazione della nuova domanda di concordato, corredata della proposta, del piano e dei documenti, non implica, di per sé, la rinuncia a quella con riserva, potendosi dalla successiva solo desumersi l’inequivoca volontà del proponente (pur se non espressa con formule sacramentali) di rinunciare a quella in precedenza depositata.

2.3. Tale inequivoca volontà di rinuncia è stata, nella specie, affermata dalla corte territoriale con adeguato apprezzamento fattuale (esplicitato a pag. __ della sentenza impugnata), come tale insindacabile in questa sede, dovendosi, altresì, considerare che, secondo l’orientamento largamente dominante nella giurisprudenza di legittimità, è errato il riferimento alle norme di ermeneutica contrattuale in relazione alla interpretazione delle domande giudiziali ed ancor più per leggere il comportamento processuale delle parti: rispetto alle attività giudiziali non si pone, infatti, il problema dell’individuazione di una comune intenzione delle parti, e la stessa soggettiva intenzione della parte rileva solo nei limiti in cui sia stata esplicitata in modo tale da consentire alla controparte di cogliere l’effettivo contenuto dell’atto e di poter svolgere un’adeguata difesa (cfr. Cass. n. 25853 del 2014, nonché, in senso sostanzialmente conforme, Cass. n. 6125 del 2014; Cass. n. 24847 del 2011; Cass. n. 4754 del 2004, la quale ha anche precisato che l’interpretazione della domanda giudiziale si risolve in un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in cassazione solo sotto il profilo del vizio di motivazione e non per violazione di legge; Cass. n. 10979 del 2003). In tale attività interpretativa il giudice, non condizionato dalle formali parole utilizzate dalla parte, deve, dunque, tener conto della situazione dedotta in causa e della volontà effettiva, nonché delle finalità che la parte intende perseguire (cfr. Cass. n. 8140 del 2004, richiamata, in motivazione, dalla più recente Cass. n. 6226 del 2014).

2.4. A tanto deve aggiungersi che, nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione sia contestata (come oggi accaduto) la qualificazione attribuita dal giudice di merito alla volontà della parte, le relative censure, per essere esaminabili, non possono risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, e devono essere accompagnate dalla trascrizione – rimasta, invece, assolutamente carente nel motivo di ricorso in esame – delle clausole individuative dell’effettiva volontà della parte (la cui ricerca, che integra un accertamento di fatto, è preliminare alla qualificazione della sua domanda giudiziale), al fine di consentire, in sede di legittimità, la verifica dell’erronea applicazione della disciplina normativa.

2.5.1. Nella specie, la corte fiorentina ha offerto una interpretazione della domanda di concordato L.F., ex art. 161, comma 1, del __ (in termini di domanda nuova recante implicita rinuncia a quella precedentemente formulata L.F., ex art. 161, comma 6), fornendo una motivazione sintetica, ma non sindacabile in ordine alle ragioni dell’esito dell’interpretazione, che si sottrae a verifiche in questa sede.

2.5.2. Tale valutazione non è stata peraltro censurata, o comunque adeguatamente contrastata, mediante critica della motivazione, ricordandosi che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo, in sé, degli atti di parte, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta. È, dunque, inammissibile ogni critica alla ricostruzione della volontà della parte operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati.

2.6. L’odierna doglianza, infine, nemmeno censura puntualmente la sentenza impugnata (laddove si legge – cfr. pag. __ – che “la nuova proposta di concordato è intervenuta nella tempistica indicata proprio per paralizzare eventuali istanze di fallimento e, dunque, il Tribunale, nel considerarla inammissibile – perché non esplicitamente rinunciata la prima proposta o non definita la prima istanza in bianco – si è assestato su una interpretazione meramente formalistica, omettendo ogni valutazione circa il merito della seconda proposta di concordato che poteva essere considerata e vagliata intendendo per rinunciata, perché ormai inammissibile, la prima proposta”) sotto il profilo del non essere stato ivi adeguatamente ponderato il profilo concernente un eventuale abuso dello strumento concordatario considerando, se del caso, la domanda L.F., ex art. 161, comma 1, del __ presentata dalla (OMISSIS) S.r.l. con il palese scopo di differire la dichiarazione di fallimento.

3. Il secondo motivo è infondato.

3.1. Con esso si lamenta il fatto che la Corte di Appello di Firenze non abbia valutato tutti i numerosi vizi di merito sollevati, in sede di reclamo, contro la (seconda) proposta di concordato.

3.2. Effettivamente, la corte investita del reclamo ha riconosciuto, durante l’esposizione dei fatti, la proposizione di tali doglianze ma ad esse non ha poi dato riscontro in alcun modo, lasciando del tutto prive di vaglio le questioni sottopostele.

3.2.1. Orbene, si evince dal dispositivo della sentenza impugnata che l’accoglimento del reclamo ha avuto come effetto quello di revocare il fallimento e di ritrasmettere gli atti al tribunale per valutare la nuova proposta di concordato depositata successivamente.

3.2.2. È del tutto evidente, quindi, che la corte toscana ha ritenuto le doglianze predette sostanzialmente assorbite dalla decisione di rito adottata sul primo motivo, con conseguente affidamento del loro corrispondente scrutinio al tribunale dinanzi al quale ha rinviato il procedimento, cui ha attribuito il compito di effettuare le verifiche in ordine alla possibilità, o meno, di emanare il decreto di apertura di cui alla L.F., art. 163.

4. Il ricorso deve, pertanto, essere respinto, senza necessità di pronuncia in ordine alle spese di questo giudizio di legittimità, essendo la (OMISSIS) S.r.l. rimasta solo intimata, e dandosi atto, altresì, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., S.U., n. 23535 del 2019 – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della curatela ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, giusta dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile della Corte Suprema di cassazione, il 6 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2020.

Cass. civ. Sez. I, Sent. 20_02_2020 n. 4342




La nozione di impresa artigiana ai fini del riconoscimento del privilegio generale

La nozione di impresa artigiana ai fini del riconoscimento del privilegio generale

Tribunale Ordinario di Alessandria Sezione Fallimentare, Decreto del 28/03/2020

Con ordinanza del 28 marzo 2020, il Tribunale Ordinario di Alessandria Sezione Fallimentare, in merito di recupero crediti ha stabilito che per la nozione di impresa artigiana, ai fini del riconoscimento del privilegio generale ex art. 2751 bis, n. 5, c.c., si deve necessariamente far riferimento alla nozione contenuta nell’art. 2083 c.c. individuando nell’artigiano una categoria di piccolo imprenditore, e dunque stabilire se l’attività imprenditoriale venga svolta prevalentemente con lavoro proprio del titolare e dei componenti della famiglia. I diversi requisiti dettati dalla L. n. 443/85 valgono, invece, per fruire delle provvidenze previste dalla legislazione di sostegno, e non per l’identificazione dell’impresa artigiana nei rapporti interprivatistici: con la conseguenza che l’iscrizione all’albo di un’impresa artigiana ai sensi dell’art. 5 della L. n. 443/85 non ha alcuna influenza, neppure quale presunzione iuris tantum, sulla natura artigiana dell’impresa ai fini dell’applicazione dell’art. 2751 bis, n. 5, c.c..


Tribunale Ordinario di Alessandria Sezione Fallimentare, Decreto del 28/03/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI ALESSANDRIA

– Sezione Fallimentare –

Composto dai magistrati:

Dott. __ – Presidente

Dott. __ – Giudice

Dott. __ – Giudice rel.

ha pronunciato il seguente:

Decreto ex art. 99 L.F.

nel giudizio di opposizione dello stato passivo iscritto al n. __ R.G.;

promossa da:

B. S.p.A. – parte attrice

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – parte convenuta

Oggetto: Opposizione allo stato passivo (art. 98).

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

  1. – B., cessionaria per factorizzazione dei crediti di M. S.n.c. verso la fallita (OMISSIS) S.r.l., rivendica anzitutto il privilegio artigiano ex art. 2751 bis, n. 5, c.c. in relazione alla natura artigiana dell’impresa cedente, originaria titolare del credito.

L’opponente fonda la propria pretesa sui seguenti argomenti, disattesi dal G.D.:

a) M. S.n.c., società avente per oggetto sociale la produzione di tavole lignee, l’attività di segheria e commercio all’ingrosso e al minuto di legnami in genere e di articoli per l’edilizia e l’arredamento, era iscritta, all’epoca dell’insorgenza del credito, al Registro delle Imprese di Asti con la qualifica di impresa artigiana;

b) M. S.n.c. aveva nel __ n. __ dipendenti, ed avrebbe quindi rispettato il limite dimensionale previsto dalla L. n. 443/1985 per le imprese artigiane che non lavorano in serie;

c) ai dipendenti viene applicato il CCNL Artigiani – legno;

d) dal libro cespiti risulterebbe l’utilizzo di impianti per il cui utilizzo è necessario l’intervento di un operatore;

e) da bilancio di esercizio __ si riscontrerebbe una prevalenza dei costi del lavoro dipendente (pari ad Euro __) rispetto al capitale investito (pari ad Euro __), quest’ultimo calcolato sommando gli ammortamenti (Euro __) ed il costo delle manutenzioni (Euro __).

1.1 – Per la nozione di impresa artigiana, ai fini del riconoscimento del privilegio generale ex art. 2751 bis, n. 5, c.c. si deve necessariamente far riferimento alla nozione contenuta nell’art. 2083 c.c. individuando nell’artigiano una categoria di piccolo imprenditore, e dunque stabilire se l’attività imprenditoriale venga svolta prevalentemente con lavoro proprio del titolare e dei componenti della famiglia. I diversi requisiti dettati dalla L. n. 443/1985 valgono, invece, per fruire delle provvidenze previste dalla legislazione di sostegno, e non per l’identificazione dell’impresa artigiana nei rapporti interprivatistici: con la conseguenza che l’iscrizione all’albo di un’impresa artigiana ai sensi dell’art. 5 L. n. 443 del 1985 cit. non ha alcuna influenza, neppure quale presunzione iuris tantum, sulla natura artigiana dell’impresa ai fini dell’applicazione dell’art. 2751 bis, n.5 c.c. (per tutte, Cass, 6.10.2005, n. 19.508). Si aggiunge che, nel fare riferimento ai criteri fissati, in via generale, dall’art. 2083 c.c., la prestazione personale del titolare o dei soci deve consistere nello svolgimento di lavoro specializzato, e non nella semplice direzione dell’attività (così Trib. Roma, 20.05.2001).

1.2 – Ora, esaminando gli argomenti addotti da B. per rivendicare il privilegio artigiano sul proprio credito, ne viene che:

a) l’iscrizione a Registro Imprese come impresa artigiana è priva di rilievo ai fini di cui si discute;

b) del pari priva di rilievo ai fini dell’attribuzione del privilegio ex art. 2751 bis, n. 5, c.c. è la circostanza che M. S.n.c., nel __, si mantenesse entro i limiti occupazionali dell’art. 4 L. n. 443/1985. Il fatto che occupasse __ dipendenti va anzi letto nel senso di una netta prevalenza dell’apporto lavorativo altrui su quello dei tre soci-titolari dell’impresa (v. oltre);

c) del tutto inconferente è l’applicazione ai dipendenti del CCNL Artigiani – legno, dal momento che l’individuazione del CCNL applicabile dipende dalla scelta del datore di lavoro, e non dalla categoria merceologica di appartenenza dell’impresa (l’art. 2070 c.c. vale infatti per i soli contratti collettivi corporativi: Cass., Sez. Unite, 26.03.1997, n. 2665);

d) per nulla decisiva, ai fini dell’accertamento della prevalenza del lavoro dei titolari sul capitale impiegato, è la circostanza che l’impiego di taluni macchinari utilizzati richieda l’intervento di un operatore e che il processo produttivo non sia integralmente meccanizzato;

e) la prevalenza del lavoro dei tre soci-titolari ai sensi e per gli effetti dell’art. 2083 c.c. va valutata con riferimento agli altri fattori della produzione impiegati, comprensivi di capitale investito e di costi del lavoro dipendente (e dunque di soggetti terzi rispetto ai titolari della impresa), non attraverso un raffronto tra costi del lavoro dipendente e capitale investito. In disparte il rilievo che il capitale investito non può essere identificato – come fa la difesa opponente – nei soli costi per ammortamento più i costi di manutenzione degli impianti.

1.3 – Se dunque gli argomenti di B. appaiono del tutto insufficienti per ritenere alla stregua di credito artigiano quello di cui si è resa cessionaria (e l’onere della prova in tal senso spetta al creditore che rivendica il privilegio), una corretta lettura dei dati di bilancio del __, anno di insorgenza del credito, della M. S.n.c. portano alla conclusione che detta società non possa essere ritenuta artigiana agli effetti dell’art. 2751 bis, n. 5, c.c.

M. S.n.c. vantava, infatti, a quel tempo (così la dichiarazione IVA __, doc. 47 prodotto da B.) un fatturato annuo di Euro __ e dichiarava immobilizzazioni materiali per Euro __, costi di acquisto materiali per Euro __ e spese commerciali per Euro __.

Tali dati contabili appaiono di per sé sufficienti – a prescindere da un’istruttoria orale – per ritenere la netta prevalenza dell’impiego di capitali e di lavoro altrui (dieci dipendenti sui tre soci; non è peraltro neppure certo che tutti e tre lavorassero nell’impresa sociale, nei termini di cui al par. 1.1) rispetto all’apporto lavorativo individuale dei tre soci-titolari.

1.4 – La richiesta di privilegio artigiano avanzata da B. deve, pertanto, essere respinta.

  1. – L’opponente reitera in questa sede di opposizione allo stato passivo la domanda di ammissione per l’importo di Euro __, portato dalla fatt. n. __, che il G.D. aveva escluso in quanto non provato.

Nel testo del ricorso ex art. 98 L.F. (doc. 2 prodotto da B.), tale fattura non viene indicata tra quelle per cui si chiede l’ammissione al passivo.

La difesa opponente rileva che “per un mero errore di collazione …la fattura non era stata allegata, pur risultando dalla contabilità fallimentare ed essendo provata la cessione della stessa dall’istanza di ammissione al passivo”.

La necessità che il ricorso ex art. 98 L.F. indichi il titolo della domanda (art. 99, 2 co., n. 3, L.F.) postula che il fatto generatore di ciascun credito per cui si chiede l’ammissione al concorso debba essere specificamente indicato nell’atto stesso, mentre all’omessa allegazione non può evidentemente supplire una produzione documentale a dimostrazione dell’esistenza di quello stesso fatto, pur non ritualmente allegato e quindi introdotto nel giudizio.

Anche questa domanda deve, pertanto, essere rigettata.

P.Q.M.

Il Tribunale di Alessandria, Sezione Fallimentare, definitivamente pronunciando sulla opposizione dello stato passivo proposta da B. S.p.A. contro Fallimento (OMISSIS) S.r.l., con ricorso ex art. 99 L.F. depositato in data __:

a) rigetta la richiesta di ammissione al privilegio ex art. 2751 bis, n. 5, c.c.;

b) rigetta la domanda di ammissione per la fatt. __;

c) condanna B. S.p.A. alla rifusione delle spese processuali, che liquida in complessivi Euro __, oltre IVA, CPA e rimborso forfettario come per legge.

Così deciso in Alessandria nella camera di consiglio del 25 marzo 2020, tenutasi ai sensi dell’art. 83, co. 6 e 7, D.L. n. 18 del 2020.

Depositata in Cancelleria il 28 marzo 2020.

Tribunale Alessandria Sez. fall. Decr. 28_03_2020

 

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L’impugnativa del preavviso di fermo è azione di accertamento negativo della pretesa creditoria

L’impugnativa del preavviso di fermo è azione di accertamento negativo della pretesa creditoria

Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 7756 del 08/04/2020

Con sentenza dell’8 aprile 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che l’impugnativa del preavviso di fermo, così come del fermo, è azione di accertamento negativo della pretesa creditoria in tal modo avanzata ed è intesa ad ottenere, altresì, l’inibizione alla relativa iscrizione presso il pubblico registro automobilistico.


 

Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 7756 del 08/04/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

A. – ricorrente –

contro

R., (OMISSIS), E. S.p.A. e (OMISSIS) – intimati –

avverso la sentenza n. __ del Tribunale di Roma, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere Dott. __;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato __.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Considerato che:

A. si opponeva, ai sensi dell’art. 615 c.p.c., a un preavviso di fermo cui erano sottese nove cartelle esattoriali, chiedendo, in sede di riassunzione del giudizio dopo una fase cautelare, l’accertamento del già intervenuto annullamento di sette cartelle in altra sede giurisdizionale, nonché domandando l’annullamento di una delle altre due cartelle, posto che la residua rientrava nella cognizione riservata alla giurisdizione tributaria, all’esito, infine, dichiarando illegittimo e inefficace il preavviso di fermo stesso e inibendone l’iscrizione presso il pubblico registro automobilistico;

il Giudice di pace accoglieva la domanda di annullamento della cartella sopra indicata e rigettava la pretesa per le altre sette cartelle, esclusa quella soggetta alla giurisdizione tributaria, rilevando la già intervenuta pronuncia giurisdizionale nello stesso senso, e compensando di conseguenza le spese;

il Tribunale, adito da A., rigettava l’appello, osservando che: nel momento dell’introduzione del giudizio di merito le sette cartelle in discussione erano già state annullate, sicché la pretesa sul punto era inutile; l’asserita omissione di pronuncia sulla domanda per lite temeraria era stata invece implicitamente rigettata dal giudice di prime cure, che aveva anche valutato negativamente il comportamento processuale dell’originario attore; la pretesa erroneità della compensazione delle spese non sussisteva, posto che la domanda attorea era stata in massima misura rigettata;

avverso questa decisione ricorre per cassazione A. articolando tre motivi, corredati da memoria;

resiste con controricorso E. S.p.A..

Rilevato che:

con il primo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., artt. 100, 324 c.p.c., poiché il Tribunale avrebbe errato mancando di considerare che era stata domandata anche la declaratoria dell’insussistenza del diritto di procedere esecutivamente sulla base delle cartelle annullate, nonché la declaratoria di nullità del preavviso di fermo di autoveicoli;

con il secondo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 96 c.p.c., art. 360 c.p.c., n. 5, poiché il Tribunale avrebbe errato mancando di considerare che l’originario attore era risultato completamente vittorioso, ovvero avrebbe dovuto esserlo, e non già pressoché totalmente soccombente, posto che l’esattore aveva azionato titoli già annullati prima della notifica del preavviso di fermo;

con il terzo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 91, 92 c.p.c., art. 360 c.p.c., n. 5, poiché il Tribunale avrebbe errato mancando di considerare che il deducente avrebbe dovuto considerarsi vittorioso senza che potessero porsi a carico dello stesso le spese sul presupposto di un inesistente accoglimento parziale della domanda, fermo restando l’accoglimento della domanda relativa alla cartella non tributaria residuata dai previ annullamenti;

Rilevato che:

il primo motivo di ricorso è fondato, con assorbimento dei restanti;

l’impugnativa del preavviso di fermo, così come del fermo, è azione di accertamento negativo della pretesa creditoria in tal modo avanzata (Cass., Sez. U., 22/07/2015, Cass., Sez. U., 27/04/2018, n. 10261);

la suddetta qualificazione della domanda comporta che, verificata al momento della decisione l’insussistenza delle ragioni di credito scrutinate, anche perché in parte negate in altra sede giurisdizionale definitiva, era altresì interesse dell’attore ottenere la domandata e conseguente declaratoria d’inibizione all’iscrizione del fermo, in cui si traduce la richiesta di annullamento del preavviso;

come logico tale declaratoria dovrà essere verificata relativamente ai crediti delibati, e non a quello la cui delibazione è stata ritenuta soggetta ad altra giurisdizione;

l’interesse alla specifica pronuncia in parola sarebbe venuto meno solo in ipotesi di comunicata e verificata elisione del preavviso, anche “parte qua” quanto ai crediti vagliati, da parte del riscossore;

spese al giudice del rinvio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri, cassa la decisione impugnata e rinvia al Tribunale di Roma perché, in diversa composizione, pronunci anche sulle spese di legittimità.

Così deciso in Roma, il 10 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria l’8 aprile 2020.

 

Cass. civ. Sez. III 08_04_2020 n. 7756




La valutazione di realizzabilità economica del piano concordatario

La valutazione di realizzabilità economica del piano concordatario rientra a pieno titolo nell’ambito di valutazione del tribunale

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 7158 del 13/03/2020

Con ordinanza del 13 marzo 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che la valutazione di realizzabilità economica del piano concordatario rientra a pieno titolo nell’ambito di valutazione del tribunale in ordine al mantenimento delle condizioni di ammissibilità del piano medesimo e della proposta di concordato. Nel giudizio di ammissibilità della domanda di concordato preventivo, il tribunale è quindi tenuto ad una verifica diretta del presupposto di fattibilità del piano per poter ammettere il debitore alla relativa procedura, nel senso che, mentre il controllo di fattibilità giuridica non incontra particolari limiti, quello concernente la fattibilità economica, intesa come realizzabilità di esso nei fatti, può essere svolto nei limiti della verifica della sussistenza, o meno, di una manifesta inettitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati, individuabile caso per caso in riferimento alle specifiche modalità indicate dal proponente per superare la crisi, con ciò ponendosi il giudice nella prospettiva funzionale, propria della causa concreta.

Nel caso di specie la Suprema Corte ha respinto il motivo di impugnazione con il quale il ricorrente lamentava che la valutazione della consistenza dei fondi rischi attiene alla fattibilità economica del concordato e come tale non sia giudizialmente sindacabile. Il tribunale aveva revocato l’ammissione al concordato ex art. 173 L.F. approfondendo tra l’altro la questione della capienza del fondo rischi appostato nel piano, ritenendoli insufficienti ai fini dello scrutinio della complessiva realizzabilità del piano.


 

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 7158 del 13/03/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. __ R.G. proposto da:

(OMISSIS) S.p.A. in liquidazione – ricorrente –

contro

Fallimento della (OMISSIS) S.p.A. in liquidazione – controricorrente –

contro

E. S.p.A. – controricorrente –

contro

B. S.r.l. uninominale – controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli, depositata in data __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal Consigliere Dott. __.

Svolgimento del processo

CHE:

  1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Napoli ha rigettato il reclamo proposto da (OMISSIS) S.p.A. in liquidazione nei confronti del Fallimento della (OMISSIS) S.p.A. in liquidazione e della B. S.r.l. uninominale, nonché delle parti intimate D. S.r.l., E. S.r.l. e G. S.r.l., avverso la sentenza emessa in data __ dal Tribunale di Nola, con la quale era stato dichiarato il fallimento della predetta casa di cura, dopo la revoca, ai sensi della L.F., art. 173, dell’ammissione della predetta società alla procedura di concordato preventivo, confermando, pertanto, il provvedimento impugnato.

La corte del merito ha, in primo luogo, ricordato che: a) la T. aveva presentato una domanda di ammissione a concordato preventivo con continuità aziendale, indirettamente realizzata tramite l’affitto – in precedenza autorizzato dal Tribunale (verso la corresponsione di un canone concordato in Euro __ mensili) – dell’azienda alla società C. S.r.l. e la susseguente vendita (sottoposta alla condizione sospensiva dell’avvenuta omologazione del concordato) alla medesima società affittuaria per il corrispettivo di Euro __, oltre al pagamento del TFR e delle altre competenze maturate dai dipendenti; b) il piano concordatario prevedeva altresì la contestuale proposta di transazione fiscale L.F., ex art. 182 ter, nonché il ricorso a finanza esterna per Euro __, messi a disposizione dalla N. S.r.l. (società controllante della C. S.r.l., nonché garante del pagamento del prezzo di acquisto dell’azienda); c) con relazione L.F., ex artt. 172 e 173, depositata in data __, i commissari giudiziari avevano evidenziato numerosi aspetti di criticità del piano e della proposta, e ciò con particolare riferimento: i) al contratto di affitto di azienda intercorso tra la proponente e la società C. S.r.l. (mancato versamento dei canoni di leasing immobiliare da parte dell’affittuaria; mancata rinnovazione, sempre da parte di quest’ultima, della polizza assicurativa del fabbricato; mancata rinnovazione dell’assicurazione per responsabilità civile, contenente la clausola claims made); ii) alla programmata cessione d’azienda dalla società proponente all’affittuaria società C. S.r.l. (mancato versamento della somma di Euro __, come finanza esterna, e mancata prestazione della garanzia autonoma di Euro __, che la N. S.r.l. si era impegnata a prestare in sede di stipula del contratto di affitto); iii) all’omessa rappresentazione, in sede di proposta di concordato, di alcune controversie pendenti, ed in particolare di quelle passive, da cui avrebbero potuto generarsi nuovi debiti; iv) all’insufficienza dei fondi per spese legali e per rischi generici.

La corte distrettuale ha, dunque, ritenuto che: 1) in relazione al secondo, quinto e sesto motivo di gravame (da trattarsi congiuntamente), erano corrette le valutazioni del tribunale in ordine all’insussistenza delle condizioni di ammissibilità, sotto il profilo della non veridicità dei dati aziendali (in relazione all’ammontare dei debiti e all’accertamento della possibile insufficienza dei fondi al soddisfacimento dei debiti) e della necessità che, alla modifica del piano e della proposta, si accompagnasse anche l’aggiornamento dell’attestazione da parte del professionista; 2) l’erronea qualificazione compiuta dal tribunale tra debiti e crediti prevista dalla L.F., art. 173 non rilevava neanche, posto che l’omessa esposizione delle passività incideva negativamente sulla proposta della T. non già come atto in frode, ma quale indice della non veridicità dei dati aziendali, ai sensi dell’art. 173, comma 3 sopra richiamato, per il mancato mantenimento delle condizioni di ammissibilità del concordato; 3) rilevante doveva considerarsi, invece, l’omessa informazione sulla richiesta del compenso dei due commercialisti, che avevano redatto il progetto di transazione fiscale con l’erario, ammontante ad Euro __; 4) insufficiente doveva considerarsi anche l’integrazione del fondo rischi, in ragione del contenzioso civilistico in corso e della predetta richiesta di compenso professionale, 5) era altresì necessaria un’integrazione dell’attestazione del professionista, in ragione delle modifiche intervenute da parte del proponente alla originaria proposta concordataria; 6) in relazione al terzo e quarto motivo di censura, occorreva evidenziare la circostanza che, solo attraverso la relazione dei commissari, era emerso il mancato pagamento da parte della società affittuaria C. S.r.l. dei canoni di leasing e del mancato rinnovo dell’assicurazione sul fabbricato, con ciò evidenziandosi il rischio del dissolvimento dell’azienda nell’ipotesi di risoluzione dei contratti che consentivano la disponibilità dei locali aziendali; 7) era evidente il comportamento lesivo adottato dal proponente, che non aveva informato gli organi della proceduta di tali accadimenti, 8) dovevano considerarsi assorbiti il primo e settimo motivo di reclamo.

  1. La sentenza, pubblicata il __, è stata impugnata da (OMISSIS) S.p.A. in liquidazione con ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui il Fallimento della (OMISSIS) S.p.A., la E. S.p.A. e B. S.r.l. hanno resistito con controricorso.

La B. S.r.l. e il Fallimento della (OMISSIS) S.p.A. in liquidazione hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

CHE:

1.Con il primo motivo la parte ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L.F., art. 173, per errata configurazione di una ipotesi di inveridicità ovvero inattendibilità dei dati aziendali. Si osserva che, in applicazione del principio contabile OIC 31 (che evidenzia una sostanziale differenza tra passività probabili, possibili e remote), gli amministratori della società ricorrente avevano legittimamente valutato, in continuità con i precedenti bilanci ed in conformità ai principi contabili, i contenziosi sanitari in essere come rischi di grado possibile e come tale ne avevano correttamente escluso l’appostazione nei bilanci sotto la voce “debiti vs terzi”, diversamente da quanto avvenuto in relazione ai debiti dichiarati in relazione ai contenziosi di carattere commerciale. Si osserva, ancora, che i contenziosi sanitari ante deposito della domanda di concordato erano comunque coperti da assicurazione sanitaria e che quelli successivi, inattesi e peraltro non fondati, dovevano considerarsi come meri rischi, che, comunque, avrebbero potuto trovare capienza per il soddisfacimento degli eventuali e relativi crediti nei fondi rischi previsti nel piano concordatario. Si evidenzia che, anche volendo ammettere, nel caso in esame, una vera e propria omissione informativa, essa non doveva comunque considerarsi grave, giacché supportata dall’applicazione del predetto principio contabile e perché conforme alla prassi adottata per la redazione dei precedenti bilanci, senza contare che i debiti potenziali non dichiarati erano comunque coperti dai fondi rischi, sopra ricordati.

  1. Con il secondo motivo si deduce, sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L.F., art. 173, in relazione alla dichiarazione di inammissibilità del concordato per insufficienza del fondo rischi. Evidenzia la ricorrente che il fondo rischi era stato stanziato per mere passività potenziali, stimate in applicazione dei principi contabili OIC 31, e che l’eventuale futura incapienza dello stesso non avrebbe potuto rappresentare motivo di revoca ai sensi della L.F., art. 173 per il venir meno delle condizioni prescritte per l’ammissibilità del concordato, integrando il detto elemento solo una valutazione riguardante la fattibilità economica del piano, come tale rimessa alle valutazioni del ceto creditorio. Si osserva, ancora, che la proposta di integrazione dei fondi rischi e non delle fonti del concordato non avrebbe costituito modifica della proposta e che, comunque, la modifica non avrebbe necessitato un’integrazione dell’attestazione.
  2. Con il terzo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L.F., art. 173 per ritenuta omessa informazione su fatti rilevanti. Si deduce da parte del ricorrente: che non avrebbe potuto considerarsi omessa informazione quella correlata a fatti comunque resi noti ai commissari prima della relazione L.F., ex art. 173 e da quest’ultimi acquisiti sulla base della documentazione informativa messa a loro disposizione dalla stessa società proponente; che non avrebbe potuto ritenersi rilevante, ai sensi della L.F., art. 173, il mero ipotetico pericolo di condotte riconducibili all’affittuario ed incidenti sull’integrità e conservazione dell’azienda; che, infine, non era ammissibile la revoca di un concordato per valutazioni meramente prognostiche su rischi potenziali, che avrebbero potuto realizzarsi in corso di concordato, riguardando tali rischi valutazioni attinenti alla fattibilità economica, rimessa all’apprezzamento dei creditori.
  3. Il ricorso è infondato.

4.1 Il primo motivo presenta profili di inammissibilità ed altri di infondatezza.

4.1.1 Sotto il primo profilo di riflessione, non si può non evidenziare come le censure mosse dalla società ricorrente si presentino inammissibili in quanto volte a sollecitare una rivalutazione delle statuizioni di merito contenute nella decisione impugnata, relative alla rilevata incompleta esposizione delle passività aziendali e all’inidoneità della proposta a fornire quella necessaria e compiuta informazione ai fini dell’esercizio consapevole del diritto di voto, profili sui quali la corte partenopea si è espressa con una valutazione in fatto e con argomentazioni scevre da aporie e criticità argomentative. Ed invero, la corte distrettuale aveva evidenziato, sulla scorta delle osservazioni già contenute nella relazione L.F., ex art. 173, che era stata completamente omessa la rappresentazione, in sede di proposta di concordato, di alcune controversie pendenti, ed in particolare di quelle passive (relative al contenzioso sanitario), da cui avrebbero potuto generarsi nuovi debiti incidenti sulla tenuta complessiva del piano concordatario.

4.1.2 In realtà, tale omissione informativa non è stata neanche negata dalla parte ricorrente, che, sul punto, ha rilevato che la detta mancanza sarebbe stata priva di rilevanza ai fini del giudizio di ammissibilità della proposta concordataria, essendo previsto un fondo rischi.

Anche in tal caso la censura attinge ad una valutazione di merito svolta dalla corte di appello in ordine, da un lato, al corretto adempimento dell’obbligo informativo da parte del proponente nei confronti del ceto creditorio e in ordine, dall’altro, al mantenimento delle condizioni di ammissibilità della proposta concordataria, profili sui quali – come detto sopra – si registra un’ampia ed articolata motivazione, che spiega le ragioni della necessità che i creditori fossero stati tempestivamente resi edotti dell’esistenza di un corposo contenzioso (in materia di responsabilità sanitaria e di richieste di compensi professionali), i cui risvolti risarcitori e, dunque, creditori avrebbero potuto incidere sulla valutazione di fattibilità, non solo economica, del piano concordatario.

4.1.3 Sul punto, giova ricordare che, secondo la giurisprudenza espressa da questa Corte, gli atti di frode vanno intesi, sul piano oggettivo, come le condotte volte ad occultare situazioni di fatto idonee ad influire sul giudizio dei creditori, aventi valenza potenzialmente decettiva per l’idoneità a pregiudicare il consenso informato degli stessi sulle reali prospettive di soddisfacimento in caso di liquidazione, in quanto inizialmente ignorate dagli organi della procedura e dai creditori e successivamente accertate nella loro sussistenza o anche solo nella loro completezza ed integrale rilevanza, a fronte di una precedente rappresentazione del tutto inadeguata, purché siano caratterizzati, sul piano soggettivo, dalla consapevole volontarietà della condotta, di cui, invece, non è necessaria la dolosa preordinazione (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 15013 del 08/06/2018; Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 30537 del 26/11/2018; v. anche Cass. 25458/2019).

Ciò detto, osserva la Corte come, in realtà, la mancata informazione da parte della società proponente di fatti rilevanti per la valutazione della complessiva tenuta del piano concordatario, in riferimento alla esistenza di una potenziale debitoria risarcitoria da inserire nel piano di soddisfacimento dei creditori, integri di per sé un atto in frode ai creditori, tale da legittimare la revoca del concordato, ai sensi della L.F., art. 173, e ciò anche al di là della incisione di tale profilo sulla veridicità dei dati aziendali, intesa come requisito di ammissibilità della proposta concordataria.

Ne consegue il rigetto del primo motivo.

4.2 Anche il secondo motivo di censura presenta profili di inammissibilità e di infondatezza.

4.2.1 Sotto il primo profilo, non può che ripetersi quanto già sopra evidenziato, in relazione al primo motivo di doglianza, in ordine, cioè, all’irricevibilità, in questo giudizio di legittimità, di quelle sollecitazioni rivolte alla Corte, nel senso di riaprire lo scrutinio di merito della decisione, in riferimento alla valutazione dei presupposti fattuali posti a sostegno della revoca del concordato (in questo caso relativi alla insufficienza del fondo rischi a coprire eventuali sopravvenienze debitorie conseguenti alla definizione del contenzioso in corso).

Anche in questo caso, la Corte ha premura di precisare che se, da un lato, le censure così rivolte sono inammissibili in questo peculiare giudizio di legittimità, dall’altro, occorre anche evidenziare che la motivazione impugnata, con argomentazioni scevre da criticità o aporie, ha correttamente spiegato l’insufficienza quantitativa dei fondi rischi a far fronte alle sopra descritte sopravvenienze, e ciò con valutazione in fatto, censurata solo attraverso la dedotta violazione di legge.

4.2.2 Sotto altro profilo di riflessione, occorre evidenziare come la ulteriore censura relativa alla non necessità dell’aggiornamento dell’attestazione in relazione alla modifica del piano sia, del pari, inammissibile, posto che la corte di merito ha escluso, con valutazione in fatto, che tale modifica integri una revisione sostanziale della proposta offerta alle valutazioni del ceto creditorio.

4.2.3 Da ultimo, deve essere precisato che l’ulteriore doglianza – secondo la quale la valutazione della consistenza dei fondi rischi attenga alla fattibilità economica e come tale non sia giudizialmente sindacabile – non colga nel segno.

Sul punto, la giurisprudenza più recente espressa da questa Corte ha chiarito che – in tema di concordato preventivo – il tribunale è tenuto ad una verifica diretta del presupposto di fattibilità del piano per poter ammettere il debitore alla relativa procedura, nel senso che, mentre il controllo di fattibilità giuridica non incontra particolari limiti, quello concernente la fattibilità economica, intesa come realizzabilità di esso nei fatti, può essere svolto nei limiti della verifica della sussistenza, o meno, di una manifesta inettitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati, individuabile caso per caso in riferimento alle specifiche modalità indicate dal proponente per superare la crisi (con ciò ponendosi il giudice nella prospettiva funzionale, propria della causa concreta) (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 30537 del 26/11/2018; Cass. Sez. 6 1, Ordinanza n. 5825 del 09/03/2018).

Se così è, allora ritenere che la valutazione di realizzabilità economica del piano concordatario non rientri nell’ambito di valutazione del tribunale (e poi della corte di appello) in ordine al mantenimento delle condizioni di ammissibilità del piano e della proposta risulta essere affermazione giuridicamente erronea e dunque non condivisibile, come del resto implicitamente ritenuto anche dalla corte partenopea che, sul punto, ha approfondito la questione della capienza dei fondi rischi, ritenendoli insufficienti ai fini dello scrutinio della complessiva realizzabilità del piano.

4.3 Il terzo motivo è invece inammissibile in quanto non coglie la ratio decidendi espressa, sul punto qui da ultimo in esame, da parte della corte territoriale. Ed invero, ciò che rileva, ai fini della valutazione della revoca del concordato, non è tanto la questione (invece censurata da parte della ricorrente) della rilevanza delle condotte inadempienti della società affittuaria C. S.r.l. agli obblighi di pagamento del canone di leasing immobiliare e di rinnovazione delle polizze assicurative, quanto piuttosto la violazione da parte della società proponente dell’obbligo di immediata informazione di tali accadimenti agli organi della procedura, circostanza quest’ultima neanche negata da parte dell’odierna ricorrente.

Ne consegue il rigetto del ricorso.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore di ciascuna controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro__ per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro __ ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 marzo 2020.

 

Cass. civ. Sez. I Ord. 13_03_2020 n. 7158