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Giudizio di opposizione all’esecuzione in cui sia dedotta l’esistenza di un vincolo di impignorabilità

Giudizio di opposizione all’esecuzione in cui sia dedotta l’esistenza di un vincolo di impignorabilità del bene assoggettato ad espropriazione derivante da un determinato atto negoziale

Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Ordinanza n. 3697 del 13/02/2020

Con ordinanza del 13 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che:

  • nel giudizio di opposizione all’esecuzione in cui sia dedotta l’esistenza di un vincolo di impignorabilità del bene assoggettato ad espropriazione derivante da un determinato atto negoziale, è ammissibile la domanda riconvenzionale del creditore opposto volta ad ottenere, ai sensi dell’art. 2901 c.c., la dichiarazione di inefficacia dell’atto negoziale posto a base dell’opposizione, sussistendo connessione, in relazione all’oggetto e/o al titolo, tra le due domande, anche se tale dichiarazione di inefficacia, stante la natura dichiarativa della decisione e la necessità del suo passaggio in giudicato, potrà giovare al creditore esclusivamente ai fini dell’instaurazione di un nuovo processo esecutivo;
  • l’atto di semplice destinazione di un bene (senza il trasferimento della proprietà dello stesso) alla soddisfazione di determinate esigenze, ai sensi dell’art. 2645 ter c.c., costituisce, di regola, un negozio unilaterale – non perfezionandosi con l’incontro delle volontà di due o più soggetti, ma essendo sufficiente la sola dichiarazione di volontà del disponente – e a titolo gratuito, in quanto di per sé determina un sacrificio patrimoniale da parte del disponente, che non trova contropartita in una attribuzione in suo favore; esso resta tale anche se, nel contesto di un atto pubblico dal contenuto più ampio, ciascuno dei beneficiari del vincolo abbia a sua volta destinato propri beni in favore delle esigenze di tutti gli altri – risultando in tal caso i diversi negozi di destinazione solo occasionalmente contenuti nel medesimo atto pubblico notarile -, salvo che risulti diversamente, sulla base di una puntuale ricostruzione del contenuto effettivo della volontà delle parti e della causa concreta del complessivo negozio dalle stesse posto in essere;
  • in tema di responsabilità patrimoniale, il semplice atto di destinazione di un bene alla soddisfazione di determinate esigenze meritevoli di tutela, ai sensi dell’art. 2645 ter c.c., costituisce, di regola, un negozio unilaterale – in quanto esso non si perfeziona con l’incontro delle volontà di due o più soggetti, ma è sufficiente la sola dichiarazione di volontà del disponente – ed è a titolo gratuito, in quanto di per sé determina un sacrificio patrimoniale da parte del disponente, non trovando contropartita in una attribuzione in favore di quest’ultimo. Esso conserva tali caratteristiche, sul piano strutturale, indipendentemente dal fatto che sia posto in essere nel contesto di un atto pubblico dal contenuto più ampio, in cui vi siano analoghi (ed anche reciproci) atti di destinazione da parte di altri soggetti, dal momento che la causa dei suddetti atti dispositivi non sta di regola nella loro reciprocità, onde essi restano su tale piano del tutto indipendenti l’uno dall’altro, a meno che non risulti diversamente, sulla base di una puntuale ricostruzione della effettiva volontà delle parti e della causa concreta del complessivo negozio dalle stesse posto in essere;
  • il valore della causa relativa ad azione revocatoria si determina in base al credito vantato dall’attore, a tutela del quale viene proposta l’azione revocatoria stessa.

 


Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Ordinanza n. 3697 del 13/02/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero __ del ruolo generale dell’anno __ proposto da:

V. – ricorrente –

nei confronti di:

G., A. e L. – intimati –

per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Genova n. __, pubblicata in data __;

udita la relazione sulla causa svolta alla Camera di consiglio del __ dal Consigliere Dott. __.

Svolgimento del processo

V. ha assoggettato a pignoramento un bene immobile, in danno della nuda proprietaria V. Quest’ultima ha proposto opposizione all’esecuzione, ai sensi dell’art. 615 c.p.c., sostenendo l’impignorabilità del suddetto immobile, in quanto esso, unitamente ad altri, era oggetto di vincolo di destinazione ai sensi dell’art. 2645 ter c.c., per la soddisfazione di determinati bisogni dei suoi genitori A. e L., oltre che dei propri e di sua figlia minore P.

G., pur contestando il fondamento dell’opposizione, in via riconvenzionale subordinata ha comunque chiesto revocarsi, ai sensi dell’art. 2901 c.c., l’atto di destinazione, procedendo alla chiamata in causa degli indicati beneficiari del vincolo.

Il Tribunale di La Spezia ha considerato l’atto di destinazione valido ma pregiudizievole per le ragioni dei creditori; ha quindi accolto sia l’opposizione della debitrice, sia l’azione revocatoria proposta in via riconvenzionale dall’opposta G.

La Corte di Appello di Genova, su appello di V., ha confermato la decisione di primo grado.

Ricorre V., sulla base di cinque motivi.

Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli intimati. Il ricorso è stato trattato in Camera di consiglio, in applicazione dell’art. 375 c.p.c. e art. 380 bis 1 c.p.c.

La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 615 c.p.c. e dell’art. 100 c.p.c., nonché dell’art. 2901 c.c.

Il motivo è infondato.

Nel giudizio di opposizione all’esecuzione promosso per far valere l’impignorabilità del bene assoggettato ad espropriazione, è certamente ammissibile la proposizione di una domanda riconvenzionale, da parte dell’opposto, diretta a far dichiarare inopponibile al creditore procedente l’atto di costituzione del vincolo sul bene pignorato che ne impedisce l’espropriazione, in modo da poter procedere al pignoramento di quel medesimo bene in un nuovo processo esecutivo, e ciò esattamente per le stesse ragioni per cui è ammissibile la domanda riconvenzionale dell’opposto volta ad ottenere una pronuncia che costituisca un titolo esecutivo da far valere in una nuova esecuzione, nel caso in cui sia contestata l’esistenza e/o l’efficacia di quello posto a base del processo oggetto di opposizione (l’ammissibilità della domanda riconvenzionale dell’opposto è in tale ultimo caso pacifica, secondo il costante indirizzo di questa Corte: cfr.: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 7225 del 29/03/2006, Rv. 588120 – 01; conf., ex multis: Sez. L, Sentenza n. 5708 del 10/03/2011, Rv. 616441 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 9494 del 20/04/2007, Rv. 597787 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 1107 del 14/02/1996, Rv. 495826 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 3849 del 07/06/1988, Rv. 459059 – 01; nel medesimo senso cfr. altresì: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 3688 del 15/02/2011, Rv. 616763 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 15731 del 18/07/2011, Rv. 619165 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 1123 del 21/01/2014, Rv. 629827 – 01).

È poi appena il caso di osservare che sussiste certamente connessione, in relazione all’oggetto e/o al titolo, tra la domanda principale di opposizione all’esecuzione con cui si faccia valere l’impignorabilità del bene assoggettato ad espropriazione, fondata sull’atto di destinazione di detto bene ad un determinato scopo, e quella riconvenzionale, diretta ad ottenere la dichiarazione di inefficacia del medesimo atto di destinazione.

Va pertanto affermato il seguente principio di diritto: nel giudizio di opposizione all’esecuzione in cui sia dedotta l’esistenza di un vincolo di impignorabilità del bene assoggettato ad espropriazione derivante da un determinato atto negoziale, è ammissibile la domanda riconvenzionale del creditore opposto volta ad ottenere la dichiarazione di inefficacia dell’atto negoziale posto a base dell’opposizione, ai sensi dell’art. 2901 c.c., anche se tale dichiarazione di inefficacia, stante la natura dichiarativa della decisione e la necessità del suo passaggio in giudicato, potrà giovargli esclusivamente ai fini dell’instaurazione di un nuovo processo esecutivo.

La decisione impugnata risulta conforme a tale principio, onde essa si sottrae certamente alle censure di cui al motivo di ricorso in esame.

  1. Con il secondo motivo si denunzia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2901 c.c.: assenza dell’eventus damni e violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per omessa valutazione di un elemento discusso dalle parti ed inerente all’esistenza dell’eventus damni.

Il motivo è in parte manifestamente infondato ed in parte inammissibile.

La censura non risulta esposta in modo chiaro e non pare comunque cogliere adeguatamente le ragioni della decisione impugnata.

2.1 Per quanto è dato comprendere dal ricorso, la ricorrente sembra in primo luogo intendere ribadire l’affermazione (già ritenuta infondata dalla corte di appello) secondo cui, essendo stato ritenuto meritevole di tutela l’atto di destinazione dell’immobile pignorato, ai sensi dell’art. 2645 ter c.c., in quanto funzionale alle esigenze dei relativi beneficiari, le medesime esigenze avrebbero dovuto essere considerate prevalenti anche su quelle dei creditori pregiudicati dall’atto.

In proposito, la decisione impugnata è peraltro del tutto conforme a diritto, là dove ha disatteso tale argomentazione, affermando che tra i presupposti dell’azione revocatoria, indicati nell’art. 2901 c.c., non rientra la comparazione tra le esigenze dei beneficiari dell’atto revocando e quelle dei creditori da esso pregiudicati, dovendosi valutare esclusivamente l’oggettiva idoneità dell’atto stesso a rendere più difficile la soddisfazione delle ragioni dei creditori.

2.2 Con il motivo di ricorso in esame, la ricorrente sembra intendere altresì dedurre (almeno nella sostanza), che, poiché il credito di G. era di importo minimo (circa Euro __) ed era incerto il valore della nuda proprietà dell’immobile da questa pignorato, e poiché inoltre la creditrice non aveva posto in essere altre e diverse azioni esecutive, non sussisteva adeguata prova dell’eventus damni, in particolare dell’incapienza del proprio residuo patrimonio.

Orbene, la questione della capienza del patrimonio residuo di V. (capienza – quanto meno implicitamente – esclusa dal giudice di primo grado, avendo questi accolto l’azione revocatoria) non risulta tra i motivi di appello, per quanto emerge dalla decisione impugnata, e la ricorrente non indica affatto se ed in che termini essa invece era stata posta in sede di gravame.

Per tale aspetto la censura risulta dunque inammissibile, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, per difetto di specifiche allegazioni in ordine alla non novità della questione posta in sede di legittimità.

  1. Con il terzo motivo si denunzia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2645 ter c.c., violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2901 c.c., per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1321 c.c., per omessa e/o errata qualificazione dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale.

Con il quarto motivo si denunzia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2645 ter c.c., violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2901 c.c., per l’assenza della prova del consilium fraudis e/o della consapevolezza del debitore di pregiudicare le ragioni creditorie di terzi e violazione e negazione e/o falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., in punto inesistenza di presunzioni semplici.

Il terzo ed il quarto motivo del ricorso sono logicamente connessi e possono quindi essere esaminati congiuntamente.

Essi sono infondati.

Si premette che la corte di appello ha escluso il carattere oneroso dell’atto di destinazione impugnato ma ha comunque (ad abundantiam, sebbene non necessario per gli atti a titolo gratuito) ritenuto sussistere la cd. scientia damni da parte dei beneficiari del vincolo, circostanza che era stata oggetto di contestazione in sede di gravame.

Orbene, secondo la ricorrente: a) l’atto di costituzione del vincolo ai sensi dell’art. 2645 ter c.c., sull’immobile pignorato sarebbe da qualificare come atto a titolo oneroso, in quanto ciascuno dei beneficiari del complessivo patrimonio destinato aveva costituito un vincolo su propri beni ed era quindi al tempo stesso costituente e beneficiario; b) la prova della conoscenza del pregiudizio arrecato alle ragioni dei creditori da parte dei beneficiari dell’atto di destinazione, sarebbe stata erroneamente ritenuta sussistente.

3.1 È senz’altro corretta la qualificazione di atto a titolo gratuito data dalla corte di appello all’atto di destinazione posto in essere ai sensi dell’art. 2645 ter c.c. e di cui è stata chiesta la revoca.

L’atto di destinazione di un bene alla soddisfazione di determinate esigenze costituisce, di per sé, un atto naturalmente a titolo gratuito, si tratta cioè di un atto che comporta un sacrificio per la parte che lo pone in essere, che non trova contropartita in una attribuzione in favore del disponente, come del resto viene costantemente ritenuto da questa Corte per atti aventi analoga natura e funzione (quali la destinazione di beni ad un fondo patrimoniale, anche qualora effettuata da entrambi i coniugi, o ad un trust, con particolare riguardo al cd. trust familiare; cfr. ad es., ex multis, per il fondo patrimoniale: Cass., Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 29298 del 06/12/2017, Rv. 646785 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 19029 del 08/08/2013, Rv. 627510 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 16760 del 16/07/2010, Rv. 614057 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 2327 del 02/02/2006, Rv. 588393 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 6267 del 23/03/2005, Rv. 580396 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 18065 del 08/09/2004, Rv. 576858 – 01; per il trust: Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 9320 del 04/04/2019, Rv. 653273 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 19376 del 03/08/2017, Rv. 645384 – 03; cfr. altresì, in generale, sulla revocabilità dell’atto di destinazione posto in essere ai sensi dell’art. 2645 ter c.c.: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 29727 del 15/11/2019, Rv. 655834 – 01).

La circostanza che, nella specie, ciascuno dei beneficiari del vincolo abbia a sua volta destinato propri beni in favore delle esigenze di tutti gli altri, non modifica la natura gratuita di ciascuno di tali atti, non comporta cioè di per sé l’onerosità dei singoli atti di destinazione, in quanto non risulta sussistere, in concreto, corrispettività tra le reciproche destinazioni di beni operate da ciascun membro della famiglia.

Correttamente la corte di appello ha escluso che potesse avere rilievo in proposito la struttura unilaterale o plurilaterale dell’atto, chiarendo che il negozio giuridico plurilaterale si perfeziona con la dichiarazione di volontà di più parti, ma non ha necessariamente natura onerosa, in quanto, a tal fine, ciò che conta è esclusivamente che all’atto di disposizione patrimoniale corrisponda o meno una corrispettiva contropartita per il disponente.

D’altra parte, il vincolo di destinazione previsto dall’art. 2645 ter c.c., può certamente realizzarsi – secondo l’opinione prevalente – mediante diversi atti negoziali, eventualmente anche bilaterali, e quindi contrattuali (ad es. nel caso in cui vi sia trasferimento della proprietà del bene destinato, il che peraltro nella specie non risulta in alcun modo sia avvenuto, per quanto emerge in concreto), ma l’atto di destinazione semplice, cioè quello per cui un soggetto si limita a destinare un bene (senza trasferirne la proprietà o altri diritti reali limitati) alla realizzazione di determinate esigenze, non necessita e non determina di per sé alcun rapporto contrattuale tra tale soggetto ed i beneficiari (che possono essere anche non individuati) e, tanto meno, comporta attribuzioni corrispettive per il disponente, ma solo un sacrificio patrimoniale da parte sua. Dunque, l’atto che costituisce un vincolo ai sensi dell’art. 2645 ter c.c., resta strutturalmente un atto negoziale unilaterale a titolo gratuito, se operato nella semplice forma della mera destinazione del bene (che resta di proprietà del disponente) alla realizzazione di determinate esigenze, e ciò anche se esso sia posto in essere contestualmente ad analoghi atti di destinazione di altri soggetti, eventualmente coincidenti con i beneficiari, risultando in tal caso i diversi negozi di destinazione solo (occasionalmente) contenuti nel medesimo atto pubblico notarile.

In definitiva, il semplice atto di destinazione di un bene alla soddisfazione di determinate esigenze meritevoli di tutela, ai sensi dell’art. 2645 ter c.c., costituisce, di regola, un negozio unilaterale – in quanto esso non si perfeziona con l’incontro delle volontà di due o più soggetti, ma è sufficiente la sola dichiarazione di volontà del disponente – ed è a titolo gratuito, in quanto di per sé determina un sacrificio patrimoniale da parte del disponente, non trovando contropartita in una attribuzione in favore di quest’ultimo.

Esso conserva tali caratteristiche, sul piano strutturale, indipendentemente dal fatto che sia posto in essere nel contesto di un atto pubblico dal contenuto più ampio, in cui vi siano analoghi (ed anche reciproci) atti di destinazione da parte di altri soggetti, dal momento che la causa dei suddetti atti dispositivi non sta di regola nella loro reciprocità, onde essi restano su tale piano del tutto indipendenti l’uno dall’altro, a meno che non risulti diversamente, sulla base di una puntuale ricostruzione della effettiva volontà delle parti e della causa concreta del complessivo negozio dalle stesse posto in essere; ciò che però nella specie non è stato né specificamente dedotto né tanto meno provato.

Sotto tale profilo, le censure esposte nel motivo di ricorso in esame difettano invero di specificità, dal momento che la ricorrente si limita a far leva sul carattere plurilaterale dell’atto pubblico, in quanto posto in essere in concreto da più soggetti, ma non opera alcuno specifico richiamo al suo contenuto, da cui possa emergere che si trattò effettivamente di un negozio plurilaterale (e non di una pluralità di negozi unilaterali posti in essere nel medesimo contesto documentale) e, in particolare, di un contratto a prestazioni corrispettive intercorso tra i vari disponenti (al contrario, per quanto emerge dalle parti dell’atto in questione specificamente richiamate nel ricorso, sembrerebbe doversi escludere tale natura).

Va pertanto enunciato il seguente principio di diritto: l’atto di semplice destinazione di un bene (senza il trasferimento della proprietà dello stesso) alla soddisfazione di determinate esigenze, ai sensi dell’art. 2645 ter c.c., costituisce, di regola, un negozio unilaterale – in quanto esso non si perfeziona con l’incontro delle volontà di due o più soggetti, ma è sufficiente la sola dichiarazione di volontà del disponente – e a titolo gratuito, in quanto di per sé determina un sacrificio patrimoniale da parte del disponente, senza per quest’ultimo alcuna corrispettiva attribuzione; esso resta tale anche se operato nel medesimo contesto documentale da più soggetti, che ne traggono reciproco beneficio, salvo che risulti diversamente, sulla base della ricostruzione del contenuto effettivo della volontà delle parti e della causa concreta del negozio dalle stesse posto in essere.

3.2 In base a quanto sin qui esposto, poiché all’atto di destinazione oggetto del presente giudizio va senz’altro riconosciuta natura di atto a titolo gratuito, non ha alcun rilievo la cd. scientia damni da parte dei beneficiari del vincolo (mentre la conoscenza del pregiudizio per i creditori da parte della stessa disponente non risulta avere costituito motivo di gravame, né è invero oggetto di censure sufficientemente specifiche), il che comporta l’assorbimento del quarto motivo di ricorso.

A scopo di completezza, si osserva peraltro fiche le censure di cui a detto motivo di ricorso risultano di per sé in ogni caso inammissibili, essendo con esse avanzate, nella sostanza, contestazioni relative ad un accertamento di fatto operato dai giudici di merito e sostenuto da adeguata motivazione.

La corte di appello ha fondato sui rapporti familiari tra le parti una non irragionevole presunzione di fatto di conoscenza delle reciproche situazioni patrimoniali. Ed è appena il caso di ribadire che, secondo il costante orientamento di questa Corte, la prova della conoscenza del pregiudizio delle ragioni creditorie può essere fornita tramite presunzioni, il cui apprezzamento è devoluto al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove congruamente motivato (Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 16221 del 18/06/2019, Rv. 654318 – 02; Sez. 3, Sentenza n. 5618 del 22/03/2016, Rv. 639362 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 27546 del 30/12/2014, Rv. 633992 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 17327 del 17/08/2011, Rv. 619033 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 2748 del 11/02/2005, Rv. 579523 – 01; cfr. in particolare, Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 1286 del 18/01/2019, Rv. 652471 – 01, in cui si afferma espressamente che la prova della participatio fraudis del terzo, necessaria ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria nel caso in cui l’atto dispositivo sia oneroso e successivo al sorgere del credito, può essere ricavata anche da presunzioni semplici, ivi compresa la sussistenza di un vincolo parentale tra il debitore e il terzo, quando tale vincolo renda estremamente inverosimile che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria gravante sul disponente).

  1. Con il quinto motivo si denunzia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e/o falsa applicazione del D.M. n. 55 del 2014, art. 5, applicabile ratione temporis essendo l’atto di citazione in appello del 28/04/2015″.

Il motivo è fondato.

Il valore della causa relativa ad azione revocatoria si determina in base al credito vantato dall’attore, a tutela del quale viene proposta l’azione revocatoria stessa, secondo il costante indirizzo di questa Corte (Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 10089 del 09/05/2014, Rv. 630692 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 18348 del 13/09/2004, Rv. 577018 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 5402 del 17/03/2004, Rv. 571252 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 7250 del 06/12/1986, Rv. 449318 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 3076 del 09/05/1981, Rv. 413645 – 01).

La decisione impugnata non è conforme a tale indirizzo, in quanto la corte di appello, pur essendo noto l’importo del credito di G. (pari a circa Euro __) ha applicato lo scaglione del valore indeterminabile.

Essa va di conseguenza cassata sul punto.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, sul punto è possibile la decisione nel merito, mediante una nuova liquidazione delle spese del giudizio di secondo grado – con l’applicazione del corretto scaglione di valore (quello da Euro __ ad Euro __) e riconoscendo importi non distanti dai valori medi di parametro, per le attività effettivamente svolte – in complessivi Euro __.

  1. È accolto il quinto motivo del ricorso, rigettati gli altri.

La sentenza impugnata è cassata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, le spese del giudizio di appello sono liquidate nella misura di complessivi Euro __ oltre spese generali ed accessori di legge.

Le spese del giudizio di legittimità possono essere integralmente compensate tra le parti, in considerazione del solo parziale accoglimento del ricorso e non avendo gli intimati svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte:

– accoglie il quinto motivo del ricorso, rigettati gli atri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, liquida le spese del giudizio di appello nella misura di Euro __, oltre spese generali ed accessori di legge;

– dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2020.

 

Cass. civ. Sez. III Ord. 13_02_2020 n. 3697




Il giudizio di opposizione all’esecuzione è sottratto alla sospensione feriale dei termini

Il giudizio di opposizione all’esecuzione è sottratto alla sospensione feriale dei termini

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, Ordinanza n. 3542 del 13/02/2020

Con ordinanza del 13 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, in merito di recupero crediti ha stabilito che il giudizio di opposizione all’esecuzione è sottratto alla sospensione feriale dei termini, a nulla rilevando che l’esecuzione sia iniziata in base ad un titolo esecutivo stragiudiziale del quale l’opponente abbia chiesto accertarsi l’invalidità.

 


Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, Ordinanza n. 3542 del 13/02/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

G. S.r.l. – ricorrente –

contro

L. S.n.c. – intimata –

avverso la sentenza n. __ della Corte d’Appello di Milano, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del __ dal Consigliere Relatore Dott. __.

Svolgimento del processo

La società G. S.r.l. ha impugnato per cassazione la sentenza della Corte d’appello di Milano __ n. __, con la quale, rigettando il gravame proposto dalla stessa società, venne confermata la decisione di primo grado di rigetto dell’opposizione all’esecuzione proposta ex art. 615 c.p.c., da G. S.r.l. nei confronti di L. S.n.c.

L. S.n.c. è rimasta intimata.

Motivi della decisione

Va preliminarmente rilevato come nessun effetto possa avere sul presente giudizio di legittimità la circostanza del sopravvenuto fallimento della società ricorrente, dichiarato dal Tribunale di Monza con sentenza __. Al giudizio di legittimità infatti, in quanto dominato dall’impulso d’ufficio, non s’applicano le comuni cause di interruzione del processo previste in via generale dalla legge (ex multis, Sez. 1 -, Ordinanza n. 27143 del 15/11/2017, Rv. 646008 01).

È superfluo dare conto dei motivi di impugnazione proposti dalla società ricorrente, in quanto il ricorso va dichiarato inammissibile per tardività.

La sentenza d’appello è stata infatti depositata il __. Il termine semestrale di cui all’art. 327 c.p.c., è scaduto dunque il __. Al presente giudizio, infatti, non s’applica l’istituto della sospensione feriale dei termini, alla quale sono sottratti i giudizi di opposizione all’esecuzione, a nulla rilevando che l’esecuzione sia iniziata in base ad un titolo esecutivo stragiudiziale, del quale l’opponente abbia chiesto accertarsi l’invalidità (Sez. 3, Sentenza n. 1123 del 21/01/2014, Rv. 629826 – 01).

Il ricorso per cassazione, invece, è stato notificato a mezzo PEC il __, e dunque tardivamente.

Le spese.

Non è luogo a provvedere sulle spese, attesa la indefensio della parte intimata.

L’inammissibilità del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

P.Q.M.

(-) dichiara inammissibile il ricorso;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di G. S.r.l. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta Sezione civile della Corte di cassazione, il 17 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2020.

Cass. civ. Sez. VI_3 Ord. 13_02_2020 n. 3542




Opposizione in materia esecutiva che può scindersi in un duplice contenuto

Opposizione in materia esecutiva che può scindersi in un duplice contenuto: impugnazione della conseguente sentenza

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, Ordinanza n. 3166 del 11/02/2020

Con ordinanza dell’11 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, in merito di recupero crediti ha stabilito che qualora una opposizione in materia esecutiva possa scindersi in un duplice contenuto, in parte riferibile ad una opposizione agli atti esecutivi e in parte ad una opposizione all’esecuzione, l’impugnazione della conseguente sentenza deve seguire il diverso regime previsto per i distinti tipi di opposizione.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, Ordinanza n. 3166 del 11/02/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

R. S.p.A. – ricorrente –

contro

B. – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ del Tribunale di Trapani, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del __ dal Consigliere Relatore Dott. __.

Svolgimento del processo

che:

  1. proponeva un’opposizione all’esecuzione e agli atti esecutivi chiedendo di dichiarare la nullità di un preavviso di fermo di beni mobili registrati nonché quella delle sottese cartelle, deducendo la mancata ovvero invalida notifica di queste ultime e la prescrizione dei corrispondenti crediti ivi affermati;

il Giudice di pace adito accoglieva l’opposizione con pronuncia confermata dal Tribunale secondo cui la notifica di cinque cartelle era nulla per mancata attestazione dell’avvenuta spedizione della comunicazione dell’avvenuta notifica, e la sesta cartella, pur validamente notificata, riportava un credito infine prescritto a seguito di analoga invalidità della notifica dell’avviso di intimazione;

avverso questa decisione ricorre per cassazione R. S.p.A. articolando due motivi;

resiste con controricorso B.

Motivi della decisione

che:

con il primo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2700 c.c., artt. 115, 116, c.p.c., poiché le relate di notifica delle cinque cartelle con numeri finali (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) sottese all’impugnata comunicazione preventiva di fermo n. (OMISSIS), recavano attestazione fidefacente dell’ufficiale notificatore di aver informato della notifica il destinatario con raccomandata, e inoltre per la cartella con numero finale (OMISSIS) risultava anche copia della distinta di spedizione della raccomandata;

con il secondo motivo, si prospetta la violazione della L. n. 689 del 1981, art. 28, poiché, stante la ritualità delle notifiche richiamate nella prima censura, non era decorsa la prescrizione;

Vista la proposta formulata del relatore ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.;

Rilevato che:

il ricorso è inammissibile per violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 3; parte ricorrente, nella descrizione della vicenda processuale, non ha chiarito:

  1. a) quali siano stati i contenuti della sentenza di prime cure, limitandosi a riferire che la domanda era stata accolta per intervenuta prescrizione;
  2. b) quali siano stati gli esatti contenuti dell’atto di appello;

quanto al profilo sub a) non è dato in particolare sapere se il giudice di prime cure aveva qualificato e in che modo l’opposizione proposta;

tale profilo è dirimente posto che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, qualora un’opposizione in materia esecutiva possa scindersi in un duplice contenuto, in parte riferibile a una opposizione agli atti esecutivi e in parte riferibile a una opposizione all’esecuzione, l’impugnazione della conseguente sentenza deve seguire il diverso regime previsto per i distinti tipi di opposizione (Cass., 27/08/2014, n. 18312);

ne consegue che la decisione sull’opposizione agli atti sarà ricorribile solo per cassazione ex art. 618 c.p.c., e art. 111 Cost., sicché l’appello in ipotesi spiegato dev’essere dichiarato improponibile anche in questa sede ex art. 382 c.p.c., comma 3, ultimo periodo;

nella prima censura, del resto, s’impugna la decisione limitatamente alla statuizione qualificabile in termini di opposizione formale (nullità del preavviso per nullità della notifica delle cartelle: cfr. pag. 4 del ricorso e pag. 8 della sentenza gravata), e non si deduce una differente qualificazione quale opposizione all’esecuzione da parte del giudice di primo grado (infatti contrastata in controricorso, dove si sostiene una peraltro solo implicita quanto opposta qualificazione ex art. 617 c.p.c.: pag. __;

quanto al profilo sub b), la carenza non permette di apprezzare l’eventuale sussistenza di giudicati interni;

peraltro, il primo motivo sarebbe risultato comunque inammissibile anche ex art. 366 c.p.c., n. 6, perché afferma sussistere un’attestazione di spedizione negata dal Tribunale (a pag. __) senza che ne sia dedotto un omesso esame, mentre afferma altresì prodotta una copia della distinta di raccomandata per una delle cartelle senza indicare quando e come sia avvenuta tale produzione;

anche il secondo motivo sarebbe risultato parimenti inammissibile;

infatti, la sua formulazione (peraltro operata con riferimento a quattro delle cinque cartelle di cui alla prima censura, con la precisazione che la cartella con numero finale (OMISSIS) non può che riferirsi a quella indicata nella sentenza con il numero finale (OMISSIS)) presuppone l’accertamento della validità della notifica delle cartelle ma è diretta ad escludere il decorso prescrizionale: in tal modo la censura non si misura idoneamente con la statuizione della sentenza di appello, con cui, in accoglimento della domanda spiegata, è stata solo dichiarata la nullità della notifica delle cartelle in parola, quali sottese al preavviso di fermo in discussione, esaminandosi la prescrizione solo quanto a una sesta cartella, numero finale (OMISSIS), dalla ritenuta notifica rituale, che non risulta essere oggetto delle censure per cassazione;

al contempo, pure in questa ipotesi la formulazione del motivo risulta effettuata in violazione l’art. 366 c.p.c., n. 6, non riportando gli esatti tempi e modi della produzione dei menzionati documenti cui si riferisce;

spese secondo soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali di parte controricorrente liquidate in Euro 1.400,00 oltre a Euro 200,00, per esborsi, 15% di spese forfettarie e accessori legali.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il pagamento, se dovuto e nella misura dovuta, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2020.

 

Cass. civ. Sez. VI - 3 Ord. 11_02_2020 n. 3166




Espropriazione presso terzi: l’opposizione di terzo

Espropriazione presso terzi: l’opposizione di terzo

Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 2868 del 06/02/2020

Con sentenza del 6 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, in merito di recupero crediti più precisamente in tema di espropriazione presso terzi ha stabilito che:

  • il soggetto che assuma di essere l’effettivo titolare del credito pignorato non può proporre l’opposizione di terzo dopo l’adozione dell’ordinanza di assegnazione perché lo strumento dell’opposizione tardiva ex art. 620 c.p.c. non è compatibile con la struttura della procedura espropriativa presso terzi, la quale è conclusa dal provvedimento di assegnazione;
  • il soggetto, diverso dal terzo pignorato, che contesti l’appartenenza del credito all’esecutato è tenuto a far valere l’illegittimità della espropriazione con l’opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c., restando esclusa, in quanto non sottoposto direttamente all’esecuzione, la sua legittimazione a proporre opposizione ex art. 617 c.p.c. avverso gli atti del processo.

Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 2868 del 06/02/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

B. – ricorrente –

contro

Curatela del fallimento (OMISSIS) S.r.l. – controricorrente –

e contro

F. e Condominio (OMISSIS) – intimati –

avverso la sentenza n. __ della Corte d’Appello di Catanzaro, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere Dott. __;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __ che ha concluso per il rigetto;

udito l’Avvocato __;

udito l’Avvocato __.

Svolgimento del processo

L’avv. B., ricorrente, espone che:

– promuoveva esecuzione nel __ nei confronti del suo debitore F., nelle forme del pignoramento presso terzi, pignorando i crediti di questi nei confronti del Condominio (OMISSIS) per l’attività di amministratore svolta;

– il nuovo amministratore del condominio, avv. C., rendeva dichiarazione positiva e il G.E. procedeva all’assegnazione del credito;

– non avendo ricevuto il pagamento, B. notificava precetto, sulla base della ordinanza di assegnazione, nei confronti del Condominio;

– nel __ il Fallimento della (OMISSIS) s.r.l., nella persona del medesimo avv. C., divenuto nelle more curatore del Fallimento (OMISSIS), proponeva opposizione tardiva di terzo all’esecuzione presso terzi, ex art. 620 c.p.c., sostenendo che della somma assegnata F. non fosse creditore in proprio, ma nella qualità di legale rappresentante della (OMISSIS).

Integrato il contraddittorio nei confronti del debitore F., il Tribunale di Lamezia Terme nel __ rigettava l’opposizione dichiarando la legittimità della ordinanza di assegnazione a suo tempo emessa in favore di B.

La Curatela del Fallimento (OMISSIS) impugnava la decisione.

La Corte d’Appello di Catanzaro, con la decisione qui impugnata, accoglieva il gravame e, in totale riforma della sentenza di primo grado, accoglieva l’opposizione di terzo proposta dalla Curatela dichiarando illegittima la procedura esecutiva e nullo il provvedimento di assegnazione delle somme in favore dell’avv. B. (pur dichiarando l’inammissibilità della produzione documentale effettuata dalla curatela in appello e compensando le spese di entrambi i gradi).

L’avv. B. propone ricorso per cassazione, articolato in dieci motivi, nei confronti della Curatela del Fallimento (OMISSIS) S.r.l., di F. e del Condominio (OMISSIS), per la cassazione della sentenza n. __, pubblicata il __ dalla Corte di Appello di Catanzaro.

Resiste la Curatela del Fallimento con controricorso.

Sia B. che la Curatela hanno depositato memoria. Il ricorrente, in memoria, introduce l’argomento relativo al difetto di legittimazione attiva della curatela, originaria opponente, perché la sua posizione non è quella di un terzo che faccia valere un diritto reale sui beni pignorati, che possa essere prevalente rispetto al diritto del creditore procedente.

Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

Motivi della decisione

In sintesi, il contenuto dei dieci motivi di ricorso articolati dal ricorrente è il seguente:

Con il primo motivo si deduce la violazione degli artt. 112, 324, 329, 346 e 2909 c.c., art. 132 c.p.c., comma 4 e art. 118 disp. att. c.p.c., per aver omesso di pronunciare sulla eccezione di giudicato formatosi sulla sentenza di prime cure sollevata in appello da B. Sostiene il ricorrente che la curatela non avrebbe impugnato in toto la sentenza di primo grado, e che su alcune affermazioni dirimenti della sentenza di primo grado, quale l’esistenza in bilancio di una voce di credito in favore di F. come persona fisica, si sarebbe formato il giudicato interno, che non avrebbe consentito la contrastante affermazione, contenuta nella sentenza di appello, che di quel credito F. sarebbe stato creditore non in proprio ma per le attività di amministrazione condominiale svolte riconducibili alla società poi fallita.

Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 342 c.p.c. in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4, per non aver colto la genericità dell’appello e la sua mancata coincidenza con le rationes decidendi della sentenza di primo grado.

Con il terzo deduce nuovamente la violazione degli artt. 324, 329, 346 c.p.c. e art. 2909 c.c. per aver pronunciato su aspetti della sentenza di primo grado coperti dal giudicato interno.

Con il quarto, deduce la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 4, c.p.c., art. 118 disp. att., artt. 116 e 210 c.p.c., per aver illogicamente interpretato e travisato l’ordine di esibizione documentale impartito dal giudice.

Con il quinto, lamenta ancora la violazione e falsa applicazione degli articoli citati, per aver riesaminato le risultanze documentali prodotte dalla curatela opponente, nonostante l’inammissibilità dell’appello per i motivi sopra indicati. Con il sesto, lamenta la violazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., per aver ritenuto fondata l’opposizione tardiva di terzo nonostante la carenza di prova e per aver invertito l’onere probatorio, ponendolo a carico dell’opposto.

Con il settimo motivo denuncia il travisamento della prova, con l’ottavo la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 4 e art. 118 disp. att., per difetto assoluto di motivazione sulle risultanze documentali, coperte da giudicato interno, portanti il riconoscimento di debito in favore del debitore esecutato, ritenute apoditticamente frutto di un mero errore di trascrizione.

Con il nono motivo, il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 116 e 228 c.p.c., art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c., per aver travisato il contenuto della sentenza di primo grado, il contenuto delle dichiarazioni del curatore rese in sede di interrogatorio formale e il contenuto della dichiarazione resa a suo tempo dal legale rappresentante del condominio quale terzo pignorato.

Infine, con il decimo motivo si impugna la compensazione delle spese.

Tuttavia, si prescinde dall’esame dei motivi per l’esistenza di una questione pregiudiziale, dirimente in quanto idonea a definire la causa.

Occorre, in primo luogo, verificare se sia ammissibile l’utilizzazione dello strumento della opposizione di terzo all’esecuzione qualora il terzo agisca non a tutela della proprietà o di un diritto reale sul bene sottoposto all’esecuzione, ma a tutela di un proprio credito, ovvero se, estraneo alla esecuzione, agisca assumendo di essere l’effettivo titolare del credito espropriato.

A questo riguardo, la Corte ha avuto già modo di rispondere affermativamente, adottando una soluzione pienamente condivisibile, in quanto l’opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. è l’unico strumento di tutela del terzo creditore verso l’esecuzione: non essendo questi assoggettato direttamente all’esecuzione, non può proporre opposizione agli atti esecutivi per fare valere l’invalidità o l’irregolarità di singoli atti del processo, così come è esclusa la legittimazione attiva a proporre l’opposizione agli atti esecutivi in capo al terzo che pretenda di avere la proprietà o altro diritto reale sui beni pignorati e che perciò sia legittimato a proporre opposizione di terzo all’espropriazione mobiliare o immobiliare.

Inoltre, la posizione del terzo che assume di essere l’effettivo titolare del credito assoggettato al pignoramento appare pienamente assimilabile a quella di chi assume di essere l’effettivo titolare del diritto (reale) sulla cosa assoggettata all’esecuzione.

In questo senso si è già espressa Cass. n. 14639 del 2014, affermando che, malgrado il tenore letterale della norma, questo rimedio va riconosciuto anche al terzo (diverso, ovviamente, dal terzo pignorato) pregiudicato dall’espropriazione del credito ai sensi degli artt. 543 c.p.c. e ss. La stessa pronuncia segnala che laddove sul punto non si evidenziano contrasti nella giurisprudenza di legittimità, sussiste invece contrasto giurisprudenziale sulla differente questione del momento entro il quale, in caso di espropriazione presso terzi, debba essere proposta l’opposizione di terzo all’esecuzione, essendosi affermato, in alcuni precedenti, che il limite ultimo sarebbe segnato dalla pronuncia dell’ordinanza di assegnazione (così Cass. n. 4703/84, n. 10028/98), in altri, che l’opposizione di terzo sarebbe consentita anche dopo l’assegnazione (cfr. Cass. n. 7413/97, n. 10878/12).

Si tratta in definitiva di verificare se il terzo creditore possa accedere anche allo strumento della opposizione tardiva, disciplinato dall’art. 620 c.p.c., che prevede che se in seguito all’opposizione il giudice non sospende la vendita o se l’opposizione è proposta dopo la vendita stessa, i diritti del terzo si fanno valere sulla somma ricavata. È questo uno strumento di tutela utilizzabile in sede di espropriazione mobiliare o immobiliare, in cui alla fase di vendita segue la fase di distribuzione del ricavato, e quindi, laddove il terzo non sia riuscito ad evitare la vendita, per propria intempestività o per la scelta del giudice di non sospendere l’esecuzione, ha ancora la possibilità di far valere i suoi diritti, benché non più sul bene ma sulla somma ricavata dalla vendita del bene.

L’opposizione tardiva di terzo alla esecuzione non appare invece compatibile con la struttura del pignoramento dei crediti, in cui con l’ordinanza di assegnazione del credito termina la procedura esecutiva. Ciò che rileva, ai fini della proponibilità della domanda, non è il profilo della legittimazione, ma il principio della scansione procedimentale in fasi e il principio generale di tendenziale stabilità dei provvedimenti conclusivi del processo esecutivo. Deve pertanto affermarsi il principio per cui “Lo strumento della opposizione tardiva di terzo all’esecuzione, disciplinato dall’art. 620 c.p.c., non è utilizzabile dal terzo che assuma di essere l’effettivo titolare del credito pignorato, non essendo l’opposizione tardiva all’esecuzione compatibile con la struttura del pignoramento presso terzi in cui con l’adozione della ordinanza di assegnazione la procedura esecutiva è terminata”.

Applicando i principi enunciati al caso di specie, la sentenza impugnata deve essere cassata senza rinvio, perché l’opposizione tardiva del terzo che assume di essere il vero creditore all’esecuzione non avrebbe potuto essere proposta dopo l’emissione della ordinanza di assegnazione (affermazione non in contrasto con quanto affermato da Cass. n. 10878 del 2012 in relazione alla diversa posizione del terzo pignorato).

Atteso che si tratta di una questione nuova, rilevata d’ufficio, ma in rito, non è necessario sollecitare il contraddittorio delle parti sul punto, ex art. 384 c.p.c., comma 3.

I dati di fatto rilevanti (relativi al tempo della proposizione della opposizione, successivo alla emissione della ordinanza di assegnazione, al diritto fatto valere in giudizio, che è un diritto di credito non precedentemente accertato, e non un diritto reale vantato da un terzo) sono del resto incontroversi.

Atteso che il profilo che porta al risultato utile perseguito dal ricorrente (porre nel nulla la sentenza di accoglimento della opposizione) avviene per un motivo che non è mai stato evidenziato dallo stesso e non è mai stato neppure sottoposto al contraddittorio delle parti, le spese di giudizio sono compensate.

P.Q.M.

Cassa senza rinvio la sentenza impugnata. Compensa integralmente le spese di giudizio tra le parti.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di cassazione, il 1° ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 6 febbraio 2020.

 

Cass. civ. Sez. III Sent. 06_02_2020 n. 2868




Avverso la sentenza dichiarativa di fallimento è esclusa l’esperibilità dell’opposizione del terzo

Avverso la sentenza dichiarativa di fallimento è esclusa l’esperibilità dell’opposizione del terzo

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 4786 del 24/02/2020

Con ordinanza del 24 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che avverso la sentenza dichiarativa di fallimento è esclusa l’esperibilità dell’opposizione del terzo, ex art. 404, comma 1, c.p.c., in quanto detto rimedio è assorbito in quello di carattere generale previsto dall’art. 18 L.F., proponibile oltre che dal debitore fallito anche da qualunque interessato.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 4786 del 24/02/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

V. S.r.l. e D. – ricorrenti –

contro

A. S.a., S. S.a., Fallimento (OMISSIS) S.r.l., P. S.a.s. – intimati –

avverso la sentenza n. __ della Corte d’Appello di Napoli, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal cons. __.

Svolgimento del processo

  1. – V. S.r.l. e D. ricorrono per due mezzi, nei confronti di A. S.a., S. s.a., Fallimento (OMISSIS) S.r.l. e P. S.a.s., contro la sentenza del __ con cui la Corte di appello di Napoli, ha dichiarato inammissibile l’opposizione di terzo ordinaria da essi spiegata, ex art. 404 c.p.c., comma 1, contro la sentenza dichiarativa di fallimento di (OMISSIS) S.r.l. pronunciata dal Tribunale di Napoli.

Ha ritenuto la Corte territoriale che la sentenza dichiarativa di fallimento rimanga assoggettata al solo rimedio, di carattere generale, previsto dalla L.F., art. 18 (nella specie nel testo applicabile ratione temporis antecedente alla riforma della legge fallimentare del 2006), esperibile anche dai terzi interessati e tale perciò da assorbire e precludere l’opposizione di cui al citato art. 404 spiegata del terzo il quale si affermi direttamente danneggiato dalla sentenza.

  1. – A S.a., S. S.a., Fallimento (OMISSIS) S.r.l. e P. S.a.s. non svolgono difese.

Motivi della decisione

  1. – Il ricorso contiene due motivi.

Il primo motivo è rubricato “Violazione di legge; violazione, falsa e/o erronea applicazione dell’art. 404 c.p.c.; erroneo richiamo ed applicazione dell’art. 18 L. F.; omessa, contraddittoria ed inidonea motivazione della sentenza impugnata; violazione art. 360 c.p.c., n. 5; violazione artt. 3 e 24 Cost.”, ed assume che la Corte distrettuale (così come il Tribunale) aveva “sostanzialmente abrogato l’art. 404 c.p.c., rimedio straordinario al verificarsi di determinate condizioni per impugnare una sentenza passata in giudicato, nei confronti delle sentenze dichiarative di fallimento”. Si sostiene che l’assunto contenuto nella decisione impugnata – “conferire più rapida certezza alle sentenze dichiarative di fallimento, atteso il contenuto delle stesse, non più impugnabili decorsi i relativi termini, poiché esse vanno notificate anche tramite affissione e poiché l’impugnativa, a differenza di altre decisioni, può essere proposta, giusta la L.F., art. 18, da qualunque interessato” – sarebbe illegittimo, oltre che lesivo dei diritti garantiti ai ricorrenti dagli artt. 3 e 24 Cost. I ricorrenti sollevano quindi eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 404 c.p.c., con riferimento a queste ultime disposizioni costituzionali, “nella parte in cui non prevede che siano assoggettabili a tale rimedio le sentenze dichiarative di fallimento da parte di coloro il cui interesse ad agire sia sopravvenuto alla sentenza stessa”, essendo “innegabile che il terzo che subisce un pregiudizio da una sentenza dichiarativa di fallimento nulla ed illegittima non possa difendersi” (pag. __ ricorso).

Il secondo motivo, che deduce “Violazione di legge; violazione della L.F., artt. 9, 16 e 17”, svolge argomentazioni dirette a dimostrare la fondatezza, nel merito, della spiegata opposizione ex art. 404 c.p.c.

  1. Il ricorso va respinto.

2.1. – Il primo motivo è in parte inammissibile, in parte infondato.

2.1.1. – Esso è inammissibile con riguardo alla denuncia di vizio motivazionale, giacché fondato su una nozione di vizio di motivazione non riconducibile ad alcuna delle ipotesi previste dal codice di rito, ed in particolare non riconducibile a quella contemplata dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo vigente ed applicabile, atteso che tale mezzo di impugnazione concerne esclusivamente l’omesso esame di un fatto decisivo e controverso e non anche l’interpretazione o l’applicazione di norme giuridiche, che invece ricade nella previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, rispetto alla quale l’eventuale vizio od omissione della motivazione in diritto non ha alcuna rilevanza autonoma, potendo eventualmente, in presenza di una corretta decisione del giudice di merito della questione sottoposta al suo esame, dar luogo alla correzione della stessa ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, (p. es. Cass. n. 15196 del 2018; Cass. n. 16640 del 2005; Cass. n. 11883 del 2003).

2.1.2. – Per il resto il motivo è infondato.

La Corte distrettuale ha escluso l’esperibilità dell’opposizione ex art. 404 c.p.c., comma 1, avverso la sentenza dichiarativa di fallimento perché assorbita dal rimedio di carattere generale previsto dalla L.F., art. 18, nel testo, qui applicabile, anteriore alla riforma di cui al D.Lgs. n. 5 del 2006, disposizione secondo cui, contro la dichiarazione di fallimento, non solo il debitore, ma anche qualunque interessato, possono proporre opposizione nel termine previsto.

La soluzione adottata dalla Corte territoriale è conforme a diritto.

Come è noto, la L.F., art. 18, comma 1, nel testo qui applicabile, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui fissava, per il debitore, la decorrenza del termine di 15 giorni, per proporre opposizione, dalla data di affissione della sentenza di fallimento (Corte Cost. n. 151 del 1980). La Corte costituzionale ha viceversa giudicato manifestamente infondata la stessa questione sollevata in riferimento ai soggetti diversi dal debitore (Corte Cost. n. 273 del 1987). Da qui il consolidarsi dell’orientamento secondo cui quel termine decorre, per il debitore, dalla data di comunicazione dell’estratto della dichiarazione di fallimento, e, per gli altri interessati, dall’affissione (Cass., SU, n. 5104 del 1996; Cass. n. 6059 del 1997; Cass. n. 6166 del 2002; Cass. n. 5018 del 2009).

Quanto alla peculiare conformazione dell’impugnazione rivolta contro la sentenza dichiarativa di fallimento, la quale – ieri l’opposizione, poi l’appello, oggi il reclamo – spetta a qualunque interessato, sebbene estraneo al procedimento che ha condotto a detta pronuncia, è agevole osservare che essa discende dalla natura stessa della dichiarazione di fallimento, la quale dispiegava (e dispiega tuttora) i suoi plurimi effetti non solo nei confronti dei partecipanti alla fase prefallimentare, ma anche di pluralità di soggetti che con l’imprenditore avessero intessuto una svariata rete di rapporti: soggetti cui, per tale ragione, il legislatore attribuisce la legittimazione ad aggredire la sentenza dichiarativa di fallimento con lo strumento di cui alla L.F., art. 18.

Tale è quindi la ragione in forza della quale a qualunque interessato – nozione in cui devono includersi coloro la cui posizione giuridica risulti incisa dalla sentenza dichiarativa di fallimento per la semplice ragione che il fallimento modifica l’assetto giuridico che li riguarda – devono essere riconosciuti tutti i poteri processuali che non ha potuto esercitare nel giudizio conclusosi con la sentenza di fallimento che egli chiede sia rimossa.

Né v’è dubbio che il riconoscimento della legittimazione processuale a qualunque interessato, nei ristretti termini e con le modalità previste dalla norma, mirasse a conseguire (così come la norma attualmente vigente, del resto) un risultato di stabilità giuridica della sentenza dichiarativa di fallimento, che non avrebbe potuto realizzare la propria funzione se fosse stata impugnabile anche a notevole distanza di tempo da un numero indeterminato di soggetti.

In definitiva, deve concludersi che gli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento si estendono verso una pluralità di terzi, titolari di posizioni giuridiche che sono soggette a modifica dalla pronuncia, i quali avrebbero potuto proporre l’opposizione L.F., ex art. 18: rimedio che, per essi, svolgeva una funzione sostanzialmente analoga a quella che, nel giudizio di cognizione ordinaria, spetta all’opposizione ape di terzo.

Resta da aggiungere, per completezza, che la sentenza impugnata dà atto, a pagina __, dell’osservazione degli appellanti “di non aver mai chiesto la sussunzione del proprio rimedio alla L.F., art. 18, trattandosi di impugnazioni non sovrapponibili: di guisa che neppure si poneva un problema di interpretazione dell’impugnazione proposta, ovvero di conversione dell’una nell’altra, giacché la Corte d’appello certamente non avrebbe potuto sostituire un rimedio diverso a quello che espressamente le parti avevano dichiarato di aver voluto utilizzare (Cass. n. 13945 del 2012).

Da ultimo, infine, è manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 404 c.p.c., sollevata dagli odierni ricorrenti con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede che siano assoggettabili a tale rimedio le sentenze dichiarative di fallimento da parte di coloro il cui interesse ad agire sia sopravvenuto alla sentenza stessa, essendo innegabile che il terzo che subisce un pregiudizio da una sentenza dichiarativa di fallimento nulla ed illegittima non possa difendersi, posto che proprio la vastità della categoria di coloro a carico dei quali operano gli effetti della menzionata sentenza (autori di atti pregiudizievoli ai creditori, parti di rapporti pendenti, creditori non istanti, etc.), non identificabili a priori, giustifica la necessità di trattazione e decisione unitarie della pluralità di opposizioni da essi, in ipotesi proponibili, legittimando la previsione, nel sistema della legge fallimentare, di un unico rimedio a ciò destinato (quello, di oggetto ben più ampio rispetto all’opposizione ex art. 404 c.p.c., sancito dalla L.F., art. 18, nelle varie configurazioni susseguitesi anche dopo le novelle di cui D.Lgs. n. 5 del 2006 e D.Lgs. n. 169 del 2007), il cui termine iniziale e la relativa decorrenza siano sottratti alla iniziativa degli interessati, così da rendere irretrattabili gli effetti del fallimento dichiarato.

2.2. Il secondo motivo è assorbito.

  1. – Il ricorso è rigettato. Nulla per le spese. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

rigetta il ricorso, dando atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, che sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della prima sezione civile, il 27 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2020.

 

Cass. civ. Sez. I Ord. 24_02_2020 n. 4786




L’omessa menzione nell’atto di precetto del provvedimento di dichiarazione di esecutorietà

L’omessa menzione nell’atto di precetto del provvedimento di dichiarazione di esecutorietà del provvedimento monitorio comporta la nullità

Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 24226 del 30/09/2019

Con sentenza del 30 settembre 2019, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che nell’espropriazione forzata minacciata ex art. 654 c.p.c. in virtù di decreto ingiuntivo esecutivo, l’omessa menzione nell’atto di precetto del provvedimento di dichiarazione di esecutorietà del provvedimento monitorio comporta la nullità – deducibile con l’opposizione agli atti esecutivi – del precetto stesso, non potendo l’indicazione di tale provvedimento evincersi dalla menzione dell’apposizione della formula esecutiva. (Nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto la nullità del precetto recante la menzione del numero, data e autorità del decreto ingiuntivo, della mancata opposizione e dell’apposizione della formula esecutiva, ma privo della indicazione del provvedimento di dichiarazione di esecutorietà).


Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 24226 del 30/09/2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

S. s.a.s. – ricorrente –

contro

C. – intimato –

avverso la sentenza n. __ del Tribunale di Salerno, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere Dott. __;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __ che ha concluso per il rigetto.

Svolgimento del processo

che:

S. s.a.s. si opponeva al precetto notificato da C. in forza di decreto ingiuntivo, esponendo che l’intimazione mancava della indicazione del provvedimento dichiarativo dell’esecutorietà del monito;

il tribunale rigettava l’opposizione ritenendo sufficiente l’indicazione dell’apposizione della formula esecutiva all’ingiunzione non opposta;

avverso questa decisione ricorre per cassazione S. s.a.s. articolando un motivo;

non ha svolto difese l’intimato;

Motivi della decisione

Che:

con l’unico motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 654 c.p.c., comma 2, poiché il tribunale avrebbe errato mancando di constatare la mancanza della menzione del provvedimento dichiarativo dell’esecutorietà del decreto ingiuntivo azionato.

Rilevato che:

il motivo è fondato;

questa Corte ha da tempo chiarito che la menzione, nel precetto, del provvedimento con cui è stata disposta l’esecutorietà del decreto ingiuntivo azionato, in uno a quella dell’apposizione della formula esecutiva, sostituisce la formalità di una nuova notifica del titolo, integrando, con finalità di semplificazione, la precedente notificazione effettuata, facendo decorrere il termine per l’opposizione, nel momento in cui l’ingiunzione era ancora priva di efficacia esecutiva (Cass., 15/03/1969, n. 843; Cass., 30/05/2007, n. 12731; Cass., 05/05/2009, n. 10294);

questa doppia menzione, qualora mancante, determina una nullità del precetto omologa all’ipotesi di notifica dell’intimazione non preceduta da quella del titolo, non suscettibile di sanatoria bensì solo di stabilizzazione a seguito di mancata proposizione nei termini (sempre rilevabile d’ufficio) dell’opposizione formale ex art. 617 c.p.c. (Cass., 23/10/2014, n. 22510);

ciò posto, è stato altresì sottolineato che la sussistenza della duplice menzione in esame deve accertarsi indipendentemente da prescrizioni formali d’indicazione, dovendosi assicurare la conoscenza dell’ingiunto interpretando il precetto alla luce del principio di conservazione degli atti, evitando lungaggini determinate da formalismi (Cass., 01/12/1993, n. 11885, in un caso in cui il precetto riportava la data di esecutorietà del decreto senza citare il relativo provvedimento, e la richiesta di copia esecutiva, come voce dell’intimazione, da cui poteva e doveva evincersi il rilascio della relativa formula);

per questo è stato ritenuto che l’indicazione di esecutività dell’ingiunzione comportasse una implicita attestazione dell’apposizione della formula esecutiva (Cass., 30/05/2007, n. 12731), ovvero che l’indicazione dell’ordinanza di estinzione del giudizio di opposizione, in uno all’indicazione della data di apposizione della formula esecutiva, integrasse i requisiti formali in parola (Cass., 28/02/2018, n. 4705);

nel caso qui in scrutinio, però, il precetto, quale riportato nel ricorso per cassazione (pag. __) in ossequio al disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 6, indicava: il numero, la data e l’autorità giudiziaria emanante il decreto ingiuntivo; la mancata opposizione; l’apposizione della formula esecutiva;

non risulta quindi la menzione, neppure indiretta, del provvedimento di dichiarazione di esecutorietà;

né si potrebbe ritenere la possibilità di evincere il requisito dall’indicazione di apposizione della formula, e ciò per plurime ragioni:

  1. a) si tratta di menzioni distintamente previste dal legislatore, sicché l’opposta conclusione si tradurrebbe in una interpretazione abrogante come tale inammissibile;
  2. b) le menzioni corrispondono a due diverse attività e garanzie per l’ingiunto: l’una, del giudice, che, dichiarando l’esecutorietà, attesta di aver verificato la regolarità della notificazione e il legale decorso dei termini per l’opposizione; l’altra, del cancelliere, che autorizza il richiedente legittimato all’utilizzo del documento contenente il titolo a fini coattivi, ovvero ad avvalersi, per quello, dell’organo esecutivo; non essendo necessari ulteriori accertamenti, l’opposizione può essere accolta decidendo nel merito;

le spese del giudizio, con particolare riferimento alle prime cure in cui vi è stata costituzione della controparte, possono essere compensate stanti le precisazioni nomofilattiche qui esposte.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso, cassa la decisione impugnata e, decidendo nel merito, accoglie l’opposizione. Spese compensate.

Così deciso in Roma, il 25 giugno 2019.

 

Cass. civ. Sez. III Sent. 30_09_2019 n. 24226




L’interpretazione extratestuale del titolo esecutivo giudiziale è consentita

L’interpretazione extratestuale del titolo esecutivo giudiziale è consentita purché avvenga sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo

Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, Ordinanza n. 5049 del 25/02/2020

Con ordinanza del 25 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che l’interpretazione extratestuale del titolo esecutivo giudiziale è consentita purché avvenga sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo e l’esito non sia tale da attribuire al titolo una portata contrastante con quanto risultante dalla lettura congiunta di dispositivo e motivazione, mentre il contrasto tra il tenore del titolo rispetto a elementi extratestuali oggettivamente discordanti può essere, eventualmente, emendata, secondo i rispettivi presupposti e limiti temporali, o con il ricorso al procedimento di correzione presso lo stesso giudice che ha emesso il provvedimento impugnato o attraverso l’impugnazione per revocazione.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, Ordinanza n. 5049 del 25/02/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

C. – ricorrente –

contro

R. S.p.A. – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il __ R.G.N. __.

Svolgimento del processo

CHE:

  1. C., dopo avere lavorato presso E. fino al __, posto in prepensionamento sulla base delle leggi regionali in materia;

la L.R. Sicilia n. 42 del 1975, art. 6, comma 2, prevedeva in particolare che al personale prepensionato fosse corrisposta un’indennità mensile pari al 80% della retribuzione globale di fatto, da determinarsi, secondo quanto poi stabilito dalla L.R. Sicilia n. 46 del 1984, art. 10 sulla base della retribuzione percepita in uno dei mesi precedenti la risoluzione del rapporto di lavoro secondo richiesta dell’interessato;

C., su tali basi normative, ha quindi ottenuto dal Pretore di Agrigento, sez. distaccata di Casteltermini, la declaratoria, nei confronti di E., del diritto ad avere computato nella base di calcolo del predetto assegno il compenso mensile per il lavoro supplementare svolto nel mese prescelto di giugno 1986;

tale sentenza passava in giudicato ed E. provvedeva al pagamento del dovuto calcolato sulla base di otto ore di lavoro supplementare, ma C., sul presupposto che nella motivazione la sentenza pretorile aveva fatto riferimento ad un lavoro supplementare di 24 ore, ha intimato precetto nei confronti di R. S.p.A. medio tempore subentrata nella gestione delle predette indennità;

  1. R. proponeva opposizione al menzionato precetto, che veniva, per quanto qui interessa, respinta dal Tribunale di Palermo, con pronuncia poi riformata dalla Corte d’Appello della stessa città, che la accoglieva, dichiarando la nullità del precetto e l’illegittimità della procedura esecutiva intrapresa da C.;

la Corte territoriale valorizzava l’autonomia del dispositivo nel rito del lavoro e sosteneva che la determinazione quantitativa contenuta nella motivazione non potesse valere alla pretesa determinazione delle giornate da contabilizzare, in quanto tale dato numerico era incompatibile con la produzione documentale, acquisita nel corso del processo svoltosi davanti al Pretore di Agrigento, ove erano indicate otto ore di lavoro supplementare;

  1. C. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi, resistiti da controricorso di R. S.p.A.

Motivi della decisione

CHE:

  1. con il primo motivo, formulato ex art. 360 c.p.c., n. 3 il ricorrente adduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c. e dei principi in materia di giudicato, perché la Corte d’Appello in luogo di interpretare il titolo esecutivo aveva effettuato un nuovo accertamento dei fatti posti a fondamento della sentenza pretorile azionata;

il secondo motivo, sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, afferma l’errata applicazione degli artt. 429 e 474 c.p.c., per essere stato mal governato il principio secondo cui il dispositivo avrebbe prevalenza sulla motivazione, valendo altresì il concomitante principio per cui quanto stabilito nel dispositivo dovrebbe essere coordinato con quanto enunciato in motivazione;

il terzo motivo denuncia invece la violazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4) per non avere la Corte di merito pronunciato sull’eccezione di giudicato formulata da C. nel giudizio di appello e argomentata sulla base del complessivo contenuto di dispositivo e motivazione;

il quarto motivo afferma invece che la sentenza impugnata sarebbe nulla per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 3, stante l’omessa o incompleta trascrizione delle conclusioni assunte dall’appellato, cui era poi conseguito l’omesso esame delle eccezioni dal medesimo proposte;

infine, il quinto ed ultimo motivo è rubricato sub art. 360 c.p.c., n. 5, sostenendosi che la Corte territoriale, nel ripercorrere il giudizio di merito svolto dal Pretore avesse erroneamente fatto riferimento soltanto alle risultanze del cedolino paga di giugno 1986, trascurando altri elementi considerati nella sentenza posta in esecuzione a fondamento della decisione, tra cui la nozione di retribuzione globale di fatto e gli elementi della continuità e stabilità della retribuzione;

  1. i primi tre motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente stante la loro connessione, sono fondati ed il loro accoglimento comporta l’assorbimento del quarto e del quinto motivo;

deve peraltro premettersi, per ragioni di completezza, che R. ha legittimazione passiva rispetto all’esecuzione forza, consequenzialmente, legittimazione attiva rispetto al presente giudizio di opposizione a precetto, essendo subentrata all’Assessorato regionale dell’industria che a propria volta era subentrato ad E. nella gestione delle situazioni attinenti alle indennità di prepensionamento (L.R. Sicilia n. 4 del 2003, art. 119 su cui v. anche Cass. 11 luglio 2005, n. 14497);

  1. ciò posto, l’oggetto del contendere si pone all’intersezione dei due temi relativi, da un lato, al rapporto tra dispositivo e motivazione nel rito del lavoro e, dall’altro, ai poteri di interpretazione del titolo sulla base di elementi extratestuali da parte del giudice dell’esecuzione o dell’opposizione all’esecuzione;
  2. in merito al rapporto tra dispositivo e motivazione nel rito del lavoro non vi è dubbio che il primo si caratterizzi, consequenzialmente alla sua lettura in udienza, per autonomia ed intangibilità;

la regola di interpretazione complessiva della sentenza attraverso lettura congiunta di dispositivo e motivazione non vale soltanto nel rito ordinario (tra le molte: Cass. 17 luglio 2015, n. 15088; Cass. 11 luglio 2007, n. 15585), ove indubbiamente essa è avvalorata dalla portata meramente interna del procedimento in camera di consiglio, da cui è naturale inferire, stante la possibilità di revisione delle decisioni fino al momento della pubblicazione, l’esistenza di una stringente coerenza volitiva tra dispositivo e motivazione;

in effetti, anche nel rito del lavoro, allorquando vi sia compatibilità tra il dispositivo letto in udienza e tratti integrativi di esso eventualmente contenuti nella motivazione, va data prevalenza ad una lettura coordinata dell’uno e dell’altro (v. sul punto, Cass. 21 giugno 2016, n. 12841, poi seguita, tra le altre, da Cass. 21 aprile 2017, n. 10150 e Cass. 9 agosto 2019, n. 21301, nonché, in precedenza, Cass. 5 aprile 2004, n. 6635), essendo in tal caso anche la motivazione munita di idoneità precettiva (Cass. 7 marzo 2017, n. 5703) e ciò certamente anche al fine di fornire precisazione quantitativa della portata di quanto stabilito in dispositivo (Cass. 10150/2017 cit.; Cass. 2 agosto 2003, n. 11779);

la predetta compatibilità esclude infatti che si possa ritenere violata la ratio sottesa al valore preminente del dispositivo nel rito speciale, da ravvisare nell’evitare che la decisione possa essere modificata sulla base di ripensamenti postumi rispetto alla volontà quale formata immediatamente in esito alla discussione orale della causa e corrisponde senza dubbio, evitando il rischio di ulteriori giudizi sui profili incerti, a palesi esigenze di economia processuale;

è invece solo l’insanabile ed irriducibile incoerenza tra motivazione e dispositivo a comportare la nullità della sentenza oppure (in caso di azione esecutiva intentata in pendenza dei termini o del giudizio di impugnazione o in caso di passaggio in giudicato della pronuncia senza rimedio al contrasto) la prevalenza del dispositivo (tra le molte: v. Cass. 28 maggio 2004, n. 10376; Cass. 20 settembre 2003 n. 13976; Cass. 11 maggio 2002, n. 6786);

pertanto, in mancanza di tale assoluta incoerenza, sia la portata del giudicato, sia gli effetti esecutivi della sentenza sono da trarre sulla base di una valutazione complessiva dell’atto;

  1. si pone tuttavia a questo punto un diverso problema, consistente nella possibilità del giudice dell’esecuzione (o di opposizione alla stessa) di interpretare la sentenza sulla base di elementi extratestuali, come di fatto è accaduto nel caso di specie, ove la Corte d’Appello, in sede di opposizione a precetto, ha affermato che, sulla base di un documento del giudizio di merito (lo statino paga di giugno 1986), il titolo andava inteso come limitato alle 8 ore di lavoro supplementare pagate da E. prima dell’inizio dell’azione esecutiva; in proposito va condiviso, a seguito di Cass., S.U., 2 luglio 2012, n. 11066 il principio per cui “il titolo esecutivo giudiziale, ai sensi dell’art. 474 c.p.c., comma 2, n. 1, non si identifica, né si esaurisce, nel documento giudiziario in cui è consacrato l’obbligo da eseguire, essendo consentita l’interpretazione extratestuale del provvedimento, sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui esso si è formato. Ne consegue che il giudice dell’opposizione all’esecuzione non può dichiarare d’ufficio la illiquidità del credito, portato dalla sentenza fatta valere come titolo esecutivo, senza invitare le parti a discutere la questione e a integrare le difese, anche sul piano probatorio” (conformi, poi, Cass. 21 dicembre 2016, n. 26567; Cass. 1° ottobre 2015, n. 19641; Cass. 31 ottobre 2014, n. 23159; fa sostanziale applicazione del medesimo principio anche Cass. 7 agosto 2019, n. 21165);

come anche va ammesso che, in sede esecutiva, “se nessuna delle parti si avvale del procedimento di correzione, non è preclusa la possibilità di cogliere ed affermare il reale contenuto precettivo della statuizione giudiziale in via interpretativa, sulla base di una lettura coordinata del dispositivo e della motivazione e, conseguentemente, porla in esecuzione facendola valere come titolo esecutivo” (Cass. 31 marzo 2007, n. 8060), precisandosi altresì, nel ribadire il principio, che esso opera in presenza di una “vizio meramente formale, derivante da divergenza evidente e facilmente rettificabile tra l’intendimento del giudice e la sua esteriorizzazione” (Cass. 8 marzo 2013, n. 5939);

tuttavia, l’interpretazione extratestuale del titolo non può giungere fino ad attribuire ad esso una portata che, in contrasto con quanto risultante dalla lettura congiunta di dispositivo e motivazione, sia testualmente difforme dal contenuto documentale di esso;

è solo l’errore materiale risultante in modo certo dal titolo stesso che può consentire, secondo quanto affermato da Cass. 8060/2007 e Cass. 5939/2013, l’interpretazione correttiva in sede di esecuzione, mentre il contrasto tra il tenore del titolo, quale da ricostruirsi nei termini sopra detti dal complesso di motivazione e dispositivo, rispetto a elementi extratestuali in ipotesi oggettivamente discordanti, non può che essere (eventualmente) emendata, secondo i rispettivi presupposti e limiti anche temporali, con il ricorso al procedimento di correzione presso lo stesso giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, unico legittimato a verificare se vi sia stato errore materiale ove esso necessiti il confronto critico con gli atti di causa o attraverso l’impugnazione per revocazione;

  1. la Corte territoriale, non considerando come sussistesse compatibilità tra il riferimento del dispositivo al lavoro supplementare di giugno 1986 quale elemento da considerare nella determinazione dell’assegno di prepensionamento di C. e l’indicazione in motivazione, ai medesimi fini, di 24 mensilità come inerenti a tale lavoro supplementare di quel mese, ha dunque violato i principi di cui sopra procedendo indebitamente in sede di opposizione a precetto ad una nuova valutazione dei fatti oggetto del giudizio di merito nel cui ambito il titolo ed il giudicato si sono formati;

alla cassazione della sentenza impugnata segue il rinvio alla medesima Corte d’Appello affinché provveda alla definizione della causa sulla base delle corrette regole interpretative qui enunciate.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Palermo, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 28 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2020

 

Cass. civ. Sez. Lavoro Ord. 25_02_2020 n. 5049




Il terzo pignorato è interessato alle vicende processuali che riguardando la legittimità o la validità del pignoramento

Il terzo pignorato è interessato alle vicende processuali che riguardando la legittimità o la validità del pignoramento

Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 3899 del 17/02/2020

Con sentenza del 17 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che il terzo pignorato, avendo l’obbligo di non compiere atti che determinino l’estinzione o il trasferimento del credito, è interessato alle vicende processuali che, riguardando la legittimità o la validità del pignoramento, possano comportare, o meno, la sua liberazione dal relativo vincolo; ne consegue che egli è parte necessaria del processo di opposizione in cui il creditore pignorante contesti l’ordinanza del giudice dell’esecuzione dichiarativa dell’inefficacia del detto pignoramento e che, pertanto, deve essere chiamato in causa dal ricorrente al fine di rendere opponibile nei suoi confronti la decisione che definisce il giudizio, dovendo il giudice, in mancanza, ordinare l’integrazione del contraddittorio. (In applicazione del principio, la Suprema Corte ha rilevato, d’ufficio, la nullità di un giudizio di opposizione ex art. 617 c.p.c., promosso avverso un provvedimento del giudice dell’esecuzione concernente una richiesta di sequestro conservativo su crediti del debitore esecutato, nel quale non era stato convenuto il terzo pignorato).


Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 3899 del 17/02/2020

Il terzo pignorato è interessato alle vicende processuali che riguardando la legittimità o la validità del pignoramento

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al numero 19306 del ruolo generale dell’anno 2017, proposto da:

S. – ricorrente –

nei confronti di:

B. S.p.A. – controricorrente –

per la cassazione della sentenza del Tribunale di Trento n. __, pubblicata in data __;

udita la relazione sulla causa svolta alla pubblica udienza in data __ dal consigliere Dott. __;

uditi:

il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale Dott. __, che ha concluso per il rigetto dei primi due motivi del ricorso principale e per l’accoglimento del terzo;

l’avvocato __, per delega dell’avvocato __, per il ricorrente;

l’avvocato __, per la società controricorrente.

Svolgimento del processo

  1. S.p.A., ottenuta l’autorizzazione al sequestro conservativo dei beni di S. fino a concorrenza dell’importo di Euro __, ha proceduto all’attuazione della misura cautelare sui crediti vantati dal debitore nei confronti di I. S.p.A., ente gestore di un fondo pensione. La società terza ha reso la dichiarazione di quantità, facendo presente che il capitale accumulato ammontava ad Euro __, che S. aveva presentato richiesta di riscatto totale della propria posizione e che era ancora in corso l’iter liquidativo. S. ha contestato la sequestrabilità delle somme accantonante nel fondo ed il giudice dell’esecuzione ha rigettato la richiesta di sequestro. Avverso tale provvedimento, B. ha proposto opposizione agli atti esecutivi, ai sensi dell’art. 617 c.p.c.

L’opposizione è stata accolta dal Tribunale di Trento.

Ricorre S., sulla base di tre motivi.

Resiste con controricorso B. S.p.A.

Motivi della decisione

  1. Risulta pregiudiziale il rilievo, operabile anche di ufficio, della nullità della decisione impugnata, per difetto di integrità del contraddittorio nel giudizio di merito.

Secondo il tradizionale indirizzo di questa Corte “nell’espropriazione presso terzi, il pignoramento impone al terzo pignorato di non compiere atti che comportino l’estinzione del credito, con il pagamento, o che attengano al trasferimento del credito ad altri, quale l’accettazione della cessione, cosicché il terzo diviene interessato alle vicende processuali che riguardano la legittimità o validità del pignoramento, in quanto comportano la sua liberazione o meno da tale vincolo; pertanto, qualora il creditore pignorante proponga opposizione avverso l’ordinanza del giudice dell’esecuzione dichiarativa dell’inefficacia dell’eseguito pignoramento, con conseguente liberazione del terzo pignorato da ogni vincolo sulle somme oggetto del suo debito verso il debitore esecutato, il terzo è litisconsorte necessario del relativo processo e la sua mancata chiamata in giudizio comporta la inopponibilità, nei suoi confronti, della sentenza che lo definisce” (espressamente in tal senso: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 9527 del 22/12/1987, Rv. 456603 – 01; conf.: Sez. 3, Sentenza n. 9571 del 01/10/1997, Rv. 508411 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 10321 del 21/10/1997, Rv. 509066 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 15703 del 08/11/2002, Rv. 558343 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 493 del 15/01/2003, Rv. 559748 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 6432 del 23/04/2003, Rv. 562404 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 5342 del 05/03/2009, Rv. 606953 – 01).

In proposito si è altresì precisato, a contrario, che “il terzo pignorato non è parte necessaria nel giudizio di opposizione all’esecuzione o di opposizione agli atti esecutivi qualora non sia interessato alle vicende processuali relative alla legittimità e alla validità del pignoramento, dalle quali dipende la liberazione dal relativo vincolo” (così: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 13191 del 26/06/2015, Rv. 635974 – 01; conf.: Sez. 3, Sentenza n. 14106 del 01/07/2005, Rv. 582580 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 11360 del 16/05/2006, Rv. 589801 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 11928 del 22/05/2006, Rv. 589980 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 3276 del 12/02/2008, Rv. 601763 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 11585 del 19/05/2009, Rv. 607948 – 01).

L’oggetto della presente opposizione è la validità ed efficacia del sequestro conservativo operato da B. S.p.A., in relazione ai crediti vantati da S. nei confronti di I. S.p.A. (società che gestisce un fondo pensione), sequestro dichiarato inefficace dal giudice dell’esecuzione (con conseguente liberazione del terzo pignorato dai suoi obblighi di custodia).

È quindi evidente che dall’esito del presente giudizio dipende la effettiva liberazione del terzo pignorato ovvero la persistenza del vincolo sui crediti oggetto del sequestro; sussiste, di conseguenza, un evidente interesse di quest’ultimo a partecipare al giudizio stesso.

A maggior ragione ciò emerge, considerando che:

– il terzo I. S.p.A. aveva dichiarato, per quanto riguarda i crediti oggetto di sequestro (derivanti da fondo pensione), che vi era una richiesta di riscatto ma che a seguito del sequestro era stato sospeso l’iter liquidativo, senza chiarire se era già stata verificata positivamente la sussistenza dei requisiti per il riscatto stesso;

– il giudice dell’esecuzione aveva rigettato la richiesta di sequestro, ritenendo i crediti non pignorabili/sequestrabili;

– il Tribunale (non limitandosi a revocare detto provvedimento) ha invece dichiarato direttamente attuato il sequestro, senza alcun ulteriore approfondimento in ordine al carattere effettivamente positivo della indicata dichiarazione di quantità, con conseguente possibilità di conversione del sequestro in pignoramento e di assegnazione dei suddetti crediti, all’esito del presente giudizio, senza che la società terza debitrice abbia potuto prendervi parte e senza neanche che risulti che essa ne abbia avuto notizia, dopo il provvedimento del giudice dell’esecuzione che aveva disposto la liberazione dei crediti pignorati, ciò che comporta, come è evidente, la sua esposizione al rischio concreto di un doppio pagamento.

  1. Allorquando si sia verificata violazione delle norme sul litisconsorzio necessario, non rilevata né dal giudice di primo grado, che non ha disposto la integrazione del contraddittorio, né da quello di appello che non ha provveduto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354 c.p.c., comma 1, resta viziato l’intero procedimento e si impone, in sede di giudizio per cassazione, l’annullamento, anche di ufficio, delle pronunce emesse ed il rinvio della causa al giudice di prime cure a norma dell’art. 383 c.p.c., u.c., (Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 6644 del 16/03/2018, Rv. 648481 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 18127 del 26/07/2013, Rv. 627384 – 01; Sez. U, Sentenza n. 3678 del 16/02/2009, Rv. 607444 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 8825 del 13/04/2007, Rv. 599201 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 26041 del 29/11/2005, Rv. 585734 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 3866 del 26/02/2004, Rv. 570566 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 1462 del 30/01/2003, Rv. 560455 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 15643 del 07/11/2002, Rv. 560416 – 01; il principio è evidentemente applicabile anche per le cause che si svolgono in unico grado di merito, come l’opposizione agli atti esecutivi di cui all’art. 617 c.p.c.).
  2. La sentenza impugnata è in definitiva nulla per difetto di integrità del contraddittorio, il che ne impone la cassazione, con rimessione del giudizio al giudice di primo (e unico) grado, ai sensi dell’art. 331 c.p.c. e art. 383 c.p.c., comma 3, con assorbimento di ogni questione di merito (il che esime altresì dalla necessità di dar conto del contenuto dei singoli motivi di ricorso).

P.Q.M.

La Corte:

pronunciando sul ricorso, dichiara la nullità del giudizio di primo grado, cassa e rinvia al Tribunale di Trento, in persona di diverso magistrato, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2020.

 

Cass. civ. Sez. III Sent. 17_02_2020 n. 3899




Il pignoramento revocatorio

Il “pignoramento revocatorio” è applicabile anche agli atti a titolo gratuito aventi ad oggetto quote societarie

Tribunale Ordinario di Milano, Sezione III Civile, Sentenza del 22/01/2020

Con sentenza del 22 gennaio 2020, il Tribunale Ordinario di Milano, Sezione III Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che il c.d. “pignoramento revocatorio” previsto dall’art. 2929-bis c.c. è applicabile anche agli atti a titolo gratuito aventi ad oggetto quote societarie. Infatti, devono reputarsi aggredibili, mediante lo strumento dell’art. 2929-bis c.c., tutti i beni per i quali è previsto un sistema pubblicitario di natura legale, comprese le quote di una società a responsabilità limitata, il cui trasferimento è soggetto ad iscrizione nel registro delle imprese.

Il Tribunale di Milano, attraverso una lettura estensiva dell’art. 2929-bis c.c., ha ricompreso tra i beni mobili iscritti in pubblici registri anche le quote societarie. Queste ultime, infatti, essendo soggette ad un sistema pubblicitario di natura legale disciplinato dall’art. 2470, seppur non siano oggetto di trascrizione bensì di iscrizione nel Registro delle Imprese, è stato ritenuto possano essere aggredite dal creditore con tale strumento entro il termine di un anno dal compimento dell’atto pregiudizievole.

 




È pignorabile, senza l’osservanza dei limiti di cui all’art. 545 c.p.c., il reddito di cittadinanza

È pignorabile, senza l’osservanza dei limiti di cui all’art. 545 c.p.c., il reddito di cittadinanza

Tribunale Ordinario di Trani, Sezione Civile, Ordinanza del 30/01/2020

Con ordinanza del 30 gennaio 2020, il Tribunale Ordinario di Trani, Sezione Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che deve ritenersi pignorabile, senza l’osservanza dei limiti di cui all’art. 545 c.p.c., il reddito di cittadinanza, stante l’assenza nel testo del decreto istitutivo di qualunque riferimento alla natura alimentare di detto reddito ed il carattere predominante di misura di politica attiva dell’occupazione.

 


Tribunale Ordinario di Trani, Sezione Civile, Ordinanza del 30/01/2020

Deve ritenersi pignorabile, senza l’osservanza dei limiti di cui all’art. 545 c.p.c., il reddito di cittadinanza

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI TRANI

SEZIONE CIVILE

Il Giudice istruttore sciogliendo la riserva assunta all’udienza del __

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Vista l’istanza avanzata da (…) con l’avv. (…) in danno di (…) con cui la stessa, in qualità di coniuge di quest’ultimo e di titolare di assegno di contribuzione al mantenimento delle due figlie minori, giusta ordinanza presidenziale del (…), allegando (…), ha chiesto ex art. 156. IV co. c.c., emettersi sia l’ordine al Ministero del Lavoro e/o all’INPS, quale ente erogatore del reddito di cittadinanza, di pagamento diretto in suo favore della somma di Euro (…) pari all’assegno di mantenimento di cui sopra, che disporsi il sequestro della quota di proprietà del (…) dell’immobile adibito a casa coniugale ad assegnatole in forra della medesima ordinanza presidenziale;

– rilevato che (…) si è opposto all’accoglimento del ricorso, allegando per un verso la impignorabilità del reddito di cittadinanza e quanto alla domanda di sequestro, la sproporzione fra il valore della quota del (…) dell’immobile di cui è titolare e il debito maturato nei confronti della moglie per gli assegni non corrisposti:

– ritenuto che la richiesta di ordine al terzo di pagamento diretto della somma di Euro (…), da prelevare dal reddito di cittadinanza corrisposto a (…) misura parti ad Euro (…) mensili, sia meritevole di accoglimento;

– richiamato il condivisibile orientamento della Suprema Corte, secondo il quale, in tema di separazione personale dei coniugi, l’ordine ai terzi, tenuti a corrispondere periodicamente somme di denaro al coniuge obbligato all’erogazione dell’assegno di mantenimento ed inadempiente, di versarne una parte direttamente agli aventi diritto, presuppone l’accertamento, da parte del giudice, dell’inadempimento, mentre non deve tenersi conto delle esigenze dell’obbligato medesimo, né della gravità dell’inadempimento o dell’intenzionalità di esso (Cass. civ. 23668/2006);

– osservato che la circostanza dell’inadempimento a volte totale a volte parziale del (…) documentata mediante l’atto di precetto del (…) e non è in ogni caso da questi contestata (cfr. deduzioni a verbale di udienza del __);

– ritenuto in diritto che l’inadempimento dell’obbligo di mantenimento del coniuge separato legittima, ove tale comportamento provochi fondati dubbi sulla tempestività dei futuri pagamenti, l’emanazione dell’ordine ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di denaro al coniuge obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente all’avente diritto, in quanto la funzione che adempie l’assegno di mantenimento viene ad essere frustrata anche da semplici ritardi (Cass. civ. 23668/2006; Cass. civ. 11062/2011);

– ritenuto che nella vicenda in esame, le allegazioni del resistente e il ricorso all’atto di precetto da parte della (…) per il recupero forzoso delle somme dovute dal coniuge, inducono a ritenere che l’ordine di pagamento diretto delle somme è in sé idoneo, quanto meno allo stato, a costituire unico strumento di sicura attuazione del credito dell’istante;

– ritenuto che il reddito di cittadinanza (introdotto dal D.L. n 4 del 2019, conv. con modif. dalla L. n. 26 del 2019, possa essere utilizzato per i bisogni primari delle persone delle quali il titolare ha l’obbligo di prendersi cura, anche se non fa più parte dello stesso nucleo familiare;

– considerato che sebbene il decreto istitutivo nulla dica quanto alla pignorabilità del reddito di cittadinanza, la dottrina chiamata sin da subito ad occuparti della questione e la prima giurisprudenza di merito, ne hanno ammesso la pignorabilità senza l’osservanza dei limiti di cui all’art. 545 c.p.c.;

– osservato che a favore di questa opzione interpretativa militano i seguenti argomenti: a) la definizione contenuta nel comma 255 dell’art. 1 del reddito di cittadinanza quale misura contro la povertà, la disuguaglianza e l’esclusione sociale, che vale a garanzia del diritto al lavoro e della libera scelta del lavoro, anche attraverso la salvaguardia del diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura; b) l’assenza nel testo del decreto di qualunque riferimento alla natura alimentare del reddito di cittadinanza, anzi da escludersi alla luce della platea di soggetti deboli esclusi dal novero dei beneficiari, tra i quali ad esempio, gli inabili al lavoro; c) quindi, il carattere predominante di misura di politica attiva dell’occupazione; d) la natura eccezionale e di stretta interpretazione delle disposizioni che prevedono divieti di pignorabilità rispetto ad un principio generale – quello di cui all’art. 2740 c.c. – che innerva il sistema;

– ritenuto quindi che una volta ammessa la piena pignorabilità del reddito di cittadinanza, non sussiste alcuna ragione né logica né giuridica, per escludere l’ammissibilità dell’ordine di pagamento diretto al coniuge di una quota del reddito di cittadinanza erogato all’altro, inadempiente agli obblighi scaturenti dalla separazione;

– richiamato, ad ogni buon conto, l’orientamento della Suprema Corte, secondo il quale, la facoltà del Tribunale di ordinare che una quota dei redditi di lavoro del coniuge obbligato venga versata direttamente agli aventi diritto, non è soggetta alle limitazioni riguardanti la pignorabilità degli stipendi, specie in tema di contributo al mantenimento dei figli, stante la sua funzione alimentare (cfr. Cass. n. 2847/78; Cass. n. 15374/07; Trib. Roma. 3.6.2009);

– precisato che l’ordine di pagamento diretto può essere emesso per l’intera somma dovuta dal terzo, quando questa non ecceda, ma anzi realizzi pienamente, l’assetto economico determinato in sede di separazione con la statuizione che, in concreto, ha quantificato il diritto del coniuge beneficiario;

– ritenuto che tali condizioni ricorrano nel caso di specie, ammontando l’assegno di mantenimento dovuto dal (…) ad Euro (…) e percependo questi mensilmente a titolo di Reddito di Cittadinanza la somma di Euro (…);

– ritenuto che sia meritevole di accoglimento anche la domanda di sequestro della quota di proprietà dell’immobile assegnato alla (…) in forza dell’ordinanza presidenziale;

– considerato che a differenza del sequestro conservativo di cui all’art. 671 c.p.c., il provvedimento previsto dall’art 156 c.c. presuppone un credito già accertato (sia pure in via provvisoria) e si fonda sulla semplice inadempienza agli obblighi di mantenimento a favore del coniuge incolpevole e dei figli posti a carico dell’altro coniuge, svolgendo una funzione di coazione, anche psicologica, si da assicurare l’adempimento di detti obblighi (Cass. Sez. I, Sentenza n. 944 del 28.1.2000);

– ritenuto che l’ordine a terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di denaro all’obbligato, che una parte venga direttamente versata all’avente diritto, e il sequestro di beni del coniuge obbligato possono essere concessi anche contemporaneamente, a carico del medesimo obbligato (Cass. civ. Sez. I, Sent., 22-04-2013, n. 9671);

– ritenuto che nella specie il fatto dell’inadempimento è accertato;

– tenuto conto dell’importo mensile del mantenimento, Euro (…), e valutando prospetticamente la durata dell’eventuale futuro inadempimento del (…) in relazione alle esigenze di mantenimento delle due figlie oggi rispettivamente di (…) e (…) anni, la somma fino a concorrenza della quale disporre la misura di cui all’art. 156, comma 6, c.c., deve stabilirsi in Euro (…);

– ritenuto che trattandosi di procedimento in corso di causa, alla liquidazione delle spese si provvederà unitamente al merito.

P.Q.M.

– accoglie il ricorso ex art. 156, VI co, c.c. proposto da (…) nei confronti di (…) per l’effetto:

– autorizza il sequestro della quota del (…)% dell’immobile, sito in (…) di proprietà di (…), fino alla concorrenza della somma di euro (…);

– ordina all’I.N.P.S. di versare direttamente a (…) prelevandola dal reddito di cittadinanza corrisposto a (…), la somma di Euro (…) mensili, oltre ulteriori aggiornamenti ISTAT, a decorrere dal mese di (…);

– spese al merito.

Si comunichi.

Trani, 30 gennaio 2020.

 

Tribunale Trani Ord. 30_01_2020




L’azione dichiarativa dell’inefficacia deve essere svolta nei confronti del terzo accipiens

L’azione dichiarativa dell’inefficacia deve essere svolta nei confronti del terzo accipiens

Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 7477 del 20/03/2020

Con sentenza del 20 gennaio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione Civile Lavoro, in merito di recupero crediti ha stabilito che l’azione dichiarativa dell’inefficacia (art. 44 L.F.) deve essere svolta nei confronti del terzo accipiens, quale unico legittimato passivo, in quanto diretta a provare l’atto giuridico-pagamento dell’effetto estintivo del debito. Ne deriva, da un lato, che il curatore potrà recuperare dal terzo la somma a questi versata, eventualmente azionando il titolo esecutivo relativo al capo di condanna della sentenza dichiarativa dell’inefficacia; dall’altro che, persistendo inadempiuta l’obbligazione originaria, il terzo sarà legittimato ad insinuare il proprio credito al passivo della procedura concorsuale. La banca delegata resta estranea al rapporto obbligatorio fra il fallito ed il terzo e non è, pertanto, destinataria né dell’azione di inefficacia, né dell’azione di condanna alla restituzione, fatta salva una sua eventuale responsabilità, ad altro e diverso titolo, nei confronti del proprio cliente (fallito), che dovrà, allora, essere dedotta specificamente in giudizio dal curatore, a fondamento di una distinta azione di condanna.


L’azione dichiarativa dell’inefficacia deve essere svolta nei confronti del terzo accipiens

Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 7477 del 20/03/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Svolgimento del processo

Il Fallimento (OMISSIS) S.r.l. in liquidazione proponeva ricorso ex art. 702 bis c.p.c., avente ad oggetto l’accertamento della inefficacia – ai sensi della L.F., art. 44 – nei confronti della massa dei creditori, dei pagamenti eseguiti dalla società con addebito sui propri conti bancari intrattenuti con C. S.p.A., lo stesso giorno __ in cui era stata dichiarata fallita, a favore di A. S.r.l., per l’importo di Euro __ versato mediante bonifico, ed a favore dello stesso liquidatore M. il quale aveva incassato contanti per Euro __ operando un prelievo sul conto della società. Il Fallimento chiedeva altresì la condanna della banca alla restituzione della complessiva somma di Euro __ corrispondente ai pagamenti inefficaci.

C. S.p.A. si costitutiva e chiamava in giudizio M. – che rimaneva contumace – proponendo domanda riconvenzionale subordinata di condanna ad essere manlevata per le somme eventualmente dovute al Fallimento, nonché domanda di condanna al risarcimento degli ulteriori danni.

Il Tribunale di Torino, con ordinanza ex art. 702 ter c.p.c., in data __, rigettava la domanda del Fallimento avendo fornito prova la banca, attraverso la certificazione della CCIAA di Milano, che i pagamenti erano stati sì eseguiti il __, ma in orari anteriori a quello in cui la sentenza dichiarativa di fallimento era stata annotata nel registro delle imprese, con efficacia verso i terzi, ai sensi della L.F., art. 16, comma 2 e art. 17, comma 2, come sostituiti dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169.

La Corte d’appello di Torino, con sentenza in data __ n. __, in totale riforma della decisione di prime cure:

– dichiarava inefficaci i pagamenti, applicando il principio giurisprudenziale per cui gli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento venivano a prodursi, tanto per le parti quanto per l’opponibilità ai terzi, alla ora “0” dello stesso giorno di deposito della sentenza, interpretazione fornita dalla Corte di legittimità in assenza di espressa disposizione legislativa che attribuisse rilevanza anche all’ora – oltre che alla data – di pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento, ai sensi dell’art. 133 c.p.c., ovvero all’ora della iscrizione della stessa nel registro delle imprese, ai sensi della L.F., art. 17, comma 2 e non sussistendo valide ragioni per diversificare il trattamento delle due ipotesi;

– qualificava come azione di ripetizione dell’indebito la domanda subordinata di manleva proposta dalla banca contro M., rigettandola in quanto, relativamente all’importo accreditato con bonifico ad A. S.r.l., l’accipiens era quest’ultima e non M. (che aveva disposto l’ordine di bonifico); quanto al prelievo in contante di Euro __ effettuato dal liquidatore della stessa società dichiarata poi fallita, difettava la prova che M. fosse anche l’effettivo destinatario del pagamento;

– rigettava anche la domanda riconvenzionale subordinata di condanna al risarcimento dei danni, proposta dalla banca nei confronti di M. in quanto: le disposizioni dei pagamenti inefficaci erano state impartite da soggetto titolare dei poteri rappresentativi dell’ente collettivo dunque erano imputabili in via esclusiva alla società (OMISSIS) poi dichiarata fallita; nessun profilo di condotta illecita specifica era stato ascritto a M. in proprio, quale persona fisica.

La sentenza di appello, notificata in data __, è stata impugnata da C. S.p.A. con ricorso per cassazione affidato a due motivi.

Resiste con controricorso il Fallimento (OMISSIS) S.r.l.

Le parti hanno depositato memorie illustrative ex art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

La banca ricorrente ha impugnato la sentenza di appello deducendo:

a) il vizio di violazione e falsa applicazione delle norme processuali in tema di legittimazione passiva alla azione dichiarativa della inefficacia dei pagamenti eseguiti dal fallito successivamente alla sentenza dichiarativa di fallimento L.F., ex art. 44, ed alla azione di ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c., nonché il vizio di omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 (primo motivo);

b) il vizio di violazione e falsa applicazione della L.F., art. 16, comma 2, art. 17, comma 2 e art. 44, nonché il vizio di omesso esame di fatto decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, in ordine alla individuazione, alla stregua della interpretazione della disciplina normativa, del momento in cui la sentenza dichiarativa di fallimento diviene opponibile ai terzi (secondo motivo).

Osserva il Collegio che i motivi sono strettamente connessi e logicamente subordinati, in quanto la questione della individuazione del momento in cui la sentenza dichiarativa di fallimento diviene opponibile ai terzi condiziona anche la qualificazione in termini di legittimità/illegittimità della condotta tenuta della banca, presso la quale la società fallita ha intrattenuto i propri conti correnti, la soluzione della questione della legittimazione o meglio titolarità passiva della Cassa di risparmio in relazione al rapporto dedotto in giudizio.

La eccezione di giudicato interno implicito, formatosi – secondo il Fallimento resistente – sulla questione della legittimazione passiva ovvero sulla titolarità passiva del rapporto obbligatorio controverso in capo alla banca, è da ritenere infondata. Ed infatti:

– la legitimatio ad causam si ricollega al principio dettato dall’art. 81 c.p.c., secondo il quale nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, e, trattandosi di materia attinente al contraddittorio e mirando la norma a prevenire una sentenza inutiliter data, comporta la verifica, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo (col solo limite della formazione del giudicato interno) ed in via preliminare rispetto all’esame del merito, della coincidenza dell’attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio così come invocata e prospettata nella domanda introduttiva, sono destinatari degli effetti della pronuncia richiesta: orbene, secondo una consolidata giurisprudenza di questa Corte, non è configurabile il giudicato implicito in relazione alle questioni pregiudiziali all’esame del merito ovvero a quelle concernenti la proponibilità dell’azione quando, intervenuta la decisione sul merito della controversia, la parte soccombente abbia proposto impugnazione relativamente alla sola od a tutte le statuizioni di merito della sentenza, in quanto detta impugnazione impedisce la formazione del giudicato esplicito sulla questione o sull’accertamento di merito che costituiscono l’indispensabile presupposto del giudicato implicito sulla questione pregiudiziale di rito (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 7337 del 27/07/1998; id. Sez. U, Sentenza n. 1912 del 09/02/2012; id. Sez. 1, Sentenza n. 5141 del 11/04/2002; id. Sez. 5, Sentenza n. 10027 del 29/04/2009; id. Sez. 5, Sentenza n. 5375 del 04/04/2012; id. Sez. L, Sentenza n. 14243 del 08/08/2012; id. Sez. 1 -, Sentenza n. 7776 del 27/03/2017; id. Sez. 6-3, Ordinanza n. 31574 del 06/12/2018);

– la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, del rapporto di diritto sostanziale dedotto in giudizio, è un elemento costitutivo della domanda ed attiene, invece, al merito della decisione, sicché spetta all’attore allegarla e provarla, con la conseguenza che le contestazioni, da parte del convenuto, della titolarità del rapporto controverso, hanno natura di mere difese, proponibili in ogni fase del giudizio, ferme le eventuali preclusioni maturate per l’allegazione e la prova di fatti impeditivi, modificativi od estintivi della titolarità del diritto, non rilevabili dagli atti: pertanto la carenza di titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso è rilevabile di ufficio dal giudice, in ogni stato e grado, se risultante dagli atti di causa (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 2951 del 16/02/2016; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 11744 del 15/05/2018), salvo evidentemente che sul punto il Giudice di merito si sia espressamente pronunciato e tale statuizione non sia stata gravata da impugnazione;

– il dedotto effetto preclusivo allo svolgimento di tale difesa (contestazione della titolarità passiva del rapporto obbligatorio) nel giudizio di legittimità, derivante – secondo l’assunto del Fallimento – dal giudicato implicito interno, asseritamente formatosi sul punto a seguito della condotta processuale della banca – dovendo ravvisarsi una oggettiva incompatibilità tra la domanda di manleva formulata dalla banca nei confronti del terzo chiamato in causa e la contestazione della titolarità passiva nel rapporto principale dedotto in giudizio -, non trova alcun riscontro negli atti processuali. Vale osservare, al proposito, che la Corte d’appello ha qualificato le domande proposte, in via subordinata, dalla banca nei confronti del terzo-chiamato, rispettivamente, come azione di ripetizione d’indebito ed azione di risarcimento danni, escludendo, quindi, tanto la qualificazione di una azione di regresso nei confronti del coobbligato solidale, quanto quella di una azione volta a far valere un rapporto di garanzia propria od impropria tra la chiamante ed il terzo chiamato, fondato su un titolo contrattuale che obblighi quest’ultimo a sollevare la convenuta dalla pretesa attorea ovvero dalle conseguenze economiche della eventuale soccombenza nel rapporto principale. Dall’atto di chiamata del terzo non può, dunque, inferirsi alcun comportamento concludente della banca in ordine al riconoscimento della propria titolarità passiva nel rapporto principale, ed in particolare non può inferirsi alcuna incompatibilità logica e giuridica tra le domande proposte dalla banca contro il terzo, proposte solo in via condizionata all’accoglimento della pretesa attorea, e la contestazione della posizione passiva del rapporto, con indicazione del soggetto che ha ricevuto il pagamento quale esclusivo titolare del rapporto principale, restando in conseguenza esclusa la formazione di un giudicato implicito (rectius: di una condotta non contestativa della banca) su tale questione, in ordine alla quale non vi è stata alcuna pronuncia espressa da parte dei Giudice di merito, e può costituire quindi oggetto di verifica nel giudizio di legittimità (cfr. Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 2951 del 16/02/2016).

Tanto premesso, ritiene il Collegio che le censure mosse, con il secondo motivo, dalla ricorrente alla statuizione della Corte d’appello, secondo cui la sentenza dichiarativa di fallimento è opponibile ai terzi dalla ora zero del giorno in cui la pronuncia è adottata, non introducono nuovi argomenti critici, idonei a mutare la conclusione raggiunta dal Giudice di merito sulla scorta dei precedenti conformi.

Occorre premettere che la L.F., art. 44, comma 1, nel prevedere l’inefficacia, rispetto ai creditori, dei pagamenti eseguiti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento, configura logico corollario della perdita della disponibilità dei beni acquisiti al fallimento stesso (L.F., art. 42) e mira a preservare l’integrità dell’attivo, assicurando la par condicio creditorum. La norma in questione, alla luce della valenza letterale dell’espressione pagamenti eseguiti dal fallito, nonché del presupposto sul quale essa norma si basa e della finalità da essa perseguita, è riferibile agli atti estintivi di obbligazioni del solvens, compiuti con prelievo dal suo patrimonio e con connesso trattamento preferenziale dell’accipiens (cfr. Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 4957 del 18/04/2000).

La L.F., (R.D. 16 marzo 1942, n. 267, nel testo riformato dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5) distingue il momento in cui si producono gli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento, secondo che si debba avere riguardo al debitore fallito ed al creditore istante ovvero ai terzi. Nel primo caso la sentenza prende efficacia dalla data della sua pubblicazione ai sensi dell’art. 133 c.p.c., comma 1 (cui rinvia espressamente la L.F., art. 16, comma 2, primo periodo); nel secondo la medesima disposizione di legge, comma 2 secondo periodo, fa invece riferimento alla data di iscrizione della sentenza nel registro delle imprese dovendo procedersi alla annotazione presso l’ufficio del registro delle imprese ove l’imprenditore ha la sede legale e, se questa differisce dalla sede effettiva, anche presso quello corrispondente al luogo ove la procedura è stata aperta (L.F., art. 16, comma 2, secondo periodo, che rinvia alla L.F. art. 17, comma 2).

Le norme richiamate non contengono alcun ulteriore riferimento cronologico diverso dalla data individuata dal giorno in cui vengono compiute le formalità che perfezionano la pubblicazione e la iscrizione nel registro della sentenza dichiarativa di fallimento.

In carenza di altri elementi indicativi, questa Corte, già nella disciplina anteriore alla riforma legislativa del 2006 (che si limitava a prevedere la provvisoria esecutività della sentenza), aveva ritenuto di dover colmare tale lacuna – alla stregua del criterio interpretativo fondato sulla ratio legis della norma, diretta non soltanto a disciplinare forme di conoscibilità legale del provvedimento, ma anche a stabilire un dato obiettivo certo cui ricollegare la produzione degli effetti della sentenza di fallimento – individuando nell’ora zero dello stesso giorno della pubblicazione o della iscrizione nel registro delle imprese, il momento in cui gli effetti vengono a prodursi nei confronti dei terzi e delle altre parti.

Non vi è dunque ragione di discostarsi dal principio di diritto secondo cui, in mancanza della prescrizione legale, tra gli elementi di individuazione della data della sentenza dichiarativa di fallimento, anche dell’annotazione della ora in cui la decisione è stata emessa, l’efficacia della sentenza inizia dalla prima ora di quel medesimo giorno (ora zero) e, pertanto, il fallito resta privo dell’amministrazione e della disponibilità dei beni e debbono ritenersi inefficaci gli atti dallo stesso compiuti e i pagamenti a lui effettuati, dal suddetto inizio di quella giornata, indipendentemente dall’ora in cui tali atti siano stati eseguiti (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 3047 del 18/08/1976; id. Sez. 1, Sentenza n. 14779 del 19/07/2016, entrambe in relazione alla disciplina normativa previgente al D.Lgs. n. 5 del 2006). Il principio è stato confermato anche in relazione alla disposizione della L.F., art. 16, comma 2, introdotta dal D.Lgs. n. 5 del 2006, dal precedente di questa Corte Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 5781 del 27/02/2019, che ha posto in rilievo come la differenziazione introdotta dalla legge in ordine alla – peraltro soltanto eventuale – diacronica produzione degli effetti della sentenza nei confronti delle parti e dei terzi (tale sfasamento cronologico, si verificherebbe indubitabilmente quanto all’ora, ove però si dovesse avere riguardo al momento dell’effettivo compimento dell’attività richiesta dalla norma, precedendo necessariamente la pubblicazione della sentenza alla sua trasmissione telematica effettuata dal Cancelliere all’ufficio del registro delle imprese – L.F., art. 17, comma 3; mentre tale discrasia temporale si prospetterebbe soltanto eventuale, in relazione al giorno: ed infatti il Cancelliere è tenuto a trasmettere la sentenza entro il giorno successivo al deposito in cancelleria, ma ben potrebbe anche adempiere alla trasmissione lo stesso giorno nel quale, pertanto, potrebbe essere effettuata anche la annotazione nel registro delle imprese) non denota anche la volontà del Legislatore di stabilire un criterio diverso da quello secondo cui la data di efficacia coincide con il giorno, e dunque non incide, né modifica, la ratio legis sottesa al primo ed al secondo periodo, della L.F., art. 16, comma 2, in quanto identico permane, in entrambi i casi, lo scopo di ancorare ad un dato obiettivo, quanto più possibile preciso, il momento di produzione degli effetti della sentenza, scopo che viene soddisfatto, per l’appunto, attraverso la individuazione ex ante di tale momento all’ora zero del giorno in cui è effettuata la pubblicazione o la iscrizione nel registro delle imprese.

Tale criterio, pertanto: 1 – non contrasta con la disposizione di legge, che individuando solo la data-giorno, non preclude l’indicato risultato interpretativo; 2 – risponde alla esigenza di certezza sottesa alla ratio legis della disposizione, assicurando che gli effetti della sentenza si producano alla data di pubblicazione o di iscrizione, con riferimento quindi all’intera dimensione temporale della data che – in assenza di diversa indicazione – deve essere computata secondo il calendario comune suddiviso per giorni, mesi ed anni (esprimendo l’art. 2963 c.c. e art. 155 c.p.c., che a tale calendario si riferiscono, un principio di carattere generale) e dunque non può che coincidere con il numero cardinale ed il nome del giorno, il nome del mese e l’anno in cui l’atto è compiuto: ne segue che l’effetto della sentenza in quanto ricollegato dalla legge alla data di pubblicazione ed iscrizione nel registro, non può che essere riferito all’intera durata del giorno che inizia, per l’appunto, all’ora zero; 3 – semplifica l’accertamento del termine che discrimina lo spossessamento del fallito (L.F., art. 42) e la inefficacia degli atti e dei pagamenti dallo stesso compiuti o ricevuti (L.F., art. 44), evitando defatiganti contestazioni e prevenendo possibili collusioni e condotte elusive.

Esente dai vizi censurati è, pertanto, la motivazione della Corte territoriale che, conformandosi al predetto principio di diritto, ha individuato l’elemento cronologico previsto dalla L.F., art. 44, per la dichiarazione di inefficacia nei confronti della massa dei creditori dei pagamenti effettuati dalla banca, nell’ora zero del giorno __ in cui la sentenza dichiarativa di fallimento è stata pubblicata ed iscritta nel registro delle imprese.

Occorre, quindi, esaminare il primo motivo di ricorso, con il quale la banca contesta la titolarità passiva del rapporto.

La censura è fondata.

Risulta incontestato che la disposizione di eseguire il bonifico bancario a favore di A. S.r.l. ed il prelievo di cassa della somma in contati, sono stati effettuati dal liquidatore della società, in nome e per conto del soggetto fallito.

Orbene la L.F., art. 44, comma 1, dispone la inefficacia dei pagamenti eseguiti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento.

Lo strumento dell’inefficacia dei pagamenti è posto a tutela della par condicio creditorum ed è volto ad impedire l’effetto giuridico proprio dell’atto estintivo del debito del fallito verso il terzo, in quanto – diversamente – il credito di quest’ultimo verrebbe ad essere sottratto alla verifica concorsuale ed alla falcidia dei crediti privilegiati di grado anteriore.

Ne segue che destinatario della domanda di accertamento della inefficacia del pagamento, e della conseguente domanda di restituzione della somma indebitamente versata (cfr. Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 17196 del 29/07/2014), non può che essere il creditore soddisfatto, ossia l’accipiens e non anche il soggetto – eventualmente – incaricato, dal fallito, ad eseguire il pagamento, il quale agisce per conto del fallito e non riceve da questi alcun pagamento.

È stato, infatti, rilevato che ai sensi di tale norma (ndr. L.F., art. 44), deve ritenersi inefficace, se compiuto dopo il fallimento, qualsiasi atto satisfattivo comunque, e pur indirettamente, riferibile al debitore fallito, o perché eseguito con suo denaro, o per suo incarico (nei modi della delegazione, o dell’accollo cumulativo non allo scoperto), ovvero in suo luogo, come avviene, per l’appunto, nell’ipotesi in cui il pagamento sia effettuato in favore dei creditori del fallito dal terzo suo debitore, in esecuzione dell’ordinanza di assegnazione del credito presso di lui pignorato. Ma se così è, se cioè detto pagamento costituisce atto solutorio riconducibile al fallito, risulta evidente che, non diversamente da quanto avviene nel caso in cui lo stesso sia assoggettabile a revocatoria ai sensi della L.F., art. 67, l’azione ex art. 44, deve essere esercitata nei confronti dell’accipiens, ovvero di colui che ha effettivamente beneficiato del negozio satisfattivo. (cfr. Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 14779 del 19/07/2016). Sulla stessa linea si pone anche il precedente di questa Corte Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 22160 del 03/11/2016 secondo cui in caso di fallimento del debitore già assoggettato ad espropriazione presso terzi, l’azione revocatoria fallimentare del pagamento eseguito dal debitor debitoris può essere esercitata soltanto nei confronti del creditore assegnatario, ossia di colui che, beneficiando dell’atto solutorio, si è sottratto al concorso ed è, quindi, tenuto, onde ripristinare la par condicio, alla restituzione di quanto ricevuto, affinché sia distribuito secondo le regole concorsuali.

Al riguardo la banca ha invocato i precedenti di questa Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 14779 del 19/07/2016 – dal quale il CED della Corte ha estratto la seguente massima: in caso di fallimento del debitore già assoggettato ad espropriazione presso terzi, l’azione con la quale il curatore fa valere l’inefficacia, ai sensi della L.F., art. 44, del pagamento eseguito dal debitor debitoris al creditore assegnatario, ha ad oggetto un atto estintivo di un debito del fallito, a lui riferibile in quanto effettuato con il suo denaro e in sua vece, sicché va esercitata nei soli confronti dell’accipiens, ossia di colui che ha effettivamente beneficiato dell’atto solutorio – e Corte Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 4195 del 21/02/2018, non massimata, che in relazione all’azione revocatoria L.F., ex art. 67, ha affermato il principio secondo cui il soggetto chiamato alla restituzione delle somme ricevute, tenuto conto del fine che è proprio della revocatoria fallimentare, cioè di ristabilire la par condicio creditorum, non può essere evidentemente che l’accipiens, inteso come colui che essendo creditore del fallito risulta beneficiario diretto dell’atto solutorio, non certo il suo rappresentante che si sia limitato ad incassare il denaro per farlo poi confluire nella piena disponibilità del rappresentato.

Assume il Fallimento che la fattispecie esaminata nel primo degli indicati precedenti giurisprudenziali era intermediata dall’ordine di assegnazione del G.E. sicché il pagamento eseguito dal debitor debitoris risultava giustificato da un titolo giudiziale che lo rendeva – in ipotesi – imputabile al fallito, anche se – in tesi – privo di efficacia solutoria, se pure limitatamente ai creditori concorsuali (cfr. Corte cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 25421 del 17/12/2015 secondo cui, in caso di assegnazione ai sensi dell’art. 553 c.p.c., il pagamento eseguito dal terzo debitor debitoris in favore del creditore assegnatario estingue sia il suo debito nei confronti del debitore esecutato che quello di quest’ultimo verso il creditore predetto, sicché, ove lo stesso sia successivo al fallimento del menzionato debitore, è privo di effetti, L.F., ex art. 44, ma solo nel rapporto obbligatorio tra il fallito e quel creditore, che, pertanto, è l’unico soggetto obbligato alla restituzione al curatore di quanto ricevuto); diversamente, nella vicenda oggetto del presente giudizio, con lo scioglimento del contratto di conto corrente bancario, a far data dalla dichiarazione di fallimento (art. 78 L.F.), il materiale trasferimento dei fondi dalla provvista del conto della società fallita mediante accredito sul conto del creditore, non poteva integrare un atto solutorio riferibile al fallito, non potendo configurare, essendo venuto meno il rapporto bancario, adempimento contrattuale – in difetto di un valido ordine dispositivo conferito alla banca – con effetti ricadenti nella sfera patrimoniale del cliente-fallito, con la conseguenza che l’accredito – in quanto disposto con denaro proprio della banca – si era risolto in un indebito oggettivo e la banca, da un lato, era tenuta a restituire l’intera provvista al Fallimento, mentre, dall’altro, era legittimata ad agire ex art. 2033 c.c., nei confronti del terzo – accipiens (cfr. Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 9167 del 01/08/1992).

Osserva il Collegio che i precedenti giurisprudenziali invocati dalla banca, per sostenere la eccezione di difetto di legittimazione passiva e di titolarità del rapporto di diritto sostanziale, sono all’evidenza del tutto inconferenti.

La fattispecie esaminata da Corte Cass. n. 14779/2016, infatti, concerne il pagamento eseguito coattivamente dal debitor debitoris, e presuppone che il pagamento, anche se eseguito da soggetto diverso dal fallito, sia comunque riferibile alla sfera patrimoniale di quest’ultimo, in tal modo divergendo tale vicenda da quella, oggetto della presente controversia, in cui la banca che ha effettuato materialmente il pagamento – eseguendo la disposizione, ricevuta dal fallito, di bonifico della somma sul conto del terzo creditore – non ha assunto alcuna obbligazione nei confronti del terzo, né tanto meno ha inteso adempiere un proprio debito nei confronti fallito; così come del tutto diversa è la fattispecie, oggetto dell’altro precedente giurisprudenziale, in cui la questione della legittimazione passiva concerneva esclusivamente la posizione neutrale, rispetto all’azione revocatoria fallimentare, del soggetto che aveva agito soltanto quale rappresentante o nuncius del terzo-creditore, in quanto da questi incaricato di ricevere materialmente, per suo conto, il pagamento della somma.

Quanto al rilievo di merito formulato dal Fallimento controricorrente, che prospetta la diversa ricostruzione della fattispecie concreta incentrata sullo scioglimento del contratto bancario determinato dalla dichiarazione di fallimento, osserva il Collegio che, se la questione presenta indubitabili elementi di riflessione, tuttavia tale difesa, comportando una immutazione dei fatti costitutivi della pretesa, si palesa nuova rispetto all’oggetto del thema controversum e dunque non può accedere all’esame demandato al sindacato di legittimità.

Risulta dalla sentenza di appello che il Fallimento, con ricorso ex art. 702 bis c.p.c., aveva evocato in giudizio la banca, chiedendo di:

a) dichiarare inefficace nei confronti dei creditori L.F., ex 44, il pagamento di Euro __;

b) e per l’effetto condannare C. S.p.A. alla restituzione della somma corrispondente al pagamento dichiarato inefficace.

La correlazione tra domanda di accertamento di inefficacia e domanda di condanna, così come posta nell’atto introduttivo, circoscriveva, quindi, l’allegazione dei fatti costitutivi: 1 – al presupposto della intervenuta opponibilità alla banca della sentenza dichiarativa di fallimento; 2 – all’elemento cronologico del compimento dell’atto solutorio, in data successiva a quella di pubblicazione ed iscrizione della sentenza predetta nel registro delle imprese, con conseguente inefficacia del pagamento; 3 – all’ammontare della somma di denaro destinata al pagamento, con la esecuzione dell’ordine di bonifico ed il prelevamento di cassa.

Tali essendo esclusivamente i fatti costitutivi allegati a sostegno della domanda principale di accertamento – dovendo intendersi la domanda recuperatoria di condanna meramente consequenziale ed accessoria rispetto alla prima, rimaneva del tutto estraneo all’oggetto della controversia il presupposto di fatto – in quanto pacificamente dato e non contestato – della esistenza di un preesistente rapporto contrattuale (definito di conto corrente senza altre indicazioni) tra la società fallita e la banca, come -peraltro – trova riscontro anche nelle difese di merito, svolte dalla banca convenuta, circoscritte soltanto: a) alla eccezione di difetto di legittimazione o comunque di titolarità passiva del rapporto, sostenendo la convenuta che unico legittimato era il soggetto che aveva riscosso la somma; b) alla questione della individuazione del momento di efficacia e di opponibilità della sentenza dichiarativa di fallimento, nei confronti dei terzi di buona fede, alla stregua della interpretazione della L.F., artt. 16 e 17, sostenendo la banca che gli adempimenti relativi alla pubblicazione ed annotazione della sentenza si collocavano in un orario posteriore rispetto a quello in cui, nello stesso giorno, erano stati effettuati gli atti dispositivi.

L’argomento speso dal Fallimento nel controricorso, inteso a ricondurre ad un diverso fatto costitutivo – lo scioglimento del contratto di conto corrente L.F., ex art. 78 – la domanda recuperatoria, integra pertanto una nuova allegazione che non può avere accesso per la prima volta in sede di legittimità, in quanto prescinde dai presupposti fattuali della declaratoria di inefficacia L.F., ex art. 44, originariamente richiesta, e viene ad operare su un diverso piano della fattispecie che non attiene all’inefficacia del pagamento disposto od eseguito dal fallito ma al rapporto obbligatorio che intercorre direttamente tra la banca ed il Fallimento della società correntista.

La fattispecie descritta dalla L.F., art. 44, in relazione ai pagamenti, ipotizza che l’atto, o meglio gli effetti giuridici dell’atto, siano riferibili alla sfera patrimoniale del fallito, con la conseguenza che, il pagamento effettuato mediante ordine di bonifico, richiede l’esistenza di un valido ed efficace rapporto contrattuale con la banca (da individuarsi nella convenzione di delegazione di pagamento accessoria al contratto di conto corrente) tale da giustificare la riferibilità al delegante (fallito) dell’atto giuridico compiuto dalla banca-delegata, ed a qualificare detto atto come pagamento, ossia come adempimento estintivo di un’obbligazione che era stata assunta dal soggetto (poi dichiarato fallito) nei confronti del terzo, con effetto satisfattivo del credito.

Posta in questi termini la fattispecie delineata dalla L.F., art. 44, risulta del tutto evidente come: a) l’azione dichiarativa della inefficacia, debba essere svolta nei confronti del terzo-accipiens, quale unico legittimato passivo, in quanto diretta a privare l’atto giuridico-pagamento dell’effetto estintivo del debito, con la conseguenza, da un lato, che il curatore potrà recuperare dal terzo la somma a questi versata, eventualmente azionando il titolo esecutivo relativo al capo di condanna della sentenza dichiarativa della inefficacia; dall’altro che, persistendo inadempiuta la obbligazione originaria, il terzo sarà legittimato ad insinuare il proprio credito al passivo della procedura concorsuale; b) la banca-delegata rimane del tutto estranea al rapporto obbligatorio tra il fallito ed il terzo, e non è, pertanto, destinataria né dell’azione di inefficacia, né della azione di condanna alla restituzione, fatta salva una sua eventuale responsabilità, ad altro e diverso titolo, nei confronti del proprio cliente (fallito), che dovrà, allora, essere dedotta specificamente in giudizio dal curatore, a fondamento di una distinta azione di condanna.

Risulta, dunque, evidente come l’azione L.F., ex art. 44, sia fondata su presupposti diversi rispetto alla domanda volta a ricondurre l’insorgenza della obbligazione restitutoria della somma di denaro, a carico della banca-delegata, al distinto presupposto fattuale dell’inadempimento della relativa obbligazione derivante dal contratto di conto corrente, in seguito alla cessazione ex lege dello stesso e della accessoria convenzione di delegazione (L.F., art. 78), non avendo la banca ottemperato a trasferire il saldo attivo del conto agli organi fallimentari, così come cristallizzatosi nel suo ammontare alla data della dichiarazione di fallimento. E come ancora diversa sia la domanda di condanna fondata sul presupposto della inesistenza di qualsiasi vincolo obbligatorio ex contractu tra le parti, con la quale si venga ad individuare, nell’atto di disposizione del denaro appartenente al soggetto fallito – distratto a vantaggio del terzo creditore -, una condotta illecita da cui si intenda far derivare la responsabilità extracontrattuale della banca per indebita appropriazione.

Gli evidenziati limiti della allegazione dei fatti costitutivi della pretesa formulata dal Fallimento, non consentono, dunque, una mera diversa qualificazione giuridica della fattispecie concreta dedotta in giudizio (e della domanda), venendo ad incidere la differente prospettazione attorea sullo stesso accertamento di merito concernente la individuazione del soggetto effettivamente destinatario della pretesa.

Il pagamento dichiarato inefficace, lascia in vita la originaria obbligazione contratta dal fallito con il terzo-creditore, perseguendo il duplice scopo 1 – di ripristinare la par condicio creditorum e 2 – di conservare integro il patrimonio del fallito, cristallizzato alla data della dichiarazione di fallimento. La domanda di inadempimento contrattuale o di responsabilità extracontrattuale, prescinde del tutto dalla inefficacia del pagamento (id est dalla eliminazione dell’effetto estintivo del debito del fallito) ed impone invece l’accertamento della disforme condotta della banca rispetto alla prescrizione dell’attività dovuta, avente titolo nel contratto (e nella disciplina legale integrativa) o nella regola generale dell’art. 2043 c.c.

In conseguenza, avendo correlato il Fallimento la domanda di condanna alle restituzioni alla pronuncia dichiarativa della inefficacia del pagamento delle somme riscosse dai creditori, la relativa azione doveva essere proposta nei confronti dei terzi creditori – che avevano alterato il principio della par condicio attraverso la soddisfazione preferenziale dei propri crediti – e non, invece, nei confronti della banca, priva dunque di legittimazione passiva rispetto alla domanda L.F., ex art. 44, non avendo, peraltro, il Fallimento fondato la distinta domanda recuperatoria su altri elementi fattuali idonei a far emergere un’obbligazione restitutoria delle somme a carico della banca.

La sentenza impugnata va, pertanto cassata e, non occorrendo procedere ad ulteriore attività istruttoria, questa Corte può decidere nel merito la causa ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, con il rigetto della domanda introduttiva del Fallimento della società (OMISSIS) S.r.l.

La alterna vicenda processuale e la particolarità delle questioni trattate indicono a compensare integralmente le spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, quanto al primo motivo; dichiara infondato il secondo motivo; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda introduttiva di condanna proposta dal Fallimento della società (OMISSIS) S.r.l. nei confronti di C. S.p.A.

Compensa integralmente le spese processuali.

Così deciso in Roma, il 16 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2020.

Cass. civ. Sez. III 20_03_2020 n. 7477




Nel sistema della riscossione coattiva a mezzo ruolo la notificazione della cartella di pagamento costituisce atto preliminare indefettibile

Nel sistema della riscossione coattiva a mezzo ruolo la notificazione della cartella di pagamento costituisce atto preliminare indefettibile per l’effettuazione di un pignoramento da parte dell’agente della riscossione

Tribunale Ordinario di Alessandria Sezione IV Civile, Sentenza del 11/02/2020

Con sentenza del 11 febbraio 2020, il Tribunale Ordinario di Alessandria, Sezione Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che nel sistema della riscossione coattiva a mezzo ruolo, disciplinato dal D.P.R. 29 settembre 1973 n. 602, la notificazione della cartella di pagamento costituisce atto preliminare indefettibile per l’effettuazione di un pignoramento da parte dell’agente della riscossione, atteso che la cartella di pagamento, a mente dell’art. 25 di detto decreto, assolve “uno actu” le funzioni svolte dalla notificazione del titolo esecutivo e del precetto nella espropriazione forzata codicistica. Pertanto, in mancanza della notificazione al debitore della cartella di pagamento, deve considerarsi insussistente la condizione posta dall’art. 660, comma 2 c.p.p. ai fini dell’attivazione da parte del pubblico ministero della procedura di conversione delle pene pecuniarie, condizione costituita dalla accertata impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa.


Tribunale Ordinario di Alessandria Sezione IV Civile, Sentenza del 11/02/2020

Nel sistema della riscossione coattiva a mezzo ruolo la notificazione della cartella di pagamento costituisce atto preliminare indefettibile per l’effettuazione di un pignoramento da parte dell’agente della riscossione

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Tribunale Alessandria

Il Magistrato di Sorveglianza

letta la retroestesa richiesta di conversione di pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato M. attualmente detenuto nella Casa di reclusione di Alessandria;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

PREMESSO CHE:

dall’esame degli atti non risulta che nella fattispecie sia stata notificata al debitore la cartella di pagamento;

ai sensi dell’art. 25, comma 2, D.P.R. n. 602 del 1973 (applicabile nel procedimento di riscossione delle pene pecuniarie in virtù dell’art. 227-ter, comma 2, D.P.R. n. 115 del 2002) la cartella di pagamento, redatta in conformità al modello approvato con decreto del ministero delle finanze, contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione, con l’avvertimento che, in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata;

nel sistema della riscossione coattiva a mezzo ruolo, disciplinato dal D.P.R. n. 602 del 1973, la notificazione della cartella di pagamento costituisce atto preliminare indefettibile per l’effettuazione di un pignoramento da parte dell’agente della riscossione, atteso che la cartella di pagamento, a mente dell’art. 25 del D.P.R. n. 602 del 1973 citato, assolve uno actu le funzioni svolte, ex art. 479 c.p.c., dalla notificazione del titolo esecutivo e del precetto nella espropriazione forzata codicistica) (così tra le più recenti Cass. civ., Sez. III, sentenza 8 febbraio 2018 n. 3021, Rv. 647938);

in mancanza della notificazione al debitore della cartella di pagamento deve considerarsi insussistente la condizione posta dall’art. 660, comma 2, c.p.p. ai fini dell’attivazione da parte del pubblico ministero della procedura di conversione: condizione costituita dall’accertata impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di ess (cfr. Cass. pen., Sez. I, sentenza 16 maggio 2014 n. 25355, G., Rv. 262545: “Il provvedimento di rateizzazione della pena pecuniaria, attribuito alla competenza del magistrato di sorveglianza dall’art. 660, comma terzo, c.p.p., è subordinato alla esistenza di situazioni di insolvenza e non presuppone affatto la richiesta di conversione della pena pecuniaria da parte del pubblico ministero, alla quale deve darsi luogo, ai sensi del precedente comma secondo dello stesso art. 660 c.p.p., solo in presenza della diversa condizione costituita dall’accertata impossibilità di esazione’ della pena pecuniaria o di una rata di essa);

né può invocarsi al riguardo il comma 3 dell’art. 238-bis D.P.R. n. 115 del 2002, secondo cui ai medesimi fini di cui al comma 2 (vale a dire, ai fini dell’attivazione da parte del pubblico ministero della procedura di conversione) “l’ufficio investe, altresì, il pubblico ministero se, decorsi ventiquattro mesi dalla presa in carico del ruolo da parte dell’agente della riscossione e in mancanza della comunicazione di cui al comma 2, non risulti esperita alcuna attività esecutiva …”;

quest’ultima norma, infatti, presuppone comunque ed indefettibilmente la notifica della cartella di pagamento sia perché tale notifica (come la notificazione del titolo esecutivo e del precetto) è attività pre-esecutiva e non esecutiva in senso proprio (l’espropriazione, invero, ai sensi dell’art. 491 c.p.c. si inizia con il pignoramento);

sia perché in assenza di tale notifica – lo si ripete – risulta insussistente l’accertamento dell’impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una sua rata e, quindi, la pre-condizione posta dall’art. 660, comma 2, c.p.p. ai fini dell’attivazione della procedura di conversione;

né in senso contrario può invocarsi quanto ha scritto Corte cost., sentenza 20 dicembre 2019 n. 279, la quale (nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 238-bis, comma 3, D.P.R. n. 115 del 2002 nella parte in cui, ai fini dell’attivazione della procedura di conversione delle pene pecuniarie dinanzi al magistrato di sorveglianza, parifica all’ipotesi della comunicazione di esperimento infruttuoso della procedura esecutiva l’ipotesi di mancato esperimento della procedura esecutiva decorsi ventiquattro mesi dalla presa in carico del ruolo da parte dell’agente della riscossione) ha affermato quanto segue: “Al riguardo, va tuttavia considerato che la notifica della cartella di pagamento da parte dell’agente della riscossione è necessariamente preceduta dalla notifica dell’avviso di pagamento, ad opera dell’ufficio del giudice dell’esecuzione; e che già tale avviso ha la funzione di intimare al condannato il pagamento della pena pecuniaria stabilita nella sentenza di condanna, ponendolo così a conoscenza anche delle possibili conseguenze del mancato pagamento”;

così scrivendo, invero, sembra che la Consulta non abbia considerato che in materia di riscossione mediante ruolo delle spese processuali e delle pene pecuniarie relative a sentenza penale di condanna l’iscrizione a ruolo del credito effettuata dopo il 4 luglio 2009 – data di entrata in vigore della L. n. 69 del 2009, che ha modificato l’art. 227-ter del D.P.R. n. 115 del 2002 – non deve essere preceduta dalla notificazione dell’invito al pagamento, già previsto dall’art. 212 del D.P.R. n. 115 del 2002, dovendo ritenersi abrogata quest’ultima previsione a seguito della modifica del citato art. 227-ter (così esplicitamente Cass. civ., Sez. VI, ordinanza 13 settembre 2017 n. 21178, Rv. 645484; nonché già prima in motivazione Cass. civ., Sez. III, sentenza 10 giugno 2013 n. 14528, Rv. 626687).

Conclusivamente: in mancanza della notifica della cartella di pagamento e, quindi, della condizione della conversione costituita dall’accertata impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa, deve essere disposta la restituzione degli atti al P.M. affinché richieda alla cancelleria del giudice dell’esecuzione di riprendere la procedura di riscossione (cfr. Cass. pen., Sez. I, sentenza 19 maggio 1997 n. 3460, P.M. in proc. Gelsomino, Rv. 207974: nel procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie, il compito del pubblico ministero, nelle ipotesi in cui la procedura di recupero – cui è preposta istituzionalmente la cancelleria del giudice dell’esecuzione – abbia avuto esito negativo, consiste soltanto nel controllo formale dell’attività svolta dalla cancelleria medesima. Pertanto, una volta ricevuti gli atti della procedura risoltasi negativamente, egli deve limitarsi ad accertare se le ragioni di tale esito diano luogo a un’effettiva impossibilità di esazione della pena pecuniaria ovvero se risultino in qualche modo superabili, rivolgendosi, nella prima ipotesi al magistrato di sorveglianza – cui è demandato l’accertamento del passaggio dalla situazione di mera e contingente impossibilità di esazione a una condizione di insolvenza effettiva e concreta – perché provveda alla conversione della pena pecuniaria, e, nella seconda ipotesi, restituendo gli atti alla cancelleria del giudice dell’esecuzione, perché riprenda la procedura di riscossione;

P.Q.M.

dichiara inammissibile la richiesta di conversione e dispone la restituzione degli atti al P.M. istante perché richieda alla cancelleria del giudice dell’esecuzione la ripresa della procedura di riscossione.

Così deciso in Alessandria, il 11 febbraio 2020.

Depositata in Cancelleria il 11 febbraio 2020.

Tribunale Alessandria Sent. 11_02_2020

 

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Fondo di garanzia costituito presso l’INPS

Fondo di garanzia costituito presso l’INPS: i crediti, diversi da quelli spettanti a titolo di trattamento di fine rapporto, inerenti agli ultimi tre mesi di lavoro

Corte Suprema di Cassazione, Sezione Civile Lavoro, Sentenza n. 2230 del 30/01/2020

Con sentenza del 30 gennaio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione Civile Lavoro, in merito di recupero crediti ha stabilito che in tema di obbligo del Fondo di garanzia costituito presso l’INPS di pagare, ai sensi del d.lgs. n. 80 del 1992, i crediti, diversi da quelli spettanti a titolo di trattamento di fine rapporto, inerenti agli ultimi tre mesi di lavoro, avuto riguardo al principio di effettività della tutela, enunciato dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza 10 luglio 1997 (causa C 272/95 – Maso ed altri, Gazzetta ed altri c. INPS e Repubblica Italiana), e con interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto del principio di ragionevolezza, il termine di dodici mesi decorrente a ritroso dalla data di inizio dell’esecuzione forzata ex art. 1, comma 1, lett. b), del d.lgs. cit. va calcolato senza tenere conto del tempo intercorso fra la data di proposizione dell’atto di iniziativa volto a far valere in giudizio i crediti del lavoratore (necessario per la precostituzione del titolo esecutivo e, quindi, per dare inizio all’esecuzione forzata) e la data di formazione del titolo esecutivo stesso, fermo restando che la garanzia potrà essere concessa soltanto qualora, a seguito dell’esperimento dell’esecuzione forzata per la realizzazione di tali crediti, le garanzie patrimoniali siano risultate in tutto o in parte insufficienti.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione Civile Lavoro, Sentenza n. 2230 del 30/01/2020

Fondo di garanzia costituito presso l’INPS: i crediti, diversi da quelli spettanti a titolo di trattamento di fine rapporto, inerenti agli ultimi tre mesi di lavoro

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

I. – ricorrente –

contro

C. – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il __ R.G.N. __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere Dott. __;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __ che ha concluso per l’accoglimento del primo e quarto motivo, accoglimento parziale terzo motivo, rigetto del secondo motivo.

udito l’Avvocato __;

udito l’Avvocato __.

Svolgimento del processo

  1. La Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale di Rieti che aveva accolto la domanda di C. di condanna di I. – Fondo di Garanzia – a pagare Euro __ per TFR, __ e __, ferie non godute, festività, oltre accessori.

La Corte territoriale, confermato il rigetto dell’eccezione di decadenza L. n. 639 del 1970, ex art. 47 e di prescrizione, ha rilevato l’inammissibilità dell’impugnativa dell’Inps circa l’avvenuto riconoscimento di emolumenti diversi dal TFR in quanto con l’appello l’Istituto si era limitato a manifestare l’impossibilità di comprendere la motivazione della sentenza del Tribunale, pur essendo invece la stessa comprensibile, ed a richiamare, per ben sette pagine, la disciplina del Fondo di garanzia senza alcun riferimento alla fattispecie concreta o alla sentenza impugnata.

  1. Avverso la sentenza ricorre l’Inps con 4 motivi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c. Resiste C.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo l’Inps denuncia violazione degli artt. 342 e 434 c.p.c. e censura la sentenza per aver ritenuto inammissibile l’appello con riferimento agli emolumenti diversi dal TFR. Secondo la Corte I. in sede di appello di sarebbe limitato a manifestare una impossibilità di comprendere la sentenza del Tribunale ed a richiamare la disciplina del Fondo di garanzia senza alcun riferimento alla fattispecie concreta.

Il ricorrente, ai fini della specificità del ricorso in cassazione, riporta interi stralci del ricorso di C., davanti al Tribunale di Rieti, della comparsa di costituzione di I., della sentenza del Tribunale di Rieti che aveva riconosciuto la fondatezza della domanda di C., e l’appello di I. con il quale si sottolineavano i requisiti di accesso al fondo (massimale per legge, la garanzia operava solo se i tre mesi finali del rapporto di lavoro rientravano nel periodo di dodici mesi precedente il provvedimento di apertura della procedura concorsuale o la data di inizio di esecuzione; l’intervento del fondo era escluso se il lavoratore percepisse redditi alternativi).

  1. Il motivo è fondato. Va rilevato infatti, che l’Istituto ha ampiamente dimostrato, ai fini della necessaria specificità del ricorso in cassazione, le questioni sollevate fin dal primo grado con le quali erano state poste questioni di diritto, riproposte in appello a seguito dell’accoglimento della domanda di C. da parte del Tribunale.

Oltre ad aver riportate la memoria di costituzione in primo grado, nonché i tratti salienti della sentenza del Tribunale di Rieti, favorevole alla lavoratrice, l’Istituto ha riportato il contenuto ed i tratti salienti dell’appello ove affermava di nulla dovere a C., considerati i requisiti di accesso al fondo previsti dalla normativa.

Priva di rilievo è l’osservazione della controricorrente secondo cui l’Istituto non avrebbe mai contestato i conteggi depositati dalla lavoratrice, atteso che l’Istituto ha opposto di nulla dovere alla lavoratrice ed ha, a tal proposito, sollevato questioni di diritto non ponendo, invece, problemi di quantificazione delle somme dovute, ma dello stesso diritto della lavoratrice di percepire alcunché.

  1. Con il secondo motivo l’Inps denuncia violazione del D.Lgs. n. 80 del 1992, art. 1, comma 2, art. 2, comma 1, lett. B). Rileva che i crediti di lavoro si riferivano al periodo __ non rientrando nei dodici mesi precedenti l’inizio dell’azione forzata, risalente al __, sulla base del decreto ingiuntivo, dichiarato provvisoriamente esecutivo in data __.

Il motivo è infondato. L’iniziativa della C. è tempestiva non potendosi porre a suo danno il periodo necessario per munirsi del titolo. In tal senso si è pronunciata questa Corte (cfr. Cass. n. 22011/2008) secondo cui “avuto riguardo al principio di effettività della tutela enunciato dalla Corte di Giustizia della Comunità Europea nella sentenza 10 luglio 1997 (causa C 272/95 – Maso ed altri, Gazzetta ed altri c. INPS e Repubblica Italiana) e con interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto del principio di ragionevolezza, il termine di dodici mesi decorrente a ritroso dalla data di inizio dell’esecuzione forzata ex art. 1, comma 1, lett. b), D.Lgs. cit. va calcolato senza tener conto del lasso di tempo intercorso fra la data di proposizione dell’atto di iniziativa volto a far valere in giudizio i crediti del lavoratore (siccome necessario per la precostituzione del titolo esecutivo e, quindi, per dare inizio all’esecuzione forzata) e la data di formazione del titolo esecutivo stesso”. Nella specie risulta che la ricorrente, il cui rapporto di lavoro era cessato il __, con tempestivo ricorso del __ aveva chiesto un decreto ingiuntivo; che quest’ultimo era stato opposto dalla società ed il giudizio definito con sentenza del __; che esperito senza esito le procedure esecutive, con domanda del __ aveva chiesto l’intervento del Fondo di garanzia e respinta tale domanda, in data __ aveva presentato istanza di fallimento, respinta dal Tribunale il __ per situazione debitoria inferiore a Euro __, e che, infine, con domanda del __ aveva sollecitato l’intervento del Fondo di garanzia.

Per le considerazioni che precedono il motivo deve essere rigettato stante la tempestività dell’azione di C.

  1. Con il terzo motivo I. denuncia violazione del D.Lgs. n. 80 del 1992, art. 2, comma 1, con riferimento all’art. 2109 c.c. Censura il riconoscimento dell’indennità ferie non godute in quanto avente natura risarcitoria e non retributiva.

Il motivo è fondato nei sensi di seguito esposti.

Premesso che il motivo è ammissibile in quanto, come specificato con riferimento al primo motivo, l’Istituto ha censurato la sentenza del Tribunale che aveva integralmente accolto le domande di C., va rilevato che in merito all’indennità sostitutiva delle ferie, questa Corte ha avuto modo di evidenziarne la natura mista, sia risarcitoria che retributiva (Cass. n. 20836/2013, n. 1757/2016, n. 14599/2017). Si è, infatti, chiarito che l’indennità sostitutiva delle ferie non fruite è volta a compensare il danno derivante dalla perdita del periodo di riposo, ma è anche connessa al sinallagma contrattuale e costituisce il corrispettivo dell’attività lavorativa resa in periodo che, pur essendo di per sé retribuito, avrebbe dovuto essere non lavorato, in quanto destinato al godimento delle ferie annuali. Da tali considerazioni questa Corte ha fatto discendere l’assoggettamento a contribuzione previdenziale a norma della L. n. 153 del 1969, art. 12 (Cass. n. 13473 del 29/05/2018), nonché l’inclusione nella base di calcolo per l’indennità di fine rapporto (Cass. n. 20836 del 11/09/2013).

La funzione di tutela del lavoratore cui è predisposto il Fondo di garanzia deve comunque condurre a valorizzare la natura retributiva dell’indennità, sicché deve ritenersi componente dell’obbligazione del Fondo l’indennità sostitutiva delle ferie, per la parte maturata nel trimestre di riferimento (e non, come avverte Cass. 12/06/2017, n. 14559, maturata nel corso dell’intero rapporto), così come ritenuto dalla Corte territoriale (cfr. in tal senso Cass. n. 24890/2019), in tali termini, pertanto, il motivo deve essere accolto rimettendo al giudice di rinvio il compito di effettuare tale accertamento.

  1. Con il quarto motivo I. denuncia violazione del D.Lgs. n. 80 del 1992, art. 2, comma 2, censura l’inosservanza del massimale stabilito per legge. Rileva che nell’anno __ il massimale era di Euro __ al mese. I giudici di merito avevano riconosciuto a C. Euro __ mentre l’importo massimo che essa avrebbe potuto percepire era di Euro __.

Il motivo è fondato. Circa l’eccezione formulata dalla contro ricorrente secondo cui I. aveva sollevato la questione solo in Cassazione o, se proposta in appello, sarebbe stata tardiva, va rilevato che questa Corte ha affermato che “non costituisce domanda o eccezione nuova il motivo di appello col quale si deduce l’erronea determinazione da parte del giudice di primo grado del limite massimo, ai sensi del D.Lgs. n. 80 del 1992, art. 2, comma 2, del pagamento dovuto dal Fondo di garanzia istituito presso l’I.N.P.S., trattandosi di questione attinente alla esatta determinazione del quantum del diritto posto dal lavoratore a fondamento della pretesa e che deve essere contenuto, secondo la previsione della legge istitutiva, nei limiti di un massimale direttamente conoscibile dal giudice” (cfr. Cass. n. 12028/2003).

  1. In conclusione la sentenza deve essere cassata ed il giudizio rinviato alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio che si atterrà ai principi sopra esposti.

P.Q.M.

Accoglie il primo ed il quarto motivo, nonché il terzo nei sensi di cui in motivazione; rigetta il secondo motivo; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 5 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2020.

 

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent. 30_01_2020 n. 2230




L’opposizione a decreto ingiuntivo dà vita ad un ordinario giudizio di cognizione

L’opposizione a decreto ingiuntivo dà vita ad un ordinario giudizio di cognizione avente ad oggetto la pretesa vantata dal creditore ingiungente

Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 7478 del 20/03/2020

Con sentenza del 20 marzo 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che l’opposizione a decreto ingiuntivo dà vita ad un ordinario giudizio di cognizione avente ad oggetto la pretesa vantata dal creditore ingiungente. La pretesa si cristallizza nel decreto ingiuntivo rispetto al quale il debitore è convenuto in senso sostanziale mentre il creditore ingiungente è attore.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 7478 del 20/03/2020

L’opposizione a decreto ingiuntivo dà vita ad un ordinario giudizio di cognizione avente ad oggetto la pretesa vantata dal creditore ingiungente

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

A. – ricorrente –

contro

U. – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere Dott. __

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per l’accoglimento;

udito l’Avvocato __.

Svolgimento del processo

  1. ricorre per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Perugia del __ che, accogliendo l’appello di U. avverso la sentenza di prime cure pronunciata tra le parti, ha accertato doversi ritenere sussistente la convenzione con la quale A. si era impegnata nei confronti di U. a finanziare una borsa di dottorato di ricerca in storia dell’arte ed aveva versato una parte delle somme destinate al finanziamento. La sentenza d’appello ha conseguentemente riformato la sentenza di primo grado che aveva accolto l’opposizione a decreto ingiuntivo intimato dall’Università per il pagamento delle somme relative alle residue annualità del corso di dottorato, ritenendo dovute le suddette somme.

La sentenza impugnata, per quel che ancora qui di interesse, ha ritenuto che la convenzione stipulata tra A. attuale ricorrente e U. fosse stata sottoscritta da soggetto munito dei poteri per conto di A. e fosse stata accettata per corrispondenza (in data __) da U. In applicazione della sentenza di questa Corte n. 12540 del 17/6/2016 la Corte territoriale ha ritenuto di aderire all’indirizzo formalistico secondo il quale i contratti della p.a. devono risultare da forma scritta ad substantiam ed essere consacrati in un unico documento ma, in attenuazione del formalismo, ha precisato che la sottoscrizione dell’unico documento può avvenire anche in tempi e luoghi diversi, dovendosi in ogni caso la volontà delle parti desumere esclusivamente dal documento scritto.

In riforma della sentenza di primo grado, che aveva escluso la prova del contratto, ha condannato parte appellata alla refusione delle spese del grado.

Avverso la sentenza A. propone ricorso per cassazione, affidandosi a due motivi. Resiste U. con controricorso. La causa, assegnata all’adunanza camerale della Sesta Sezione civile del __, è stata rinviata per la trattazione in pubblica udienza in considerazione del fatto che i motivi di ricorso pongono all’esame della Corte questioni relative ai contratti conclusi dalla Pubblica Amministrazione ed ai modi e tempi di produzione dei documenti.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo – violazione e falsa applicazione del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, artt. 16 e 17, motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la ricorrente censura la sentenza per aver omesso di considerare che, nella fattispecie in esame, il requisito della forma scritta proprio degli atti della Pubblica Amministrazione non era stato soddisfatto dal momento che mancava la consacrazione in un unico documento dello scambio tra proposta ed accettazione. Infatti era stata acquisita agli atti una missiva del direttore artistico di A. con cui lo stesso si impegnava a sostenere le spese della borsa di dottorato ma non anche l’atto scritto di convenzione nel quale erano trasfuse le volontà delle parti. Né poteva ritenersi costituire espressione della volontà dell’ente una nota del Collegio dei revisori dei conti erroneamente interpretata come ratifica della convenzione. Il Giudice aveva altresì errato nel ritenere derogabile l’art. 17 del richiamato decreto, in caso di conclusione del contratto con imprese commerciali, dal momento che l’associazione stipulante non era ascrivibile alla suddetta categoria.

1.1 Il motivo è fondato. La giurisprudenza consolidata di questa Corte è orientata nel senso di richiedere, al fine di soddisfare il principio della forma scritta dei contratti della P.A., la contestualità delle manifestazioni di volontà relative alla formazione del contratto. Proposta ed accettazione possono essere anche contenute in documenti distinti purché siano poi consacrate in un unico documento. Nel caso di specie, invece, non vi era stata la contestualità della sottoscrizione né si verteva in regime derogatorio delle prescrizioni di cui all’art. 17 del R.D. del 1923 in quanto l’associazione sottoscrivente l’impegno contrattuale non era ascrivibile ad impresa commerciale.

Nel preferire questa soluzione, consacrata in diverse pronunce di questa Corte (Cass., U, n. 6827 del 23/3/2010; Cass., 1, n. 6555 del 20/3/2014; Cass., 3, n. 12540 del 17/6/2016, Cass., 2, n. 27910 del 31/10/2018), il Collegio intende aderire all’indirizzo più formalistico in tema di interpretazione del R.D. n. 2440 del 1923, preferendo questa interpretazione ad altra, pure fatta propria da altre pronunce di questa Corte, volta ad attenuare il formalismo ed a ritenere soddisfatto il requisito della forma scritta da uno scambio di missive, contenenti proposta ed accettazione, senza che le due dichiarazioni di volontà siano consacrate in un unico documento.

La tesi più rigorosa è da preferire in quanto assolve ad una funzione di garanzia del regolare svolgimento dell’attività amministrativa, permettendo di identificare con precisione il contenuto del programma negoziale anche ai fini della verifica della necessaria copertura finanziaria e dell’assoggettamento ai controlli dell’autorità tutoria.

  1. Con il secondo motivo di ricorso – violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 101, 183 345 c.p.c., motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, l’impugnante censura la sentenza per non aver aderito alla impostazione della sentenza di prime cure che aveva soddisfatto quanto prescritto dall’art. 112 c.p.c., statuendo che U., onerata della prova del proprio credito, non aveva soddisfatto tale onere della prova della fonte negoziale o legale del suo diritto. Il contratto, ove formalmente sottoscritto, avrebbe dovuto essere prodotto entro i termini perentori di cui all’art. 183 c.p.c., mentre solo con l’atto di appello l’Università aveva prodotto il documento del __, peraltro successivo a quello con il quale U. avrebbe accettato la proposta contrattuale di cui non vi è traccia in atti. Il documento, prodotto solo in grado di appello e consistente in una pretesa ratifica della volontà dell’ente da parte del Collegio dei revisori dei conti, non poteva integrare la prova del contratto, prova che, in ogni caso, avrebbe dovuto essere acquisita agli atti nei termini delle preclusioni di cui al primo grado di giudizio.

Il Giudice d’Appello, omettendo di valutare quanto esposto avrebbe pronunciato in spregio al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

2.1 Anche questo motivo è fondato in ragione del fatto che con l’opposizione al decreto ingiuntivo si è instaurato un ordinario giudizio di cognizione avente ad oggetto la pretesa vantata dal creditore ingiungente. La pretesa è cristallizzata nel decreto ingiuntivo rispetto al quale il debitore opponente è convenuto in senso sostanziale mentre il creditore ingiungente è attore. Da ciò segue che, nell’ambito dell’ordinario giudizio di cognizione, il contratto avrebbe dovuto essere prodotto entro i termini perentori dell’art. 183 c.p.c., mentre, nella sostanza, è mancata la sua tempestiva acquisizione al giudizio. Peraltro la Corte d’Appello, ancorché richiesta di pronunciarsi sulla tardività della produzione in giudizio del contratto e sulla mancanza della prova del credito, ha omesso ogni motivazione sul punto in violazione dell’art. 112 c.p.c.

  1. Conclusivamente il ricorso va accolto per quanto di ragione, la sentenza impugnata cassata e la causa rinviata alla Corte d’Appello di Perugia, in diversa composizione, per nuovo esame ed anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa alla Corte d’Appello di Perugia, in diversa composizione, per nuovo esame ed anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, a seguito di trattazione in pubblica udienza, nella Camera di consiglio, il 2 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2020.

 

Cass. civ. Sez. III 20_03_2020 n. 7478




Il pagamento non dilazionato dei creditori privilegiati

Il pagamento non dilazionato dei creditori privilegiati

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 1, Ordinanza n. 2422 del 04/02/2020

Con ordinanza del 4 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 1, in merito di recupero crediti ha stabilito che in tema di concordato preventivo la regola generale è quella del pagamento non dilazionato dei creditori privilegiati, sicché l’adempimento con una tempistica superiore a quella imposta dai tempi tecnici della procedura equivale ad una soddisfazione non integrale degli stessi, in ragione della perdita economica conseguente al ritardo rispetto ai tempi normali con il quale i creditori conseguono le somme dovute. La determinazione in concreto di tale perdita, rilevante ai fini del computo del voto ex art. 177, comma 3, L.F., costituisce un accertamento in fatto che il giudice di merito deve compiere alla luce della relazione giurata del professionista ex art. 160, secondo comma, L.F., tenendo conto degli eventuali interessi offerti ai creditori e dei tempi tecnici di liquidazione dei beni gravati dal privilegio in ipotesi di soluzione della crisi alternativa al concordato.

 


Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 1, Ordinanza n. 2422 del 04/02/2020

Il pagamento non dilazionato dei creditori privilegiati

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere – –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) S.r.l. – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – controricorrente –

Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ancona e Procura della Repubblica presso la Corte d’Appello di Ancona – intimati –

per la cassazione della sentenza App. Ancona del __, n. __, R.G. __, rep. __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del giorno __ dal Consigliere relatore Dott. __;

il Collegio autorizza la redazione del provvedimento in forma semplificata, giusto decreto __, n. __del Primo Presidente.

Svolgimento del processo

Rilevato che:

  1. (OMISSIS) S.r.l. impugna la sentenza App. Ancona del __, n. __, R.G. __, rep. __, che, rigettando il reclamo avverso la sentenza di fallimento Trib. Ancona del __, pronunciata unitamente alla dichiarazione d’inammissibilità del concordato preventivo proposto dalla società e sul riunito reclamo altresì avverso il decreto di apertura del procedimento di revoca del concordato, ha ritenuto la correttezza della valutazione di non fattibilità già giuridica del piano in continuità diretta;
  2. per la corte è incompatibile con il sistema dei privilegi il disallineamento temporale tra le vendite di immobili gravati da ipoteche (unica fonte di autofinanziamento) e il pagamento dei relativi creditori garantiti, pagati solo a distanza di tempo, cioè dopo l’esaurimento di un complesso ciclo economico inclusivo del completamento di immobili in costruzione e poi nuove costruzioni, a sua volta eccedente la ragionevolezza, poiché collocato a sei anni e mezzo; la conseguente violazione della clausola di salvaguardia della L.F., art. 186-bis, comma 2, lett. c) era dunque manifestata dal non rimanere i beni nel patrimonio del debitore, poiché venduti ma senza destinazione di realizzo immediato ai detti creditori prelazionari, eventualità non sopperibile con l’attribuzione di voto, contraddetta tra l’altro – dalle previsioni di copertura, proprio con quei flussi, dei costi di costruzione programmati e non suffragata da un’attendibilità dell’attestazione, del tutto illogica perché smentita dalle incertezze del citato lungo periodo di produzione dei beni; era poi rilevato il limite dell’esposizione di un credito verso una società a sua volta fallita, così recependosi le argomentazioni del tribunale e le conclusioni del P.M.;
  3. con il ricorso, in due motivi, si contesta la decisione denunciando violazione degli artt. 160 e 186-bisL.F. ed il vizio di motivazione, avuto riguardo alla violazione dell’art. 277 c.p.c. e art. 177 L.F., avendo la sentenza errato nel negare la dilazione di pagamento ai creditori ipotecari nonostante la previa vendita degli immobili, ancora in parte destinati alla continuazione dell’attività edilizia, con compensazione data dal diritto di voto, affermando la irragionevolezza di un piano in realtà a meno di 5 anni; la corte avrebbe poi errato nel confondere fattibilità economica, rimessa al giudizio dei creditori, con fattibilità giuridica, impedendo sul punto la votazione e omettendo di pronunciarsi sulle problematiche urbanistiche dell’aumento di cubatura connesse all’inoperatività del vincolo sull’immobile oggetto dell’operazione; la curatela resiste con controricorso e ha depositato memoria.

Motivi della decisione

Considerato che:

  1. il primo motivo è inammissibile, posto che, con apprezzamento di fatto non sindacabile in questa sede, la corte anconetana ha riscontrato, in una cornice di durata non dominabile da serie prognosi di fattibilità, una separazione temporale tra l’epoca prevista per la vendita dei beni immobili oggetto della proposta concordataria e il pagamento dei creditori assistiti da cause di prelazione sugli stessi, ciò di per sé vanificando la clausola di salvaguardia dettata della L.F., art. 186-bis, comma 2, lett. c) che, per essi, preclude il voto e dunque la misura partecipativo-compensativa dell’omesso pagamento immediato ogni qual volta il concordato, in fatto e come riscontrato, si risolva in una liquidazione dei beni o diritti su cui sussiste la causa di prelazione; va così data continuità all’indirizzo per cui in materia di concordato preventivo, la regola generale è quella del pagamento non dilazionato dei creditori privilegiati, sicché l’adempimento con una tempistica superiore a quella imposta dai tempi tecnici della procedura (e della liquidazione, in caso di concordato cosiddetto liquidativo) equivale a soddisfazione non integrale degli stessi in ragione della perdita economica conseguente al ritardo, rispetto ai tempi normali, con il quale i creditori conseguono la disponibilità delle somme ad essi spettanti. La determinazione in concreto di tale perdita, rilevante ai fini del computo del voto L.F., ex art. 177, comma 3, costituisce un accertamento in fatto che il giudice di merito deve compiere alla luce della relazione giurata L.F., ex art. 160, comma 2, tenendo conto degli eventuali interessi offerti ai creditori e dei tempi tecnici di realizzo dei beni gravati in ipotesi di soluzione alternativa al concordato, oltre che del contenuto concreto della proposta nonché della disciplina degli interessi di cui agli artt. 54 e 55 L.F. (richiamata dall’art. 169 L.F.) (Cass. 10112/2014, 3482/2016); a sua volta Cass. 20388/2014 ha puntualizzato che ove sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, i creditori muniti di cause di prelazione non hanno diritto al voto, trattandosi di esclusione che opera come una sorta di moratoria coatta paragonabile a quella di cui all’abrogato istituto dell’amministrazione controllata; tale affermazione conferma, a contrario, che per i concordati senza continuità aziendale vige il principio generale sancito dalla L.F., art. 177, comma 3 secondo il quale i creditori muniti di diritto di prelazione di cui la proposta di concordato prevede, ai sensi dell’art. 160, la soddisfazione non integrale, sono equiparati ai chirografari per la parte residua del credito;
  2. avendo riguardo al secondo motivo, la sua inammissibilità discende dalla constatazione per cui la corte, con la medesima cogenza in questa sede dell’insegnamento di Cass. S.U. 8053/2014, non ha solo negato l’allineamento temporale fra liquidazione e pagamento ai creditori ipotecari, ma ha posto in evidenza che, oltre i cd. tempi tecnici, le operazioni liquidatorie erano essenziali oltretutto in un concordato proposto con pagamento per intero a tutti i creditori – allo stesso autofinanziamento del debitore, che solo attraverso quella liquidazione era in grado di sovvenzionare le ulteriori attività del piano; sul punto, il ricorso, così peccando di specificità, non ha indicato gli indici di corrispondenza in termini di valore nella considerazione del conseguente credito differito nel pagamento ed ai sensi della collocazione in classe e nel voto, avendo il motivo introdotto e piuttosto una questione di fatto; occorre d’altronde osservare che un conto è – anche in ogni altra prospettiva strumentalmente liquidatoria – la nozione di tempi tecnici della procedura o della liquidazione, un altro e ben diverso conto è l’assunzione, con il ricavato della liquidazione, di un rinnovato rischio d’impresa, come nella sostanza accertato dal giudice di merito, per via del reimpiego delle somme nel frattempo ricavate non nel pagamento dei creditori muniti di prelazione sui beni alienati ma in altre operazioni economiche, trattandosi di traslazione oggettiva del rischio incompatibile con lo statuto di tali creditori; va allora ripetuto che “in tema di concordato preventivo, il tribunale è tenuto ad una verifica diretta del presupposto di fattibilità del piano per poter ammettere il debitore alla relativa procedura, nel senso che, mentre il controllo di fattibilità giuridica non incontra particolari limiti, quello concernente la fattibilità economica, intesa come realizzabilità di esso nei fatti, può essere svolto nei limiti della verifica della sussistenza, o meno, di una manifesta inettitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati, individuabile caso per caso in riferimento alle specifiche modalità indicate dal proponente per superare la crisi (con ciò ponendosi il giudice nella prospettiva funzionale, propria della causa concreta). Tali principi vengono maggiormente in rilievo nell’ipotesi di concordato con continuità aziendale ex art. 186-bisL.F., laddove la rigorosa verifica della fattibilità in concreto presuppone un’analisi inscindibile dei presupposti giuridici ed economici, dovendo il piano con continuità essere idoneo a dimostrare la sostenibilità finanziaria della continuità stessa, in un contesto in cui il favor per la prosecuzione dell’attività imprenditoriale è accompagnato da una serie di cautele inerenti il piano e l’attestazione, tese ad evitare il rischio di un aggravamento del dissesto ai danni dei creditori, al cui miglior soddisfacimento la continuazione dell’attività non può che essere funzionale (Cass. 9061/2017); invero la previsione dell’art. 186-bisL.F., ove attribuisce al tribunale il potere di revocare l’ammissione al concordato in continuità qualora l’esercizio dell’attività di impresa risulti manifestamente dannosa per i creditori, esula dalla valutazione della convenienza economica della proposta concordataria riservata, quando essa non sia implausibile, all’accettazione dei creditori, sicché spetta al Tribunale, per i fini della pronuncia di revoca, la verifica dell’andamento dei flussi di cassa e del conseguente indebitamento, tale da erodere le prospettive di soddisfazione del ceto creditorio (Cass. 23315/2018);
  3. il ricorso è, pertanto, inammissibile; si dà atto – mancando ogni discrezionalità al riguardo (cfr., tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra molte altre: Cass., Sez., U. 27/11/2015, n. 24245; Cass., Sez., U. 20/06/2017, n. 15279) – della sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione: norma in forza della quale il giudice dell’impugnazione è vincolato, pronunziando il provvedimento che definisce quest’ultima, a dare atto della sussistenza dei presupposti (rigetto integrale o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) per il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto, per l’impugnazione proposta, a norma del comma 1-bis del detto art. 13.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in favore del controricorrente in Euro __, per compensi ed Euro 100 per esborsi, oltre oneri accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei medesimi ricorrenti ed in via solidale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, giusta il comma 1-bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2020.

 

Cass. civ. Sez. VI_1 Ord. 04_02_2020 n. 2422




La mancata presentazione da parte del creditore di osservazioni al progetto di stato passivo depositato

La mancata presentazione da parte del creditore di osservazioni al progetto di stato passivo depositato dal curatore non comporta acquiescenza alla proposta e conseguente decadenza dalla possibilità di proporre opposizione

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 1, Ordinanza n. 7136 del 13/03/2020

Con ordinanza del 13 marzo 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 1, in merito di recupero crediti ha stabilito che in tema di accertamento del passivo, la mancata presentazione da parte del creditore di osservazioni al progetto di stato passivo depositato dal curatore non comporta acquiescenza alla proposta e conseguente decadenza dalla possibilità di proporre opposizione, non potendo, infatti, trovare applicazione il disposto dell’art. 329 c.p.c. rispetto ad un provvedimento giudiziale non ancora emesso, ed inoltre l’art. 95, comma 2, L.F., prevede che i creditori “possano” esaminare il progetto, senza porre a loro carico un onere di replica alle difese e alle eccezioni del curatore entro la prima udienza fissata per l’esame dello stato passivo cosicché deve, pertanto, escludersi che il termine predetto sia deputato alla definitiva e non più emendabile individuazione delle questioni controverse riguardanti la domanda di ammissione.

 


La mancata presentazione da parte del creditore di osservazioni al progetto di stato passivo depositato dal curatore non comporta acquiescenza alla proposta e conseguente decadenza dalla possibilità di proporre opposizione

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 1, Ordinanza n. 7136 del 13/03/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. __ proposto da:

B. S.r.l. – ricorrente –

contro

Fallimento della (OMISSIS) in liquidazione – controricorrente –

contro

M. S.r.l. e T. S.r.l. – intimate –

avverso l’ordinanza n. R.G. __ del TRIBUNALE di MASSA, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del __ dal Consigliere relatore, Dott. __.

Svolgimento del processo

CHE:

Con decreto del __, il Tribunale di Massa dichiarò inammissibile il ricorso presentato dalla B. S.r.l. avverso il provvedimento d’ammissione al passivo della procedura concorsuale della (OMISSIS), in liquidazione, a favore di altri creditori, L.F., ex art. 98, comma 3, rilevando che: il ricorrente, nel verbale dello stato passivo, si era limitato a chiedere chiarimenti alla curatela in ordine alle domande impugnate, senza postulare alcun provvedimento da parte del giudice, o svolgere difese nel merito, mentre sarebbe stato onere dell’istante avanzare la domanda in contraddittorio con la curatela e con le altre parti in sede di esame dello stato passivo; ciò avrebbe potuto costituire prerogativa della parte in esito alle determinazioni espresse dalla curatela alla successiva udienza.

La società ricorre in cassazione con due motivi.

Resiste il liquidatore della (OMISSIS) con controricorso illustrato con memoria.

Il consigliere relatore ha formulato la proposta ex art. 380 bis c.p.c.

Motivi della decisione

CHE:

Con il primo si denunzia violazione e falsa applicazione della L.F., artt. 95, 96, 97 e 98, commi 1 e 3, esponendo in particolare che l’art. 95, prevede la mera facoltà e non l’obbligo di replicare alle difese e alle eccezioni del curatore entro la prima udienza fissata per l’esame dello stato passivo, sicché la mancata formulazioni di osservazioni al progetto non esclude l’impugnazione ex art. 98, in quanto tale giudizio d’opposizione non è equiparabile ad un giudizio ordinario d’appello, trattandosi di gravame a carattere sostitutivo con cui i soggetti legittimati modificano lo stato passivo mediante l’estromissione dal concorso di un credito di un concorrente.

Con il secondo motivo si deduce l’omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti, non avendo il Tribunale tenuto conto che nel verbale d’ammissione allo stato passivo erano state formulate deduzioni circa l’inammissibilità dei crediti vantati dai soci della (OMISSIS), con richiesta di chiarimenti su circostanze rilevanti sulla loro fondatezza.

I due motivi – esaminabili congiuntamente poiché tra loro connessi – sono fondati. Invero, il Tribunale ha erroneamente ritenuto inammissibile l’impugnazione, L.F., ex art. 98, comma 3, proposta dalla società ricorrente avverso l’ammissione al passivo di altri creditori, avendo l’istante chiesto “chiarimenti alla curatela in ordine alle domande d’ammissione al passivo del fallimento da altri avanzate, senza quindi postulare alcun provvedimento da parte del giudice in proposito, sollevare eccezioni, o anche svolgere difese nel merito rispetto a detta domanda”.

Al riguardo, va osservato che in tema di accertamento del passivo, secondo il consolidato orientamento di questa Corte – cui il collegio intende dare continuità – la mancata presentazione da parte del creditore di osservazioni al progetto di stato passivo depositato dal curatore non comporta acquiescenza alla proposta e conseguente decadenza dalla possibilità di proporre opposizione, non potendo, infatti, trovare applicazione il disposto dell’art. 329 c.p.c., rispetto ad un provvedimento giudiziale non ancora emesso, ed inoltre la L.F., art. 95, comma 2, introdotto dal D.Lgs. n. 169 del 2007, prevede che i creditori possano esaminare il progetto, senza porre a loro carico un onere di replica alle difese e alle eccezioni del curatore entro la prima udienza fissata per l’esame dello stato passivo cosicché deve, pertanto, escludersi che il termine predetto sia deputato alla definitiva e non più emendabile individuazione delle questioni controverse riguardanti la domanda di ammissione (v. Cass., n. 19937/17; n. 5659/12).

Pertanto, nel caso concreto, la mancata formulazione di contestazioni in ordine alle proposte di ammissioni allo stato passivo contenute nel relativo progetto redatto dal curatore non può comportare la decadenza dal diritto di proporre opposizione allo stato passivo L.F., ex art. 98. Per quanto esposto, in accoglimento dei due motivi del ricorso, il decreto impugnato va cassato, con rinvio al Tribunale di Massa, anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie i due motivi del ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia al Tribunale di Massa, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 29 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 marzo 2020.

 

Cass. civ. Sez. VI 1 Ord. 13_03_2020 n. 7136




La presentazione anticipata della domanda di concordato

La presentazione anticipata della domanda di concordato può consentire il perseguimento di finalità dilatorie da parte di chi intenda approfittare dell’istituto per perseguire obbiettivi ben diversi dalla regolazione della crisi d’impresa

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 7117 del 12/03/2020

Con ordinanza del 12 marzo 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che La presentazione anticipata della domanda di concordato, implicando per sua natura l’impiego di un lasso temporale per dare completezza al proposito di risanamento dell’imprenditore, può consentire il perseguimento di finalità dilatorie da parte di chi intenda approfittare dell’istituto per perseguire obbiettivi ben diversi dalla regolazione della crisi d’impresa. In proposito, la mera presentazione di una richiesta di concessione di un termine ex art. 161, commi 6 e 10 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267 costituisce un fatto neutro, inidoneo di per sé a dimostrare la volontà del debitore di sfuggire alla dichiarazione di fallimento, ove si consideri che una simile domanda implica, per sua natura, un differimento del procedimento prefallimentare che lo contiene e che tale differimento rimane neutralizzato dal fenomeno di consecuzione delle procedure concorsuali.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 7117 del 12/03/2020

La presentazione anticipata della domanda di concordato può consentire il perseguimento di finalità dilatorie da parte di chi intenda approfittare dell’istituto per perseguire obbiettivi ben diversi dalla regolazione della crisi d’impresa

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __- Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. __ proposto da:

(OMISSIS) S.a.s. – ricorrenti –

contro

Curatela del Fallimento (OMISSIS) S.a.s. – controricorrente –

e contro

Procura della Repubblica di Vibo Valentia e Procura Generale della Repubblica di Catanzaro – intimate –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal cons. Dott. __.

Svolgimento del processo

  1. Con sentenza n. __ il Tribunale di Vibo Valentia, una volta reputata inammissibile la domanda anticipata di concordato presentata ex art. 161, comma 6, L.F. da (OMISSIS) S.a.s. di S. & C. e S., quale socio accomandatario della compagine, dichiarava il fallimento dei medesimi su istanza del Pubblico Ministero.
  2. La Corte d’appello di Catanzaro, a seguito del reclamo presentato da (OMISSIS) S.a.s. e S., ricordava che la domanda di concordato in bianco deve contenere, oltre ai requisiti formali richiesti dalla L.F., art. 161, comma 6, l’indicazione del tipo di piano che l’imprenditore intende presentare e le relative linee guida nonché l’allegazione di elementi atti a verificare la presenza di un’attività del debitore che sia concretamente idonea alla predisposizione della proposta e del piano; nel caso in esame però il ricorso presentato non prospettava in maniera specifica quale fosse la concreta soluzione operativa che la società avesse inteso adottare, quale tipo di piano si volesse predisporre e le linee essenziali del medesimo, quali fossero le forme di soluzione della crisi di impresa a cui si intendeva ricorrere e le attività da cui attingere.

Nel contempo la Corte di merito condivideva la valutazione del primo giudice secondo cui la richiesta di concordato con riserva avanzata in occasione dell’udienza fissata per la trattazione della procedura prefallimentare, in presenza di un’istanza notificata due mesi addietro, dimostrava come l’iniziativa perseguisse finalità meramente dilatorie.

La corte distrettuale inoltre escludeva che il socio illimitatamente responsabile non fosse stato messo a conoscenza della pendenza della procedura fallimentare, sia perché questi si era costituito nel giudizio prefallimentare esercitando il proprio diritto di difesa, sia perché la nullità della notifica effettuata dalla polizia giudiziaria, compiuta a mani del socio accomandatario in proprio e quale legale rappresentante della società, risultava sanata dal raggiungimento dello scopo, come confermava l’avvenuta costituzione in giudizio.

  1. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso (OMISSIS) S.a.s. di S. & C. e S. prospettando tre motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso il fallimento di (OMISSIS) S.a.s. di S. & C.

Gli intimati Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Vibo Valentia e Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Catanzaro non hanno svolto difese.

Motivi della decisione

4.1 Il terzo motivo di ricorso, da cui occorre prendere le mosse per ragioni di priorità logica, denuncia la violazione della L.F., artt. 15 e 147, artt. 111 e 24 Cost.: in tesi di parte ricorrente alla società fallita non sarebbe mai stato ritualmente notificato il decreto di fissazione dell’udienza camerale contenente gli avvertimenti in merito alla possibilità di difendersi anche mediante la presentazione di scritti difensivi, di modo che il Tribunale avrebbe dovuto accertare la nullità della notifica effettuata dalla polizia giudiziaria e la conseguente mancata convocazione e audizione della compagine debitrice e del suo socio illimitatamente responsabile.

L’audizione di S., sia nella qualità di socio accomandatario, sia quale legale rappresentante di (OMISSIS) S.a.s., doveva poi essere ritenuta indispensabile nella procedura prefallimentare, una volta dichiarato inammissibile il concordato, tenuto conto che la compagine debitrice e il suo socio si erano costituiti esclusivamente nella procedura di concordato preventivo e non nella procedura prefallimentare, dove non si erano difesi nel merito.

4.2 Il motivo risulta in parte inammissibile, in parte infondato.

Una volta rilevata in limine la novità della censura riguardante la ritualità del contenuto del decreto di fissazione dell’udienza camerale, mai sollevata avanti alla Corte di merito, occorre poi osservare come il collegio del reclamo abbia accertato che la notifica era stata effettuata al S., quale socio accomandatario di (OMISSIS) S.a.s., da parte della polizia tributaria, ritenendo poi che la stessa potesse considerarsi come perfezionata sia nei confronti del socio accomandatario in proprio, sia rispetto alla compagine tramite il suo legale rappresentante.

Il raggiungimento dello scopo a cui l’atto era finalizzato, come testimoniava anche l’avvenuta costituzione in giudizio, aveva comportato – a parere dei giudici distrettuali – la sanatoria del vizio di notifica, da considerarsi nulla perché non coerente con il disposto della L.F., art. 15 ma non inesistente.

A fronte di questi argomenti, il motivo di ricorso, di carattere meramente assertivo, nel tornare a rappresentare la nullità della notifica si limita a riproporre le tesi difensive già svolte nelle fasi di merito piuttosto che criticare gli argomenti offerti dal giudice dell’appello e opera, così, una mera contrapposizione del suo giudizio e della sua valutazione a quella espressa dalla sentenza impugnata, senza considerare le ragioni offerte da quest’ultima (Cass. 11098/2000).

Il mancato confronto con la motivazione offerta dal collegio del reclamo comporta l’inammissibilità di questo profilo di doglianza, dato che l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata.

La sanatoria della nullità della notifica della richiesta di fallimento e del decreto di convocazione in ragione del raggiungimento dello scopo di portare l’atto a conoscenza del destinatario, come confermato dalla costituzione in giudizio, fa sì che non possa essere fondatamente predicata né la mancata audizione del socio accomandatario, né, più in generale, la compromissione del diritto di difesa dei fallendi.

  1. Il primo mezzo lamenta la violazione e falsa applicazione della L.F., art. 161 e il difetto assoluto di motivazione in merito alla ravvisata finalità meramente dilatoria della domanda anticipata di concordato: la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto che la domanda di concordato proposta ai sensi della L.F., art. 161, comma 6, fosse stata presentata con abuso dello strumento concorsuale, in quanto al momento del deposito del ricorso il Tribunale non aveva gli elementi necessari per riscontrare gli estremi dell’abuso, non disponendo di informazioni sufficienti, che si sarebbero potute ricavare soltanto dagli strumenti di monitoraggio previsti dai commi 6 e 8 della norma.

Peraltro, posto che – in tesi di parte ricorrente – il cd. preconcordato rappresenta un procedimento di carattere prenotativo e cautelativo diverso dal concordato, che può considerarsi introdotto soltanto con il deposito della proposta e del piano, unicamente da tale momento il Tribunale avrebbe potuto svolgere un esame sul merito della domanda reprimendo eventuali abusi.

I giudici di merito avrebbero inoltre ravvisato la natura abusiva dell’iniziativa assunta dal debitore avendo riguardo al solo tentativo di prendere tempo, senza verificare la sussistenza di un effettivo pregiudizio per i creditori, in palese contrasto con la più recente formulazione della L.F., art. 161; nel contempo sarebbe stata offerta una motivazione contraddittoria, poiché la corte distrettuale, dopo aver condiviso un indirizzo interpretativo secondo cui la domanda di concordato con riserva risulterebbe ammissibile grazie al mero rispetto dei requisiti formali previsti dalla L.F., art. 161, comma 6, avrebbe poi attribuito al Tribunale un potere di verifica e valutazione di una simile domanda di concordato, pur in mancanza del piano, al fine di accertare la concreta idoneità della soluzione proposta a gestire la situazione di insolvenza.

  1. Il motivo è fondato, nei termini che si vanno a illustrare.
  2. La domanda che introduce il concordato preventivo, pur potendo essere accompagnata dalla contemporanea presentazione di proposta, piano e documentazione prevista dalla L.F., art. 161, commi 2 e 3 ovvero prevedere un deposito ritardato dei medesimi, rimane comunque unica (dato che anche nella seconda ipotesi essa non deve essere ripresentata) e funge da elemento di riferimento dell’inizio della procedura.

La procedura concordataria infatti ha il suo avvio, anche ove introdotta nelle forme della L.F., art. 161, comma 6, con la pubblicazione della domanda nel registro delle imprese e non, come vorrebbe il ricorrente, dal momento del deposito del piano e della proposta.

Depone in questo senso il combinato disposto della L.F., art. 161, comma 5, che prescrive la pubblicazione della domanda di concordato, qualunque essa sia, nel registro delle imprese entro il giorno successivo al deposito in cancelleria, e L.F., art. 168, che regola gli effetti della presentazione del ricorso, a prescindere dal fatto che esso sia accompagnato dalla proposta e dal piano, prevedendo in ogni caso il divieto di iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive sul patrimonio dell’imprenditore, l’impossibilità di acquisire senza autorizzazione diritti di prelazione con effetto rispetto ai creditori concorrenti e l’inefficacia delle ipoteche giudiziali iscritte nei novanta giorni precedenti la data di pubblicazione.

Del pari con riferimento all’unica domanda concordataria presentata trovano applicazione, a mente della L.F., art. 169, le disposizioni degli artt. 45, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62 e 63.

Ed ancora l’unica domanda concordataria presentata deve essere tenuta a parametro – ai sensi della L.F., art. 69-bis, comma 2, per il computo dei termini previsti dalla L.F., artt. 64 e 65, art. 67, commi 1 e 2, e art. 69 nel caso in cui alla domanda di concordato preventivo faccia seguito la dichiarazione di fallimento.

Oltre a ciò alla presentazione dell’unica domanda di concordato preventivo una pluralità di norme fanno conseguire l’applicabilità della disciplina caratterizzante la procedura concordataria (ad esempio da tale data l’imprenditore può chiedere l’autorizzazione a sciogliere o sospendere i contratti ancora ineseguiti o non compiutamente eseguiti, ai sensi della L.F., art. 169-bis, ovvero l’autorizzazione a contrarre finanziamenti prededucibili o, in caso di continuità aziendale, l’autorizzazione a pagare crediti anteriori, L.F., ex art. 182-quinquies, commi 1 e 5, così come dalla medesima epoca non trovano applicazione l’art. 2446 c.c., commi 2 e 3, art. 2447 c.c., art. 2482-bis c.c., commi 4, 5 e 6, e art. 2482-ter c.c. e non opera la causa di scioglimento della società di cui all’art. 2484 c.c., n. 4, e art. 2545-duodecies c.c., a mente della L.F., art. 182-sexies).

Il cosiddetto preconcordato costituisce quindi non un procedimento autonomo e anticipatorio prodromico all’introduzione della procedura concordataria vera e propria, ma una mera opzione di sviluppo del concordato, alternativa a quella prevista dalla L.F., art. 161, commi 1, 2 e 3, secondo cui all’imprenditore, che già ha assunto la qualità di debitore concordatario, è concessa la facoltà di procrastinare il deposito di proposta, piano e relativa documentazione, al fine di anticipare i tempi dell’emersione della crisi, in un termine concesso dal Tribunale.

E proprio in questa prospettiva questa Corte (Cass. 4977/2016) ha già affermato “che il debitore, per quanto non ancora ammesso al concordato preventivo con il decreto di cui alla L.F., art. 163, già acquisisce lo statuto di debitore concordatario per il solo deposito della domanda ai sensi della L.F., art. 161, costituendosi il rapporto processuale con il giudice, chiamato ad una pronuncia su di essa e prima ancora instaurandosi un regime di controllo giudiziale sull’amministrazione (com’è evidente ad es. nel concordato con riserva, nonché quanto ai contratti pendenti L.F., ex art. 169 bis), oltre che uno statuto di relativa insensibilità del patrimonio alle iniziative di terzi (L.F., ex art. 168), con regole sui crediti e l’inefficacia addirittura importate dal fallimento e progressivamente estese (da ultimo, la L.F., art. 43, comma 4, nell’art. 169 novellato dal D.L. n. 83 del 2015)”.

Concetto poi ribadito più di recente (Cass. 31051/2019) quando, nell’affermare che “l’applicazione della regola di consecuzione, di cui alla L.F., art. 69 bis attiene, invero, alla esistenza di una procedura concorsuale (poi sfociata, anche in modo indiretto ma comunque nel contesto di un’unica crisi imprenditoriale, nella dichiarazione di fallimento dell’impresa), non già alla compiuta formulazione di una domanda ad hoc”, si è inteso sottolineare che la procedura concordataria esiste in ragione del suo avvio, avvenuto con la pubblicazione della domanda, e non già del fruttuoso impiego del termine assegnato L.F., ex art. 161, comma 6.

8.1 Anche in sede concordataria integra gli estremi dell’abuso del processo la condotta di chi, con violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede e dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, utilizzi strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento li ha predisposti.

In particolare in questo peculiare ambito procedurale i termini dell’abuso sono ravvisabili allorquando lo scopo perseguito nel concreto dal debitore non è quello di regolare la crisi dell’impresa attraverso un accordo con i suoi creditori, ma quello di differire la dichiarazione di fallimento.

Ciò avviene ad esempio, secondo la casistica sottoposta più di recente al vaglio di questa Corte, nel caso in cui il debitore, nonostante la possibilità concessagli di integrare e modificare la proposta concordataria iniziale, abbia depositato una seconda domanda di concordato dopo la deliberazione della sentenza dichiarativa di fallimento, ma prima della sua pubblicazione (Cass. 30539/2018).

Oppure nell’ipotesi di riproposizione, pochi giorni dopo la risoluzione del concordato inizialmente omologato ma rimasto inadempiuto, di un’ulteriore domanda di concordato, priva di ogni elemento di novità (Cass. 25210/2018).

Ed ancora ove la proponente abbia rinunciato ad una prima proposta di concordato per presentarne un’altra dopo il trasferimento della sede legale all’estero e in presenza di talune istanze di fallimento (Cass. 5677/2017) ovvero quando l’imprenditore, a seguito della declaratoria di inammissibilità di una prima proposta concordataria, abbia presentato una nuova proposta L.F., ex art. 161, comma 6, con modifiche di carattere meramente formale e marginale (Cass. 3836/2017).

In presenza di finalità distorte di differimento piuttosto che di regolazione della crisi la proposta di concordato si deve perciò considerare inammissibile, perché integrante gli estremi dell’abuso del processo.

8.2 Poiché simili finalità possono verificarsi lungo l’intero iter della procedura, tutto il corso concordatario deve confrontarsi, sin dal suo avvio, con la necessità di evitare che lo strumento concorsuale sia utilizzato in termini abusivi.

A questo proposito le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. U., 9935/2015) hanno già avuto modo di ricordare come la presentazione anticipata della domanda di concordato, implicando per sua natura l’impiego di un lasso temporale per dare completezza al proposito di risanamento dell’imprenditore, possa consentire il perseguimento di finalità dilatorie da parte chi intenda approfittare dell’istituto per perseguire obbiettivi ben diversi dalla regolazione della crisi d’impresa.

E questa particolare attitudine del preconcordato a prestarsi a finalità distorte ha indotto il legislatore ad avvertire come più urgente l’esigenza di evitare ogni forma di abuso proprio con riferimento alla fase di pendenza del termine per predisporre la proposta, il piano e i documenti di cui alla L.F., art. 161, commi 2 e 3, quando l’imprenditore rimane soggetto a una serie di cautele ideate proprio per scongiurare un simile rischio (e dunque, oltre a dover presentare periodiche informazioni su situazione e gestione finanziaria dell’impresa e sull’attività compiuta ai fini di predisporre la proposta e il piano, è tenuto a sottostare alle attività di controllo del commissario giudiziale e può compiere gli atti urgenti di straordinaria amministrazione soltanto dopo aver ottenuto l’autorizzazione del Tribunale).

Tali cautele, tuttavia, non possono escludere che il debitore possa presentare domande di concordato, con o senza riserva, con una mera ed evidente finalità dilatoria (Cass., Sez. U., 9935/2015).

Dunque, seppur il debitore non debba motivare le ragioni del ricorso al deposito della domanda senza piano, ove emerga fin da subito che il debitore persegua una mera ed evidente finalità dilatoria il Tribunale ben potrà immediatamente rilevarla, onde evitare di amplificare gli effetti pregiudizievoli dell’abuso del processo ravvisato.

  1. Ne discende che la presentazione di una domanda di concordato con riserva in pendenza del procedimento per la dichiarazione di fallimento non impone al Tribunale, sempre e in ogni caso, la concessione di un termine ai sensi della L.F., art. 161, commi 6 e 10.

Il che significa non tanto che il Tribunale abbia in proposito il potere di compiere una valutazione discrezionale, ma che il diritto al termine processuale trova un limite nell’abuso del processo.

Il Tribunale perciò non ha margini di discrezionalità né sotto il profilo dell’estensione del lasso di tempo assegnato, rimanendo escluso che al debitore possa attribuirsi un termine per il deposito della proposta e del piano non coincidente con quello fisso di sessanta giorni espressamente previsto dalla L.F., art. 161, comma 10, (Cass. 25602/2018, Cass., Sez. U., 9935/2015), né rispetto all’adesione alla richiesta, a patto però che la stessa sia accompagnata dal rituale deposito di tutta la documentazione prevista dalla L.F., art. 161, comma 6, e non emergano, fin da quel frangente, profili di abuso del diritto.

  1. La Corte di merito ha erroneamente ritenuto che accanto ai requisiti formali espressamente previsti dalla L.F., art. 161 il ricorso debba contenere ulteriori requisiti (pag. __), includendo oltre e necessariamente l’indicazione del tipo di piano che si vuole presentare e le relative linee-guida, anche gli elementi atti a verificare la presenza di un’attività del debitore che sia idonea, nel concreto, alla chiesta predisposizione della proposta e del piano (pag. __).

In vero la ratio dell’intervento di riforma che ha introdotto il disposto della L.F., art. 161, comma 6, sta nell’intento di promuovere l’emersione anticipata della crisi, consentendo un’immediata protezione del patrimonio del debitore per il periodo necessario all’elaborazione del piano ed alla sua presentazione ai creditori, senza che il rischio di salvataggio e soluzione della crisi di impresa sia pregiudicato da intenti aggressivi da parte di creditori che, informati di tale condizione, tentino di trarre vantaggio da iniziative esecutive o cautelari individuali.

In questa prospettiva la fase fra la pubblicazione della domanda anticipata nel registro delle imprese e l’apertura del concordato costituisce, per sua natura, il momento in cui l’imprenditore, dopo aver preso consapevolezza del suo stato di crisi, fa chiarezza a sé stesso, prima, agli organi della procedura e ai creditori, poi, sulle modalità con cui intende risolverlo.

L’obbligo di predisporre efficacemente proposta e piano (di cui l’imprenditore deve rendere periodicamente e sistematicamente conto L.F., ex art. 161, comma 8) si sostanzia per il debitore nell’obbligo di diradare queste nebbie fin da subito, utilizzando il termine assegnato per verificare lo stato della propria condizione imprenditoriale, individuare la soluzione più opportuna da dare alla crisi in cui versa e trovare la migliore proposta da presentare ai suoi creditori e il piano attraverso cui realizzarla.

Richiedere fin dalla presentazione della domanda l’indicazione di elementi, dati e intenzioni che il termine richiesto è funzionale a individuare costituisce un’interpretazione che contrasta con le finalità che la norma intende perseguire e riduce il suo ambito applicativo, pur nel silenzio del legislatore, a chi abbia già chiari la propria condizione e i rimedi a cui fare ricorso per risolvere la crisi ed abbia già imbastito un lavoro in tal senso.

L’indicazione iniziale (o in pendenza del termine assegnato L.F., ex art. 161, comma 6) di un simulacro del piano e della proposta che si stanno preparando, non prevista in linea generale, non è quindi affatto indispensabile per la concessione del termine richiesto e costituisce un imprescindibile onere per il debitore unicamente nel caso in cui essa sia necessaria ai fini della valutazione della natura di ordinaria o straordinaria amministrazione degli atti compiuti dall’imprenditore dopo la presentazione di una domanda di concordato preventivo con riserva, ai sensi della L.F., art. 161, comma 7, (essendo onere dell’imprenditore, in tal caso, fornire informazioni sul tipo di proposta o sul contenuto del piano che intende presentare, sicché in difetto di tali elementi l’atto che si riveli idoneo a incidere negativamente sul patrimonio dell’impresa deve essere considerato come di straordinaria amministrazione; Cass. 14713/2019), o per l’esame di specifiche domande di autorizzazione (ad esempio L.F., ex art. 182-quinquies, comma 5).

In mancanza di tali necessità la domanda anticipata di concordato non richiede alcuna indicazione aggiuntiva agli oneri di produzione previsti dal primo periodo della L.F., art. 161, comma 6.

  1. Una volta riconosciuto che l’abuso del procedimento concordatario può essere acclarato fin dall’avvio del preconcordato, nel caso in cui una simile condotta si configuri immediatamente, rimane da stabilire se l’aspetto cronologico con cui l’iniziativa processuale è assunta possa valere a individuare un abuso del diritto. Nessun significato in questi termini può essere attribuito alla mera presentazione della richiesta di concessione di un termine L.F., ex art. 161, comma 6 e 10, ove si consideri che la domanda anticipata di concordato consiste proprio nell’attribuzione di una scadenza per il completamento del corredo concordatario e implica, per sua natura, un differimento del procedimento prefallimentare che lo contiene.

Differimento temporale i cui effetti dilatori sono neutralizzati dal fenomeno di consecuzione delle procedure concorsuali, secondo cui le conseguenze di un eventuale fallimento, dichiarato all’esito di un insuccesso della procedura concordataria tesa a regolare la medesima insolvenza, vanno retrodatati alla data di avvio della procedura minore.

La mera richiesta di concessione del termine in parola è quindi un fatto neutro, dato che non può costituire abuso il perseguimento di finalità proprie e non eccedenti rispetto a quelle per cui l’istituto è stato predisposto, tenuto conto peraltro dei meccanismi procedurali atti ad ammortizzare la dilazione temporale insita in questa forma di avvio della procedura concordataria.

Né valgono a dare diversa pregnanza alla presentazione della domanda di concordato la consapevolezza della situazione di dissesto, la consistenza di quest’ultimo e la pendenza di un’istanza di fallimento, ove si consideri, da un lato, che la situazione di crisi, per quanto pesante, e la volontà di dare una soluzione alla stessa costituiscono il presupposto indefettibile della procedura concordataria, dall’altro che la pendenza di un procedimento per la dichiarazione di fallimento, a mente della L.F., art. 161, comma 10, non impedisce la presentazione della domanda di concordato bianco, ma limita solo il termine concedibile per la predisposizione di proposta, piano e relativa documentazione.

  1. La presentazione di una domanda all’ultimo momento utile per assumere una simile iniziativa può suscitare, innegabilmente, maggiore sospetto sul fatto che il debitore intenda in questo modo soltanto differire la dichiarazione di fallimento.

Occorre tuttavia considerare come anche questa domanda rimanga, di per sé, nel solco delle finalità proprie dell’istituto, in quanto l’imprenditore ben può risolversi, anche all’ultimo minuto, a tentare una soluzione della propria crisi piuttosto che rassegnarsi a una dichiarazione di insolvenza.

Ed anche – e soprattutto – in questo caso valgono i contrappesi predisposti dall’ordinamento per evitare nocumento ai creditori (dato che l’imprenditore vede abbreviati i termini per predisporre la soluzione alla crisi ed è tenuto a rappresentare, passo passo, le modalità con cui si sta attivando e l’evoluzione della propria situazione finanziaria) ed operano i meccanismi di neutralizzazione del differimento (risultando quanto mai evidente, ai fini della consecuzione delle procedure, la mancanza di discontinuità dell’insolvenza in caso di naufragio dell’iniziativa concordataria e accoglimento dell’istanza di fallimento pendente).

Il tempo scelto per la presentazione della domanda cd. in bianco non vale perciò a vanificare le considerazioni in precedenza fatte sull’impossibilità di trarre argomenti per ravvisare un abuso da una condotta che si mantenga nei termini, cronologici e sostanziali, prescritti dalla norma.

Nondimeno il ritardo dell’iniziativa può concorrere a dimostrare, unitamente ad altri elementi utili a rappresentare il quadro d’insieme in cui la risoluzione è stata assunta ed a tratteggiarla in termini meramente dilatori (come nei casi più sopra elencati già passati al vaglio di questa Corte), il perseguimento di finalità abusive che nulla hanno a che vedere con l’intenzione di regolare la crisi d’impresa.

  1. Sarà quindi necessario fissare i seguenti principi: i) il cosiddetto preconcordato di cui alla L.F., art. 161, comma 6, costituisce una mera opzione di sviluppo del concordato, alternativa a quella prevista dalla L.F., art. 161, commi 1, 2 e 3, secondo cui all’imprenditore, che già ha assunto la qualità di debitore concordatario, è concessa la facoltà di procrastinare il deposito di proposta, piano e relativa documentazione, al fine di anticipare i tempi dell’emersione della crisi, in un termine concesso dal Tribunale; ii) la domanda anticipata di concordato non necessita per la sua ammissione (fatti salvi gli oneri di allegazione funzionali alla valutazione della natura di ordinaria o straordinaria amministrazione degli atti compiuti dall’imprenditore in pendenza della procedura ovvero alla valutazione delle istanze presentate dall’imprenditore) di alcuna indicazione aggiuntiva ai documenti previsti dal primo periodo della L.F., art. 161, comma 6; iii) il debitore, ove presenti una domanda anticipata di concordato accompagnata da tutti gli elementi stabiliti dalla L.F., art. 161, comma 6, ha diritto alla concessione del termine per predisporre la proposta, il piano e la documentazione di cui ai commi 2 e 3, a meno che il Tribunale non rilevi aliunde fin da quel frangente che l’iniziativa è assunta con abuso dello strumento concordatario; iv) la mera presentazione di una richiesta di concessione di un termine ex art. 161, comma 6 e 10, L.F. costituisce un fatto neutro inidoneo di per sè a dimostrare la volontà del debitore di sfuggire alla dichiarazione di fallimento, ove si consideri che una simile domanda implica, per sua natura, un differimento del procedimento prefallimentare che lo contiene e che tale differimento rimane neutralizzato dal fenomeno di consecuzione delle procedure concorsuali; v) la domanda anticipata di concordato presentata all’ultimo momento utile tuttavia può concorrere a dimostrare, unitamente ad altri elementi atti a rappresentare in termini abusivi il quadro d’insieme in cui l’iniziativa è stata assunta, il perseguimento di finalità dilatorie del tutto diverse dall’intenzione di regolare la crisi d’impresa.
  2. La sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione di questi principi.

Essa si presta a critica innanzitutto laddove, in violazione del disposto dell’art. 161, comma 6, L.F., esige l’adempimento di un obbligo di discovery di contenuto eccedente al testo normativo, in realtà insussistente.

La decisione inoltre applica falsamente le regole appena fissate, riconducendo in maniera non pertinente la fattispecie concreta posta al suo esame all’istituto dell’abuso del preconcordato.

Stando all’accertamento della Corte di merito nel caso in esame la condotta del debitore è consistita nell’assumere l’iniziativa concordataria, a distanza di due mesi dalla notifica del decreto di fissazione e soltanto in occasione dell’udienza prefallimentare, malgrado lo stato di insolvenza fosse risalente nel tempo.

Il che, come detto, non bastava però a dimostrare che lo strumento concordatario, introdotto nel rispetto dei termini previsti dall’art. 161, comma 10, L.F., fosse stato sviato dalle sue finalità risanatorie, occorrendo invece la dimostrazione di altre circostanze utili nel loro complesso a dare diversa valenza all’iniziativa assunta all’ultimo momento utile ma pur sempre nell’alveo dei requisiti formali e cronologici caratterizzanti l’istituto.

La sentenza impugnata andrà dunque cassata, con rinvio della causa alla corte distrettuale, la quale, nel procedere al suo nuovo esame, si atterrà ai principi sopra illustrati, avendo cura anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

  1. Rimane assorbito il secondo motivo di ricorso, attinente all’iniziativa assunta dal Pubblico Ministero per sollecitare la declaratoria di fallimento una volta ravvisata l’inammissibilità della domanda di preconcordato.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso nei termini di cui in motivazione, rigetta il terzo, dichiara assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di Appello di Catanzaro in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 21 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2020.

 

Cass. civ. Sez. I Ord. 12_03_2020 n. 7117




La domanda di concordato preventivo ed il procedimento prefallimentare

La domanda di concordato preventivo ed il procedimento prefallimentare debbono essere coordinati in modo da garantire che la soluzione negoziale della crisi

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 4343 del 20/02/2020

Con sentenza del 20 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che la domanda di concordato preventivo ed il procedimento prefallimentare debbono essere coordinati in modo da garantire che la soluzione negoziale della crisi, ove percorribile, sia preferita al fallimento. Pertanto, ove siano contemporaneamente pendenti dinanzi ad uno stesso ufficio giudiziario, gli stessi possono essere riuniti ex art. 273 c.p.c., anche di ufficio, consentendo una siffatta riunione di raggiungere l’obiettivo della gestione coordinata.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 4343 del 20/02/2020

La domanda di concordato preventivo ed il procedimento prefallimentare debbono essere coordinati in modo da garantire che la soluzione negoziale della crisi

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso, recante il n. __ R.G., proposto da:

(OMISSIS) S.r.l. e M., quale erede di A. – ricorrenti –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – controricorrente –

e

E. S.p.A. – controricorrente –

avverso la sentenza della CORTE DI APPELLO DI L’AQUILA depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno __ dal Consigliere Dott. __;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito, per la società ricorrente, l’Avv. __, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito, per il fallimento controricorrente, l’Avv. __, con delega, che ha chiesto rigettarsi l’avverso ricorso.

udito, per la società controricorrente, l’Avv. __, che ha chiesto rigettarsi l’avverso ricorso.

Svolgimento del processo

  1. Con sentenza del __, il Tribunale di Teramo, adito da E. S.p.A., pronunciò il fallimento della (OMISSIS) S.r.l.

1.1. Il reclamo proposto da quest’ultima fu dichiarato estinto dalla Corte di appello di L’Aquila, con sentenza del __, la quale, premettendo che l’udienza di discussione, fissata per il __, non si era tenuta a causa della sospensione dei termini processuali prevista dal D.L. 28 aprile 2009, n. 39, ritenne che la comparsa di costituzione depositata dal curatore del fallimento il __ non costituisse un valido atto di riassunzione perché privo della richiesta di fissazione dell’udienza o di prosecuzione del procedimento, con la conseguenza che non si era provveduto alla fissazione di alcuna udienza finché lo stesso curatore non aveva eccepito l’estinzione del giudizio per mancata riassunzione nel termine di legge.

1.2. Questa decisione venne, però, cassata dalla Suprema Corte, con sentenza n. 2491 del 2017, che, accogliendo il corrispondente ricorso della (OMISSIS) S.r.l., reputò sufficiente il deposito della comparsa di costituzione del fallimento ad impedire l’estinzione predetta e rinviò alla corte di appello aquilana per il nuovo esame.

1.3. Riassunto il processo innanzi al menzionato giudice di rinvio, questi respinse il reclamo della (OMISSIS) S.r.l., ribadendo la competenza territoriale del Tribunale di Teramo a pronunciarne il fallimento, nuovamente escludendo l’asserita illegittimità della corrispondente dichiarazione in pendenza di concordato preventivo e dando atto della pacifica esistenza dei requisiti, soggettivo e oggettivo, di cui alla L.F., artt. 1 e 5.

  1. Avverso l’appena descritta sentenza la (OMISSIS) S.r.l. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi. Il curatore fallimentare ed E. S.p.A. hanno resistito con distinti controricorsi. La ricorrente e la curatela controricorrente hanno depositato memoria ex art. 380-bis c.p.c.

Motivi della decisione

  1. Va pregiudizialmente ribadito che, come già rimarcato dalla menzionata ordinanza interlocutoria n__ del __, la chiusura del fallimento (documentata dalla curatela controricorrente mediante il deposito del decreto del Tribunale di Teramo del __) non rende improcedibile l’impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento ed il relativo giudizio continua in contraddittorio anche del curatore, la cui legittimazione non viene meno, in quanto in tale giudizio si discute se il debitore doveva essere dichiarato fallito, o meno, e, perciò, se lo stesso curatore doveva essere nominato al suo ufficio (cfr. Cass. n. 15782 del 2018; Cass. n. 2399 del 2016).
  2. I formulati motivi prospettano, rispettivamente:
  3. I) “Violazione e falsa applicazione del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, artt. 9 e ss., e successive modifiche (L.F.), dell’art. 2697 c.c., anche in rapporto agli artt. 2727 e 2729 c.c., nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c. – Violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) ed omessa motivazione ed esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”. Si ascrive alla corte abruzzese di aver solo apparentemente richiamato i principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità con riguardo all’interpretazione della L.F., art. 9, avendoli, invece, totalmente disattesi al fine di affermare la competenza territoriale del Tribunale di Teramo, in luogo di quello di Roma, a dichiarare il fallimento di (OMISSIS) S.r.l. “…sulla scorta di una valutazione errata delle risultanze istruttorie, sistematicamente orientata alla individuazione di elementi che confortassero la collocazione del centro di affari dell’impresa a Teramo anziché a Roma, quando, invece, una corretta applicazione delle norme disciplinanti la presente fattispecie conduceva, in applicazione delle regole in tema di onere della prova e di corretta valutazione del regime delle presunzioni, ad escludere sia che fosse onere della reclamante dimostrare la coincidenza della sede effettiva con quella legale (essendovi una presunzione di coincidenza di sede in tale senso), sia che gli elementi acquisiti nel giudizio in senso contrario integrassero quei requisiti di precisione, gravità e concordanza necessari a vincere la regola della presunzione semplice ai sensi dell’art. 2729 c.c.” (cfr. pag. __ del ricorso);
  4. II) “Violazione e falsa applicazione del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, artt. 160 e ss. (L.F.), con riferimento alle norme in tema di prevenzione o comunque di coordinamento fra il concordato preventivo ed il fallimento. Violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”. Si critica la decisione impugnata per non aver rilevato il grave vizio della dichiarazione di fallimento pronunciata dal Tribunale di Teramo che, nella pacifica consapevolezza della presenza di una domanda di concordato proposta, innanzi al Tribunale di Roma, dalla (OMISSIS) S.r.l., aveva precluso a quest’ultima, con una siffatta decisione, la possibilità stessa di accesso alla procedura concorsuale minore, peraltro con una motivazione sostanzialmente inesistente.
  5. Il primo motivo è complessivamente inammissibile per plurime ragioni.

3.1. Esso, invero, in primo luogo, prospetta genericamente e cumulativamente vizi di natura eterogenea (censure motivazionali ed errores in iudicando), in contrasto con la tassatività dei motivi di impugnazione per cassazione e con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità per cui una simile tecnica espositiva riversa impropriamente sul giudice di legittimità il compito di isolare, all’interno di ciascun motivo, le singole censure (cfr., ex plurimis, Cass. n. 33348 del 2018; Cass. n. 19761, n. 19040, n. 13336 e n. 6690 del 2016; Cass. n. 5964 del 2015; Cass. n. 26018 e n. 22404 del 2014).

3.2. Va, poi, osservato che la corte territoriale dopo aver correttamente puntualizzato che, ai fini della individuazione del giudice competente a pronunciare la dichiarazione di fallimento, è determinante il luogo in cui si trova il centro direttivo ed amministrativo degli affari dell’impresa (cfr. pag. __ della sentenza impugnata, e le pronunce di legittimità ivi richiamate), ha successivamente descritto gli elementi che l’hanno indotta a concludere diversamente da quanto oggi prospettato dalla ricorrente valorizzando elementi ritenuti dalla prima di scarsa rilevanza – nel senso della ubicazione in Teramo (piuttosto che a Roma) dell’effettivo centro direzionale ed amministrativo di (OMISSIS) S.r.l.. Il manifestato giudizio di maggiore rilevanza di tali elementi, rispetto a quelli invocati da quest’ultima, risulta affatto coerente con il parametro stabilito dalla L.F., art. 9, occorrendo, infatti, tener conto del luogo in cui vive il cuore pulsante dell’impresa, vale a dire quello in cui vengono individuate e decise le scelte strategiche cui dare seguito.

3.3. Orbene, è utile ricordare che questa Corte ha, ancora recentemente (cfr. Cass. n. 27686 del 2018), chiarito che: a) il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 può rivestire la forma della violazione di legge (intesa come errata negazione o affermazione dell’esistenza o inesistenza di una norma, ovvero attribuzione alla stessa di un significato inappropriato) e della falsa applicazione di norme di diritto (intesa come sussunzione della fattispecie concreta in una disposizione non pertinente – perché, ove propriamente individuata ed interpretata, riferita ad altro – ovvero deduzione da una norma di conseguenze giuridiche che, in relazione alla fattispecie concreta, contraddicono la sua – pur corretta interpretazione. Cfr. Cass. n. 8782 del 2005); b) non integra, invece, violazione, né falsa applicazione di norme di diritto, la denuncia di una erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, poiché essa si colloca al di fuori dell’ambito interpretative ed applicativo della norma di legge; c) il discrimine tra violazione di legge in senso proprio (per erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa) ed erronea applicazione della legge (in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta) è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, diversamente dalla prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. Cass., Sez. U., n. 10313 del 2006; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010); d) le doglianze attinenti non già all’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalle norme di legge, bensì all’erronea ricognizione della fattispecie concreta alla luce delle risultanze di causa, ineriscono tipicamente alla valutazione del giudice di merito (cfr. Cass. n. 13238 del 2017; Cass. n. 26110 del 2015).

3.3.1. La doglianza in esame si risolve, invece, sostanzialmente, in una critica al complessivo accertamento fattuale operato dal giudice a quo, cui la ricorrente intenderebbe opporre, sotto la formale rubrica di vizio motivazionale e/o di violazione di legge, una diversa valutazione, totalmente obliterando, però, da un lato, che il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – come si è appena detto – non può essere mediato dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie, ma deve essere dedotta, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione; dall’altro, che la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (qui applicabile ratione temporis, risultando impugnata una sentenza pubblicata il 17 gennaio 2018), ha avuto l’effetto di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare, con riferimento a quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza (o di altro provvedimento decisorio) per mancanza della motivazione, ipotesi configurabile allorché la motivazione manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum (cfr. Cass. n. 22598 del 2018; Cass. n. 23940 del 2017).

3.3.2. Non solo, dunque, non è più denunciabile, in sede di legittimità, la motivazione insufficiente e/o contraddittoria, ma oggetto del vizio di cui alla norma da ultimo citata è, oggi, esclusivamente l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, e cioè: i) un vero e proprio fatto, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c., cioè un fatto costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (cfr. Cass. n. 16655 del 2011; Cass. n. 7983 del 2014; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 29883 del 2017); ii) un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico (cfr. Cass. n. 21152 del 2014; Cass., SU, n. 5745 del 2015); iii) un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante, e le relative ricadute di esso in termini di diritto (cfr. Cass. n. 5133 del 2014); iv) una vicenda la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014). Non costituiscono, viceversa, fatti, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, tra gli altri: a) le argomentazioni o deduzioni difensive (cfr. Cass., SU, n. 16303 del 2018, in motivazione; Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015); b) gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014).

3.3.3. Inoltre, il fatto il cui esame sia stato omesso deve avere carattere decisivo, vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Tale decisività, in quanto correlata all’interesse all’impugnazione, si addice innanzitutto a quel fatto che, se scrutinato, avrebbe condotto il giudice ad una decisione favorevole al ricorrente, rimasto soccombente nel giudizio di merito. Poiché l’attributo si riferisce al fatto in sé, la decisività asserisce, inoltre, al nesso di causalità tra la circostanza non esaminata e la decisione: essa deve, cioè, apparire tale che, se presa in considerazione, avrebbe portato con certezza il giudice del merito ad una diversa ricostruzione della fattispecie (non bastando, invece, la prognosi che il fatto non esaminato avrebbe reso soltanto possibile o probabile una ricostruzione diversa: si vedano già Cass. n. 22979 del 2004; Cass. n. 3668 del 2013; la prognosi in termini di certezza della decisione diversa è richiesta, ad esempio, da Cass., SU, n. 3670 del 2015).

3.4. In applicazione dei suesposti principi, allora, va rimarcato che la corte distrettuale – con una motivazione che non integra affatto violazione dei principi dettati in tema di onere della prova e di prova presuntiva, oltre che priva di vizi logici, siccome basata sulla puntuale e dettagliata descrizione e ponderazione di indici concreti – è giunta alla conclusione che, nella specie, il quadro istruttorio desumibile dalla documentazione prodotta in atti, valutato in ciascun elemento e nel suo complesso, fosse idoneo a far ritenere raggiunta la prova della ubicazione in Teramo (piuttosto che a Roma) dell’effettivo centro direzionale ed amministrativo di (OMISSIS) S.r.l.; né potrebbe sostenersi, fondatamente, che l’argomentare del giudice del reclamo abbia trascurato alcuni dati dedotti dalla odierna ricorrente, per la semplice ragione di averli ritenuti, esplicitamente, o implicitamente, irrilevanti.

3.4.1. La corte aquilana, invero, ha ampiamente descritto (cfr., amplius, pag. __ dell’impugnata sentenza) gli elementi istruttori che l’hanno indotta a quella conclusione, ed il corrispondente accertamento, effettuato valorizzando indici probatori giudicati idonei a vincere la presunzione iuris tantum di corrispondenza tra la sede legale e quella effettiva di (OMISSIS) S.r.l., integra una valutazione fattuale, a fronte della quale detta società, con il motivo in esame, tenta, sostanzialmente, di opporre alla ricostruzione dei fatti definitivamente sancita nella decisione impugnata una propria alternativa loro interpretazione, sebbene sotto la formale rubrica di vizio motivazionale e/o di violazione di legge, mirando ad ottenerne una rivisitazione (e differente ricostruzione), in contrasto con il granitico orientamento di questa Corte per cui il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr., ex multis, Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).

3.4.2. In altri termini, la ricorrente incorre nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge processuale dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio, laddove, al contrario, un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115 e 116 c.p.c. può porsi, rispettivamente, solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito: 1) abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; 2) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione (cfr. Cass. n. 27000 del 2016). Del resto, affinché sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell’art. 132, n. 4 e degli artt. 115 e 116 c.p.c., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata all’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse (cfr. Cass. 24434 del 2016). La valutazione degli elementi istruttori costituisce, infatti, un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (cfr. Cass. n. 11176 del 2017, in motivazione). Nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove (salvo che non abbiano natura di prova legale), peraltro, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti: il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati (cfr. Cass. n. 11176 del 2017). In effetti, non è compito di questa Corte quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice di merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), altresì evidenziandosi che i fatti e/o i documenti di cui oggi la ricorrente lamenta l’errata valutazione (piuttosto che l’omesso esame), lungi dall’essere, di per sé, decisivi, nei sensi in precedenza ricordati, al più potrebbero rappresentare elementi indiziari da porre a fondamento di un ragionamento presuntivo volto a giungere a conclusioni magari diverse da quelle esposte dalla corte abruzzese, così procedendosi, però, a valutazioni che, impingendo nel merito, sono inammissibili nel giudizio di legittimità.

3.5. (OMISSIS) S.r.l. censura, infine (cfr. pag. __ del ricorso), anche la mancata ammissione degli articolati mezzi di prova, ma una siffatta doglianza si rivela viziata, sul piano dell’autosufficienza, attesa la omessa indicazione del contenuto e delle modalità delle relative richieste.

  1. Parimenti insuscettibile di accoglimento è il secondo motivo che lamenta l’essere stata preclusa alla menzionata società la possibilità di accedere alla procedura di concordato preventivo.

4.1. È opportuno, peraltro, premettere, in relazione a tale doglianza, che, come condivisibilmente e eccepito dalla curatela fallimentare controricorrente (cfr. pag. __ e ss. del controricorso), la corte di merito ha innanzitutto affermato che tale doglianza non era stata tempestivamente svolta con l’atto introduttivo del reclamo (ricordandosi, in proposito, che come si legge alla pag. __ della sentenza oggi impugnata – il Tribunale di Teramo aveva pronunciato il fallimento della odierna ricorrente dopo averne respinto non solo l’eccezione di incompetenza territoriale di cui si è detto scrutinandosi il primo motivo, ma anche quella, ulteriore, di improcedibilità del procedimento prefallimentare per la contemporanea pendenza, innanzi al Tribunale di Roma, della domanda di concordato preventivo ivi depositata da (OMISSIS) S.r.l.), ma solo con la comparsa depositata in vista dell’udienza innanzi alla medesima corte __ (all’esito della quale quest’ultima dichiarò estinto il reclamo, con pronuncia poi cassata da questa Suprema Corte): tale specifica ratio decidendi non risulta essere stata specificamente impugnata, con conseguente inammissibilità della censura in esame alla stregua del principio secondo cui, ove la corrispondente motivazione della sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata sul punto, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in alcun caso l’annullamento, in parte qua, della sentenza (cfr., ex multis, Cass. n. 15075 del 2018, in motivazione; Cass. n. 18641 del 2017; Cass. n. 15350 del 2017).

4.3. Giova, allora, subito ricordare che le Sezioni Unite di questa Suprema Corte, con le sentenze nn. 9935 e 9936 del 2015, hanno escluso che il necessario coordinamento tra la procedura prefallimentare e quella di concordato preventivo possa essere realizzato mediante la sospensione della prima in attesa della definizione della seconda, tanto trovando insuperabile ostacolo: i) nella L.F., art. 161, u.c., L.F., nella parte in cui fa salva, in pendenza della domanda di concordato (con riserva), la possibilità di rigettare l’istanza di fallimento; ii) nell’assenza di un nesso di pregiudizialità-dipendenza in senso tecnico tra le due domande (nesso che ricorrerebbe soltanto allorché la situazione sostanziale dedotta nel processo pregiudicante rappresenti il fatto costitutivo di quella dedotta nella causa pregiudicata, ipotesi certamente non ricorrente nel caso di specie. Cfr. Cass., SU, n. 1521 del 2013, Cass. n. 3059 del 2011).

4.3.1. Negata, altresì, per ragioni in parte analoghe, la possibilità di una declaratoria di improcedibilità della procedura prefallimentare, le medesime Sezioni Unite, hanno rilevato: a) la parziale identità dei soggetti, quando l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento venga assunta dai creditori; b) la coincidenza della causa petendi, rappresentata dallo stato di insolvenza (invero, come la stessa Corte non ha mancato di rilevare in un altro passo delle menzionate pronunce, la riforma del 2005 ha differenziato i presupposti delle due procedure, individuando il presupposto per l’ammissione al concordato preventivo nello stato di crisi, che è nozione più ampia dello stato di insolvenza. Nondimeno, una (parziale) comunanza di causa petendi tra le due domande è pur sempre ravvisabile, ove si consideri che ogni ipotesi di insolvenza integra a fortiori la fattispecie dello stato di crisi rilevante ai fini dell’ammissione alla procedura di concordato: sicché può affermarsi che la causa petendi di quest’ultima domanda contiene quella della domanda di fallimento); c) la parziale coincidenza del petitum, individuato nella regolazione della crisi (sub specie dello stato di insolvenza), ma secondo le diverse regole delle due procedure, con conseguente incompatibilità delle istanze. Successivamente, hanno individuato lo strumento di raccordo tra le procedure nell’istituto della continenza, e così nella riunione dei procedimenti a norma dell’art. 39 c.p.c., comma 2, (e 273).

4.3.2. Una soluzione, quest’ultima, che, ad avviso della Corte, si lascia particolarmente apprezzare sul piano dell’opportunità poiché, consentendo al tribunale, in caso di esito negativo della domanda di concordato, di decidere immediatamente sulle istanze di fallimento riunite, vale a ridimensionare il rischio di un abuso dell’istituto del concordato preventivo realizzato mediante l’artificiosa reiterazione della relativa domanda al solo scopo di evitare la dichiarazione di fallimento.

4.3.3. La qualificazione del rapporto tra la procedura di concordato preventivo e quella prefallimentare in termini di continenza si colloca, dunque, nel solco di quell’orientamento giurisprudenziale che ricomprende in tale ultima nozione non soltanto le ipotesi in cui le cause contemporaneamente pendenti siano caratterizzate da identità di soggetti e causa petendi e da una differenza meramente quantitativa del petitum, ma anche i casi di interdipendenza tra cause, tali che la decisione di una sia presupposto per la decisione dell’altra (cfr. Cass. n. 186 del 2001; Cass. n. 8690 del 1987; Cass. n. 2250 del 1982), e, più in generale, tutti quei casi in cui la riunione delle cause appaia (non già semplicemente opportuna ma) doverosa al fine di evitare conflitti pratici (e non meramente logici) tra giudicati.

4.3.4. La riconduzione nell’ambito della continenza del rapporto tra fallimento e concordato preventivo sembra dar luogo, come si è chiarito in dottrina, ad un ulteriore allargamento di tale nozione, giacché, nel caso che ci occupa, la sussistenza di un rapporto di continenza non sembra agevolmente giustificabile sulla base di una concezione dei limiti oggettivi del giudicato, che induca a ritenere dedotto in entrambi i processi il medesimo rapporto giuridico sostanziale, essendo qui affatto diverso (e non riconducibile ad una matrice sostanziale unitaria) l’oggetto delle due domande (nessuna delle quali, oltretutto, comporta la deduzione in giudizio di un rapporto giuridico sostanziale nei termini propri dell’ordinario processo di cognizione. Invero, la domanda di concordato introduce un procedimento di natura tipicamente volontaria, destinato a sfociare – in caso di esito positivo della procedura – in un provvedimento che si configura quale condizione di efficacia di un accordo tra privati. La domanda di fallimento, invece, dà luogo a un processo che, anche a volerne sostenere la natura contenziosa, deve essere probabilmente ricondotto nell’ambito dei cd. processi a contenuto oggettivo, caratterizzati, tra l’altro, da ciò, che il giudicato investe direttamente gli effetti – di norma costitutivi – della sentenza e non ha ad oggetto un preesistente rapporto sostanziale). Un simile allargamento della nozione di continenza trova, evidentemente, la sua principale giustificazione in ragioni di carattere pratico, e segnatamente nell’esigenza di favorire la riunione dei procedimenti attraverso l’applicazione della disciplina dettata dall’art. 39 c.p.c., comma 2, in luogo di quella più restrittiva di cui all’art. 40.

4.4. Fermo quanto precede, reputa il Collegio che affatto correttamente la corte aquilana ha evidenziato che, al di là del fatto che la domanda di concordato era stata presentata davanti ad un tribunale (quello di Roma) diverso da quello (Teramo) innanzi al quale pendeva la procedura prefallimentare, così rendendo certamente non agevole il coordinamento fra le due procedure, ciò che ulteriormente rilevava era che il provvedimento adottato dal tribunale romano su quella domanda (declaratoria di incompetenza) non risultava essere stato in alcun modo impugnato, sicché, non essendo più lo stesso pendente, né, soprattutto, riattivabile innanzi alla medesima corte, quest’ultima non avrebbe sicuramente potuto procedere alla revoca della sentenza di fallimento.

4.4.1. Trattasi di argomentazione pienamente coerente con quanto sancito da Cass., SU, n. 9935 e 9936 del 2015, secondo cui, appunto, tra la domanda di concordato preventivo e l’istanza o la richiesta di fallimento ricorre, in quanto iniziative tra loro incompatibili e dirette a regolare la stessa situazione di crisi, un rapporto di continenza, derivandone, così, la riunione dei relativi procedimenti ai sensi dell’art. 273 c.p.c., se pendenti innanzi allo stesso giudice, ovvero l’applicazione delle disposizioni dettate dall’art. 39 c.p.c., comma 2, in tema di continenza e competenza, se pendenti innanzi a giudici diversi.

4.4.2. Non vi è chi non veda, però, che, nella specie, ancor prima che l’identità di uffici innanzi ai quali la domanda concordataria e l’istanza di fallimento erano state presentate (rimarcandosi, peraltro, che, come recentemente sancito da Cass. n. 15094 del 2019, resa in ipotesi di contemporanea pendenza, innanzi allo stesso ufficio giudiziario, della domanda e dell’istanza predette, la formale riunione dei procedimenti, in generale, non è imposta dalla legge a pena di nullità e non è sindacabile in sede di legittimità. Cfr., ex multis, Cass. 13001 del 2006; Cass. 19840 del 2004; Cass. n. 9906 del 2001), mancava, al momento della decisione della corte abruzzese, la contemporanea pendenza di queste ultime, necessaria per potersi invocare, se non l’applicazione della norma in tema di continenza di cui all’art. 39 c.p.c., comma 2, (inutilizzabile, come chiarito da questa Corte, con riguardo alla situazione di pendenza di una causa in primo grado e dell’altra in appello. Cfr. Cass. n. 26835 del 2017; Cass. n. 5455 del 2014), quanto meno l’esigenza di coordinamento ad essa sottesa mediante soluzioni adeguate, anche di carattere pratico, idonee ad assicurarla.

4.5. Possono, in definitiva, affermarsi, ex art. 363 c.p.c., comma 3, i seguenti principi di diritto: i) “La domanda di concordato preventivo ed il procedimento prefallimentare debbono essere coordinati in modo da garantire che la soluzione negoziale della crisi, ove percorribile, sia preferita al fallimento. Pertanto, ove siano contemporaneamente pendenti dinanzi ad uno stesso ufficio giudiziario, gli stessi possono essere riuniti ex art. 273 c.p.c., anche di ufficio, consentendo una siffatta riunione di raggiungere l’obiettivo della gestione coordinata”; ii) “Ove la domanda di concordato preventivo ed il procedimento prefallimentare siano pendenti dinanzi ad uffici giudiziari diversi, ferma la regola della continenza ex art. 39 c.p.c., comma 2, è onere del debitore che conosce della pendenza dell’istruttoria prefallimentare, anteriormente introdotta, proporre la domanda di concordato preventivo dinanzi al tribunale investito dell’istanza di fallimento, anche quando lo ritenga incompetente, affinché i due procedimenti confluiscano dinanzi al medesimo tribunale, e senza che una siffatta condotta determini acquiescenza ad una eventuale violazione della L.F., art. 9”; iii) “Allorquando l’istanza di fallimento sia stata depositata dinanzi ad un ufficio giudiziario diverso da quello innanzi al quale sia già pendente una domanda di concordato preventivo, l’obiettivo della gestione coordinata dei due procedimenti può essere conseguito sollecitando il tribunale successivamente adito all’adozione dei provvedimenti di cui alla L.F., art. 39, comma 2, che in ogni caso, in ossequio ai principi generali, e vieppiù nell’ottica di garantire preferibilmente la soluzione negoziale della crisi, debbono essere adottati anche di ufficio”; iv) “Ove la domanda di concordato preventivo ed il procedimento prefallimentare siano pendenti dinanzi ad uffici giudiziari diversi, è onere del debitore impugnare, nei limiti in cui ciò sia consentito, tutti i provvedimenti adottati, anche in rito, che possano ostacolare il preliminare esame della domanda di concordato preventivo da lui proposta, atteso che l’eventuale accoglimento del reclamo L.F., ex art. 18 contro la sentenza di fallimento, di cui si pretenda l’illegittimità a causa del mancato preventivo esame della domanda concordataria, presuppone che quest’ultima sia ancora sub iudice”.

  1. Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile, restando le spese del giudizio di legittimità, in favore di ciascuna parte controricorrente, regolate dal principio di soccombenza, e dandosi atto, altresì, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 23535 del 2019 – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso, e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore di ciascuna parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro __ per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro __, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della medesima ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, giusta il comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 6 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2020.

 

Cass. civ. Sez. I 20_02_2020 n. 4343




L’imprenditore che cessa volontariamente l’attività di impresa

L’imprenditore che cessa volontariamente l’attività di impresa tiene un comportamento a lui imputabile che preclude l’utilizzo di strumenti finalizzati alla composizione della crisi dell’attività imprenditoriale

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 4329 del 20/02/2020

Con sentenza del 20 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che l’imprenditore il quale volontariamente cessi l’attività di impresa tiene un comportamento a lui imputabile che preclude l’utilizzo di strumenti finalizzati alla composizione della crisi dell’attività imprenditoriale. Nel caso di specie, rigettando il ricorso, la Suprema Corte ha ritenuto incensurabile la pronuncia impugnata con la quale la corte territoriale aveva respinto il reclamo proposto dal ricorrente avverso il decreto con il quale era stata dichiarata l’inammissibilità della proposta di concordato preventivo, in quanto formulata da soggetto non legittimato, ossia da imprenditore individuale che aveva cessato l’attività d’impresa, e la conseguente sentenza con la quale il Tribunale ne aveva dichiarato il fallimento.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 4329 del 20/02/2020

L’imprenditore che cessa volontariamente l’attività di impresa tiene un comportamento a lui imputabile che preclude l’utilizzo di strumenti finalizzati alla composizione della crisi dell’attività imprenditoriale

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

T. – ricorrente –

contro

U. S.p.A. – controricorrente –

e contro

Fallimento di T., ditta individuale (OMISSIS) – controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

B. S.p.A., C. S.c.a.r.l., F. S.r.l., M. S.p.A., Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello Brescia, Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Cremona, S. S.p.A. – intimati –

avverso la sentenza n. 998/2015 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, pubblicata il 24/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/09/2019 dal cons. DE MARZO GIUSEPPE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che si riporta alle conclusioni scritte già depositate e comunicate alle parti: rigetto del ricorso principale; assorbimento di quello incidentale;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato __ che ha chiesto l’accoglimento del ricorso principale; rigetto dell’incidentale;

udito, per il controricorrente e ricorrente incidentale Fallimento, l’Avvocato __, con delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso principale; accoglimento dell’incidentale.

Svolgimento del processo

  1. Con sentenza depositata il __ la Corte d’appello di Brescia ha rigettato il reclamo proposto da T. avverso il decreto con il quale era stata dichiarata l’inammissibilità della proposta di concordato preventivo, in quanto formulata da soggetto non legittimato, ossia da imprenditore individuale che aveva cessato l’attività d’impresa, e la conseguente sentenza con la quale il Tribunale di Cremona ne aveva dichiarato il fallimento.
  2. Per quanto ancora rileva, la Corte territoriale ha osservato: a) che la cancellazione di T., imprenditore individuale, dal registro delle imprese in data __ rappresentava ragione sufficiente per presumere l’estinzione dell’attività imprenditoriale, salva la prova contraria della sua concreta prosecuzione; b) che il reclamante non aveva fornito elementi per superare detta presunzione e, anzi, aveva dedotto – ciò che, del resto, era confermato dalle visure camerali – di essersi spogliato del patrimonio aziendale, avendolo ceduto ad A. S.a.s. di nuova costituzione; c) che non era assimilabile la fattispecie della cessazione dell’attività da parte dell’imprenditore individuale a quella della morte dell’imprenditore; d) che neppure poteva essere condivisa la tesi della prosecuzione dell’attività da parte di T. attraverso la società, dal momento che, a seguire la prospettazione del reclamante, si sarebbero dovuti registrare due soggetti distinti (la persona fisica e la società) contemporaneamente svolgenti la stessa attività imprenditoriale.
  3. Avverso tale sentenza T. ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un motivo, cui hanno resistito con controricorso il curatore del fallimento, che ha proposto, altresì, ricorso incidentale condizionato, e U. S.p.A. Non hanno svolto attività difensiva la F. S.r.l., C. S.c.a.r.l., S. S.p.A., M. S.p.A. e B. S.p.A.

In vista della pubblica udienza, il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte.

Motivi della decisione

  1. Con l’unico motivo del ricorso principale, si lamenta violazione e falsa applicazione della L.F., artt. 10, 160 e 161.

Rileva il ricorrente: a) che la L.F., artt. 10 e 11 non hanno natura eccezionale, ma speciale, giacché hanno la funzione di ampliare, al di là del periodo temporale di esercizio dell’impresa, la possibilità di dichiarare il fallimento dell’imprenditore, in modo da conservare ai creditori la possibilità della tutela concorsuale della quale disponevano al momento dell’assunzione dell’obbligazione; b) che, pertanto, tali previsioni sono suscettibili di applicazione analogica o, almeno, di interpretazione estensiva; c) che la prevalenza della procedura concordataria su quella fallimentare, alla luce dell’interesse dei creditori ad essere soddisfatti in misura apprezzabile e in un lasso di tempo ragionevolmente breve, rende irragionevole la contraria soluzione adottata dalla Corte territoriale; d) che, in difetto di limiti normativi, deve piuttosto essere prospettata un’interpretazione costituzionalmente orientata della L.F., artt. 10 e 161, nel senso che la presentazione della domanda di concordato sarebbe idonea a sospendere il termine annuale per la dichiarazione di fallimento; e) che siffatta conclusione sarebbe confermata dal mancato richiamo, da parte della L.F., art. 162, comma 2, del precedente art. 10; f) che, del resto, una attenta lettura della disciplina della procedura concordataria non consentirebbe di cogliere alcun ostacolo normativo alla soluzione prospettata; g) che, infine, non sarebbe dato cogliere quale interesse il legislatore avrebbe inteso tutelare escludendo dalla procedura concordataria l’imprenditore cessato, giacché quest’ultimo è comunque tenuto a rispondere dei debiti contratti e i creditori conservano l’interesse a concordare con l’ex- imprenditore le modalità del rientro.

Le doglianze sono infondate.

Questa Corte ha già ritenuto che il combinato disposto dell’art. 2495 c.c. e L.F., art. 10 impediscano al liquidatore della società cancellata dal registro delle imprese, di cui, entro l’anno dalla cancellazione, sia domandato il fallimento, di richiedere il concordato preventivo. Quest’ultima procedura, infatti, diversamente dalla prima, che ha finalità solo liquidatorie, tende alla risoluzione della crisi di impresa, sicché l’intervenuta e consapevole scelta di cessare l’attività imprenditoriale, necessario presupposto della cancellazione, ne preclude ipso facto l’utilizzo, per insussistenza del bene al cui risanamento essa dovrebbe mirare (Cass. 20 dicembre 2015, n. 21286).

In definitiva, il dato cruciale è rappresentato dalla persistente esistenza o non di una realtà imprenditoriale rispetto alla quale possa porsi l’esigenza di assicurare, attraverso la procedura concordataria, la risoluzione della crisi con le modalità previste dal legislatore.

Con tali conclusioni non collide affatto Cass. 21 dicembre 2018, n. 33349, la quale ha ritenuto che le iniziative complessivamente assunte dall’imprenditore individuale (nella specie, presentazione di una proposta concordataria), pur cancellato dal registro delle imprese, rendano evidente il compimento di operazioni economiche di tipo liquidatorio, dirette alla regolazione concordataria di una attività di impresa, per ciò stesso di fatto proseguita.

La soluzione si coordina con l’orientamento espresso da Cass. 21286/2015 cit., dal momento che, per le società di capitali (quale era quella che veniva in rilievo nella decisione appena citata), l’art. 2495 c.c. fa discendere dalla cancellazione della società la sua estinzione.

Ciò posto, la ricostruzione di Cass. 33349/2018 muove dalla premessa che, in generale la presentazione della proposta di concordato – al netto di ipotesi di abuso, non processualmente emergenti nel caso di specie possa rappresentare un atto di prosecuzione dell’attività di impresa. Tuttavia, si tratta di una conclusione basata sulla valutazione operata, nel caso deciso, dai giudici di merito, quanto al superamento della presunzione di cessazione dell’attività collegata alla cancellazione.

Al contrario, nella vicenda che si esamina, la sentenza impugnata muove da un diverso accertamento in fatto e cioè che la proposta di concordato non esprimeva alcun atto di impresa, dal momento che T. si era spogliato del patrimonio aziendale, in tal modo cessando l’attività imprenditoriale individuale.

La Corte territoriale ha anche condivisibilmente aggiunto che, a fronte di un’unica attività imprenditoriale, non può ritenersi che essa sia riconducibile a due distinti soggetti giuridici.

In definitiva, deve ribadirsi che l’imprenditore il quale volontariamente cessi l’attività di impresa tiene un comportamento a lui imputabile che preclude l’utilizzo di strumenti finalizzati alla composizione della crisi dell’attività imprenditoriale.

Siffatta soluzione è, peraltro, stata recepita per il futuro dal codice della crisi di impresa.

A norma del D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, art. 33, u.c. che reca la disciplina della cessazione dell’attività in relazione a tutte le procedure, è inammissibile la domanda di concordato preventivo o di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti presentata dall’imprenditore cancellato dal registro delle imprese.

  1. Al rigetto del ricorso principale segue l’assorbimento di quello incidentale condizionato con il quale si lamenta violazione della L.F., artt. 18, 162 e 163, rilevando che il decreto di inammissibilità della domanda di concordato preventivo è reclamabile, ai sensi della L.F., art. 162, comma 3 e art. 18 solo quando quest’ultima sia inscindibilmente connessa alla contestuale o successiva dichiarazione di fallimento. Nel caso di specie, al contrario, siffatta connessione, argomentativa ed effettuale, non sarebbe sussistente.
  2. Il rigetto del ricorso principale comporta, altresì, la condanna del T. al pagamento, in favore di ciascuno dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, alla luce del valore e della natura della causa nonché delle questioni trattate.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale; dichiara assorbito il ricorso incidentale; condanna il ricorrente principale al pagamento, in favore di ciascuno dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 11 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2020.

 

Cass. civ. Sez. I 20_02_2020 n. 4329




Fallimento: la partecipazione al concorso

Fallimento: la partecipazione al concorso deve appartenere a qualunque creditore posteriore sia esso prededucibile, prelatizio o chirografario

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 1, Ordinanza n. 6991 del 11/03/2020

Con ordinanza del 11 marzo 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 1, in merito di recupero crediti ha stabilito che se i termini di cui ai commi 1 e 4 dell’art. 101 legge fallimentare (R.D. n. 267 del 1942) ovviamente di per sé non soccorrono più a disciplinarne l’accesso al concorso, un ragionevole limite temporale, per un verso, va ricavato dal sistema dell’ordinata ed egualitaria opportunità di partecipazione al concorso che deve appartenere a qualunque creditore posteriore, sia esso prededucibile, prelatizio o chirografario; ciò permette, con il richiamo agli artt. 3 e 24 Cost., il recupero della stessa dilazione – i dodici mesi – fissata nella norma per tutti i creditori, ma, per altro verso, con un differente momento di decorrenza; quest’ultimo è stato di conseguenza individuato, anche in armonia con le indubbie esigenze di celerità e di concentrazione della procedura all’accertamento del passivo, con l’epoca da cui l’esercizio di tale diritto di credito, nella sua declinazione come domanda di insinuazione al passivo, diviene esercitabile.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 1, Ordinanza n. 6991 del 11/03/2020

Fallimento: la partecipazione al concorso deve appartenere a qualunque creditore posteriore sia esso prededucibile, prelatizio o chirografario

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso proposto da:

B. S.p.A. – ricorrente-

contro

FALLIMENTO (OMISSIS) S.r.l. – controricorrente –

per la cassazione del decreto Trib. Teramo __, cron. __, R.G. __;

viste le memorie delle parti;

vista l’istanza di rimessione della causa alle Sezioni Unite e il conseguente decreto del Primo Presidente;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del giorno __ dal Consigliere relatore Dott. __.

Svolgimento del processo

Rilevato che:

  1. B. S.p.A. impugna il decreto Trib. Teramo __, cron. __, R.G. __, che, rigettando l’opposizione allo stato passivo del FALLIMENTO (OMISSIS) S.r.l., ha ritenuto corretta la dichiarazione di inammissibilità della domanda di insinuazione ultratardiva, così come statuita dal competente giudice delegato L.F. ex art. 101;
  2. il tribunale ha rilevato che l’aver assunto la banca la veste di parte processuale nel giudizio di revocatoria ordinaria, con subentro del curatore che parimenti proseguiva la domanda originaria e così aveva chiesto ed ottenuto l’inefficacia dell’atto di cessione a terzi dell’immobile gravato di ipoteca in favore dell’attuale ricorrente, giustificava una parametrazione del ritardo della domanda di ammissione al passivo computato a far data almeno dal passaggio in giudicato della citata sentenza (emessa nel 2009); derivandone allora, con la sua definitività (in data __) e in relazione ad un’insinuazione tardiva depositata solo il __, senza altre ragioni di scusabilità, una causa pienamente imputabile alla riprovevole diligenza della banca; veniva così svalutata la comunicazione del __ con cui il curatore comunicava alla banca che i beni recuperati erano stati assoggettati ad esecuzione in sede fallimentare ed in forza della sentenza di accoglimento della revocatoria resa dal Tribunale di Teramo, posto che un ingente ritardo aveva contrassegnato il lungo periodo in cui la banca ben poteva presentare l’insinuazione e non l’aveva fatto;
  3. con il ricorso, in tre motivi, si contesta la decisione per: a) violazione della L.F., art. 101, avendo erroneamente il tribunale non considerato che il credito della banca era divenuto azionabile solo nel corso del fallimento, col passaggio in giudicato della sentenza di revocatoria; b) identica violazione ove la valutazione del ritardo, come nella specie e trascorso ormai un anno dopo l’esecutività dello stato passivo, sarebbe stata rimessa alla discrezionalità giudiziale; c) ulteriore pari violazione della norma, ove il ritardo è stato apprezzato nonostante l’apprensione esecutiva del bene L.F. ex art. 107 fosse stata comunicata alla banca solo successivamente;
  4. il fallimento si è costituito resistendo con controricorso.

Motivi della decisione

Considerato che:

  1. i motivi, per l’intima connessione, vanno trattati congiuntamente e la complessiva censura è, per alcuni profili, inammissibile e, per altri, infondata; dal tenore delle rispettive difese appare incontroverso che l’iniziativa di ammissione al passivo di B., già creditore ipotecario della società fallita, si realizzò con la domanda svolta ai sensi della L.F., art. 101, solo quasi tre anni dopo che il bene immobile oggetto di garanzia ipotecaria in suo favore venne recuperato alla massa, a seguito dell’esercizio con successo dell’azione revocatoria, esperita in un primo tempo proprio dalla banca ora ricorrente e poi proseguita dalla curatela;
  2. il tribunale ha escluso la non imputabilità del ritardo al creditore, dunque condividendo il giudizio di inammissibilità della relativa domanda ultratardiva, per via della concludenza della citata partecipazione iniziale proprio della banca al giudizio di revocatoria, per come promossa e dunque di uno stato soggettivo di consapevolezza aliunde della pronuncia di fallimento (e della conseguente insinuabilità del credito al passivo) in capo al creditore, a far data, quanto meno, dal passaggio in giudicato della citata sentenza di accoglimento; ciò ben prima che il curatore notiziasse B., quale creditore ipotecario, delle operazioni liquidatorie, circostanza che il decreto riferisce al __ (e il controricorrente anticipa al __ con richiamo alle proprie difese avanti al tribunale);
  3. in realtà, circa la relazione tra dimostrazione della tardività giustificabile e inerenza del tempo ipotetico di presentazione della domanda solo se riferito ai dodici mesi dall’esecutività dello stato passivo, cioè alla L.F., art. 101, comma 1, la tesi non solo pone una questione nuova, della quale il ricorrente non indica tempestività e ritualità d’introduzione nel processo avanti al giudice di merito, conseguendone l’inammissibilità (Cass. 20694/2018); essa in realtà pone in dubbio la stessa esistenza dell’istituto delle domande ultratardive, L.F. ex art. 101, u.c., che ha come limite di riferimento – con l’obiettivo della razionalità del processo distributivo interno dell’attivo – comunque l’esaurimento delle operazioni di riparto, in generale e la prova, nello specifico, che l’esaminabilità stessa del diritto di prendere parte al concorso rifletta l’adempimento, per quanto esigibile, di un onere di diligenza nell’inter-locuzione processuale; ed è proprio la combinazione del primo dato, oggettivo, con il secondo, vertente sulla prova di intempestività scusabile, dunque clausola generale (Cass. 23975/2015), a temperare il rigore del citato obiettivo, così generando una giustificazione per i risultati di un programma di conciliazione tra poste passive e attive che, proprio nei dodici mesi e salvo eccezioni, dovrebbe aver assunto il suo assetto definitivo per tutti, terzi inclusi e ad ogni effetto di fissazione del fabbisogno fallimentare;
  4. tuttavia, se i ricordati principi certamente operano per i crediti pregressi, avendo riguardo invece ai crediti insorti dopo la sentenza dichiarativa di fallimento, questa Corte ha ritenuto che si debba “fermare…un termine annuale per la presentazione delle relative domande” (Cass. 18544/2019, 28799/2019); tale indirizzo ha così precisato, del tutto condivisibilmente, che se allora i termini di cui alla L.F., art. 101, commi 1 e 4, ovviamente di per sé non soccorrono più a disciplinarne l’accesso al concorso (il primo perché in ipotesi anche esaurito, il secondo in quanto espresso per clausola generale senza in realtà una specificazione temporale predeterminata), un ragionevole limite temporale, per un verso, va ricavato dal sistema dell’ordinata ed egualitaria opportunità di partecipazione al concorso che deve appartenere a qualunque creditore posteriore, sia esso prededucibile, prelatizio o chirografario; ciò permette, con il richiamo agli artt. 3 e 24 Cost., il recupero della stessa dilazione – i dodici mesi – fissata nella norma per tutti i creditori, ma, per altro verso, con un differente momento di decorrenza; quest’ultimo è stato di conseguenza individuato, anche in armonia con le indubbie esigenze di celerità e di concentrazione della procedura all’accertamento del passivo, con l’epoca da cui l’esercizio di tale diritto di credito, nella sua declinazione come domanda di insinuazione al passivo, diviene esercitabile; nella specie, e come premesso, le citate condizioni si erano già ampiamente verificate al definirsi del vittorioso giudizio di revocatoria, con ogni conseguenza recuperatoria e dunque anche il termine per questa via rinvenuto deve dirsi trascorso, per tale parte enunciativa intendendosi emendata la motivazione del decreto impugnato, invero corretto nella parte decisoria;

il tenore della presente motivazione opera infine, secondo le stesse indicazioni del Primo Presidente, dà ragione impeditiva a dar corso alla rimessione della causa alle Sezioni Unite, non sussistendo né difformità di pronunce, né attualità di questione di massima importanza ex art. 374 c.p.c.;

al rigetto del ricorso consegue, oltre alla condanna alle spese regolata secondo il principio della soccombenza e liquidazione come meglio da dispositivo, la dichiarazione della sussistenza dei presupposti per il versamento del cd. raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento di legittimità, liquidate in Euro __ (di cui Euro __ per esborsi), oltre al 15% a forfait sui compensi e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 22 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2020.

 

Cass. civ. Sez. VI 1 Ord. 11_03_2020 n. 6991