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Liquidazione del compenso al curatore del fallimento

Liquidazione del compenso al curatore del fallimento: cosa ricomprendere nel concetto di “attivo realizzato”

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 1, Ordinanza n. 1175 del 21/01/2020

Con ordinanza del 21 gennaio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 1, in tema di fallimento ha stabilito che, il ai fini della liquidazione del compenso al curatore del fallimento, ex art. 39 della L.F., non può ricomprendersi nel concetto di “attivo realizzato”, alla cui entità ragguagliare le percentuali previste dal D.M. n. 30 del 2012, il valore dell’immobile liquidato nella procedura esecutiva promossa dal creditore fondiario, a meno che il curatore non sia intervenuto nell’esecuzione svolgendo un’attività diretta a realizzare una concreta utilità per la massa dei creditori, anche mediante la distribuzione a questi ultimi di una parte del ricavato della vendita.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 1, Ordinanza n. 1175 del 21/01/2020

Liquidazione del compenso al curatore del fallimento: cosa ricomprendere nel concetto di “attivo realizzato”

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

T., C., nella qualità di eredi di V. – ricorrenti –

contro

FALLIMENTO (OMISSIS) A r.l., in persona del curatore p.t. – intimato –

avverso il provvedimento del TRIBUNALE di RAGUSA, depositato __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24/09/2019 dal Consigliere Relatore, Dott. __.

Svolgimento del processo

CHE:

Con decreto depositato il __, il Tribunale di Ragusa liquidò al curatore del fallimento della (OMISSIS), avv. V., a titolo di compenso, la somma di Euro __ oltre il 5% per spese generali, disponendone il pagamento a favore degli eredi.

  1. e C., quali eredi del suddetto curatore, hanno impugnato il suddetto decreto con ricorso per cassazione formulando un unico motivo.

Non si è costituita la curatela fallimentare. È stata depositata memoria.

Motivi della decisione

CHE:

Con l’unico motivo è denunziata violazione e falsa applicazione dell’art. 39 L.F. e del D.M. 25 gennaio 2012, n. 30, artt. da 1 a 5, lamentando che il Tribunale aveva liquidato il compenso spettante al curatore escludendo dall’importo dell’attivo realizzato il prezzo ricavato dalla vendita esecutiva immobiliare, promossa dal creditore fondiario, considerandolo solo come “attivo inventariato” e non acquisito alla massa attiva.

Il motivo è manifestamente fondato alla stregua del consolidato orientamento di questa Corte per cui, ai fini della liquidazione del compenso al curatore del fallimento ex art. 39 L.F., non può ricomprendersi nel concetto di “attivo realizzato”, alla cui entità ragguagliare le percentuali previste dal D.M. n. 30 del 2012, il valore dell’immobile liquidato nella procedura esecutiva promossa dal creditore fondiario, a meno che il curatore non sia intervenuto nell’esecuzione svolgendo un’attività diretta a realizzare una concreta utilità per la massa dei creditori, anche mediante la distribuzione a questi ultimi di una parte del ricavato della vendita (Cass., n. 14631/18; n. 100/98).

Nella fattispecie, il curatore ha amministrato l’immobile ipotecato, provvedendo alle spese di manutenzione, locandolo a terzi e curando gli adempimenti fiscali connessi alla vendita del bene, ed intervenendo nella procedura espropriativa con varie richieste al giudice dell’esecuzione. Poiché tali attività risultano intraprese nell’interesse e per l’utilità della massa dei creditori, il prezzo ricavato dalla suddetta vendita, ancorché su impulso del creditore fondiario, è da ritenere incluso nell’attivo fallimentare ai fini del calcolo del compenso al curatore. Pertanto, il decreto impugnato va cassato, con rinvio al Tribunale di Ragusa che provvederà anche sulle spese del grado di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinviai al Tribunale di Ragusa, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, il 24 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2020.

 

Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord. 21_01_2020 n. 1175




La responsabilità del liquidatore nei confronti dei creditori sociali

La responsabilità del liquidatore nei confronti dei creditori sociali rimasti insoddisfatti dopo la cancellazione della società

Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Ordinanza n. 521 del 15/01/2020

Con ordinanza del 15 gennaio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, in tema di responsabilità del liquidatore nei confronti dei creditori sociali rimasti insoddisfatti dopo la cancellazione della società, ex art. 2495, comma 2, c.c., ha stabilito che, il conseguimento, nel bilancio finale di liquidazione, di un azzeramento della massa attiva non in grado di soddisfare un credito non appostato nel bilancio finale di liquidazione, ma comunque provato quanto alla sua sussistenza già nella fase di liquidazione, è fonte di responsabilità illimitata del liquidatore verso il creditore pretermesso, qualora sia allegato e dimostrato che la gestione operata dal liquidatore evidenzi l’esecuzione di pagamenti in spregio del principio della par condicio creditorum, nel rispetto delle cause legittime di prelazione ex art. 2741, secondo comma, c.c. Pertanto, ove il patrimonio si sia rivelato insufficiente per soddisfare alcuni creditori sociali, il liquidatore, per liberarsi dalla responsabilità su di lui gravante in riferimento ai dovere di svolgere un’ ordinata gestione liquidatoria del patrimonio sociale destinato al pagamento dei debiti sociali, ha l’onere di allegare e dimostrare che l’ intervenuto azzeramento della massa attiva tramite il pagamento dei debiti sociali non è riferibile a una condotta assunta in danno del diritto del singolo creditore di ricevere uguale trattamento rispetto ad altri creditori, salve le cause legittime di prelazione ex art. 2741 c.c.


 

Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Ordinanza n. 521 del 15/01/2020

La responsabilità del liquidatore nei confronti dei creditori sociali rimasti insoddisfatti dopo la cancellazione della società

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

F. – ricorrente –

contro

R. – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal Consigliere Dott. __;

Svolgimento del processo

che:

  1. Con ricorso notificato il __, F. ricorre per la cassazione della sentenza n. __, pronunciata dalla Corte d’appello di Roma, pubblicata il __, notificata il __ via PEC, concernente un’azione di responsabilità ex art. 2495 c.c., comma 2 promossa dalla ricorrente F., in veste di creditore privilegiato, nei confronti R., in qualità di liquidatore della società S. S.r.l., messa in liquidazione per perdite il (OMISSIS) e cancellata dal registro delle imprese il (OMISSIS).
  2. L’azione era stata avviata da F. per l’accertamento della responsabilità del liquidatore della società per la mancata riscossione di contributi previdenziali, maturati e non versati dalla società, e precisamente per avere egli cancellato la società dopo la chiusura della fase di liquidazione, previo pagamento di alcuni debiti sociali, senza tener conto del suo credito di Euro __, assistito da privilegio generale e non appostato nel bilancio finale di liquidazione; in particolare il creditore riteneva il liquidatore responsabile per non avere attivato la procedura di fallimento in proprio L.F., ex art. 6 e 14 (nella versione vigente ante 2006), atteso che la società, all’epoca della liquidazione, già giaceva in grave stato di insolvenza, oltre che di perdita totale del capitale sociale. Affermava infatti la mala gestio del liquidatore nel gestire tale fase, posto che la dichiarazione di fallimento avrebbe consentito, invece, un riparto dell’attivo nel rispetto della par condicio creditorum. Il danno, subito per colpevole condotta del liquidatore, di cui il creditore pretermesso chiedeva il risarcimento, era pertanto corrispondente all’importo che avrebbe potuto ricavare, in ragione della prelazione cui aveva diritto, nel riparto del residuo attivo, utilizzato invece dal liquidatore per effettuare pagamenti di altri debiti sociali.
  3. Il Tribunale adito affermava la responsabilità del liquidatore nei confronti del creditore per il fatto che la società, risultata gravemente insolvente già all’apertura della fase di liquidazione, avrebbe dovuto essere sottoposta a una procedura fallimentare, e non di liquidazione, su iniziativa del liquidatore, sull’assunto che la presentazione dell’istanza, non necessitando di un’autorizzazione dell’assemblea, costituisce obbligo giuridico del liquidatore, la cui inosservanza all’epoca era sanzionata penalmente qualora dalla sua violazione ne fosse derivato un aggravamento del dissesto; rilevava che era pacifico che il liquidatore fosse a conoscenza del debito verso F., avendo sottoscritto il verbale di ispezione notificato alla società, non rilevando che il credito di F. non risultasse formalmente appostato nel bilancio finale di liquidazione. Condannava quindi il liquidatore al relativo risarcimento, pari all’ammontare del credito pretermesso.
  4. La sentenza veniva impugnata dal liquidatore e la Corte d’appello di Roma, per quanto qui di interesse, in riforma della sentenza rigettava la domanda di F. rilevando che la fattispecie dovesse essere considerata esclusivamente entro la cornice dell’art. 2495 c.c., assumendo che la responsabilità gravante sul liquidatore nei confronti dei creditori, di tipo extracontrattuale, richiede l’assolvimento degli oneri probatori da parte dell’attore che agisce nei confronti del liquidatore, e pertanto che: 1) il creditore rimasto insoddisfatto, su cui grava l’onere di dimostrare la responsabilità del liquidatore per aver posto in essere un comportamento attivo od omissivo colposo dal quale sia derivato il mancato soddisfacimento del credito, nel caso specifico, pur avendo dimostrando l’esistenza del credito, non aveva dimostrato il relativo danno imputabile al liquidatore, posto che dal bilancio finale di liquidazione approvato dai soci risultava l’insussistenza di un attivo patrimoniale da distribuire; 2) dovesse parimenti escludersi una responsabilità del liquidatore nei confronti del creditore, dipendendo il mancato pagamento del debito sociale dalla mancanza di qualsiasi risorsa economica necessaria per procedere al suo soddisfacimento; 3) in ipotesi, l’omessa richiesta del fallimento in proprio della società non avrebbe potuto integrare di per sé un profilo di responsabilità del liquidatore, mancando la specifica dimostrazione che tale declaratoria avrebbe permesso di pervenire alla soddisfazione in tutto o in parte del credito.
  5. Il ricorso è affidato a due motivi, cui ha replicato il resistente con controricorso notificato nei termini. F. ha prodotto memoria nei termini.

Motivi della decisione

che:

  1. Con il 1 motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 la società ricorrente deduce che vi sia stata una violazione o falsa applicazione delle norme di diritto, e comunque omesso esame di un fatto decisivo prospettato dalla parte attrice, e ciò in relazione agli artt. 2495 e 2446 c.c., nonché alla L.F., artt. 6 e 14 nella versione anteriore alla riforma del 2006, e comunque una violazione di legge nell’atto di ripartizione dell’attivo senza tener conto della sussistenza del suo credito privilegiato, per quanto non indicato nel bilancio di liquidazione; con il 2^ motivo deduce la nullità della sentenza per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5, rappresentato dall’aver omesso i giudici l’analisi puntuale del documento n. 7), in cui è racchiuso il verbale di assemblea per l’approvazione del bilancio finale di liquidazione, ove risulterebbe descritto dal liquidatore il grave stato di insolvenza della società, e comunque che l’azzeramento dell’attivo patrimoniale residuo si sarebbe realizzato utilizzando il ricavo dell’attività di liquidazione per diminuire, per quanto possibile, l’esposizione debitoria della società. Parte resistente, di contro, sottolinea come nel caso in esame nessuna somma sia stata ripartita tra i soci e che il liquidatore abbia correttamente proceduto alla cancellazione della società, posto che nel bilancio finale non vi era più attivo patrimoniale di cui avrebbe potuto beneficiare il creditore, non avendo i soci provveduto a ripianare le perdite e non essendovi un obbligo del liquidatore, sol per questo, di avviare la società verso una fase concorsuale, posto che non vi erano sintomi di aggravamento del dissesto. Inoltre, il resistente deduceva che il creditore avrebbe dovuto provare l’esistenza, nel bilancio di liquidazione, di una massa attiva che sarebbe stata sufficiente a soddisfare le proprie ragioni, posto che in sede di scioglimento non vi era stata alcuna ripartizione di attivo in favore né dei soci, né di terzi. Contestava, in via gradata, la certezza del credito affermata dalla Corte territoriale.
  2. I motivi vanno analizzati congiuntamente per una evidente connessione logica tra la denunciata violazione di diritto e l’omessa motivazione, rilevante ex art. 360 c.p.c., n. 5.
  3. Al riguardo, si osserva innanzitutto che la responsabilità illimitata del liquidatore nei confronti dei creditori sociali non soddisfatti, prevista nell’art. 2495 c.c., comma 2, una volta che la società sia stata cancellata, prescinde dall’accertamento di un formale stato di insolvenza della società da parte del liquidatore, obbligato in tal senso solo ove la mancata dichiarazione di fallimento produca una situazione di aggravamento del dissesto, rilevante ai fini penali, come correttamente ritenuto dalla Corte di merito, posto che la procedura fallimentare, all’epoca, si sarebbe potuta avviare allorché l’avesse richiesta un creditore o il Pubblico Ministero, ovvero anche il debitore in proprio (con onere, per quest’ultimo, di provare lo stato di insolvenza L.F., ex art. 14, nella versione ante 2006), non costituendo propriamente un atto obbligatorio per gli amministratori o liquidatori della società, se non nei casi eccezionali sopra indicati, non adeguatamente dedotti dalla parte attrice. L’art. 2495 c.c. in questione, nel comma 1, prevede che, una volta approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese e, nel comma 2 sancisce che, ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione della società i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza del riparto andato a loro favore, e nei confronti dei liquidatori senza limitazione, se il mancato pagamento è dipeso da loro colpa.
  4. In questo ristretto ambito di responsabilità del liquidatore verso il creditore sociale rimasto insoddisfatto, occorre svolgere alcune riflessioni sull’ampiezza della responsabilità illimitata prevista per il liquidatore nei confronti dei creditori sociali, sussistente pur dopo la cancellazione della società. Non è un caso, infatti, che allorché la società sia stata sciolta si preveda per i liquidatori una responsabilità sociale illimitata, parificata in tutto a quella degli amministratori, ora come allora (cfr. il vigente art. 2489 c.c., comma 2, e la vecchia versione dell’art. 2452 c.c. che richiamava l’art. 2276 c.c.), in relazione alla natura dell’incarico rivestito, da valutarsi in rapporto al dovere del liquidatore di agire in modo conservativo, utile alla liquidazione, sì da evitare la dispersione del patrimonio sociale, oramai destinato alla liquidazione, e dunque al pagamento dei debiti sociali e alla distribuzione dell’attivo, ove presente, a favore dei soci, come precisato nel art. 2489 c.c., comma 1. Difatti i creditori, fino a che la società non è stata cancellata, anche se in ipotesi quest’ultima versi in stato di scioglimento, fanno affidamento sul patrimonio della società, il quale costituisce la garanzia patrimoniale generica su cui possono rivalersi e di cui possono chiedere persino la reintegrazione ex. art. 2394 c.c. sia agli amministratori che ai liquidatori. Ed invero, la responsabilità del liquidatore, una volta che ha provveduto a cancellare la società, permane direttamente nei confronti del singolo creditore rimasto eventualmente insoddisfatto, ove il mancato pagamento del credito sia derivato da sua colpa, in considerazione della violazione di obblighi inerenti alla natura dell’incarico che il liquidatore ricopre nella fase in cui la società è sciolta e non può più dinamicamente operare nell’esercizio dell’impresa, con assunzione di rischi ed oneri assimilabili a quelli degli amministratori che agiscono in una situazione di scioglimento non dichiarato, ex art. 2485 c.c., comma 1.
  5. L’approdo cui è pervenuto il legislatore nel conformare la responsabilità del liquidatore, dunque, è frutto di una linea comune di pensiero giurisprudenziale e dottrinale che nel corso degli anni si è sviluppata intorno al tema della responsabilità degli organi liquidatori nei confronti della società, dei creditori sociali e dei soci, sull’assunto che essi sono tenuti al precipuo obbligo di liquidare al meglio – in modo utile – l’attivo patrimoniale, per ripartirlo equamente tra i soci solo una volta effettuato il pagamento dei debiti sociali, secondo l’ordine legale di priorità dei corrispondenti crediti sancito nel piano di liquidazione. Tale orientamento, teso a garantire massima tutela ai creditori, è oggi rinvenibile nelle norme che disciplinano i criteri di svolgimento della liquidazione, e più precisamente negli artt. 2487, 2489 e art. 2491 c.c., comma 2, ove in quest’ultima disposizione si prevede espressamente che i liquidatori non possono ripartire tra i soci acconti sul risultato della liquidazione, salvo che dai bilanci risulti che la ripartizione non incide sulla disponibilità di somme idonee alla integrale soddisfazione del creditori sociali. Andando più a ritroso nel tempo, la giurisprudenza ha avuto occasione di sottolineare la priorità che assume l’interesse dei creditori, stakeholders della società, soprattutto nella fase in cui essi non possono più fare affidamento nell’operatività dell’impresa e nella continuità aziendale, a vedere soddisfatti i propri crediti, tant’è che sin dal 1980 la Suprema Corte ha sancito la nullità della convenzione fra i soci di una società per azioni, amministratori e detentori dell’intero pacchetto azionario, la quale sia rivolta a trasferire i beni sociali, in favore dei soci stessi o di terzi, senza il preventivo soddisfacimento dei creditori della società, per violazione delle norme imperative che tutelano la integrità del patrimonio della società a garanzia dei creditori, e che ne consentono l’assegnazione ai soci solo nel caso e con la procedura dello scioglimento e messa in liquidazione dell’ente (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 326 del 18/01/1988). Così i giudici di merito sono giunti financo a sostenere, anche nella vigenza delle norme abrogate dalla novella del 2003, che il diritto dei soci alla ripartizione dell’attivo sorge solo se, dopo il pagamento dei debiti, residui un saldo attivo da distribuire.
  6. Non si può sottacere, in proposito, che in relazione all’attuale normativa che espressamente tutela la posizione di creditori in tale delicata fase conseguente allo scioglimento della società, anche se in ipotesi non dichiarato, imponendo agli amministratori tenuti a gestire la società scioltasi per qualsiasi causa, anche di diritto, ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale, ex art. 2486 c.c., comma 1, tra le Corti di merito si è diffusa l’opinione in base alla quale sul gestore del patrimonio da destinare alla liquidazione (i.e. il liquidatore nominato a tal fine ex art. 2487 c.c.) gravi l’obbligo di rispettare il precetto della par condicio creditorum, sebbene detto obbligo non sia espressamente menzionato nelle norme di settore. Fra le pronunce più attuali si riscontrano affermazioni di responsabilità del liquidatore che, in presenza di una situazione di sostanziale insolvenza della società, non abbia proceduto ad una gestione liquidatoria informata ai criteri dell’art. 2741 c.c., e quindi al rispetto del principio della par condicio creditorum, consentendo la pretermissione di un credito assistito da privilegio ovvero anche pagamenti preferenziali di alcuni creditori a scapito di altri. E così, da ultimo, si è giunti ad affermare che il liquidatore di una società a responsabilità limitata è responsabile, ai sensi delle generali previsioni di cui all’art. 2043 c.c. e art. 2476 c.c., comma 6, per il danno patito dal creditore che, al termine della procedura di liquidazione, sia stato soddisfatto in una percentuale inferiore rispetto a quella di altri creditori di pari grado. Il risarcimento, in tale caso, viene considerato pari all’importo che il creditore avrebbe avuto diritto di ricevere laddove il liquidatore avesse correttamente rispettato il principio della par condicio creditorum, tenendo conto di eventuali cause di prelazione dei crediti.
  7. Sicché l’evoluzione giurisprudenziale sopra descritta dimostra come il principio della par condicio creditorum sia certamente un corretto parametro per considerare la sussistenza e l’entità di una lesione del credito avvenuta per opera del liquidatore nella fase di liquidazione del patrimonio della società, a prescindere dall’apertura di una procedura concorsuale, valendo esso come criterio generale per disciplinare la fase di pagamento dei debiti sociali nel corso della liquidazione. Tale principio, infatti, è ricavabile dalle norme generali che negli artt. 2740 e 2741 regolano il concorso dei creditori e le cause di prelazione, laddove si prescrive l’obbligo del debitore di effettuare i pagamenti rispettando il diritto dei creditori ad essere egualmente soddisfatti, salvo le cause legittime di prelazione.
  1. Se, dunque, precipuo dovere del liquidatore è quello di procedere a un’ordinata liquidazione del patrimonio sociale pagando i debiti sociali, per conto della società debitrice, secondo il principio di par condicio creditorum, pur nel rispetto dei diritti di precedenza dei creditori aventi una causa di prelazione, al fine di evitare quindi la compressione dei diritti dei creditori che quel patrimonio è, per definizione, destinato a garantire, è logico assumere che in capo al medesimo liquidatore gravi l’obbligo di accertare la composizione dei debiti sociali prima di procedere ai relativi pagamenti, riparando gli eventuali errori od omissioni commessi dagli amministratori cessati dalla carica nel rappresentare la situazione contabile e patrimoniale della società, riconoscendo debiti eventualmente non appostati nei bilanci. Pertanto, tra gli obblighi del liquidatore si annovera anche quello di accertare l’insieme dei debiti sociali e di graduarli nel rispetto dei privilegi legali che li assistono, il pagamento dei quali, per loro natura, dovrà essere antergato rispetto a quello di crediti non assistiti da alcuna causa di prelazione.
  2. Nel caso specifico, dunque, rileva certamente considerare che le norme di cui agli artt. 2753 e 2754 c.c., che istituiscono un privilegio generale sui beni mobili del datore di lavoro per i crediti per contributi, sono pacificamente riferibili ai crediti di F., secondo quanto statuito da una giurisprudenza che qui si intende confermare (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5818 del 14/06/1990; Sez. 1, Sentenza n. 11115 del 23/12/1994). Pertanto, nel valutare il danno lamentato da quest’ultimo ente, derivato dalla mancata considerazione del suo credito da parte del liquidatore, occorre riferirsi all’ordine preferenziale di pagamento che, in ipotesi, il credito privilegiato avrebbe dovuto ricevere nella fase in cui il liquidatore ha proceduto ad effettuare il pagamento dei debiti sociali, a discapito di altri già esistenti ma pretermessi, evento in base al quale deve valutarsi il danno in concreto ricevuto dal creditore rimasto insoddisfatto. In proposito, invero, rileva che il creditore abbia dedotto che lo stesso liquidatore ha preso cognizione del suo credito, di natura privilegiata, nella fase di liquidazione e ha, cionondimeno, dichiarato di avere effettuato il pagamento di alcuni debiti sociali che hanno permesso di azzerare l’attivo nel corso della liquidazione (cfr. doc. 7 in atti prodotto), senza poter dar spazio alla fase della distribuzione dell’attivo tra i soci. Rileva anche che la Corte di merito, in relazione alla deduzione del creditore pretermesso, ha ritenuto sussistente detto credito all’epoca della disposta liquidazione, con valutazione in questa sede non sindacabile che supera ogni eccezione sollevata da parte del resistente in ordine alla mancata prova del credito.
  3. In punto di onere della prova, occorre rammentare che l’inadempimento contrattuale di una società di capitali nei confronti di un terzo (sia esso socio o creditore) non implica automaticamente la responsabilità risarcitoria degli amministratori nei confronti dell’altro contraente, generalmente descritta nell’art. 2395 c.c., atteso che tale responsabilità, di natura extracontrattuale, richiede la prova di una condotta dolosa o colposa degli amministratori medesimi, del danno e del nesso causale tra questa e il danno patito dal terzo contraente, come si evince, fra l’altro, dall’utilizzazione, nel testo della norma, dell’avverbio direttamente, il quale esclude che l’inadempimento e la pessima amministrazione del patrimonio sociale siano sufficienti a dare ingresso all’azione di responsabilità diretta del socio o del creditore nei confronti di amministratori o liquidatori (cfr. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 15822 del 12/06/2019). Il principio or ora esposto si allinea, pertanto, a una consolidata impostazione giurisprudenziale che ravvisa una responsabilità aquiliana del liquidatore (e, più in generale, – dell’amministratore) anche nell’ipotesi considerata nell’art. 2495 c.c., parificabile alla responsabilità verso i terzi o i soci degli amministratori ex art. 2395 c.c., secondo una concezione classica che vede i creditori sociali come soggetti terzi rispetto alla società, con tutte le conseguenze in ordine all’onere probatorio riguardo alla prova della lesione del credito e al debito di valore che ne consegue (cfr. anche Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 24039 del 10/11/2006; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 14558 del 30/05/2008). Conseguentemente, trattandosi del mancato pagamento di un debito sociale riferito a un’attività compiuta dal liquidatore nell’esercizio delle sue funzioni, equiparabile a quella di un amministratore, anche in riferimento alla responsabilità delineata in termini specifici nell’art. 2495 c.c., comma 2, grava sul creditore rimasto insoddisfatto l’onere di dedurre e allegare che la fase di pagamento dei debiti sociali non si è svolta nel rispetto del principio della par condicio creditorum, tenuto conto della legittima causa di prelazione di cui beneficiava ex lege il suo credito.
  4. Quanto alla prova della effettiva lesione del credito subita a causa della condotta di mala gestio addebitabile all’amministratore, occorre tuttavia operare un distinguo tra la responsabilità limitata dei soci e la responsabilità illimitata del liquidatore dopo la cancellazione della società, rispettivamente previste nell’art. 2495 c.c. nei confronti dei creditori sociali rimasti insoddisfatti.
  5. Difatti, quando vi sia stata una ripartizione dell’attivo andata a favore dei soci e il creditore si determini ad agire nei loro confronti, è proprio il limite indicato al soddisfacimento del credito che impone precisi oneri probatori in capo al creditore. In questo caso, è attraverso la vicenda successoria regolata ex lege che il socio rimane obbligato nei confronti del creditore sociale, ed è pertanto quest’ultimo a dover provare che l’importo preteso sia di ammontare eguale o superiore a quello riscosso dal socio in sede di liquidazione, sulla base del relativo bilancio. È evidente, dunque, che in tale limitato caso la percezione della quota dell’attivo sociale assurga a elemento della fattispecie costitutiva del diritto azionato dal creditore nei confronti del socio: sicché, in base alla regola generale posta dall’art. 2697 c.c., tale circostanza deve essere dimostrata da chi faccia valere il diritto in giudizio (nel senso che grava sul creditore insoddisfatto l’onere della prova circa la distribuzione dell’attivo e circa la riscossione di una quota di esso da parte del socio: Cass. 23 novembre 2016, n. 23916; Cass. 16 maggio 2012, n. 7676; Cass. 10 ottobre 2005, n. 19732).
  6. Ove, invece, come nel caso in esame, venga fatta valere la responsabilità illimitata del liquidatore nei confronti del creditore che assume essere stato pretermesso nella fase di pagamento dei debiti sociali, con trattamento preferenziale andato in favore di altri creditori, non rileva tanto la sussistenza o meno di un residuo attivo da ripartire tra i soci nel bilancio finale di liquidazione, né tantomeno l’appostazione o meno nel bilancio finale di liquidazione del corrispondente debito sociale non pagato, quanto piuttosto l’indicazione, da parte del creditore che agisce in responsabilità, del credito sociale non considerato e dello specifico danno subito in rapporto ad altri crediti andati soddisfatti, poiché, tramite il richiamo alla colpa del liquidatore, occorre dedurre e allegare le specifiche condotte del liquidatore che si pongono in violazione degli obblighi connaturati all’incarico ricevuto. Conseguentemente ex latere creditoris, il creditore rimasto insoddisfatto dall’attività liquidatoria, per far valere la responsabilità del liquidatore, dovrà dedurre il mancato soddisfacimento di un diritto di credito provato come esistente, liquido ed esigibile al tempo dell’apertura della fase di liquidazione e il conseguente danno determinato dall’inadempimento del liquidatore alle sue obbligazioni, astrattamente idoneo a provocarne la lesione, con riferimento alla natura del credito e al suo grado di priorità rispetto ad altri andati soddisfatti; mentre, ex latere debitoris, in relazione al principio di vicinanza della prova e agli obblighi gravanti sul liquidatore, il liquidatore dovrà provare l’adempimento dell’obbligo di procedere a una corretta e fedele ricognizione dei debiti sociali (costituente la cd massa passiva) e l’adempimento dell’obbligo di pagare i debiti sociali nel rispetto della par condicio creditorum, secondo il loro ordine di preferenza, senza alcuna pretermissione di crediti all’epoca coesistenti.
  7. Alla luce di quanto sopra osservato, deve rilevarsi l’erroneità della interpretazione della norma di cui all’art. 2394 c.c., comma 2, offerta dalla Corte di merito, in termini tali da imporre al creditore di provare un danno risarcibile in relazione ai dati esposti nel bilancio finale di liquidazione che dava conto dell’assenza di un residuo attivo da ripartire tra i soci; altrettanto errata deve considerarsi l’impostazione secondo cui il creditore, per far valere la violazione del principio di par condicio creditorum, già attestata dal fatto che il liquidatore aveva esaurito l’attivo con il pagamento di alcuni debiti sociali, avrebbe dovuto invece provare in quali termini egli avrebbe potuto recuperare in tutto o in parte il suo credito in una eventuale procedura concorsuale, essendo una proiezione relativa a un evento non necessario ai fini della considerazione della violazione del principio di parità di trattamento tra i creditori, già apparentemente integrata con i pagamenti di parte dei debiti sociali, effettuati dal liquidatore. Difatti, qualora il risultato di azzeramento dell’attivo ottenuto dal liquidatore, a monte, sia riconducibile a un utilizzo della massa attiva liquidata e utilizzata per il pagamento dei debiti della società, a scapito di altri debiti sociali non egualmente considerati, sussiste una responsabilità del liquidatore che abbia eventualmente provveduto ai pagamenti dei debiti sociali in violazione del principio della par condicio indicato nell’art. 2741 c.c., pretermettendo un credito sociale già all’epoca liquido ed esigibile. Ed è proprio questo il fatto di rilievo, oggetto di discussione, del tutto trascurato dalla Corte di merito, desumibile già solo leggendo la relazione resa dal liquidatore all’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio finale di liquidazione, ove si riferisce testualmente che l’assenza di attivo da ripartire tra i soci sia derivata dalla liquidazione delle poste dell’attivo e dall’utilizzo delle somme residue per diminuire, per quanto possibile, l’esposizione debitoria (v. doc. 7 allegato). Tale dato fattuale avrebbe dovuto essere confrontato con il dato, egualmente accertato dalla Corte, della sussistenza del credito vantato dal creditore, anche se non appostato nel bilancio finale di liquidazione.
  8. In sintesi, in tale materia riguardante la responsabilità del liquidatore dopo la cancellazione della società va dunque affermato il seguente principio di diritto: in tema di responsabilità del liquidatore nei confronti dei creditori sociali rimasti insoddisfatti dopo la cancellazione della società, ex art. 2495 c.c. comma 2, il conseguimento, nel bilancio finale di liquidazione, di un azzeramento della massa attiva non in grado di soddisfare un credito non appostato nel bilancio finale di liquidazione, ma comunque provato quanto alla sua sussistenza già nella fase di liquidazione, è fonte di responsabilità illimitata del liquidatore verso il creditore pretermesso, qualora sia allegato e dimostrato che la gestione operata dal liquidatore evidenzi l’esecuzione di pagamenti in spregio del principio della par conditio creditorum, nel rispetto delle cause legittime di prelazione ex art. 2741 c.c., comma 2. Pertanto, ove il patrimonio si sia rivelato insufficiente per soddisfare alcuni creditori sociali, il liquidatore, per liberarsi dalla responsabilità su di lui gravante in riferimento al dovere di svolgere un’ordinata gestione liquidatoria del patrimonio sociale destinato al pagamento dei debiti sociali, ha l’onere di allegare e dimostrare che l’intervenuto azzeramento della massa attiva tramite il pagamento dei debiti sociali non è riferibile a una condotta assunta in danno del diritto del singolo creditore di ricevere uguale trattamento rispetto ad altri creditori, salve le cause legittime di prelazione ex art. 2741, c.c. Pertanto la Corte, in sede di rinvio, sarà tenuta a scrutinare la condotta assunta dal liquidatore alla luce dei suddetti principi e nel rispetto degli oneri probatori che ne conseguono.
  9. Conclusivamente, la Corte accoglie il ricorso in relazione ai due motivi, per quanto di ragione, e per l’effetto cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del presente procedimento.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso in relazione al primo e secondo motivo; per l’effetto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche perché provveda in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 9 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2020

 

Cass. civ. Sez. III Ord., 15_01_2020 n. 521




Concordato preventivo: consistenza di prosecuzione dell’attività aziendale

Concordato preventivo: consistenza di prosecuzione dell’attività aziendale

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 734 del 09/01/2020

Con ordinanza del 9 gennaio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in tema di fallimento e concordato preventivo ha stabilito che, il concordato preventivo in cui alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell’impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell’attività aziendale rimane regolato nella sua interezza, salvi i casi di abuso, dalla disciplina speciale prevista dall’art. 186-bis L.F., che al primo comma espressamente contempla anche una simile ipotesi fra quelle ricomprese nel suo ambito; tale norma non prevede alcun giudizio di prevalenza fra le porzioni di beni a cui sia assegnato una diversa destinazione, ma una valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale 0 parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una simile organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori.


 

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 734 del 09/01/2020

Concordato preventivo: consistenza di prosecuzione dell’attività aziendale

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __- Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. __ proposto da:

(OMISSIS) S.r.l. – ricorrente –

contro

D., Fallimento (OMISSIS) S.r.l., F. e Pubblico Ministero presso il Tribunale di Arezzo – intimati –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di FIRENZE depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal cons. Dott. __.

Svolgimento del processo

  1. Il Tribunale di Arezzo, con decreto in data __, riteneva inammissibile la proposta di concordato presentato da (OMISSIS) S.r.l. e, con contestuale sentenza, dichiarava il fallimento della società.
  2. A seguito del reclamo presentato dalla compagine debitrice la Corte d’appello di Firenze rilevava che la proposta concordataria presentata entro il termine all’uopo concesso risultava priva della sottoscrizione del legale rappresentante della società, a dispetto di quanto previsto dalla L.F., art. 161, comma 1; a tale vizio, che involgeva gli effetti sostanziali dell’atto e la sua stessa esistenza quale proposta del debitore nei confronti della massa dei creditori, non trovava applicazione – secondo i giudici distrettuali – il disposto dell’art. 182 c.p.c., dato che la norma era volta a disciplinare il diverso tema del difetto di rappresentanza o autorizzazione a stare in giudizio della parte processuale.

Oltre a ciò la Corte di merito constatava che il piano concordatario contemplava una continuità aziendale nel prospettato programma di definizione dei contratti preliminari di alcuni immobili e completamento dei lavori di costruzione di altri, secondo un cronoprogramma di durata triennale che prevedeva talune vendite in funzione della realizzazione della liquidità necessaria per sostenere le altre attività.

Simili caratteristiche imponevano di ricondurre la proposta, quanto meno con riferimento alla parte inerente al completamento degli immobili e alla loro successiva collocazione sul mercato, alla disciplina del concordato in continuità, con le conseguenze previste dalla L.F., art. 186-bis in termini di obblighi di allegazione e produzione ricadenti sul proponente.

La mancata produzione di una relazione di attestazione di contenuto conforme al disposto di tale norma, doverosamente rilevata dal Tribunale, comportava quindi l’inammissibilità della domanda di concordato presentata, stante l’impossibilità di verificare se la prosecuzione dell’attività fosse funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori e, con riferimento ai flussi dei costi e dei ricavi connessi alla prosecuzione dell’esercizio dell’impresa, la veridicità dei dati esposti dal debitore.

  1. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso, assistito da memoria, (OMISSIS) S.r.l., prospettando tre motivi di doglianza.

Gli intimati fallimento (OMISSIS) S.r.l., Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Arezzo, D. e F. non hanno svolto difese.

Motivi della decisione

4.1 Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione o falsa applicazione della L.F., artt. 151, 152 e 161 e art. 182 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: la Corte d’appello avrebbe ritenuto che la proposta concordataria fosse priva della sottoscrizione del legale rappresentante malgrado la società proponente avesse provveduto a depositare, in uno con la memoria predisposta per l’udienza fissata L.F., ex art. 162, comma 2, la proposta sottoscritta dal proprio legale rappresentante insieme al verbale di determina previsto dalla L.F., art. 152; e peraltro la corte distrettuale avrebbe dovuto valorizzare a tal fine il comportamento concludente tenuto dal legale rappresentante oppure fare applicazione dell’art. 182 c.p.c., onde consentire che si provvedesse alla sanatoria.

4.2 Il secondo motivo di ricorso lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione della L.F., artt. 160, 161 e 186-bis: la corte distrettuale, facendo erronea applicazione del principio della prevalenza, non avrebbe compreso che il concordato aveva natura liquidatoria, essendo prevista la continuazione dell’attività aziendale, con una sorta di esercizio provvisorio, per un tempo limitato e in funzione della successiva liquidazione; in ogni caso il concordato preventivo presentato, quand’anche fosse stato qualificato come misto, si fondava – in tesi di parte ricorrente – su un piano rispettoso di tutte le previsioni di legge in materia.

4.3 Il terzo motivo prospetta la violazione della L.F., artt. 160, 161, 162 e 186-bis in quanto i giudici distrettuali, nel trascurare le indicazioni presenti in piano in merito alla liquidità disponibile e le spiegazioni fornite con il reclamo circa i costi e i ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività di impresa, le risorse finanziarie necessarie e le relative modalità di copertura, avrebbero effettuato un improprio rilievo del difetto di allegazione, esercitando un indebito sindacato sulla fattibilità economica del piano.

  1. Il principio processuale della ragione più liquida induce ad esaminare in via preliminare gli ultimi due motivi perché di più agevole soluzione.

Tali motivi – da trattarsi congiuntamente non solo perché rivolti a criticare il secondo, autonomo, argomento su cui si fonda la decisione impugnata, ma anche perché affetti da un coincidente vizio – sono inammissibili.

5.1 La corte territoriale non ha affatto sostenuto, facendo applicazione del principio della prevalenza, che il concordato in esame fosse un concordato misto.

I giudici distrettuali in realtà, dopo aver precisato che una simile espressione era stata utilizzata dal giudice di merito non in senso tecnico, per fare riferimento a un tertium genus rispetto al concordato liquidatorio e a quello in continuità aziendale, bensì in ragione della previsione in piano della continuazione dell’attività aziendale, seppur in forma limitata, hanno ritenuto che la proposta concordataria fosse riconducibile alla disciplina del concordato in continuità e rimanesse regolata dal disposto della L.F., art. 186-bis.

E che di concordato misto quale autonomo istituto la Corte del merito non abbia proprio inteso parlare si trova conferma nella puntualizzazione secondo cui la definizione di concordato misto non ha fondamento normativo, perché la fattispecie così definita rientra in una delle ipotesi di concordato con continuità espressamente previste dalla L.F., art. 186-bis, comma 1.

5.2 Allo stesso modo la corte territoriale non ha affatto sostenuto che la società debitrice avesse pretermesso le necessarie indicazioni in merito a liquidità disponibile, costi e ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività di impresa, risorse finanziarie necessarie e relative modalità di copertura, ma ha rappresentato che la natura del concordato imponeva che la relazione del professionista prevista dalla L.F., art. 161, comma 3, avesse le caratteristiche prescritte dalla L.F., art. 186-bis, comma 2, e dunque da un lato attestasse che la continuità era funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori, dall’altro consentisse di verificare le indicazioni compiute dal debitore ai sensi delle lett. a) della medesima norma.

5.3 La Corte di merito quindi non ha ravvisato alcun concordato misto né ha constatato la mancanza delle indicazioni previste dalla L.F., art. 186-bis, comma 2, lett. a), ma ha attribuito al concordato presentato natura di concordato in continuità constatando poi, in ragione di tale natura, un difetto di attestazione.

A fronte di simili argomenti entrambi i motivi di doglianza tornano a reiterare le doglianze già poste al vaglio della corte distrettuale, senza cogliere e criticare la ratio decidendi della decisione impugnata e, per di più, rappresentando una violazione di legge con riferimenti prettamente meritali piuttosto che l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge.

Ambedue le critiche risultano quindi inammissibili.

Ciò in primo luogo per l’illegittimità del procedimento di astrazione così compiuto dagli argomenti offerti dai giudici distrettuali, giacché il ricorso per cassazione deve necessariamente contestare in maniera specifica la ratio decidendi posta a fondamento della pronuncia impugnata (Cass. 19989/2017) e non può prescindere da essa, limitandosi a insistere per l’accoglimento delle doglianze già presentate al giudice di appello.

D’altra parte l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è estranea all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la quale è sottratta al sindacato di legittimità (Cass. 24155/2017) se non sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. 22707/2017, Cass. 195/2016).

  1. Quanto appena argomentato si riverbera sul primo motivo di ricorso, riguardante l’ulteriore ed autonoma ratio decidendi posta a fondamento della sentenza impugnata, rendendolo del pari inammissibile.

In vero, qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse a una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (Cass. 2108/2012).

  1. La fattispecie rimessa al vaglio dei giudici di merito riguardava una proposta di concordato che prevedeva un’operazione finalizzata a conseguire un valore di realizzo sensibilmente superiore a quello ottenibile dalla liquidazione del compendio immobiliare disponibile nelle condizioni in cui si trovava al momento dell’avvio della procedura: in una prima fase si sarebbe proceduto alla vendita di alcuni immobili (già terminati o per i quali era stata ritenuta più opportuna la vendita al grezzo), in adempimento di alcuni preliminari di vendita già parzialmente eseguiti, allo scopo di consentire la formazione di una iniziale liquidità funzionale al completamento, in un secondo momento, degli altri immobili.

Siffatta proposta, qualificata dal debitore di tipo liquidatorio e per questo motivo non corredata dalle attestazioni previste dalla L.F., art. 186-bis, comma 2, è stata invece ricondotta dalla corte distrettuale all’istituto del concordato in continuità, sul presupposto che tale debba intendersi il concordato il cui piano preveda, in qualsiasi prospettiva, la prosecuzione dell’attività di impresa e quindi l’assunzione del relativo rischio.

In quest’ottica interpretativa la sentenza impugnata sostiene che la definizione di concordato misto, inteso come tale quel concordato che prevede la prosecuzione dell’attività aziendale mediante l’utilizzazione di una parte soltanto dell’attivo, con previsione di una liquidazione atomistica dell’altra parte, non ha fondamento normativo, in quanto quella così definita è una delle ipotesi di concordato con continuità espressamente previste dalla L.F., art. 186-bis, caratterizzata, come le altre, dalla circostanza della prosecuzione dell’attività d’impresa.

Questa Corte ritiene di trarre spunto da una simile affermazione sistematica allo scopo di enunciare, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 1, i principi di diritto che governano questa peculiare fattispecie.

8.1 Il contesto normativo attuale non consente di ipotizzare un novero di possibili forme di concordato (liquidatorio, in continuità, misto con prevalenza dell’una o dell’altra componente) ma individua, più semplicemente, un istituto di carattere generale, regolato dalla L.F., artt. 160 e ss., e una ipotesi speciale rispetto ad esso, prevista dalla L.F., art. 186-bis.

8.2 In particolare quest’ultima norma – introdotta nel panorama normativo dalla L. n. 83 del 2012, art. 33, lett. d, convertito con modificazioni dalla L. n. 134 del 2012, dove si è trovata ad affiancare la nuova disciplina generale della L.F., artt. 160 e ss. contemplata dal D.L. n. 35 del 2005, convertito con modificazioni dalla L. n. 80 del 2005 – regola espressamente il concordato con continuità aziendale, offrendo, al comma 1, una definizione dell’istituto (Quando il piano di concordato di cui all’art. 161, comma 2, lett. e) prevede la prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore, la cessione dell’azienda in esercizio ovvero il conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione, si applicano le disposizioni del presente articolo. Il piano può prevedere anche la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa) e individuando, in seguito, una sua peculiare disciplina (concernente i contenuti del piano e della relazione del professionista attestatore, la possibile moratoria fino a un anno del pagamento dei crediti privilegiati, la prosecuzione dei rapporti in corso e la partecipazione a procedure di affidamento a contratti pubblici anche a seguito del deposito del ricorso).

Una molteplicità di norme di contorno (tra cui la L.F., art. 160, comma 4, in tema di soddisfazione minima dei creditori, la L.F., art. 163, comma 5, in materia di proposte di concordato concorrenti, e la L.F., art. 182-quinquies, comma 5, in punto di autorizzazione al pagamento di crediti anteriori) fanno poi rinvio alla norma di contenuto definitorio.

8.3 La terminologia di concordato misto è stata utilizzata, in termini descrittivi, per individuare un concordato di contenuto complesso il cui piano preveda, accanto a una continuazione dell’attività d’impresa, una liquidazione dei beni non funzionali all’esercizio della stessa.

Rispetto a un concordato il cui piano abbia simili caratteristiche taluna giurisprudenza di merito – spinta anche dalla preoccupazione di evitare abusi del ricorso allo strumento concordatario in continuità, in particolare da quando, nel __, è stata prevista per esso, alla L.F., art. 160, comma 4, l’esenzione dalla soglia minima di soddisfazione dei creditori – ha ritenuto di applicare la disciplina prevista dalla L.F., art. 186-bis nel caso in cui dalla continuità aziendale provenga la maggior parte delle risorse destinate alla soddisfazione dei creditori (cd. teoria della prevalenza o dell’assorbimento).

Altra giurisprudenza invece ha ritenuto (al pari della Corte di merito nel caso in esame) che in caso di continuità aziendale trovi applicazione sempre la disciplina di cui alla L.F., art. 186-bis, salvi i casi di abuso, a prescindere dalla consistenza delle risorse da essa provenienti destinate alla soddisfazione dei creditori.

Ed ancora alcune voci hanno proposto un’applicazione selettiva della disciplina di un tipo di concordato o dell’altro rispetto ai diversi contenuti del medesimo piano, altre invece hanno optato per una sovrapposizione delle differenti regole (di modo che a una percentuale di soddisfazione del 20% si dovrebbe accompagnare l’attestazione di un professionista in merito alla funzionalità della prosecuzione dell’attività d’impresa alla maggior soddisfazione dei creditori).

8.4 L’individuazione del canone regolante il concordato il cui piano abbia un contenuto complesso deve giocoforza trovare soluzione ponendo attenzione all’attuale contesto normativo, che si struttura come detto – attraverso l’individuazione di una disciplina di carattere generale a cui si accompagna, in termini di specialità con l’introduzione di regole peculiari rispetto alla fattispecie comune, il disposto della L.F., art. 186-bis.

Questa norma, all’ultimo periodo del suo comma 1, include espressamente nel novero regolato dalla disciplina speciale il caso in cui il piano preveda anche la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa.

La compresenza in piano di attività liquidatorie che si accompagnino alla prosecuzione dell’attività aziendale è dunque espressamente contemplata dal legislatore, all’interno della norma, speciale e derogatoria dei criteri generali, di cui alla L.F., art. 186-bis.

Il che non lascia spazio a equivoci di sorta in merito al fatto che tale normativa governi la fattispecie (vale a dire che il concordato tradizionalmente definito come misto sia, nelle intenzioni del legislatore, un concordato in continuità che prevede la dismissione di beni).

8.5 Il dato normativo non evoca alcun rapporto di prevalenza di una parte dei beni rispetto all’altra a cui è riservata diversa sorte, ma fa riferimento alla liquidazione dei beni non funzionali all’esercizio dell’impresa, implicitamente ritenendo che quelli funzionali siano invece destinati alla prosecuzione dell’attività aziendale.

La regola prevista dalla norma non riguarda la quantità delle porzioni a cui sia affidato un diverso destino (e la conseguente prevalenza dell’una rispetto all’altra in funzione delle risorse da devolvere alla soddisfazione dei creditori), ma la funzionalità di una porzione dei beni alla continuazione dell’impresa in uno scenario concordatario.

Si tratta di una clausola elastica, fondata su un criterio qualitativo piuttosto che quantitativo, che investe una parte dei beni aziendali, da apprezzarsi non nella loro mera materiale consistenza, ma in funzione, per la porzione non destinata alla vendita, della possibilità di poter essere organizzati, ex art. 2555 c.c., per l’esercizio dell’impresa o di una sua parte.

La norma dunque non pone una distinzione fra gruppi di beni, ma fra beni da liquidare e beni organizzabili e organizzati per la continuità dell’impresa.

Il parametro della funzionalità impone perciò all’interprete di indagare l’effettivo persistere di una continuità d’impresa che, sia pur in misura limitata o ridotta a taluni rami o sedi, assuma una sua autonoma rilevanza in termini economici ed a cui i beni sottratti alla liquidazione siano effettivamente strumentali.

8.6 Quanto appena detto non esaurisce però la pregnanza della terminologia utilizzata dal legislatore, che deve essere intesa pure nell’ambito di un istituto regolato dal criterio generale del miglior soddisfacimento dei creditori.

Questa Corte ha già avuto modo di precisare che nell’ipotesi di concordato con continuità aziendale il piano deve essere idoneo a dimostrare la sostenibilità finanziaria della continuità stessa, in un contesto in cui il favor per la prosecuzione dell’attività imprenditoriale è accompagnato da una serie di cautele, inerenti il piano e l’attestazione, tese ad evitare il rischio di un aggravamento del dissesto ai danni dei creditori, al cui miglior soddisfacimento la continuazione dell’attività non può che essere funzionale (Cass. 9061/2017).

Pertanto, nell’ambito di un concordato in continuità che preveda la dismissione di una porzione di beni, se un’impresa o una parte di un’impresa deve continuare a esistere in termini di attività (nel caso di specie con utilizzazione dei beni di cui non era programmata la liquidazione in funzione della destinazione dei ricavi a fattori della successiva produzione), il rischio di impresa incontra il limite della manifesta dannosità per i creditori (L.F., ex art. 186-bis, ultimo comma), dei quali invece deve essere necessariamente assicurato il miglior soddisfacimento (come indicato dal comma 2, lett. b, della medesima norma).

L’inclusione di un concordato così strutturato nel novero del concordato con continuità comporta perciò l’introduzione di una precisa connotazione di portata generale, costituita dalla clausola del miglior soddisfacimento dei creditori, che caratterizza e limita (secondo modalità differenti dalla soglia minima prevista dalla L.F., art. 160, comma 4, in ragione della peculiarità dell’istituto) la procedura in termini costanti, stringenti e ineludibili.

7.7 Nell’ambito del particolare tipo di concordato con continuità in parola la funzionalità dei beni non destinati alla liquidazione deve quindi essere intesa tanto in termini di effettiva rilevanza imprenditoriale, nel senso che gli stessi debbono essere organizzati in modo da assicurare la effettiva continuazione, in tutto o in parte, dell’attività di impresa pregressa, quanto in termini di rischio imprenditoriale, nel senso che la loro destinazione al persistente utilizzo nell’ambito dell’attività aziendale incontra il limite del miglior soddisfacimento dei creditori. Nell’interesse della legge andranno dunque fissati i seguenti principi:

il concordato preventivo in cui alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell’impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell’attività aziendale rimane regolato nella sua interezza, salvi i casi di abuso, dalla disciplina speciale prevista dalla L.F., art. 186-bis, che al comma 1 espressamente contempla anche una simile ipotesi fra quelle ricomprese nel suo ambito;

tale norma non prevede alcun giudizio di prevalenza fra le porzioni di beni a cui sia assegnato una diversa destinazione, ma una valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una simile organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori.

  1. In forza dei motivi sopra illustrati il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.

La mancata costituzione in questa sede degli intimati esime il collegio dal provvedere alla regolazione delle spese di lite.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 21 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2020

 

Cass. civ. Sez. I Ord. 15_01_2020 n. 734




Il credito del professionista sorto in funzione della procedura

Il credito del professionista sorto in funzione della procedura va soddisfatto in prededuzione nel successivo fallimento

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 220 del 09/01/2020

Con ordinanza del 9 gennaio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in tema di concordato preventivo ha stabilito che, il credito del professionista che abbia predisposto l’attestazione prevista dall’art. 161, comma 3, legge fallimentare (R.D. n. 267 del 1942) rientra tra quelli sorti in funzione della procedura e, come tale, ai sensi dell’art. 111, comma 2, della citata legge (norma che, in relazione al previsto criterio della strumentalità o funzionalità delle attività professionali rispetto alle procedure concorsuali, introduce un’eccezione al principio della par condicio creditorum al fine di favorire il ricorso a forme di soluzione concordata della crisi d’impresa) va soddisfatto in prededuzione nel successivo fallimento, senza che, ai fini di tale collocazione, debba essere accertato, con valutazione ex post, se la prestazione resa sia stata concretamente utile per la massa in ragione dei risultati raggiunti.


 

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 220 del 09/01/2020

Il credito del professionista sorto in funzione della procedura va soddisfatto in prededuzione nel successivo fallimento

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. __ R.G. proposto da:

D. – ricorrente –

contro

FALLIMENTO (OMISSIS) S.p.A. – controricorrente –

avverso il decreto del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, depositato in data __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal Consigliere Dott. __.

Svolgimento del processo

CHE:

  1. Con il decreto impugnato il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere decidendo l’opposizione allo stato passivo proposta da D. nei confronti della curatela fallimentare della (OMISSIS) S.p.A. in liquidazione – ha confermato il provvedimento impugnato emesso dal G.D. nella parte in cui il credito professionale azionato dall’avvocato per la predisposizione del ricorso era stato ammesso in via privilegiata ex art. 2751 bis c.c., n. 2, e non già in via prededuttiva (come richiesto), accogliendo solo parzialmente la proposta opposizione nella parte in cui l’opponente si doleva della illegittima riduzione da parte del G.D. del quantum debeatur per l’accertato inadempimento del professionista, con conseguente definitiva ammissione al passivo fallimentare per Euro __ in via privilegiata.

Il Tribunale ha ritenuto che, per il riconoscimento dell’invocata prededuzione, l’attività di consulenza – svolta dall’avvocato nell’attività di predisposizione del ricorso per l’ammissione alla procedura negoziale della crisi di impresa – deve aver rivestito un’attitudine quanto meno conservativa delle ragioni dei creditori, situazione, invero, non rintracciabile nel caso di specie in ragione della dichiarata inammissibilità della proposta che, in sede di giudizio di omologazione del concordato, era stata dichiarata dal tribunale inadeguata sul piano informativo della prospettazione della domanda e del suo supporto documentale, precisando che la natura prededucibile del credito dedotto possa essere riconosciuta solo laddove sia acclarata la sua utilità rispetto al ceto creditorio.

  1. Il decreto, pubblicato il __, è stata impugnato da D. con ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo di doglianza, cui la curatela fallimentare della (OMISSIS) S.p.A. in liquidazione ha resistito con controricorso.

La curatela fallimentare ha depositato memoria.

Motivi della decisione

CHE:

  1. Con il primo ed unico motivo la parte ricorrente – lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione della L.F., art. 111, comma 2 – si duole del mancato riconoscimento della invocata prededuzione del credito professionale ammesso al passivo. Osserva la parte ricorrente che la domanda per l’apertura della procedura concorsuale, cui funzionalmente inerisce il credito professionale oggetto di impugnazione, era stata ammessa ed anche approvata dal ceto creditorio, essendo stata dichiarata inammissibile solo in sede di giudizio di omologazione del concordato, e che, pertanto, doveva essere riconosciuta la richiesta prededuzione perché non poteva essere negata la funzionalità della prestazione professionale offerta dall’avvocato rispetto alla procedura concorsuale, senza che rilevasse l’utilità della stessa sulla base di una valutazione ex post collegata all’esito della procedura concorsuale.
  2. Il ricorso è fondato.

Le censure di inammissibilità sollevate dalla curatela controricorrente possono essere esaminate unitamente al merito della censura proposta con il ricorso.

2.1 Sul punto, giova ricordare che, secondo la più recente giurisprudenza espressa da questa Corte (cui anche questo Collegio intende uniformarsi), in tema di concordato preventivo, il credito del professionista che abbia predisposto l’attestazione prevista dalla L.F., art. 161, comma 3, rientra tra quelli sorti in funzione della procedura e, come tale, ai sensi della L.F., art. 111, comma 2 – norma che, in relazione al previsto criterio della strumentalità o funzionalità delle attività professionali rispetto alle procedure concorsuali, introduce un’eccezione al principio della par condicio creditorum al fine di favorire il ricorso a forme di soluzione concordata della crisi d’impresa -, va soddisfatto in prededuzione nel successivo fallimento, senza che, ai fini di tale collocazione, debba essere accertato, con valutazione ex post, se la prestazione resa sia stata concretamente utile per la massa in ragione dei risultati raggiunti (cfr. Sez. 1, Ordinanza n. 12017 del 16/05/2018).

2.2 Ebbene, la giurisprudenza di questa Corte ha oramai da tempo intrapreso un percorso evolutivo volto ad affrancare la categoria dei crediti prededucibili in ragione del loro carattere funzionale dal presupposto di un controllo giudiziale sulla loro utilità.

2.2.1 In questa prospettiva interpretativa è stato dapprima sottolineato (Cass. n. 5098/2014) che anche ai crediti sorti anteriormente all’inizio della procedura di concordato preventivo, non occasionati dallo svolgimento della medesima procedura, può riconoscersi la prededucibilità ove sia applicabile il secondo criterio richiamato dalla L.F., art. 111, comma 2, quello cioè della funzionalità, o strumentalità, delle attività professionali da cui i crediti hanno origine rispetto alla procedura concorsuale. E ciò in ragione della evidente ratio della norma, individuabile nell’intento di favorire il ricorso alla procedura di concordato preventivo, nel quadro della riforma di tale procedura, diretta a predisporre un possibile strumento di composizione della crisi idonea a favorire la conservazione dei valori aziendali.

2.2.2 La medesima ratio sta alla base del disposto della L.F., art. 67, lett. g), (che sottrae alla revocatoria fallimentare i pagamenti dei debiti liquidi ed esigibili eseguiti dall’imprenditore per ottenere la prestazione di servizi strumentali all’accesso alla procedura di concordato preventivo): si è, dunque, ritenuto che il nesso funzionale (il quale, in caso di mancato pagamento, giustifica la prededucibilità dei crediti derivanti dalle prestazioni stesse, pur se sorti prima dell’inizio della procedura), sia ravvisabile nella strumentalità di queste prestazioni rispetto all’accesso alla procedura concorsuale minore (cfr. sempre, Sez. 1, Ordinanza n. 12017 del 16/05/2018, cit. supra).

2.2.3 È stato in seguito precisato (Cass. n. 6031/2014) che il disposto della L.F., art. 111, comma 2, deve essere inteso, tenuto conto della ratio della riforma volta a incentivare gli strumenti di composizione della crisi e a favorire la conservazione dei valori aziendali, nel senso che il credito sorto in funzione di una procedura concorsuale è senza dubbio anche quello sorto per ottenere la prestazione di servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali (L.F., ex art. 67, lett. g) quale l’attività prestata in favore dell’imprenditore poi dichiarato fallito in funzione dell’ammissione del medesimo alla procedura di concordato preventivo, non rilevando la natura concorsuale del credito stesso, per essere sorto in periodo anteriore al fallimento (cfr. anche, Cass. n. 19013/2014).

2.3 Ne consegue che, secondo l’orientamento sopra ricordato, i crediti sorti a seguito delle prestazioni rese in favore dell’imprenditore per la redazione della domanda di concordato preventivo e per la relativa assistenza rientrano fra quelli da soddisfarsi in prededuzione ai sensi della L.F., art. 111, comma 2, poiché questa norma individua un precetto di carattere generale, privo di restrizioni, che, per favorire il ricorso a forme di soluzione concordata della crisi d’impresa, introduce un’ eccezione al principio della par condicio creditorum, estendendo in caso di fallimento la preducibilità a tutti i crediti sorti in funzione di precedenti procedure concorsuali (Cass. n. 1765/2015).

2.4 Ne discende, ancora, come ulteriore corollario del principio qui riaffermato, che la verifica del nesso di funzionalità e strumentalità deve essere compiuta controllando se l’attività professionale prestata possa essere ricondotta nell’alveo della procedura concorsuale minore e delle finalità dalla stessa perseguite secondo un giudizio ex ante, non potendo l’evoluzione fallimentare della vicenda concorsuale, comportare di per sé sola la frustrazione dell’obiettivo della norma, escludere il ricorso all’istituto (cfr. sempre, Sez. 1, Ordinanza n. 12017 del 16/05/2018, cit. supra).

Dunque, la funzionalità è ravvisabile quando le prestazioni compiute dal terzo, per il momento ed il modo con cui sono state assunte in un rapporto obbligatorio con il debitore, confluiscano nel disegno di risanamento da quest’ultimo predisposto in modo da rientrare in una complessiva causa economico-organizzativa almeno preparatoria di una procedura concorsuale, a meno che non ne risulti dimostrato il carattere sovrabbondante o superfluo rispetto all’iniziativa assunta (cfr., ancora Cass. n. 280/2017).

2.5 Nessuna verifica deve invece essere compiuta, ove alla procedura minore consegua il fallimento, in ordine al conseguimento di un’utilità in concreto per la massa dei creditori, concetto che non può essere confuso o sovrapposto a quello di funzionalità.

2.5.1 La collocazione in prededuzione prevista dalla L.F., art. 111, comma 2, costituisce, come detto, un’eccezione al principio della par condicio che intende favorire il ricorso a forme di soluzione concordata della crisi d’impresa e rimane soggetta alla verifica delle sole condizioni previste dalla norma in parola (così, Sez. 1, Ordinanza n. 12017 del 16/05/2018, cit. supra).

Invero, l’utilità concreta per la massa dei creditori – a prescindere dal fatto che l’accesso alla procedura di concordato preventivo costituisce di per sé un vantaggio per i creditori ove si tenga conto degli effetti della consecuzione delle procedure (tra cui la cristallizzazione della massa e la retrodatazione del periodo sospetto ai fini dell’esperimento della revocatoria fallimentare, come ha ricordato anche Cass. n. 6031/2014) – non rientra, invece, nei requisiti richiesti e nelle finalità perseguite dalla norma in questione e non deve perciò essere in alcun modo indagata (Cass. n. 1182/2018).

2.5.2 Non vi è dubbio, dunque, che il credito del professionista che abbia predisposto il ricorso per l’ammissione alla procedura concorsuale minore rientri tra i crediti sorti in funzione di quest’ultima procedura e, come tale, a norma della L.F., art. 111, comma 2, vada soddisfatto in prededuzione nel successivo fallimento, senza che, ai fini di tale collocazione, debba essere accertato, con valutazione ex post, che la prestazione resa sia stata concretamente utile per la massa in ragione dei risultati raggiunti.

2.6 Ciò detto, va evidenziato come il credito per cui è oggi causa era sorto in favore del ricorrente in relazione alla prestazione professionale eseguita da quest’ultimo, quale avvocato che aveva curato l’attività necessaria alla predisposizione del ricorso per l’ammissione alla procedura concorsuale pattizia di regolazione della crisi, e che, pertanto, non rileva in alcun modo l’esito successivo della proposta concordataria la quale, peraltro, nel caso di specie, aveva determinato l’apertura della procedura ed era stata anche oggetto di approvazione da parte dei creditori, essendo intervenuta l’interruzione della procedura solo in seguito al giudizio negativo espresso, in sede di omologazione della proposta stessa.

2.7 Invero, a questi principi non si è adeguato il Tribunale laddove ha ritenuto, invece, che l’attività professionale prestata dall’odierno ricorrente non avesse rivestito alcuna utilità per gli interessi del ceto creditorio, non essendo la proposta concorsuale stata apprezzata positivamente nel corso del giudizio di omologazione ove era stato riscontrato un doppio profilo di inammissibilità legato, da un lato, alle carenze informative della prospettazione della domanda e, dall’altro, alle carenze del supporto documentale da allegare alla proposta stessa, con ciò legando, dunque, il riconoscimento della prevista prededuzione al profilo della concreta utilità della proposta, da valutarsi ex post con riferimento all’esito della procedura. Ne consegue la cassazione del provvedimento impugnato con rinvio al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, che si atterrà ai principi di diritto sopra ricordati e che regolerà anche le spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il ricorso; cassa il provvedimento impugnato e rinvia al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, in diversa composizione, anche per le spese.

Così deciso in Roma, il 15 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2020

 

Cass. civ. Sez. I Ord. 09_01_2020 n. 220




Nel giudizio di verifica dei crediti il curatore può eccepire l’inefficacia del titolo

Nel giudizio di verifica dei crediti il curatore può eccepire l’inefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 140 dell’08/01/2020

Con ordinanza dell’8 gennaio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in tema di fallimento e procedure concorsuali ha stabilito che, nel giudizio di verifica dei crediti, il curatore, a norma dell’art. 95, comma 1 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267, nel testo introdotto dal D.Lgs. 9 gennaio 2006 n. 5, può eccepire l’inefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione, anche se è prescritta la relativa azione, senza essere tenuto, per escludere il credito o la garanzia, a proporre l’azione revocatoria fallimentare, né ad agire in via riconvenzionale nel giudizio di opposizione allo stato passivo promosso dal creditore ai sensi dell’art. 98 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267. Qualora, tuttavia, non sia stata proposta azione revocatoria in senso formale, ma sia stata solo sollevata eccezione, finalizzata a paralizzare la pretesa creditoria, il giudice delegato non dichiara l’inefficacia del titolo del credito o della garanzia, né dispone la restituzione, ma si limita ad escludere il credito o la prelazione, a ragione della revocabilità del relativo titolo, con effetti limitati all’ambito della verifica dello stato passivo, al quale la richiesta del curatore è strettamente funzionale.


 

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 140 dell’08/01/2020

Nel giudizio di verifica dei crediti il curatore può eccepire l’inefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – ricorrente –

contro

B. S.p.A. – controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di CAMPOBASSO, depositata __;

al quale è stato riunito il ricorso __ proposto da:

B. S.p.A. – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di CAMPOBASSO, depositato il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal cons. Dott. __.

Svolgimento del processo

che:

Il giudice delegato al fallimento di (OMISSIS) S.r.l. in liquidazione non ammetteva al passivo della procedura il credito portato da B. S.p.A., per Euro __ garantito da pegno su quote rappresentanti l’intero capitale sociale di S. S.r.l. (detenuto dalla fallita al 100%) in quanto, ad avviso del predetto GD, costituiva atto inefficace ed inopponibile al fallimento, L.F., ex art. 67, comma 2 e art. 66, ed anche ex artt. 2901 e 2486 c.c., nonché oggetto di un distinto giudizio di revocatoria fallimentare e ordinaria davanti al Tribunale di Campobasso.

Con ricorso, L.F., ex art. 98, veniva proposta opposizione da B., che veniva parzialmente accolta, relativamente al solo credito per Euro __, derivante dal contratto di mutuo fondiario concesso alla (OMISSIS) S.r.l. da B. opponente, e ceduto alla S. S.r.l. (società, come detto, controllata dalla fallita per il 100% delle quote) mediante accollo cumulativo e non liberatorio, ex art. 1273 c.c. (infatti, ad avviso del Tribunale, il successivo atto di cessione di ramo d’azienda effettuato dalla predetta (OMISSIS) S.r.l., ancora in bonis, alla S. S.r.l., pur ricomprendendo la cessione del contratto di finanziamento di cui al predetto mutuo, non aveva efficacia di liberare il debitore principale – cioè, l’odierna fallita -, in quanto, era accordo cumulativo e non liberatorio, perché B. non aveva aderito alla stipulazione né ne era stata informata, né aveva espresso la volontà di liberare il debitore principale); mentre, con riferimento alla restante parte del credito di cui è stata chiesta l’ammissione (relativo ai finanziamenti concessi da B. opponente a S. S.r.l. per Euro __ ed Euro __), il Tribunale rigettava l’opposizione di B. S.p.A., in quanto le due fideiussioni rilasciate dalla società fallita in favore di S. S.r.l. sulle quali la B. creditrice aveva fondato la propria richiesta di ammissione al passivo, erano oggetto di un distinto giudizio di revocatoria fallimentare, pendente davanti al Tribunale di Campobasso e il curatore, ad avviso del Tribunale, aveva correttamente eccepito il fatto impeditivo della pretesa, L.F., ex art. 95, consistente nell’inefficacia nei confronti della massa, della predetta garanzia fideiussoria.

Avverso tale decreto, con un primo ricorso (da ritenersi principale, perché preventivamente notificato – v. Cass. n. 25054/13 -), con R.G. __, la curatela ricorre per cassazione affidandosi a due motivi, illustrati da memoria, censurando il capo del decreto che la vede soccombente, mentre B. resiste con controricorso, anch’esso illustrato da memoria.

Avverso il medesimo decreto, con un secondo ricorso (da ritenersi incidentale, perché successivamente notificato), con R.G. __, B. ricorre per cassazione, censurando la parte del decreto a sé sfavorevole ed affidandosi a un unico motivo d’impugnazione, illustrato da memoria, mentre, il fallimento controricorrente resiste con controricorso, anch’esso illustrato da memoria.

Motivi della decisione

che:

Con il primo motivo di ricorso principale, la curatela lamenta il vizio di violazione di legge, in particolare, degli artt. 1813, 2558, 2560, 1273 e 2697 c.c., e degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto, erroneamente, il Tribunale non aveva accolto l’eccezione d’inefficacia e/o inopponibilità al fallimento del credito derivante dal finanziamento di B. alla società (OMISSIS) S.r.l., per Euro __, in quanto, non aveva tenuto conto della dichiarazione confessoria inserita nell’atto costitutivo di pegno del __, in cui la banca dichiarava che il finanziamento per Euro __ derivante da mutuo ipotecario del __, era concesso a S. S.r.l. e non alla (OMISSIS) srl ed inoltre, la banca non aveva dimostrato che l’erogazione del predetto mutuo dal __ fosse avvenuta proprio nei confronti della fallita invece che in favore di S. S.r.l. come dichiarato dalla medesima banca nel predetto atto costitutivo di pegno.

Con il secondo motivo di ricorso principale, il curatore deduce sia il vizio di violazione di legge, in particolare, della L.F., art. 67, commi 1 e 2 e art. 66 (applicabili ratione temporis), degli artt. 2901 e 2486 c.c., e degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sia il vizio di omesso esame, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sul medesimo profilo di censura, in quanto, il Tribunale aveva erroneamente riconosciuto il privilegio pignoratizio al credito portato dal mutuo fondiario (concesso successivamente alla sua stipula, precisamente, in data __), e ciò, perché iscritto entro i sei mesi anteriori alla data di dichiarazione del fallimento (__), retrodatando il termine alla data di proposizione della domanda di concordato preventivo (__) dichiarato inammissibile; inoltre, il Tribunale non aveva tenuto conto, che alla data di concessione del pegno su quote della società SIPG srl controllata dalla fallita al 100%, la medesima società fallita era già stata messa in liquidazione (con verbale di assemblea notarile del __), altresì, il pegno era stato concesso da parte di un procuratore speciale della società fallita, i cui poteri erano stati conferiti dal precedente amministratore unico e non dal liquidatore, per un debito non contestuale alla concessione della garanzia, con atto a titolo gratuito e quindi di straordinaria amministrazione, in una fase che era già liquidatoria, con effetti depauperativi del patrimonio, per un importo superiore al capitale sociale della (OMISSIS) S.r.l.

Con l’unico motivo del ricorso incidentale, la banca denuncia il vizio di violazione di legge, in particolare, della L.F., art. 96, comma 5, dell’art. 295 c.p.c. e dell’art. 24 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto erroneamente, il Tribunale ha ritenuto che solo perché fosse oggetto di un azione revocatoria da parte del curatore, il residuo credito non ammesso potesse essere escluso dall’accertamento del passivo, e ciò perché, ad avviso della banca, una volta formatosi il giudicato endofallimentare sull’esclusione del credito, lo stesso non avrebbe più potuto essere richiesto in caso di rigetto dell’azione revocatoria separatamente proposta, con conseguente violazione del diritto di difesa della stessa, mentre, avrebbe dovuto semmai essere sospeso il giudizio di ammissione al passivo, ex art. 295 c.p.c. in attesa dell’esito dell’azione revocatoria del credito della banca.

In via preliminare, va disposta la riunione dei due ricorsi, ex art. 335 c.p.c., in quanto trattasi di impugnazioni avverso la medesima sentenza.

Sempre in via preliminare, va disattesa l’eccezione di giudicato, sollevata dalla difesa della curatela nella memoria, ex art. 378 c.p.c., secondo la quale, la Corte d’Appello di Campobasso, con sentenza n. __ del __ (non ulteriormente impugnata), ha confermato integralmente la sentenza di primo grado, quanto alla declaratoria d’inefficacia nei confronti del fallimento, ai sensi della L.F., art. 66 e art. 2901 c.c., degli atti dispositivi dell’odierna fallita ed oggetto del presente giudizio, e ciò, in quanto, era necessario produrre l’attestazione della cancelleria, ex art. 124 disp. att. c.p.c. (tra le altre, vedi Cass. nn. 28515/17, 20974/18), per documentare la certezza della formazione di tale giudicato.

Il primo motivo del ricorso principale è inammissibile, per difetto di specificità rispetto alla ratio decidendi della sentenza impugnata, che fa riferimento al contratto di finanziamento del __, da parte della banca delle Marche alla società fallita e alla mancata liberazione di quest’ultima da parte della banca, nonostante l’accollo (cumulativo e non liberatorio)del residuo mutuo da parte di SIPG srl, mentre, il fallimento ricorrente fa riferimento all’asserita dichiarazione confessoria, contenuta in un atto diverso e successivo rispetto al predetto mutuo, senza indicare e riportare dove, come e quando abbia eccepito tale fatto (cfr. p. _ del ricorso, dove si riferisce della semplice allegazione del documento contenente la dichiarazione confessoria).

Il secondo motivo del ricorso principale è inammissibile, infatti, la censura relativa alla circostanza che il pegno risulta essere stato concesso (il __) nel semestre anteriore alla dichiarazione di fallimento (__), retrodatandone gli effetti alla data di presentazione del concordato preventivo (__) è nuova, in quanto, la curatela non riporta in ricorso, in quale atto l’eccezione sia stata sollevata davanti al Tribunale e neppure il decreto impugnato dà atto che tale eccezione sia stata proposta nella fase di merito (cfr. Cass. nn. 25318/17, 20712/18). Per il resto, il motivo di censura attiene a questioni di fatto, insindacabili nella presente sede di legittimità, se congruamente valutate come nella specie.

Il motivo di ricorso incidentale è fondato.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte “Nel giudizio di verifica dei crediti, il curatore, a norma della L.F., art. 95, comma 1, nel testo introdotto dal D.Lgs. n. 5 del 2006, può eccepire l’inefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione, anche se è prescritta la relativa azione, senza essere tenuto, per escludere il credito o la garanzia, a proporre l’azione revocatoria fallimentare, né ad agire in via riconvenzionale nel giudizio di opposizione allo stato passivo promosso dal creditore ai sensi della L.F., art. 98. Qualora, tuttavia, non sia stata proposta azione revocatoria in senso formale, ma sia stata solo sollevata eccezione, finalizzata a paralizzare la pretesa creditoria, il giudice delegato non dichiara l’inefficacia del titolo del credito o della garanzia, né dispone la restituzione, ma si limita ad escludere il credito o la prelazione, a ragione della revocabilità del relativo titolo, con effetti limitati all’ambito della verifica dello stato passivo al quale la richiesta del curatore è strettamente funzionale” (Cass. n. 3778/19, 22784/18, 25728/16).

Nel caso di specie, il Tribunale non ha compiuto alcuna valutazione, incidenter tantum, sulla ricorrenza dei presupposti della revocabilità del credito, infatti, ha così statuito: “tale eccezione (la cui fondatezza sarà ovviamente valutata dal giudice adito) è idonea a giustificare il rigetto dell’ammissione del credito in sede di verifica dello stato passivo”; pertanto, il medesimo Tribunale ha escluso il credito della banca, in via automatica, sulla base della sola proposizione dell’eccezione revocatoria da parte del curatore, senza verificarne, incidentalmente, la sua fondatezza.

Conclusivamente, va dichiarato inammissibile il ricorso principale; va accolto il ricorso incidentale e, conseguentemente, va cassato il decreto impugnato in relazione al motivo accolto, con rinvio al Tribunale di Campobasso, che, in relazione al motivo accolto, provvederà al riesame della controversia, attenendosi a quanto sopra rilevato e che provvederà anche a statuire sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Accoglie il ricorso incidentale nei limiti di cui in parte motiva e dichiara inammissibile il ricorso principale.

Cassa il decreto impugnato in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, al Tribunale di Campobasso, in diversa composizione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2020

Cass. civ. Sez. I, Ord._08_01_2020 n. 140




Fallimento e procedure concorsuali: prescrizione del credito tributario

Fallimento e procedure concorsuali: prescrizione del credito tributario

Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Civili, Sentenza n. 34447 del 24/12/2019

Con sentenza del 24 dicembre 2019, la Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Civili, in tema di fallimento e procedure concorsuali ha stabilito che, ove, in sede di ammissione al passivo fallimentare, sia eccepita dal curatore la prescrizione del credito tributario maturata successivamente alla notifica della cartella di pagamento, che segna il consolidamento della pretesa fiscale e l’esaurimento del potere impositivo, viene in considerazione un fatto estintivo dell’obbligazione tributaria di cui deve conoscere il giudice delegato in sede di verifica dei crediti e il tribunale in sede di opposizione allo stato passivo e di insinuazione tardiva, e non il giudice tributario.


 

Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Civili, Sentenza n. 34447 del 24/12/2019

Fallimento e procedure concorsuali: prescrizione del credito tributario

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Primo Pres. f. f. –

Dott. __ – Presidente Sezione –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

R. S.p.A. (già S. S.p.A.) – ricorrente –

contro

Curatela del Fallimento di G. – controricorrente –

avverso il decreto n. __ del Tribunale di Palermo, depositata il __.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/12/2019 dal Consigliere __;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale __, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’avvocato __ per delega dell’avvocato __.

Svolgimento del processo

1.- R. S.p.A., già S. S.p.A., ha proposto ricorso per cassazione avverso il decreto del __ con cui il Tribunale di Palermo, nel giudizio L.F., ex art. 98, instaurato dal concessionario per la riscossione, confermando la statuizione del giudice delegato, ha ammesso i propri crediti al passivo del Fallimento di G. solo parzialmente, essendo taluni prescritti (alcuni dei quali relativi a tasse automobilistiche), visto il tempo trascorso dopo la notifica delle cartelle non opposte.

2.- La curatela del Fallimento G. ha resistito con controricorso e memoria.

3.- Con ordinanza interlocutoria n. __ del __ la Prima Sezione ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite sulla questione di giurisdizione posta nel primo motivo.

Motivi della decisione

1.- R. denuncia con il primo motivo di ricorso violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere il tribunale dichiarato la parziale estinzione dei crediti erariali fatti valere dal concessionario per l’avvenuto decorso del termine prescrizionale, pur essendo privo di giurisdizione in materia.

La ricorrente deduce in tal modo una questione attinente alla giurisdizione, potenzialmente assorbente rispetto all’esame del secondo motivo: il giudice delegato e successivamente il tribunale, investito dell’opposizione L.F., ex art. 98, conoscendo dell’eccezione di prescrizione sollevata dalla curatela fallimentare, avrebbero debordato dai limiti della giurisdizione propria, discostandosi dal principio secondo cui spetta al giudice tributario, che è fornito di giurisdizione sull’obbligazione tributaria, conoscere dell’eccezione di prescrizione, anche se maturata successivamente alla notifica della cartella di pagamento, quale fatto estintivo dell’obbligazione stessa, ipotesi non riconducibile all’esenzione prevista dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, (che riserva alla giurisdizione del giudice ordinario, e quindi fallimentare, le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento), atteso che la cartella o il sollecito di pagamento non possono essere qualificati come atti dell’esecuzione forzata.

Il motivo pone dunque la questione se siano riservate alla giurisdizione tributaria le controversie riguardanti, tra i fatti estintivi dell’obbligazione tributaria, la prescrizione maturata successivamente alla notifica della cartella di pagamento.

2.- La Prima Sezione con la richiamata ordinanza interlocutoria dubita della persistente validità dell’orientamento, espresso anche dalle Sezioni Unite (n. 14648 del 2017, sez. L. n. 15717 del 2019, sez. 6-1 n. 21483 del 2015), secondo cui qualora, in sede di ammissione al passivo fallimentare, il curatore eccepisca la prescrizione del credito tributario maturata successivamente alla notifica della cartella, viene in considerazione un fatto estintivo dell’obbligazione che involge l’an ed il quantum del tributo, sicché la giurisdizione sulla relativa controversia spetta al giudice tributario, con la conseguenza che il giudice delegato deve ammettere il credito in oggetto con riserva, anche in assenza di una richiesta di parte in tal senso.

La Sezione osserva, in sintesi, che, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 114 del 2018, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 57, comma 1, lett. a), come sostituito dal D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, art. 16, – nella parte in cui prevede che, nelle controversie riguardanti gli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento o all’avviso di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 50, non sono ammesse le opposizioni regolate dall’art. 615 c.p.c., non vi sarebbe più quel vuoto di tutela che aveva indotto la giurisprudenza ad indirizzare verso la giurisdizione tributaria le controversie aventi ad oggetto questioni e fatti successivi alla notifica della cartella (come la prescrizione), quindi a valle della notifica della cartella, che segna il limite della giurisdizione del giudice tributario, a norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2.

Il quesito posto dall’ordinanza di rimessione è, quindi, se rientri nella giurisdizione del giudice delegato in sede di verifica dei crediti e del tribunale in sede di opposizione allo stato passivo, ovvero del giudice tributario (nel qual caso il credito dovrebbe essere ammesso al passivo del fallimento con riserva), giudicare sulla fondatezza dell’eccezione di prescrizione dei crediti tributari sollevata dal curatore, verificatasi successivamente alla notifica della cartella di pagamento.

3.- Il Collegio ritiene di non poter dare continuità all’orientamento sopra menzionato per le seguenti considerazioni.

3.1.- La tesi cui si ispira detto orientamento è che il giudice tributario, la cui giurisdizione si estende a tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere o specie (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2), sia l’unico giudice competente a decidere ogni controversia relativa all’an e al quantum del tributo dovuto, ivi compresa la prescrizione del credito tributario maturata successivamente alla formazione del titolo esecutivo racchiuso nella cartella esattoriale (Cass. SU n. 23832 del 2007, richiamata da SU n. 14648 del 2017 e n. 8770 del 2016).

Al suddetto giudice si assume riservata, quale giudice esclusivo del rapporto tributario, ogni controversia sulla interpretazione e applicazione delle leggi tributarie, tra le quali implicitamente dovrebbero rientrare quelle concernenti la ricognizione dei termini legali di prescrizione dei diversi tributi e la verifica in concreto del loro decorso ai fini dell’estinzione di ogni pretesa fiscale, così come in via consequenziale la verifica della eventuale e successiva soddisfazione del credito tributario (Cass. n. 10668 del 2019), sul presupposto che ad essere in discussione sia, in definitiva, pur sempre la debenza del tributo. In logica coerenza con questa impostazione è il principio secondo cui la giurisdizione del giudice tributario include anche la controversia relativa all’opposizione all’esecuzione attuata con il pignoramento presso terzi, quando oggetto del giudizio sia la perdurante fondatezza del titolo esecutivo, non rilevando la formale qualificazione del pignoramento come atto dell’esecuzione (Cass. SU n. 14667 del 2011, in tema di tasse automobilistiche).

  1. – Questa tesi potrebbe condividersi se il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, come sostituito dalla L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 12, comma 2, non prevedesse che “Restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove previsto, dell’avviso di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 50, (…)”, in disparte la questione della vigenza dell’art. 9 c.p.c.

La notifica della cartella di pagamento non impugnata (o vanamente impugnata) dal contribuente nel giudizio tributario determina il consolidamento della pretesa fiscale e l’apertura di una fase che, per chiara disposizione normativa, sfugge alla giurisdizione del giudice tributario, non essendo più in discussione l’esistenza dell’obbligazione tributaria né il potere impositivo sussumibile nello schema potestà-soggezione che è proprio del rapporto tributario (non tutte le controversie nelle quali abbia incidenza una norma fiscale si trasformano in controversie tributarie di competenza delle relative commissioni, come rilevato da Cass. SU n. 7526 del 2013).

Il processo tributario è annoverabile tra i processi di impugnazione-merito, in quanto, pur essendo diretto alla pronuncia di una decisione sul merito della pretesa tributaria, postula pur sempre l’esistenza di un atto da impugnare in un termine perentorio e da eliminare dal mondo giuridico (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19), che sarebbe arduo ricercare quando il debitore intenda far valere fatti estintivi della pretesa erariale maturati successivamente alla notifica della cartella di pagamento, come la prescrizione, al solo fine di paralizzare la pretesa esecutiva dell’ente creditore.

Neppure si potrebbe individuare l’atto da impugnare, come sostenuto dalla ricorrente, nell’estratto di ruolo rilasciato dal concessionario della riscossione su richiesta del contribuente, la cui impugnazione è stata ammessa per consentire a quest’ultimo di impugnare la cartella di pagamento di cui non abbia avuto conoscenza a causa della invalidità o mancanza della relativa notifica (Cass. SU n. 19704 del 2015, sez. V n. 22507 del 2019). Quando, invece, la cartella sia stata notificata e la relativa pretesa tributaria sia divenuta definitiva, dei successivi fatti estintivi della pretesa tributaria competente a giudicare è il giudice ordinario, quale giudice dell’esecuzione, cui spetta l’ordinaria verifica dell’attualità del diritto dell’ente creditore di procedere all’esecuzione forzata.

4.1.- Argomenti a conferma dell’impostazione cui si aderisce provengono dalla sentenza della Corte costituzionale n. 114 del 2018, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 57, comma 1, lett. a), come sostituito dal D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 16, nella parte in cui non prevede che, nelle controversie che riguardano gli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento o all’avviso di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 50, siano ammesse le opposizioni regolate dall’art. 615 c.p.c.

La Corte premette che la linea di demarcazione della giurisdizione (è) posta dalla cartella di pagamento e dall’eventuale successivo avviso recante l’intimazione ad adempiere: fino a questo limite la cognizione degli atti dell’amministrazione, espressione del potere di imposizione fiscale, è devoluta alla giurisdizione del giudice tributario; a valle, la giurisdizione spetta al giudice ordinario e segnatamente al giudice dell’esecuzione; quindi osserva che è questo un criterio di riparto della giurisdizione; ma la sommatoria della tutela innanzi al giudice tributario e di quella innanzi al giudice (ordinario) dell’esecuzione deve realizzare per il contribuente una garanzia giurisdizionale a tutto tondo: in ogni caso deve esserci una risposta di giustizia perché siano rispettati gli artt. 24 e 113 Cost.

La Corte, quindi, si interroga se il divieto del rimedio di cui all’art. 615 c.p.c. (ferma l’ammissibilità dell’opposizione riguardante la pignorabilità dei beni) sia compatibile con la Costituzione ed offre al quesito una duplice risposta, una in termini affermativi, un’altra in termini negativi:

la prima si giustifica quando la prevista inammissibilità dell’opposizione all’esecuzione, (riguardando) atti che radicano la giurisdizione del giudice tributario, non segna una carenza di tutela del contribuente assoggettato a riscossione esattoriale, perché questa c’è comunque innanzi ad un giudice, quello tributario, assicurandosi in tal modo la continuità della tutela giurisdizionale; ed infatti in questa parte l’art. 57 va raccordato con il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, che demanda alla giurisdizione del giudice tributario le contestazioni del titolo (normalmente, la cartella di pagamento) su cui si fonda la riscossione esattoriale. Se il contribuente contesta il titolo della riscossione coattiva, la controversia così introdotta appartiene alla giurisdizione del giudice tributario e l’atto processuale di impulso è il ricorso il D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 19, proponibile avverso il ruolo e la cartella di pagamento, e non già l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. (…); altrimenti detto, l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., – che non è soggetta a termine di decadenza – in tanto non è ammissibile, come prescrive l’art. 57 citato, in quanto non ha, e non può avere, una funzione recuperatoria di un ricorso del D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 19, non proposto affatto o non proposto nel prescritto termine di decadenza (di sessanta giorni);

la seconda risposta, in termini negativi, si spiega in ragione del fatto che l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. è inammissibile non solo nell’ipotesi in cui la tutela invocata dal contribuente, che contesti il diritto di procedere a riscossione esattoriale, ricada nella giurisdizione del giudice tributario e la tutela stessa sia attivabile con il ricorso il D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 19, ma anche allorché la giurisdizione del giudice tributario non sia invece affatto configurabile e non venga in rilievo perché si è a valle dell’area di quest’ultima (…): in tal caso c’è una carenza di tutela giurisdizionale” giudicata costituzionalmente non tollerabile perché il censurato art. 57 non ammette siffatta opposizione innanzi al giudice dell’esecuzione e non sarebbe possibile il ricorso al giudice tributario perché, in tesi, carente di giurisdizione.

4.2.- Per quanto interessa in questa sede, la giurisdizione del giudice ordinario sussiste dunque in tutte le controversie che si collocano a valle della notifica della cartella di pagamento, dove non v’è spazio per la giurisdizione del giudice tributario il D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 2 e l’azione esercitata dal contribuente assoggettato alla riscossione, che non riguardi la mera regolarità formale del titolo esecutivo o di atti della procedura, deve qualificarsi come opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., essendo contestato il diritto di procedere a riscossione coattiva (sentenza n. 114 del 2018). È questo il modo per colmare la carenza di tutela giurisdizionale che è all’origine della incostituzionalità del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 57, che si spiega in ragione del fatto che non era ammessa siffatta opposizione innanzi al giudice dell’esecuzione, pur non essendo ammissibile il ricorso al giudice tributario, in quanto privo di giurisdizione.

4.3.- Tra le altre evenienze che si collocano a valle della notifica della cartella di pagamento, in cui la doglianza del contribuente sia diretta a contestare il diritto di procedere a riscossione coattiva mediante l’opposizione ex art. 615 c.p.c., la Corte costituzionale menziona le ipotesi dell’intervenuto adempimento del debito tributario o di una sopravvenuta causa di estinzione dello stesso per essersi il contribuente avvalso di misure di favore per l’eliminazione del contenzioso tributario, quale, ad esempio, la cosiddetta rottamazione (…) e non v’è ragione di non ricomprendervi l’estinzione del credito tributario per intervenuta prescrizione maturata successivamente alla notifica della cartella.

4.4.- L’ammissibilità delle opposizioni regolate dall’art. 615 c.p.c. (tra le quali è compresa anche l’opposizione a precetto) dinanzi al giudice dell’esecuzione per contestare il diritto di procedere alla riscossione coattiva, sulla base di fatti estintivi sopravvenuti alla formazione del titolo e, quindi, a valle della notifica della cartella di pagamento, è coerente con la natura di quest’ultima che, a norma del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, assolve in un solo atto le funzioni svolte dalla notificazione del titolo esecutivo e del precetto nella espropriazione forzata codicistica (tra le tante, Cass., sez. III, n. 3021 del 2018).

Se è vero che la cartella è configurabile come atto di riscossione e non di esecuzione forzata (Cass. SU n. 5994 del 2012) e che la giurisdizione tributaria si arresta solo di fronte agli atti di esecuzione forzata tra i quali non rientrano né le cartelle esattoriali né gli avvisi di mora (Cass. SU n. 17943 del 2009), è anche vero che per espressa disposizione normativa (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2) la notifica della cartella è un dato rilevante ai fini della giurisdizione, determinando il sorgere della giurisdizione del giudice ordinario, l’unico competente a giudicare dei fatti, successivamente intervenuti, estintivi e modificativi del credito tributario cristallizzato nella cartella.

4.5.- Pertanto, accogliendo l’eccezione di prescrizione del credito azionato da Riscossione Sicilia, il giudice delegato in sede di verifica dei crediti e il tribunale in sede di opposizione allo stato passivo e di insinuazione tardiva, non hanno debordato dalla giurisdizione propria, non dubitandosi della natura di procedura esecutiva di carattere universale della procedura concorsuale. Come rilevato nell’ordinanza di rimessione, è dunque in sede fallimentare, nel procedimento di verifica del passivo, che vengono definite le questioni inerenti i fatti sopravvenuti alla formazione del titolo esecutivo (nel caso di specie cartella esattoriale) posto a fondamento del credito insinuato, le quali nell’esecuzione individuale vengono fatte valere con lo strumento dell’opposizione all’esecuzione, ai sensi dell’art. 615 c.p.c.

4.6.- Il primo motivo di ricorso è dunque rigettato, alla luce del seguente principio: ove, in sede di ammissione al passivo fallimentare, sia eccepita dal curatore la prescrizione del credito tributario maturata successivamente alla notifica della cartella di pagamento, che segna il consolidamento della pretesa fiscale e l’esaurimento del potere impositivo, viene in considerazione un fatto estintivo dell’obbligazione tributaria di cui deve conoscere il giudice delegato in sede di verifica dei crediti e il tribunale in sede di opposizione allo stato passivo e di insinuazione tardiva, e non il giudice tributario.

5.- Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. il 26 aprile 1986, n. 131, art. 78 e art. 2946 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere il tribunale omesso di considerare che il termine prescrizionale applicabile alla fattispecie de quo non era quello quinquennale, bensì quello decennale, essendo le cartelle state regolarmente notificate e non opposte e, quindi, essendo la pretesa tributaria divenuta definitiva.

5.1.- Il motivo è infondato. Esso ripropone una tesi difforme dall’orientamento seguito nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui la scadenza del termine perentorio sancito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo, o comunque di riscossione coattiva, produce l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito ma, ove per i relativi crediti sia prevista una prescrizione (sostanziale) più breve di quella ordinaria, la sola scadenza del suddetto termine non consente di ritenere applicabile il termine prescrizionale decennale di cui all’art. 2953 c.c., tranne che in presenza di un accertamento divenuto definitivo per il passaggio in giudicato della sentenza (Cass. SU n. 23397 del 2016, sez. V n. 8105 del 2019).

6.- In conclusione, il ricorso è rigettato.

Le spese devono essere compensate, in considerazione della complessità della questione trattata e della novità del principio enunciato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 3 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 dicembre 2019

 

Cass_civ_Sez_Unite_24_12_2019_n_34447




La transazione novativa determina la costituzione di un nuovo rapporto obbligatorio

La transazione novativa determina la costituzione di un nuovo rapporto obbligatorio

Tribunale Ordinario di Trieste, Sezione Civile, Sentenza del 18/11/2019

Con sentenza del 18 novembre 2019, il Tribunale Ordinario di Trieste, Sezione Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che la transazione novativa determina la costituzione di un nuovo rapporto obbligatorio il quale si sostituisce a quello precedente, generando nuove ed autonome situazioni giuridiche tra le parti. Elementi essenziali di tale contratto sono, oltre ai soggetti ed alla causa, l’animus novandi, che consiste nell’inequivoca comune intenzione di entrambe le parti di estinguere l’originaria obbligazione, sostituendola con una nuova e l’aliquid novi, inteso come mutamento sostanziale dell’oggetto della prestazione o del titolo del rapporto.


 

La transazione novativa determina la costituzione di un nuovo rapporto obbligatorio

Tribunale Ordinario di Trieste, Sezione Civile, Sentenza del 18/11/2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI TRIESTE

SEZIONE CIVILE

Il Tribunale in persona del giudice Dott. __ ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. R.G. __

TRA

F. Attore – Opponente

CONTRO

I. S.p.A. Convenuto – Opposto

avente ad oggetto: opposizione a decreto ingiuntivo in punto di cessione dei crediti.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

  1. Con ricorso per decreto ingiuntivo I. S.p.A. esponeva di essere creditrice di F. per la somma complessiva di Euro __, in forza di tre contratti di finanziamento. Precisamente due di questi finanziamenti (nn. (…) e (…)) sarebbero stati stipulati da F. con la società D. S.p.A., poi ceduti pro soluto alla società S. S.r.l. in data __ ed infine acquistati da I. in data __.

Il terzo finanziamento (n. (…)) veniva invece stipulato da F. con B. in __ e poi successivamente ceduto a I. il __.

Il Tribunale di Trieste emetteva quindi D.I. n. __ del __ con il quale ingiungeva a F. di pagare l’importo di Euro __, oltre interessi e spese.

  1. Con atto di citazione notificato in data __ F. ha proposto opposizione al decreto ingiuntivo.

In primo luogo ha rappresentato l’inesistenza parziale del credito ceduto con riferimento ai contratti di finanziamento nn. (…) e (…) stipulati con D. S.p.A. Precisamente ha esposto che D. avrebbe rinunciato parzialmente al credito mediante l’adesione alla proposta transattiva dalla stessa formulata in data __, e che prevedeva l’estinzione del credito a fronte di un pagamento a saldo e stralcio di __ euro. Ha quindi sostenuto che, a fronte di tale parziale rinuncia, sarebbe debitrice nei confronti di D. S.p.A. della minor somma di __ euro: tale eccezione ben potrebbe essere sollevata anche nei confronti di I., quale creditore cessionario, riguardando un fatto estintivo/modificativo del credito ceduto avvenuto in data anteriore rispetto alla notizia della cessione del credito al debitore ceduto. Nello specifico, infatti, la rinuncia parziale del credito sarebbe stata comunicata a F. con missiva di data __, mentre la cessione a S. S.r.l. sarebbe invece stata comunicata con pubblicazione sulla GU n. 152 in dd. __.

In secondo luogo ha rilevato l’inesistenza del credito ceduto da D. S.p.A. a I. riguardante il contratto di finanziamento n. (…). Ha contestato, infatti, che il contratto di finanziamento prodotto da controparte (doc. 11 rectius 10) possa riferirsi in qualche modo a D.; lo stesso, recante denominazione “P.B.P.”, sarebbe stato sottoscritto da F. con P. S.p.A. e non invece, come sostenuto, con D. la quale pertanto non avrebbe avuto nessun valido titolo per il trasferimento del credito.

Ha quindi concluso eccependo l’esistenza di un fatto estintivo e/o modificativo del credito ceduto in relazione ai finanziamenti nn. (…) e (…) e l’inesistenza del credito ceduto in relazione al finanziamento n. (…), chiedendo di accertare il minor credito della convenuta opposta e la revoca del decreto ingiuntivo opposto n. __.

  1. Con comparsa di costituzione e risposta di dd. __ I. S.p.A. ha precisato che F. aveva formulato la proposta transattiva poiché inadempiente in relazione ai contratti stipulati con D. con cui le venivano consegnate le carte di credito nr. (…) e nr. (…) (doc. 7 e 8 monitorio). Nel giugno __ F. si riconosceva infatti debitrice rispettivamente dell’importo di Euro __ e di Euro __ (doc. 2) e formulava dunque la proposta transattiva proponendo il pagamento di __ euro, poi accettato da A. Ha tuttavia eccepito che F. si sarebbe resa inadempiente anche rispetto alla stessa intesa transattiva e, pertanto, l’accordo transattivo dovrebbe ritenersi decaduto con conseguente riviviscenza dell’originaria esposizione debitoria.

Quanto all’inesistenza del credito derivante dal contratto di finanziamento n. (…) ha rappresentato come il regolamento negoziale prodotto in sede monitoria sia pacificamente ascrivibile a D., precisando come P. avrebbe agito in qualità di intermediario finanziario rispetto alla D., la quale avrebbe erogato l’importo. Ha precisato poi come tale circostanza fosse ben nota a F. già in sede di stipula del contratto nel quale si legge che “il richiedente, inoltre, autorizza irrevocabilmente I. S.p.A., per il caso in cui la presente richiesta di finanziamento trovi accoglimento, ad addebitare sul suo P. sopra indicato gli importi dovuti a D. S.p.A.“ (doc. 10 monitorio) ed anche alla luce del fatto che, nell’agosto del __, avrebbe ricevuto una missiva da parte di D. con la quale la stessa dichiarava F. decaduta dal beneficio del termine (doc.4).

Ha quindi concluso come in premessa.

  1. Con la prima memoria dd. __ ha ribadito come l’accettazione della proposta transattiva costituisca la prova incondizionata della parziale rinuncia al credito da parte di D., confutando la ricostruzione operata da controparte secondo cui la riduzione del debito sarebbe stata condizionata al puntuale pagamento delle rate indicate con la conseguente riviviscenza della maggiore originaria obbligazione. Ha poi confutato “i dispositivi allegati da parte avversa, peraltro privi di ogni riferimento ed attestazione di conformità all’originale, inerenti a fatti e circostanze non note e comunque diverse a quelle oggetto del presente giudizio”.
  2. All’udienza del __ la convenuta opposta ha precisato che i documenti disconosciuti da controparte siano invero delle comunicazioni trasmesse a mezzo fax da D., i cui originali sarebbero in possesso esclusivamente di F.

Il giudice ha ritenuto di non concedere la provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo opposto e, ritenuta la causa matura per la decisione, ha fissato un termine per la precisazione delle conclusioni.

Sulle conclusioni di cui in premessa, quindi, all’udienza del __ il giudice ha assegnato termine per il deposito di scritti conclusivi e repliche, riservando in esito la decisione.

  1. Rileva in primo luogo la questione dell’esistenza di un fatto modificativo o estintivo del credito ceduto a I. S.p.A. in relazione ai contratti di finanziamento nn. (…) e (…) ed in particolare della natura della transazione intervenuta tra le parti.

Contesta l’attrice opponente la debenza del maggior credito di Euro __ essendosi verificata una parziale rinuncia a questo credito da parte di D. in virtù dell’accordo transattivo stipulato con la stessa. Al riguardo, infatti, ribadisce che la missiva di cui trattasi rappresenterebbe una vera e propria rinuncia al maggior credito e di conseguenza con riferimento ai finanziamenti nn. (…) e (…) si riconosce debitrice solo del minor importo di __ euro.

Ha contestato poi che il mancato pagamento di tale importo avrebbe fatto risorgere la maggiore originaria obbligazione, non potendosi ricavare tale volontà dalla missiva e non potendo certo presumersi a posteriori la volontà di condizionare la riduzione del credito al pagamento delle somme previste in transazione.

Di contro, l’opposta rileva che nella missiva con la quale D. ha accettato la proposta transattiva non vi sarebbe nessuna traccia di rinuncia al credito, non potendo riscontrarsi alcuna volontà novativa delle obbligazioni originarie. Al contrario, emergerebbe come lo stralcio dell’importo sarebbe stato condizionato al pagamento di quanto pattuito in sede di accordo transattivo, cosa che non è avvenuta essendo F. inadempiente.

6.1. Dirimente ai fini delle considerazioni che seguiranno, è pertanto la qualificazione di tale accordo transattivo in termini di transazione novativa o conservativa, poiché soltanto per la seconda è possibile la riviviscenza dell’obbligazione originaria, come voluto dalla convenuta opposta.

La transazione novativa, infatti, determina la costituzione di un nuovo rapporto obbligatorio il quale si sostituisce a quello precedente, generando nuove ed autonome situazioni giuridiche tra le parti. Come costantemente insegnato dalla Suprema Corte, elementi essenziali di tale contratto sono, oltre ai soggetti ed alla causa, l’animus novandi, che consiste nella inequivoca comune intenzione di entrambe le parti di estinguere l’originaria obbligazione, sostituendola con una nuova e l’aliquid novi, inteso come mutamento sostanziale dell’oggetto della prestazione o del titolo del rapporto da ultimo v. Sez. 1, Ord. n. 7194 del 13/03/2019.

Tuttavia, in assenza di un’espressa manifestazione di volontà delle parti sarà compito del giudice di merito accertare se le stesse abbiano inteso o meno addivenire alla conclusione di un nuovo rapporto, costitutivo di autonome obbligazioni ovvero abbiano inteso mantenere in vita il precedente rapporto. In tal senso, al fine di qualificare la transazione come novativa, è necessario, da un lato che l’accordo raggiunto dalle parti disciplini per intero il nuovo rapporto negoziale, e dall’altro che vi sia una situazione di oggettiva incompatibilità tra il rapporto preesistente e quello originato dall’accordo transattivo, Sez. 1, Sent. n. 23064 del 11/11/2016.

Orbene applicando tali principi al caso di specie, si ritiene sul punto fondata la tesi dell’opponente.

Come detto, con missiva del __ F. ha formulato una proposta transattiva con riferimento a due carte di credito chiedendo a D. S.p.A. “la chiusura a Saldo e Stralcio per entrambe le posizioni a Euro 6.000 in n. 12 rate scadenti il 27 di ogni mese a partire dal mese di luglio 2012…”. Accettando tale proposta transattiva D. S.p.A., con missiva di pari data, provvedeva altresì ad indicare le modalità di pagamento delle rate, sottolineando poi che “la definizione a Saldo Stralcio & Transazione prevede il pagamento parziale del debito e che per l’importo stralciato D. S.p.A. non avanzerò alcuna pretesa” (v. doc. 1 attrice).

Risultano quindi soddisfatte le condizioni richieste per poter identificare la volontà novativa della transazione: le parti hanno infatti dato vita ad un nuovo rapporto contrattuale, che hanno provveduto a disciplinare nella sua interezza determinando la somma da versare, le modalità ed i tempi di pagamento e la rinuncia all’importo stralciato. La transazione così delineata può quindi ben essere qualificata come novativa, andando così a sostituire il precedente rapporto obbligatorio e creando una nuova obbligazione. Conseguenza di tale qualificazione è che l’inadempimento dell’accordo transattivo, benché non contestato, non determina la reviviscenza del maggior debito originario, essendosi ormai estinto per novazione il rapporto preesistente; né tanto meno può ritenersi decaduto l’accordo transattivo (art. 1976 c.c.).

Nulla osta invece alla condanna al pagamento della somma dei __ euro, dovuto in virtù del contratto transattivo, rispetto al quale la stessa attrice ha più volte riconosciuto il proprio debito.

  1. Quanto alla seconda questione, ovvero l’inesistenza del finanziamento n. (…), o meglio l’inesistenza di un titolo valido per il trasferimento del credito da parte di D.B. a B.I., occorre verificare se i docc. 10 e 11 allegati al ricorso per decreto ingiuntivo possano in qualche modo essere ricondotti a D. In particolare, il documento n. 10 rappresenta un contratto di finanziamento recante denominazione “P.B.P.”, che a detta di parte attrice sarebbe stato stipulato dalla stessa con le P.I. S.p.a. e non invece, come sostenuto da parte opposta, con D.

Preliminarmente si evidenzia che l’attrice si è limitata a contestare l’inesistenza del credito ceduto da D. sulla base dell’assenza di un qualsivoglia rapporto tra la stessa e B. Non ha, invece, formato oggetto di contestazione specifica l’esistenza del contratto di finanziamento n. (…), che la stessa riconosce di aver sottoscritto con I. S.p.a., né il credito residuo di Euro __ rispetto a tale finanziamento, se non sotto il profilo dell’assenza di un rapporto sussistente con D.

Sussistono vari elementi che inducono a ritenere provata l’esistenza del rapporto di credito/debito tra le odierne parti, o meglio tra l’opponente e la D., successivamente cedente alla cessionaria I. S.p.A.

In primo luogo, nel contratto in questione si legge: il richiedente, inoltre, autorizza irrevocabilmente P. S.p.A., per il caso in cui la presente richiesta di finanziamento trovi accoglimento, ad addebitare sul suo conto B. sopra indicato gli importi dovuti a D. S.p.A. ai sensi dell’art. 1 delle Condizioni generali del P. Tale clausola contrattuale così formulata, prevedendo espressamente che gli importi siano dovuti a D. e non già a P. S.p.A., è sufficiente per ritenere che quest’ultima abbia agito nella qualità di intermediario finanziario rispetto a D.B., come sostenuto da I.

Inoltre, coerente con tale affermazione è anche la circostanza che nella missiva inviata all’attrice da D., con la quale la stessa certifica il credito rimanente nei confronti di F. in Euro __, sono riportati dati del tutto corrispondenti al contratto __; analoga la data di erogazione del finanziamento, così come il totale delle rate e l’ammontare totale del finanziamento.

Ciò posto, si ritiene comprovato che il contratto in questione riguardi un finanziamento ascrivibile a D., e che esso sia stato quindi da essa validamente trasferito a I. S.p.A. Si ritengono inoltre sussistenti i presupposti per la condanna di F. al pagamento di Euro __, non essendo contestato nella sua entità il credito.

  1. Sulla base delle precedenti premesse si accoglie l’opposizione limitatamente al primo motivo della stessa, ritenuto non fondato il secondo motivo. Il decreto ingiuntivo opposto n. __ deve quindi essere revocato con condanna dell’attrice opponente al pagamento della minor somma dovuta, pari ad Euro __ quanto al mancato pagamento delle somme di cui all’accordo transattivo, nonché al pagamento di Euro __ quanto al contratto di finanziamento n. (…) con D., erogato da P. S.p.A. Il tutto oltre interessi dalle relative messe in mora o dal riconoscimento del debito.
  2. In ragione della parziale soccombenza e del limitato accoglimento della domanda, che ha comportato la revoca del decreto ingiuntivo opposto, le spese di lite possono essere compensate tra le parti.

P.Q.M.

ogni altra istanza, deduzione ed eccezione disattesa, definitivamente pronunziando, il Tribunale di Trieste così provvede:

in parziale accoglimento dell’opposizione, revoca il decreto ingiuntivo opposto con condanna dell’opponente al pagamento della somma di Euro __, oltre interessi dalle relative messe in mora o dal riconoscimento del debito fino al saldo.

Spese compensate. Sentenza esecutiva.

Così deciso in Trieste, il 13 novembre 2019.

Depositata in Cancelleria il 18 novembre 2019.

Tribunale Trieste Sent. 18_11_2019

 

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Revocatoria fallimentare: accertamento della conoscenza dello stato d’insolvenza

Revocatoria fallimentare: accertamento della conoscenza dello stato d’insolvenza

Tribunale Ordinario di Cassino, Sezione Civile, Sentenza del 05/12/2019

Con sentenza del 5 dicembre 2019, il Tribunale Ordinario di Cassino, Sezione Civile, in tema di revocatoria fallimentare, ha stabilito che riguardo all’accertamento della conoscenza dello stato d’insolvenza, i protesti cambiari, in forza del loro carattere di anomalia rispetto al normale adempimento dei debiti d’impresa, si inseriscono nel novero degli elementi indiziari rilevanti, con la precisazione che trattasi non già di una presunzione legale iuris tantum, ma di una presunzione semplice che, in quanto tale, deve formare oggetto di valutazione concreta da parte del giudice del merito, da compiersi in applicazione del disposto degli artt. 2727 e 2729 c.c., con attenta valutazione di tutti gli elementi della fattispecie. Consegue, sul piano della distribuzione dell’onere della prova, che l’avvenuta pubblicazione di una pluralità di protesti può assumere rilevanza presuntiva, tale da esonerare il curatore dalla prova che gli stessi fossero noti al convenuto in revocatoria, su quest’ultimo risultando traslato in tal caso l’onere di dimostrare il contrario.


 

Tribunale Ordinario di Cassino, Sezione Civile, Sentenza del 05/12/2019

Revocatoria fallimentare: accertamento della conoscenza dello stato d’insolvenza

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI CASSINO

– Sezione Civile –

in persona del giudice unico, dott. __, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di primo grado iscritta al n. __ del R.G., trattenuta in decisione all’udienza del __, proposta da

Fallimento R. S.r.l. – attore

Nei confronti di

M. S.r.l. – convenuta.

OGGETTO: azione revocatoria ex art. 67 L.F.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

  1. Con atto di citazione introduttivo del presente giudizio, iscritto a ruolo in data __, l’attore ha chiesto a questo Tribunale:

“ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 67 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, di revocare il pagamento della somma di Euro __, effettuato dal Comune di F., con determina n. __ del __, a favore della convenuta M. S.r.l., in adempimento dell’ordinanza di assegnazione emessa dal Tribunale di Frosinone in data __, nella procedura di espropriazione di un credito presso terzi che la stessa società M. aveva attivato nei confronti della fallita R. S.r.l.;

conseguentemente, di condannare la M. S.r.l., con sede in __, in persona del proprio rappresentante legale, a corrispondere al fallimento n. __ del Tribunale di Cassino della R. S.r.l. la complessiva somma di Euro __ più interessi dal giorno dell’avvenuto pagamento, con vittoria di spese, diritti ed onorari del presente giudizio oltre IVA a CNA ex D.M. n. 55 del 2014”.

Si è costituita la società convenuta, la quale ha chiesto a questo Tribunale di respingere la domanda di parte attrice in quanto infondata in fatto ed in diritto, con vittoria di spese, alla luce delle seguenti argomentazioni:

l’inscientia decoctionis, ovvero la mancanza di conoscenza da parte della convenuta dei protesti e più in generale dello stato di insolvenza in cui versava la società debitrice in bonis, poi fallita, al momento del pagamento da parte del terzo pignorato, il Comune di Ferentino, a sua volta debitore della società debitrice poi fallita;

– la mancata prova da parte del Curatore della scientia decoctionis in capo al convenuto e dell’eventus damni in capo alla massa dei creditori;

– l’impossibilità della revocatoria fallimentare di vulnerare un provvedimento giurisdizionale di assegnazione delle somme;

– la perdurante efficacia del pagamento compiuto dal terzo pignorato, sulla base dell’esecuzione forzata, al creditore del debitore originario, essendo avvenuto prima della sentenza dichiarativa del fallimento;

– da ultimo, in sede di comparsa conclusionale, l’applicabilità dell’ipotesi di esonero da revocatoria ex art. 67 co. 3 lett. a).

In sede di istruzione venivano concessi i termini ex art. 183 co. 6 c.p.c. In dette memorie, la convenuta chiedeva ammettersi prova per testi. Tale richiesta, reiterata anche in sede di precisazione delle conclusioni, veniva respinta, vertendo i capitoli su circostanze documentali o comunque superflue.

Infine, all’udienza del __, la causa veniva trattenuta in decisione, con concessione dei termini ex art. 190 c.p.c.

  1. La domanda revocatoria fallimentare, in particolare ex art. 67 co. 2 L.F., è fondata e pertanto deve essere accolta.

Giova ricostruire brevemente la vicenda fattuale sottesa al presente giudizio, che ruota intorno a tre soggetti: R. S.r.l., società di cui è stato dichiarato il fallimento con sentenza del Tribunale di Cassino n. __ del __, creditrice del Comune di F. per un importo di Euro __ e debitrice di M. S.r.l. per un importo di Euro __.

M. S.r.l. ha emesso una serie di fatture nei confronti della R. S.r.l. poi fallita, nel periodo ricompreso tra il __ e il __, per un importo di Euro __. Successivamente, in forza del precetto basato su n. _ cambiali con scadenze del __, __ e __, ha intimato alla società poi fallita il pagamento della suddetta somma. Ha fatto seguito un atto di pignoramento presso terzi, notificato alla debitrice poi fallita, nonché al terzo debitor debitoris, Comune di F., il __ per un importo di Euro __, il quale ha reso dichiarazione positiva. Di conseguenza, il Tribunale di Frosinone, con Provv. del 19 maggio 2010, ha assegnato l’importo di Euro __ oltre interessi alla convenuta. A seguito di una missiva del legale della convenuta, il Comune di F., con Det. n. __del __, ha liquidato e pagato la suddetta somma alla M.C. s.r.l., circostanza non contestata dalla convenuta.

Successivamente, la società R. S.r.l. è stata dichiarata fallita con sentenza n. __ del __.

Il Curatore, nella sua attività di recupero dei crediti della società fallita, ha invitato anche il Comune di F. a saldare il debito nei suoi confronti. Detto Comune ha quindi risposto di essere debitore per un importo minore rispetto a quello preteso dal Fallimento, rappresentando di aver pagato la somma di Euro __ in favore della M. S.r.l. Ragion per cui il Fallimento, successivamente, ha agito nei confronti della stessa per il recupero della suddetta somma.

  1. Tanto ricostruito, bisogna inquadrare per sommi capi l’azione revocatoria. Partendo dall’azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c., questa si compone di quattro elementi:

– un atto del debitore di disposizione patrimoniale, oneroso o gratuito;

– che tale atto arrechi un pregiudizio al creditore;

– la mala fede del debitore;

– se l’atto è oneroso, anche la mala fede del terzo accipiens.

La revocatoria fallimentare ex art. 67 L.F. prevede, invece, delle presunzioni che permettono una più agevole ricostruzione del patrimonio da sottoporre ad esecuzione concorsuale.

Il primo requisito, di carattere oggettivo, resta invariato, dovendo il Curatore provare l’avvenuto compimento dell’atto di disposizione patrimoniale.

Sul secondo requisito, di carattere oggettivo, intervengono invece due presunzioni. A tenore della prima, gli atti posti in essere dall’imprenditore in un certo periodo anteriore alla dichiarazione di fallimento (c.d. retrodatazione dell’insolvenza, calibrata sulla base delle diverse tipologie negoziali variamente idonee ad incidere sul patrimonio del debitore successivamente fallito) si presumono (iuris tantum) compiuti in stato di insolvenza, sicché sarà il terzo accipiens a dover provare in concreto che il debitore non era insolvente. Su tale prima presunzione si innesta la seconda, a tenore della quale tutti gli atti posti in essere in stato di insolvenza (anche se il fallimento non è stato ancora dichiarato) si presumono (iuris et de iure) pregiudizievoli per i creditori perché idonei ad alterare quanto meno la par condicio creditorum (Cass., n. 23430/2012). Il Curatore è quindi dispensato dall’onere di provare l’eventus damni.

Il Curatore è altresì dispensato dall’onere di provare il terzo requisito, di carattere soggettivo, dal momento che la mala fede del debitore è presunta (iuris et de iure).

Ai sensi del quarto elemento, di carattere soggettivo, bisogna verificare se lo stato di insolvenza del debitore fosse noto al terzo (scientia decoctionis). Orbene, per alcuni atti di carattere anomalo (art. 67, co. 1, L.F.) e quindi particolarmente sintomatici dello stato di insolvenza, è posta anche una presunzione (iuris tantum) di conoscenza di tale stato in capo al terzo. La prova contraria non è soltanto quella di carattere negativo, con cui il convenuto tenta di dimostrare l’inesistenza di sintomi dello stato di insolvenza (come l’assenza di protesti o di procedure esecutive immobiliari), ma anche quella di carattere positivo, con cui il convenuto tenta di dimostrare che sussistevano circostanze tali da far ritenere che l’imprenditore successivamente fallito si trovasse in una situazione di normale esercizio dell’impresa (Cass., n. 8224/2011).

Al contrario, in presenza di atti c.d. normali, sarà il Curatore a dover provare la conoscenza di tale stato in capo al terzo accipiens. Al riguardo, poiché non è ipotizzabile l’accertamento processuale di un atteggiamento psichico interiore che per sua natura non è suscettibile di prova certa, ciò che rileva è il dato oggettivamente dimostrato che l’accipiens abbia percepito (anche ricorrendo alla prova per presunzioni ex artt. 2727 e 2729 c.c., qualora gli indizi siano gravi, precisi e concordanti) i segni esteriori del dissesto, ovvero anche la sola manifestazione di insolvenza che è insita nel sintomo, non anche che abbia ritenuto o meno inevitabile il fallimento del debitore (Cass., n. 26697/2006). In particolare, la certezza logica dell’esistenza di tale stato soggettivo può legittimamente dirsi acquisita non quando sia provata la conoscenza effettiva, da parte dello specifico creditore, dello stato di decozione dell’impresa, né quando tale conoscenza possa ravvisarsi con riferimento a una figura di contraente astratto, bensì quando la probabilità della scientia decoctionis trovi il suo fondamento nei presupposti e nelle condizioni nelle quali si sia concretamente trovato ad operare il creditore del fallito (Cass., n. 504/2016). E, a seconda delle circostanze, si potranno valorizzare a fini presuntivi: la continuità e l’importanza del rapporto commerciale, la natura dell’atto, nonché la contiguità territoriale con il luogo di manifestazione dei sintomi dell’insolvenza.

  1. Tanto esposto in linea generale, si possono esaminare gli elementi costitutivi dell’azione revocatoria ex art. 67 L. f. e verificare altresì la fondatezza delle eccezioni del convenuto.

Il Curatore ha dato prova del pagamento effettuato dal Comune di F. in favore della M. s.r.l. con Det. n. __ del __, pagamento peraltro non contestato dall’odierna convenuta. Inoltre, bisogna precisare che la fattispecie ricade nell’ambito di applicazione dell’art. 67, co. 2, L.F. come si evince dall’analisi della giurisprudenza sul punto, incombendo quindi l’onere della prova della scientia decoctionis in capo al Curatore. Invero, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, si considerano assoggettabili a revocatoria fallimentare anche i pagamenti coattivi, quelli cioè che il creditore non ottiene spontaneamente dal debitore, bensì all’esito di una procedura di esecuzione forzata (Cass., n. 7579/2011). Più nel dettaglio, in un caso assimilabile a quello di specie, la Suprema Corte ha affermato che “nella ipotesi di soddisfacimento delle ragioni dei creditori mediante espropriazione presso terzi, gli atti soggetti a revocatoria ex art. 67 L.F. – R.D. n. 267 del 1942 – non sono i provvedimenti di assegnazione del giudice dell’esecuzione bensì i soli, successivi (e distinti) atti di pagamento coattivo, con la conseguenza che ai fini dell’inclusione dell’atto solutorio nel periodo rilevante per la revoca occorre fare riferimento alla data in cui il soddisfacimento sia stato concretamente eseguito, e non a quella del provvedimento di assegnazione (Cass. civ. Sez. I Sent., 19/11/2008, n. 27518)”.

Ciò consente di affermare che non è stato in alcun modo vulnerato il provvedimento giurisdizionale di assegnazione delle somme emesso dal Tribunale di Frosinone in data __, contrariamente a quanto sostenuto dalla convenuta.

Privo di pregio, inoltre, è l’argomento secondo cui il pagamento manterrebbe la sua efficacia in quanto effettuato prima della dichiarazione di fallimento. Sul punto, la convenuta sembra partire dall’art. 44 L.F., secondo cui gli atti compiuti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci, argomentando poi a contrario che i pagamenti avvenuti in precedenza sarebbero efficaci. In realtà ai pagamenti avvenuti in precedenza si applica l’istituto della revocatoria, ordinaria o fallimentare, da cui consegue pur sempre l’inefficacia del pagamento.

  1. In ordine al secondo ed al terzo requisito, vengono in rilievo le presunzioni relative alla retrodatazione dell’insolvenza e del pregiudizio al ceto creditorio, nonché del consilium fraudis in capo al debitore. Al riguardo, tutti gli atti di cui è stata chiesta la revoca (transazione, assegno circolare e compensazione) sono stati compiuti nei sei mesi precedenti alla dichiarazione di fallimento, avvenuta con sentenza del Tribunale di Cassino n. __ del __. Né il convenuto ha provato che la società poi fallita non fosse insolvente al momento del compimento degli atti, non potendosi desumere tale circostanza dalla mera argomentazione che fino ad un momento precedente all’atto di precetto i pagamenti erano stati regolari.
  2. Il Curatore ha inoltre fornito la prova della conoscenza dello stato di insolvenza da parte dell’odierno convenuto.

Invero, nel caso in esame, può certamente desumersi detta conoscenza dalla qualità di creditore pignoratizio della società convenuta, posto che l’aver dovuto far ricorso, per ottenere l’adempimento all’obbligazione di pagamento, ad una procedura esecutiva mobiliare presso terzi, è indice sufficiente dello stato di decozione del debitore, ovvero della sua incapacità di pagare con mezzi normali i propri debiti. Difatti, per decozione si intende non già l’inadeguatezza del patrimonio rispetto al passivo, quanto l’incapacità di pagare con mezzi normali i propri debiti e adempiere subendo un’espropriazione non può certo considerarsi un mezzo normale di pagamento (Tr. Roma, sent. n. 24557/2015).

Tale consapevolezza è avvalorata dalla presenza di un elevato numero elevato di protesti, pari a _, per un ingente ammontare (Euro __ circa, v. all. 9 del fascicolo di parte attrice). Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità afferma che “in tema di accertamento della conoscenza dello stato d’insolvenza i protesti cambiari, in forza del loro carattere di anomalia rispetto al normale adempimento dei debiti d’impresa, si inseriscono nel novero degli elementi indiziari rilevanti, con la precisazione che trattasi non già di una presunzione legale iuris tantum, ma di una presunzione semplice che, in quanto tale, deve formare oggetto di valutazione concreta da parte del giudice del merito, da compiersi in applicazione del disposto degli art. 2727 e 2729 c.c., con attenta valutazione di tutti gli elementi della fattispecie. Consegue, sul piano della distribuzione dell’onere della prova, che l’avvenuta pubblicazione di una pluralità di protesti può assumere rilevanza presuntiva tale da esonerare il curatore dalla prova che gli stessi fossero noti al convenuto in revocatoria, su quest’ultimo risultando traslato in tal caso l’onere di dimostrare il contrario” (Cass. n. 504/2016). Anche la giurisprudenza di merito è concorde sul fatto che i protesti, quando pubblicati in numero elevato, integrino un elemento sintomatico ai fini della prova della scientia decoctionis, posto che proprio l’elevato numero sia un indice sicuro di una situazione di conclamata e percepibile decozione (cfr. Tr. Verona n. 1293/2010).

In tale contesto, si ritiene debole l’argomento di controparte, non supportato da evidenza probatoria, secondo cui questa non era a conoscenza dei protesti. Si consideri infatti che, di regola, i pignoramenti presso terzi vengono notificati secondo l’id quod plerumque accidit alle banche. Orbene, il fatto che vi fosse un pregresso rapporto contrattuale tra la società poi fallita e la convenuta, nonché la circostanza che il pignoramento sia stato notificato ad un Comune, implica che la convenuta era a conoscenza dei vari rapporti intrattenuti tra la società poi fallita e gli altri operatori economici. Del resto vi è contraddizione fra quanto affermato dalla convenuta, secondo cui la società poi fallita avrebbe sempre pagato con regolarità, e quanto invece compiuto dalla convenuta stessa.

Invero, in un arco temporale ridotto, la convenuta ha dapprima notificato atto di precetto il __ e poi un pignoramento presso terzi in data __, al quale ha fatto seguito l’ordinanza di assegnazione emessa dal Tribunale di Frosinone il __, il cui pagamento è stato disposto il __, il tutto a meno di due mesi dalla pubblicazione della sentenza di fallimento del __.

Condivisibile è inoltre l’ordinanza istruttoria che non ha ammesso le prove testimoniali richieste dalla convenuta, posto che un soggetto estraneo alla compagine sociale della convenuta non può ritenersi in grado di conoscere la percezione da parte della stessa dello stato di decozione della società poi fallita. Inoltre gli altri fatti dedotti (in primis la relazione tra le __ cambiali e le forniture effettuate) vertono su circostanze documentali.

Pertanto, nel caso in esame, si deve ritenere che gli elementi sin qui descritti costituiscano presunzioni idonee a fornire la certezza logica dell’esistenza dello stato soggettivo di conoscenza circa l’insolvenza dell’impresa debitrice da parte della convenuta.

  1. Inammissibile, in quanto tardivo e comunque infondato, è l’ultimo motivo evidenziato dalla convenuta, basato sull’art. 67, co. 3, lett. a), L.F. A tenore della norma in questione, non sono soggetti all’azione revocatoria: a) i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha privilegiato un criterio soggettivo, incentrato sui rapporti tra le parti, a quello oggettivo, legato alle regole del settore commerciale, al fine di scongiurare il rischio che l’azione revocatoria diventi essa stessa causa dell’insolvenza di un imprenditore già in difficoltà. Pertanto, quanto alla tempistica, possono includersi nell’esenzione i pagamenti effettuati in ritardo, purché il ritardo costituisca elemento di usuale adempimento nel contesto di rapporti commerciali consolidati nel tempo tra le parti. Quanto alle modalità, potranno essere inclusi anche i pagamenti eseguiti con mezzi anormali, qualora questi siano regolarmente effettuati tra le parti nel caso concreto.

Deve pur sempre considerarsi, però, che non possono certamente fruire del beneficio i pagamenti di crediti pregressi, da lungo tempo scaduti o effettuati a seguito di solleciti o di procedure di riscossione coattiva poste in essere dal creditore. Ed infatti, nel caso di specie, i pagamenti di cui è stata chiesta la revocatoria, per le tempistiche e per le modalità con cui sono avvenuti, non integrano i presupposti per l’esonero.

Invero, secondo quanto affermato dalla convenuta, i pagamenti precedenti al precetto sono sempre avvenuti regolarmente. Quindi esula sicuramente, dalla prassi vigente tra le parti, il pagamento delle fatture ricomprese tra il __ e il __, avvenuto solamente in data __.

Quanto sopra, vale anche per le modalità di pagamento, posto che a fronte di pregressi pagamenti, tutti avvenuti in maniera diretta e spontanea, rappresenta una difformità rispetto alla prassi il pagamento di un debito da parte di un soggetto terzo pignorato.

Ne consegue che non può ritenersi nemmeno integrata l’ipotesi di esonero da revocatoria ex art. 67, co. 3, lett. a), L.F.

  1. In definitiva, alla luce delle pregresse considerazioni, deve accogliersi la domanda revocatoria ex art. 67, co. 2, L.F. Le spese di lite seguono il principio di soccombenza e vengono liquidate in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, con applicazione dei valori medi di tutte le fasi relative allo scaglione che va da Euro __ ad Euro __.

P.Q.M.

Il Tribunale di Cassino, definitivamente pronunciando nel giudizio R.G. __, disattesa ogni contraria istanza, domanda ed eccezione, in accoglimento della domanda ex art. 67, co. 2, L.F., così provvede:

– revoca il pagamento della somma di Euro __ effettuato dal Comune di F., con determina n. __ del __, a favore della convenuta M. S.r.l., in adempimento dell’ordinanza di assegnazione emessa dal Tribunale di Frosinone in data __;

– conseguentemente, condanna la convenuta M. S.r.l. a corrispondere al Fallimento R. S.r.l. la somma complessiva Euro __, oltre interessi dal giorno dell’avvenuto pagamento revocato al soddisfo;

– condanna, inoltre, parte convenuta al pagamento delle spese di lite del presente giudizio in favore del fallimento attore, che liquida in Euro __ oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Cassino, il 3 dicembre 2019.

Depositata in Cancelleria il 5 dicembre 2019.

 

Tribunale Cassino Sent. 05_12_2019




L’estensione della prededucibilità a tutti i crediti sorti in funzione di precedenti procedure concorsuali

L’estensione della prededucibilità a tutti i crediti sorti in funzione di precedenti procedure concorsuali

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, sottosezione 1, Ordinanza n. 32417 dell’11/12/2019

Con ordinanza dell’11 dicembre 2019, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, sottosezione 1, in tema di fallimento e procedure concorsuali ha stabilito che, l’estensione della prededucibilità a tutti i crediti sorti in funzione di precedenti procedure concorsuali, di cui all’art. 111, comma 2 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267, costituisce un’eccezione al principio della par condicio creditorum, introdotta per favorire il ricorso a forme di soluzione concordata della crisi d’impresa, e quindi priva di restrizioni, e la sua funzionalità è ravvisabile ogni qualvolta le prestazioni compiute dal terzo, per il momento e il modo con cui sono state assunte in un rapporto obbligatorio con il debitore, confluiscano nel disegno di risanamento da quest’ultimo predisposto, in modo da rientrare in una complessiva causa economico-organizzativa almeno preparatoria di una procedura concorsuale, a meno che non ne risulti dimostrato il carattere sovrabbondante o superfluo rispetto all’iniziativa assunta.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, sottosezione 1, Ordinanza n. 32417 dell’11/12/2019

L’estensione della prededucibilità a tutti i crediti sorti in funzione di precedenti procedure concorsuali

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. __ R.G. proposto da:

F. – ricorrente –

contro

(OMISSIS) S.r.l. in liquidazione – controricorrente –

avverso il decreto del Tribunale di Arezzo depositato il __.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del __ dal Consigliere __.

Svolgimento del processo

che il Dott. F. ha proposto ricorso per cassazione, per un solo motivo, avverso il decreto del 24 luglio 2017, con cui il Tribunale di Arezzo ha rigettato l’opposizione da lui proposta avverso lo stato passivo del (OMISSIS) S.r.l. in liquidazione, escludendo la prededucibilità del credito di Euro __, oltre IVA e CAP, da lui fatto valere ed ammesso al passivo in chirografo, a titolo di compenso per l’attività professionale prestata in favore della società fallita ai fini dell’elaborazione e della presentazione di una precedente domanda di ammissione al concordato preventivo;

che i curatori del fallimento hanno resistito con controricorso, illustrato anche con memoria.

Motivi della decisione

che con l’unico motivo d’impugnazione il ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa applicazione del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 111, osservando che, nell’escludere che il credito fosse sorto in funzione del concordato preventivo, a causa della mancata omologazione del concordato, il decreto impugnato non ha tenuto conto della ratio della predetta disposizione, volta a promuovere l’impegno dei professionisti nei confronti di imprese in crisi, avendo erroneamente subordinato il riconoscimento della prededuzione alla verifica del risultato della prestazione o della sua concreta utilità per la massa, senza considerare che la domanda era stata ritenuta ammissibile, in quanto la procedura era stata dichiarata aperta;

che, nell’escludere la consecuzione tra le procedure, in virtù del tempo trascorso tra la presentazione della domanda di ammissione al concordato e la dichiarazione di fallimento, il Tribunale ha inoltre conferito rilievo ad un fatto mai eccepito dalle parti, senza concedere ad esso ricorrente la possibilità di difendersi e senza tener conto dell’intervenuta abrogazione del D.L. 23 dicembre 2013, n. 145, art. 11, comma 3-quater, la cui applicazione non poteva ritenersi d’altronde limitata ai soli casi in cui la dichiarazione di fallimento avesse fatto immediatamente seguito al rigetto della domanda di concordato;

che il ricorso è fondato;

che, secondo il più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità, il credito fatto valere da un professionista a titolo di compenso per l’assistenza prestata in favore del debitore ai fini della redazione e della presentazione di una domanda di concordato preventivo rientra de plano tra quelli sorti in funzione della procedura, e nel successivo fallimento deve essere pertanto soddisfatto in prededuzione, ai sensi della L. Fall., art. 111, comma 2, senza che ai fini di tale collocazione debba accertarsi, con valutazione ex post, se la prestazione resa sia risultata concretamente utile per la massa in ragione dei risultati raggiunti (cfr. Cass., Sez. I, 24/09/2018, n. 22467; 4/11/2015, n. 22450);

che, nel richiamare il predetto principio, il decreto impugnato ha reputato peraltro essenziale, ai fini del riconoscimento della strumentalità del credito, l’adeguatezza funzionale della prestazione rispetto agl’interessi della massa, affermando che, in tale prospettiva, la proposta di concordato elaborata con l’ausilio del professionista deve rivelarsi quanto meno ammissibile, cioè dotata di fattibilità giuridica, e negando pertanto che nella specie il credito potesse essere collocato in prededuzione, in virtù della constatazione che il concordato, pur dichiarato ammissibile e votato dai creditori, non era stato omologato per difetto di fattibilità giuridica della proposta;

che tale affermazione trova smentita in una recente pronuncia di questa Corte, che, in riferimento ad una fattispecie analoga quella in esame, in cui l’ammissione al concordato preventivo era stata revocata per difetto di fattibilità giuridica della proposta, ha ribadito il principio secondo cui la verifica del nesso di funzionalità/strumentalità deve essere compiuta controllando se l’attività professionale prestata possa essere ricondotta nell’alveo della procedura concorsuale minore e delle finalità dalla stessa perseguite secondo un giudizio ex ante, indipendentemente dall’evoluzione fallimentare della vicenda concorsuale;

che, a sostegno di tale conclusione, è stata posta in risalto la ratio dello art. 111, comma 2, osservandosi che l’estensione della prededucibilità a tutti i crediti sorti in funzione di precedenti procedure concorsuali costituisce un’eccezione al principio della par condicio creditorum, introdotta per favorire il ricorso a forme di soluzione concordata della crisi d’impresa, e quindi priva di restrizioni, e concludendosi quindi che la funzionalità è ravvisabile ogni qualvolta le prestazioni compiute dal terzo, per il momento e il modo con cui sono state assunte in un rapporto obbligatorio con il debitore, confluiscano nel disegno di risanamento da quest’ultimo predisposto, in modo da rientrare in una complessiva causa economico-organizzativa almeno preparatoria di una procedura concorsuale, a meno che non ne risulti dimostrato il carattere sovrabbondante o superfluo rispetto all’iniziativa assunta (cfr. Cass., Sez. I, 19/02/2019, n. 4859);

che, nella medesima ottica, non può ritenersi condivisibile l’affermazione del decreto impugnato, secondo cui, anche a voler valutare l’operato del professionista sotto il profilo dell’adempimento contrattuale, il compenso andrebbe escluso o ridotto, alla luce dell’inadempimento o dell’inesatto adempimento, tenendo conto del fatto che l’attività prevista dall’incarico professionale, proprio a cagione dell’anticipato arresto della procedura di concordato, non sia stata portata a compimento;

che, con riguardo all’ipotesi in cui l’incarico del professionista sia culminato nella presentazione della domanda, cui abbia fatto seguito l’apertura della procedura, questa Corte ha infatti ritenuto che non possa negarsi la nascita del diritto al compenso in favore del professionista, chiarendo che l’eccezione di inadempimento eventualmente formulata dal curatore in sede di ammissione al passivo può trovare accoglimento solo in quanto sia stato precisato il concreto pregiudizio prodotto da eventuali inesattezze contenute nella domanda, posto che tali inesattezze non hanno pregiudicato l’astratta idoneità della stessa a realizzare il risultato dell’apertura del concordato (cfr. Cass., Sez. I, 24/09/2018, n. 22467);

che, quanto infine al rapporto di consecuzione tra le procedure concorsuali, il cui accertamento non postula un’apposita eccezione di parte, trattandosi di un presupposto di fatto indispensabile per il riconoscimento della prededuzione, l’intervallo di tempo eventualmente intercorso tra la proposizione della domanda di concordato e l’apertura del fallimento non determina di per sé una soluzione di continuità fra le procedure, che costituiscono di norma espressione della medesima crisi economica dell’impresa, a meno che detto intervallo non costituisca uno degli elementi dimostrativi della variazione dei presupposti (soggettivi ed oggettivi) dell’unificazione delle procedure (cfr. Cass., Sez. I, 28/07/1999, n. 8164; 14/12/1998, n. 12536);

che, in applicazione dei predetti principi, il decreto impugnato va pertanto cassato, con il conseguente rinvio della causa al Tribunale di Arezzo, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il ricorso; cassa il decreto impugnato; rinvia al Tribunale di Arezzo, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 28 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 11 dicembre 2019

Cass. civ. Sez. VI 1 Ord. 11_12_2019 n. 32417




Ammissione al passivo fallimentare

Ammissione al passivo fallimentare: prescrizione del credito tributario eccepita dal curatore

Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Civili, Sentenza n. 34447 del 24/12/2019

Con sentenza del 24 dicembre 2019, la Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Civile, in tema di recuperato crediti ha stabilito che, ove, in sede di ammissione al passivo fallimentare, sia eccepita dal curatore la prescrizione del credito tributario maturata successivamente alla notifica della cartella di pagamento, che segna il consolidamento della pretesa fiscale e l’esaurimento del potere impositivo, viene in considerazione un fatto estintivo dell’obbligazione tributaria di cui deve conoscere il giudice delegato in sede di verifica dei crediti e il tribunale in sede di opposizione allo stato passivo e di insinuazione tardiva, e non il giudice tributario.


Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Civili, Sentenza n. 34447 del 24/12/2019

Ammissione al passivo fallimentare: prescrizione del credito tributario eccepita dal curatore

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Primo Pres. f. f. –

Dott. __ – Presidente Sezione –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

R. S.p.A. (già S. S.p.A.) – ricorrente –

contro

Curatela del Fallimento di G. – controricorrente –

avverso il decreto n. __ del TRIBUNALE di PALERMO, depositata il __.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere __;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale __, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avv. __ per delega dell’Avv. __.

Svolgimento del processo

1.- R. S.p.A., già S. S.p.A., ha proposto ricorso per cassazione avverso il decreto del 18 febbraio 2014 con cui il Tribunale di Palermo, nel giudizio L.F., ex art. 98, instaurato dal concessionario per la riscossione, confermando la statuizione del giudice delegato, ha ammesso i propri crediti al passivo del Fallimento di G. solo parzialmente, essendo taluni prescritti (alcuni dei quali relativi a tasse automobilistiche), visto il tempo trascorso dopo la notifica delle cartelle non opposte.

2.- La curatela del Fallimento G. ha resistito con controricorso e memoria.

3.- Con ordinanza interlocutoria n. 20050 del 24 luglio 2019 la Prima Sezione ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite sulla questione di giurisdizione posta nel primo motivo.

Motivi della decisione

1.- La Riscossione Sicilia denuncia con il primo motivo di ricorso violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere il tribunale dichiarato la parziale estinzione dei crediti erariali fatti valere dal concessionario per l’avvenuto decorso del termine prescrizionale, pur essendo privo di giurisdizione in materia.

La ricorrente deduce in tal modo una questione attinente alla giurisdizione, potenzialmente assorbente rispetto all’esame del secondo motivo: il giudice delegato e successivamente il tribunale, investito dell’opposizione L.F., ex art. 98, conoscendo dell’eccezione di prescrizione sollevata dalla curatela fallimentare, avrebbero debordato dai limiti della giurisdizione propria, discostandosi dal principio secondo cui spetta al giudice tributario, che è fornito di giurisdizione sull’obbligazione tributaria, conoscere dell’eccezione di prescrizione, anche se maturata successivamente alla notifica della cartella di pagamento, quale fatto estintivo dell’obbligazione stessa, ipotesi non riconducibile all’esenzione prevista dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, (che riserva alla giurisdizione del giudice ordinario, e quindi fallimentare, le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento), atteso che la cartella o il sollecito di pagamento non possono essere qualificati come atti dell’esecuzione forzata.

Il motivo pone dunque la questione se siano riservate alla giurisdizione tributaria le controversie riguardanti, tra i fatti estintivi dell’obbligazione tributaria, la prescrizione maturata successivamente alla notifica della cartella di pagamento.

2.- La Prima Sezione con la richiamata ordinanza interlocutoria dubita della persistente validità dell’orientamento, espresso anche dalle Sezioni Unite (n. 14648 del 2017, sez. L. n. 15717 del 2019, sez. 6-1 n. 21483 del 2015), secondo cui qualora, in sede di ammissione al passivo fallimentare, il curatore eccepisca la prescrizione del credito tributario maturata successivamente alla notifica della cartella, viene in considerazione un fatto estintivo dell’obbligazione che involge l’an ed il quantum del tributo, sicché la giurisdizione sulla relativa controversia spetta al giudice tributario, con la conseguenza che il giudice delegato deve ammettere il credito in oggetto con riserva, anche in assenza di una richiesta di parte in tal senso.

La Sezione osserva, in sintesi, che, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 114 del 2018, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 57, comma 1, lett. a), come sostituito dal D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, art. 16, – nella parte in cui prevede che, nelle controversie riguardanti gli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento o all’avviso di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 50, non sono ammesse le opposizioni regolate dall’art. 615 c.p.c., non vi sarebbe più quel vuoto di tutela che aveva indotto la giurisprudenza ad indirizzare verso la giurisdizione tributaria le controversie aventi ad oggetto questioni e fatti successivi alla notifica della cartella (come la prescrizione), quindi a valle della notifica della cartella, che segna il limite della giurisdizione del giudice tributario, a norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2.

Il quesito posto dall’ordinanza di rimessione è, quindi, se rientri nella giurisdizione del giudice delegato in sede di verifica dei crediti e del tribunale in sede di opposizione allo stato passivo, ovvero del giudice tributario (nel qual caso il credito dovrebbe essere ammesso al passivo del fallimento con riserva), giudicare sulla fondatezza dell’eccezione di prescrizione dei crediti tributari sollevata dal curatore, verificatasi successivamente alla notifica della cartella di pagamento.

3.- Il Collegio ritiene di non poter dare continuità all’orientamento sopra menzionato per le seguenti considerazioni.

3.1- La tesi cui si ispira detto orientamento è che il giudice tributario, la cui giurisdizione si estende a tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere o specie (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2), sia l’unico giudice competente a decidere ogni controversia relativa all’an e al quantum del tributo dovuto, ivi compresa la prescrizione del credito tributario maturata successivamente alla formazione del titolo esecutivo racchiuso nella cartella esattoriale (Cass. SU n. 23832 del 2007, richiamata dalle SU n. 14648 del 2017 e n. 8770 del 2016).

Al suddetto giudice si assume riservata, quale giudice esclusivo del rapporto tributario, ogni controversia sulla interpretazione e applicazione delle leggi tributarie, tra le quali implicitamente dovrebbero rientrare quelle concernenti la ricognizione dei termini legali di prescrizione dei diversi tributi e la verifica in concreto del loro decorso ai fini dell’estinzione di ogni pretesa fiscale, così come in via consequenziale la verifica della eventuale e successiva soddisfazione del credito tributario (Cass. n. 10668 del 2019), sul presupposto che ad essere in discussione sia, in definitiva, pur sempre la debenza del tributo. In logica coerenza con questa impostazione è il principio secondo cui la giurisdizione del giudice tributario include anche la controversia relativa all’opposizione all’esecuzione attuata con il pignoramento presso terzi, quando oggetto del giudizio sia la perdurante fondatezza del titolo esecutivo, non rilevando la formale qualificazione del pignoramento come atto dell’esecuzione (Cass. SU n. 14667 del 2011, in tema di tasse automobilistiche).

  1. – Questa tesi potrebbe condividersi se il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, come sostituito dalla L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 12, comma 2, non prevedesse che “Restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove previsto, dell’avviso di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 50, (…)”, in disparte la questione della vigenza dell’art. 9 c.p.c.

La notifica della cartella di pagamento non impugnata (o vanamente impugnata) dal contribuente nel giudizio tributario determina il consolidamento della pretesa fiscale e l’apertura di una fase che, per chiara disposizione normativa, sfugge alla giurisdizione del giudice tributario, non essendo più in discussione l’esistenza dell’obbligazione tributaria né il potere impositivo sussumibile nello schema potestà-soggezione che è proprio del rapporto tributario (non tutte le controversie nelle quali abbia incidenza una norma fiscale si trasformano in controversie tributarie di competenza delle relative commissioni, come rilevato da Cass. SU n. 7526 del 2013).

Il processo tributario è annoverabile tra i processi di impugnazione-merito, in quanto, pur essendo diretto alla pronuncia di una decisione sul merito della pretesa tributaria, postula pur sempre l’esistenza di un atto da impugnare in un termine perentorio e da eliminare dal mondo giuridico (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19), che sarebbe arduo ricercare quando il debitore intenda far valere fatti estintivi della pretesa erariale maturati successivamente alla notifica della cartella di pagamento, come la prescrizione, al solo fine di paralizzare la pretesa esecutiva dell’ente creditore.

Neppure si potrebbe individuare l’atto da impugnare, come sostenuto dalla ricorrente, nell’estratto di ruolo rilasciato dal concessionario della riscossione su richiesta del contribuente, la cui impugnazione è stata ammessa per consentire a quest’ultimo di impugnare la cartella di pagamento di cui non abbia avuto conoscenza a causa della invalidità o mancanza della relativa notifica (Cass. SU n. 19704 del 2015, sez. V n. 22507 del 2019). Quando, invece, la cartella sia stata notificata e la relativa pretesa tributaria sia divenuta definitiva, dei successivi fatti estintivi della pretesa tributaria competente a giudicare è il giudice ordinario, quale giudice dell’esecuzione, cui spetta l’ordinaria verifica dell’attualità del diritto dell’ente creditore di procedere all’esecuzione forzata.

4.1.- Argomenti a conferma dell’impostazione cui si aderisce provengono dalla sentenza della Corte costituzionale n. 114 del 2018, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 57, comma 1, lett. a), come sostituito dal D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 16, nella parte in cui non prevede che, nelle controversie che riguardano gli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento o all’avviso di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 50, siano ammesse le opposizioni regolate dall’art. 615 c.p.c.

La Corte premette che “la linea di demarcazione della giurisdizione (è) posta dalla cartella di pagamento e dall’eventuale successivo avviso recante l’intimazione ad adempiere: fino a questo limite la cognizione degli atti dell’amministrazione, espressione del potere di imposizione fiscale, è devoluta alla giurisdizione del giudice tributario; a valle, la giurisdizione spetta al giudice ordinario e segnatamente al giudice dell’esecuzione”; quindi osserva che “È questo un criterio di riparto della giurisdizione; ma la sommatoria della tutela innanzi al giudice tributario e di quella innanzi al giudice (ordinario) dell’esecuzione deve realizzare per il contribuente una garanzia giurisdizionale a tutto tondo: in ogni caso deve esserci una risposta di giustizia perché siano rispettati gli artt. 24 e 113 Cost.”.

La Corte, quindi, si interroga se il divieto del rimedio di cui all’art. 615 c.p.c. (ferma l’ammissibilità dell’opposizione riguardante la pignorabilità dei beni) sia compatibile con la Costituzione ed offre al quesito una duplice risposta, una in termini affermativi, un’altra in termini negativi:

la prima si giustifica quando la prevista inammissibilità dell’opposizione all’esecuzione, (riguardando) atti che radicano la giurisdizione del giudice tributario, non segna una carenza di tutela del contribuente assoggettato a riscossione esattoriale, perché questa c’è comunque innanzi ad un giudice, quello tributario, assicurandosi in tal modo la continuità della tutela giurisdizionale; ed infatti in questa parte l’art. 57 va raccordato con il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, che demanda alla giurisdizione del giudice tributario le contestazioni del titolo (normalmente, la cartella di pagamento) su cui si fonda la riscossione esattoriale. Se il contribuente contesta il titolo della riscossione coattiva, la controversia così introdotta appartiene alla giurisdizione del giudice tributario e l’atto processuale di impulso è il ricorso il D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 19, proponibile avverso il ruolo e la cartella di pagamento, e non già l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. (…); altrimenti detto, l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., – che non è soggetta a termine di decadenza – in tanto non è ammissibile, come prescrive l’art. 57 citato, in quanto non ha, e non può avere, una funzione recuperatoria di un ricorso del D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 19, non proposto affatto o non proposto nel prescritto termine di decadenza (di sessanta giorni);

la seconda risposta, in termini negativi, si spiega in ragione del fatto che l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. è inammissibile non solo nell’ipotesi in cui la tutela invocata dal contribuente, che contesti il diritto di procedere a riscossione esattoriale, ricada nella giurisdizione del giudice tributario e la tutela stessa sia attivabile con il ricorso il D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 19, ma anche allorché la giurisdizione del giudice tributario non sia invece affatto configurabile e non venga in rilievo perché si è a valle dell’area di quest’ultima (…): in tal caso c’è una carenza di tutela giurisdizionale giudicata costituzionalmente non tollerabile perché il censurato art. 57 non ammette siffatta opposizione innanzi al giudice dell’esecuzione e non sarebbe possibile il ricorso al giudice tributario perché, in tesi, carente di giurisdizione.

4.2- Per quanto interessa in questa sede, la giurisdizione del giudice ordinario sussiste dunque in tutte le controversie che si collocano a valle della notifica della cartella di pagamento, dove non v’è spazio per la giurisdizione del giudice tributario il D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 2 e l’azione esercitata dal contribuente assoggettato alla riscossione, che non riguardi la mera regolarità formale del titolo esecutivo o di atti della procedura, deve qualificarsi come opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., essendo contestato il diritto di procedere a riscossione coattiva (sentenza n. 114 del 2018). È questo il modo per colmare la carenza di tutela giurisdizionale che è all’origine della incostituzionalità del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 57, che si spiega in ragione del fatto che non era ammessa siffatta opposizione innanzi al giudice dell’esecuzione, pur non essendo ammissibile il ricorso al giudice tributario, in quanto privo di giurisdizione.

4.3- Tra le altre evenienze che si collocano a valle della notifica della cartella di pagamento, in cui la doglianza del contribuente sia diretta a contestare il diritto di procedere a riscossione coattiva mediante l’opposizione ex art. 615 c.p.c., la Corte costituzionale menziona le ipotesi dell’intervenuto adempimento del debito tributario o di una sopravvenuta causa di estinzione dello stesso per essersi il contribuente avvalso di misure di favore per l’eliminazione del contenzioso tributario, quale, ad esempio, la cosiddetta rottamazione (…) e non v’è ragione di non ricomprendervi l’estinzione del credito tributario per intervenuta prescrizione maturata successivamente alla notifica della cartella.

4.4- L’ammissibilità delle opposizioni regolate dall’art. 615 c.p.c. (tra le quali è compresa anche l’opposizione a precetto) dinanzi al giudice dell’esecuzione per contestare il diritto di procedere alla riscossione coattiva, sulla base di fatti estintivi sopravvenuti alla formazione del titolo e, quindi, a valle della notifica della cartella di pagamento, è coerente con la natura di quest’ultima che, a norma del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, assolve in un solo atto le funzioni svolte dalla notificazione del titolo esecutivo e del precetto nella espropriazione forzata codicistica (tra le tante, Cass., sez. III, n. 3021 del 2018).

Se è vero che la cartella è configurabile come atto di riscossione e non di esecuzione forzata (Cass. SU n. 5994 del 2012) e che la giurisdizione tributaria si arresta solo di fronte agli atti di esecuzione forzata tra i quali non rientrano né le cartelle esattoriali né gli avvisi di mora (Cass. SU n. 17943 del 2009), è anche vero che per espressa disposizione normativa (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2) la notifica della cartella è un dato rilevante ai fini della giurisdizione, determinando il sorgere della giurisdizione del giudice ordinario, l’unico competente a giudicare dei fatti, successivamente intervenuti, estintivi e modificativi del credito tributario cristallizzato nella cartella.

4.5- Pertanto, accogliendo l’eccezione di prescrizione del credito azionato da R., il giudice delegato in sede di verifica dei crediti e il tribunale in sede di opposizione allo stato passivo e di insinuazione tardiva, non hanno debordato dalla giurisdizione propria, non dubitandosi della natura di procedura esecutiva di carattere universale della procedura concorsuale. Come rilevato nell’ordinanza di rimessione, è dunque in sede fallimentare, nel procedimento di verifica del passivo, che vengono definite le questioni inerenti i fatti sopravvenuti alla formazione del titolo esecutivo (nel caso di specie cartella esattoriale) posto a fondamento del credito insinuato, le quali nell’esecuzione individuale vengono fatte valere con lo strumento dell’opposizione all’esecuzione, ai sensi dell’art. 615 c.p.c.

4.6- Il primo motivo di ricorso è dunque rigettato, alla luce del seguente principio: ove, in sede di ammissione al passivo fallimentare, sia eccepita dal curatore la prescrizione del credito tributario maturata successivamente alla notifica della cartella di pagamento, che segna il consolidamento della pretesa fiscale e l’esaurimento del potere impositivo, viene in considerazione un fatto estintivo dell’obbligazione tributaria di cui deve conoscere il giudice delegato in sede di verifica dei crediti e il tribunale in sede di opposizione allo stato passivo e di insinuazione tardiva, e non il giudice tributario.

5.- Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. il 26 aprile 1986, n. 131, art. 78 e art. 2946 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere il tribunale omesso di considerare che il termine prescrizionale applicabile alla fattispecie de quo non era quello quinquennale, bensì quello decennale, essendo le cartelle state regolarmente notificate e non opposte e, quindi, essendo la pretesa tributaria divenuta definitiva.

5.1- Il motivo è infondato. Esso ripropone una tesi difforme dall’orientamento seguito nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui la scadenza del termine perentorio sancito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo, o comunque di riscossione coattiva, produce l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito ma, ove per i relativi crediti sia prevista una prescrizione (sostanziale) più breve di quella ordinaria, la sola scadenza del suddetto termine non consente di ritenere applicabile il termine prescrizionale decennale di cui all’art. 2953 c.c., tranne che in presenza di un accertamento divenuto definitivo per il passaggio in giudicato della sentenza (Cass. SU n. 23397 del 2016, sez. V n. 8105 del 2019).

6.- In conclusione, il ricorso è rigettato.

Le spese devono essere compensate, in considerazione della complessità della questione trattata e della novità del principio enunciato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 3 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 dicembre 2019

Cass. civ. Sez. Unite 24_12_2019 n. 34447




Il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo è un ordinario giudizio di cognizione

Il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo è un ordinario giudizio di cognizione

Tribunale Ordinario di Roma, Sezione XVI Civile, Sentenza del 06/12/2019

Con sentenza del 6 dicembre 2019, il Tribunale Ordinario di Roma, Sezione XVI Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, regolato dagli artt. 645 e ss. c.p.c., è un ordinario giudizio di cognizione, in quanto tale soggetto alle regole generali in tema di ripartizione dell’onere probatorio.

 


Tribunale Ordinario di Roma, Sezione XVI Civile, Sentenza del 06/12/2019

Il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo è un ordinario giudizio di cognizione

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI ROMA

SEZIONE XVI CIVILE

Il Tribunale, in persona del Giudice Unico, dott.ssa __, ha emesso la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I grado iscritta al n. __ R.G., trattenuta in decisione all’udienza del __ e vertente

TRA

F. S.r.l. – Opponente

E

I. S.r.l. – Opposta

OGGETTO: Inadempimento contrattuale.

Svolgimento del processo

– Con ricorso monitorio del __, la I. S.r.l. -premesso di essere creditrice della F. S.r.l. della somma di Euro __ a titolo di corrispettivo per la fornitura di beni- chiedeva al Tribunale di ingiungere il pagamento del suindicato importo, oltre interessi ex art. 5 D. Lgs. n. 231 del 2002 dalla data di scadenza dei singoli pagamenti sino al soddisfo.

– In data __, il Tribunale adito emetteva, così come richiesto, il decreto ingiuntivo n. __.

– Con atto di citazione, ritualmente notificato, la F. S.r.l. proponeva opposizione al suddetto decreto ingiuntivo, del quale chiedeva la revoca per i seguenti motivi:

– carenza di prova del credito ingiunto, atteso che la opponente non aveva mai avuto alcun contatto con la società opposta, né aveva mai ricevuto alcuna merce dalla I. S.r.l. In particolare, la fornitura era avvenuta in favore della L. con sede in __, e non in favore della F. S.r.l.;

– annullabilità del decreto ingiuntivo, in quanto la procura alle liti era stata apposta a margine del ricorso monitorio, ciò non essendo consentito dalla normativa sul processo civile telematico.

– Si costituiva in giudizio la I. S.r.l., la quale chiedeva il rigetto dell’opposizione e la concessione della provvisoria esecuzione del decreto opposto ex art. 648 c.p.c., atteso che:

– la procura alle liti era stata regolarmente depositata in via telematica tra gli allegati al ricorso monitorio, depositato in formato pdf nativo e firmato digitalmente;

– la prova della corretta esecuzione delle prestazioni emergeva dal deposito, in sede di giudizio di opposizione, dei documenti di trasporto relativi alle fatture azionate, sottoscritti per ricezione da parte della opponente, la quale, del resto, aveva sempre accettato le forniture ricevute senza muovere alcuna contestazione;

– in particolare, la merce di cui alla fattura n. (…) del __ era stata ordinata dalla F. S.r.l., la quale si era impegnata al relativo pagamento, incaricando la I. S.r.l. di curarne il trasporto;

– il rapporto tra le due società era stato evidenziato dallo stesso G., amministratore e socio unico della F. S.r.l., in dichiarazioni rese alla Guardia di Finanza.

La I. S.r.l. chiedeva, infine, la condanna dell’opponente ai sensi dell’art. 96, terzo comma, c.p.c., lamentando che la stessa avesse adottato una condotta contraria alle regole di buona fede e correttezza.

– Con ordinanza riservata del __, veniva concessa la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto.

– Con successiva ordinanza del __, non veniva autorizzata la proposizione della querela di falso incidentale, avverso la firma apposta sul documento di trasporto n. __, emesso dalla I. S.r.l. in data __; nonché avverso le fatture nn. (…) e (…)emesse dalla I. S.r.l.

Motivi della decisione

1 – L’opposizione proposta dalla F. S.r.l. è infondata e va rigettata.

Prima di procedere all’esame della fattispecie concreta, giova ricordare che il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, regolato dagli artt. 645 e ss. c.p.c., è un ordinario giudizio di cognizione, in quanto tale soggetto alle regole generali in tema di ripartizione dell’onere probatorio (artt. 2697 e ss. c.c.). Pertanto, anche in seno a tale procedimento, il creditore-opposto che agisca per l’adempimento dell’obbligazione – dopo aver provato la fonte, legale o negoziale, della sua pretesa – può limitarsi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento del debitore-opponente; gravando su quest’ultimo l’onere di provare di aver estinto il rapporto obbligatorio ovvero la ricorrenza di altri fatti modificativi o impeditivi della pretesa creditoria (in tal senso, Cass. Civ. Sezioni Unite, 30 ottobre 2001, n. 13533; conformi, ex plurimis, Cass. Civ., Sez. I, 13 giugno 2006, n. 13674; Cass. Civ., Sez. III, 12 aprile 2006, n. 8615).

Tali fondamentali principi vanno coordinati con il disposto dell’art. 115 c.p.c. che, enunciando il principio dispositivo e di non contestazione, impone al giudice di ritenere provati i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita, astenendosi “da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato acquisito al materiale processuale … in quanto l’atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti” (Cass. n. 5356/2009).

È infine opportuno ricordare che, a mente dell’art. 214 c.p.c., la parte che intende disconoscere la scrittura o la sottoscrizione di una scrittura privata contro di lei prodotta, è tenuta a negare formalmente la propria scrittura o sottoscrizione nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione, al fine di evitare che la stessa si abbia per tacitamente riconosciuta ex art. 215 c.p.c.

2 – Ciò premesso, nel presente giudizio la I. srl. ha chiesto l’emissione del decreto ingiuntivo opposto, al fine di ottenere il pagamento del corrispettivo pattuito per una fornitura di beni eseguita in favore della F. S.r.l.

Per contro, la opponente ha sostenuto che le somme richieste non sarebbero dovute, atteso che il rapporto commerciale, oggetto delle fatture azionate, sarebbe intercorso con un’altra società, la L.

Gravava, quindi, sulla società opposta (attore in senso sostanziale) dare completa dimostrazione della sussistenza della fonte negoziale della propria pretesa e, cioè, della conclusione del contratto di compravendita di beni con la F. S.r.l.

3 – Orbene, occorre innanzitutto ricordare che, secondo il costante orientamento della Suprema Corte, l’opposizione al decreto ingiuntivo non è un’impugnazione del decreto, volta a farne valere vizi ovvero originarie ragioni di invalidità, ma dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione di merito, volto all’accertamento dell’esistenza del diritto di credito fatto valere dal creditore.

Di conseguenza, appare irrilevante nella presente sede ogni contestazione in ordine alla asserita mancanza dei presupposti per l’emissione del decreto ingiuntivo opposto.

E comunque, quanto alla eccepita nullità della procura, si deve evidenziare che la procura alle liti risulta rilasciata dalla società opposta anche a margine della comparsa di costituzione nel presente giudizio, ciò essendo sufficiente a sanare – quand’anche sussistenti – eventuali irregolarità, che comunque sarebbero meramente formali.

4 – Passando all’esame del merito, a dimostrazione della propria pretesa creditoria, la società opposta ha depositato oltre alla copia autentica del registro vendite, anche la copia delle fatture relative alle merci in questione, nonché i documenti di trasporto e consegna delle merci suindicate. Su tali documenti, attestanti la consegna della merce (indicata nelle fatture azionate) alla società F. S.r.l., risulta apposta la sottoscrizione del destinatario.

Ebbene, se è vero che, come è noto, la fattura commerciale, per la sua formazione unilaterale e la sua inerenza ad un rapporto già formato tra le parti, ha natura di atto partecipativo e non di prova documentale, potendo valere al più come indizio circa l’esistenza del credito in essa riportato (cfr., da ultimo, Cassazione civile, sez. II, 10 ottobre 2011, n. 20802), i documenti di trasporto che siano stati sottoscritti dal destinatario per accettazione della merce costituiscono documenti idonei a fornire una prova adeguata, nell’ambito di un giudizio a cognizione piena, del rapporto negoziale e, dunque, dell’avvenuto adempimento dell’obbligazione di consegna della merce.

Ciò posto, la F. S.r.l. – nella prima memoria ex art. 183, comma 6 c.p.c. – ha ribadito di non aver mai ricevuto le merci ivi indicate ed ha disconosciuto le sottoscrizioni ivi apposte, in quanto non riferibili all’istante.

Sempre sulla base di tale argomentazione, nel corso del giudizio, G., quale legale rappresentante della parte opponente F. S.r.l., ha proposto querela di falso in via incidentale avverso la firma apposta sul documento di trasporto n. __, emesso dalla I. S.r.l. in data __; nonché avverso le fatture nn. (…) e (…) emesse dalla I. S.r.l., sostenendo che tali documenti non sarebbero mai stati sottoscritti né dal predetto, né da personale della società e che la merce ivi indicata non sarebbe mai stata negoziata tra le parti.

Orbene, quanto, al disconoscimento relativo alle sottoscrizioni che compaiono sui documenti di trasporto, questo appare irrilevante ai fini del decidere, atteso che la merce può essere consegnata anche a soggetti diversi dal legale rappresentante della società ordinante, ben potendo il contratto concludersi anche qualora la merce venga ritirata da soggetti a tal fine preposti.

Di conseguenza, il disconoscimento effettuato dalla parte opponente e fondato sulla mera non riconducibilità al legale rappresentante della F. S.r.l. delle sottoscrizioni apposte sui documenti di trasporto non risulta decisivo.

Peraltro, tali documenti costituiscono scritture private provenienti da terzi estranei alla lite (ancorché eventualmente legati alla parte da rapporti di lavoro) e, come tali, possono essere liberamente contestate dalle parti, non applicandosi alle stesse né la disciplina sostanziale di cui all’art. 2702 c.c., né quella processuale di cui all’art. 214 c.p.c., atteso che esse costituiscono prove atipiche il cui valore probatorio è meramente indiziario, e che possono, quindi, contribuire a fondare il convincimento del giudice unitamente agli altri dati probatori acquisiti al processo (cfr., in tal senso, Cassazione civile, sez. un., 23 giugno 2010, n. 15169; ma si veda, altresì, Cassazione civile, sez. II, 30 ottobre 2003, n. 16362).

Tuttavia, nel caso in esame, neanche i capitoli di prova testimoniale articolati dalla società opponente appaiono decisivi, considerato che essi sono finalizzati esclusivamente a dimostrare che il materiale indicato nelle fatture azionate sia stato utilizzato da altra società e non dalla F.I. srl., ma nulla viene detto in relazione ai soggetti che ritirarono la merce e che sottoscrissero i documenti di trasporto ed in relazione a chi effettuò l’ordine della merce.

Sulla base delle medesime argomentazioni, poi, non è stata autorizzata la proposizione della querela di falso.

Ed infatti, ai sensi dell’art. 222 c.p.c., il giudice autorizza la proposizione della querela di falso in via incidentale quando ritiene che il documento impugnato di falso sia rilevante ai fini della decisione della controversia pendente tra le parti;

Tuttavia, l’accertamento della asserita falsità della sottoscrizione apposta sui documenti impugnati di falso non appare rilevante ai fini della decisione della presente controversia per le medesime ragioni già esposte. Peraltro, anche i capitoli di prova articolati nella querela di falso appaiono inammissibili, non essendo essi finalizzati alla dimostrazione della asserita falsità della sottoscrizione, bensì riguardando aspetti fattuali che dovevano essere oggetto di richieste istruttorie formulate entro la scadenza del secondo termine ex art. 183, comma 6 c.p.c.

5 – Sicché, la documentazione prodotta dalla società opposta appare idonea a dimostrare la sussistenza del rapporto contrattuale tra le parti, avente ad oggetto la vendita della merce indicata nelle fatture azionate e nelle relative bolle di consegna.

Per contro, non risulta suffragata da alcun supporto probatorio, la affermazione della parte opponente, secondo cui la fornitura di beni sarebbe stata in realtà eseguita in favore di altra società.

Sulla base di tutte le suesposte considerazioni, quindi, l’opposizione proposta dalla F. S.r.l. va rigettata, con conseguente conferma del decreto ingiuntivo opposto, peraltro già dichiarato provvisoriamente esecutivo.

Quanto alla domanda di condanna ex art. 96 c.p.c., si osserva quanto segue. Si ritiene che nel caso di specie, per il tenore della domanda attorea e per il comportamento processuale delle parti, sussistano i presupposti per poter far uso del potere officioso ex art. 96, comma 3, c.p.c. Come è ormai noto, si tratta di un meccanismo di natura tipicamente sanzionatoria introdotto dalla L. n. 69 del 2009, in considerazione del danno che con l’abuso dello strumento processuale viene arrecato non solo alla controparte, ma indirettamente anche all’erario, con la congestione degli uffici giudiziari, l’incremento del rischio del superamento del canone costituzionale della ragionevole durata del processo ed il pericolo di condanna dello Stato alla corresponsione dell’indennizzo ex L. n. 89 del 2001. Come è stato sottolineato dalla S.C., con l’art. 96, comma 3, c.p.c. è stato introdotto nell’ordinamento processuale il potere del giudice di applicare una vera e propria pena pecuniaria di natura privata, indipendente sia dalla domanda di parte, sia dalla prova del danno causalmente derivato alla condotta processuale dell’avversario (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 17902 del 30/07/2010). È pertanto sufficiente che sussistano i requisiti della totale soccombenza e della condotta censurabile sotto il profilo dell’abuso dello strumento processuale.

Sotto quest’ultimo profilo, si deve osservare che l’opponente ha fondato il presente giudizio unicamente sulle generiche contestazioni sopra riportate; ha inoltre affermato che l’opposta, a sostegno della propria richiesta, aveva prodotto unicamente le fatture commerciali, quando dal semplice esame del fascicolo del monitorio sarebbe stato possibile appurare che agli atti vi era anche l’estratto autentico del libro IVA. Inoltre, con la comparsa di costituzione, sono stati prodotti anche i documenti di trasporto. La opponente, inoltre, non ha depositato documenti ulteriori e rilevanti. Il tenore delle difese ed il successivo comportamento processuale evidenziano la natura dilatoria della presente opposizione e legittimano l’applicazione della sanzione di cui al terzo comma dell’art. 96 c.p.c.

Quanto alla determinazione del quantum, ritiene il Tribunale di poter fare ricorso al criterio equitativo (cfr. in proposito Cass. Sez. 6-2, Ordinanza n. 21570 del 30/11/2012) e di poter quindi liquidare in favore della convenuta la somma di Euro 5.355,00, pari all’importo delle spese legali liquidate.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, tenuto conto del valore medio dello scaglione di riferimento.

P.Q.M.

Il Giudice Unico del Tribunale di Roma, definitivamente pronunciando, così provvede:

  1. a) RIGETTA l’opposizione proposta dalla F. S.r.l. e, per l’effetto, CONFERMA il decreto ingiuntivo opposto n. __, emesso dal Tribunale di Roma in data __;
  2. b) CONDANNA la F. S.r.l., alla rifusione, in favore dell’avv. __, delle spese di giudizio, che liquida in Euro __ per compensi ex D.M. n. 55 del 2014, oltre rimborso forfettario ed accessori come per legge;
  3. c) CONDANNA la F. S.r.l. a pagare alla I. S.r.l. ex art. 96, comma III, c.p.c. la somma di Euro __.

Così deciso in Roma, il 3 dicembre 2019.

Depositata in Cancelleria il 6 dicembre 2019.

Tribunale Roma Sez. XVI Sent. 06_12_2019

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Composizione della crisi da sovraindebitamento

 Composizione della crisi da sovraindebitamento: il giudice non può imporre al debitore il deposito preventivo di una somma per le spese

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 34105 del 19/12/2019

Con ordinanza del 19 dicembre 2019, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in tema di composizione della crisi da sovraindebitamento di cui alla legge n. 3 del 2012 ha stabilito che, il giudice non può, in assenza di una specifica norma che lo consenta, imporre al debitore, a pena di inammissibilità, il deposito preventivo di una somma per le spese che si presumono necessarie ai fini della procedura, potendo semmai disporre acconti sul compenso finale spettante all’organismo di composizione della crisi, ai sensi dell’art. 15 del D.M. 24 settembre 2014, n. 202, tenendo conto delle circostanze concrete e, in particolare, della consistenza dei beni e dei redditi del debitore in vista della fattibilità della proposta di accordo o del piano del consumatore, anche ai sensi dell’art. 8, comma 2, della legge n. 3 del 2012.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 34105 del 19/12/2019

Composizione della crisi da sovraindebitamento: il giudice non può imporre al debitore il deposito preventivo di una somma per le spese

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. ____ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

F., in proprio ed in qualità di liquidatore della S. & C. S.n.c. e R. – ricorrenti –

contro

M.; S. – intimati –

avverso il decreto del TRIBUNALE di URBINO, depositato il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal cons. Dott. __.

Svolgimento del processo

  1. Con il provvedimento impugnato il Tribunale di Urbino ha rigettato il reclamo proposto dalla società S. & C. S.n.c. in liquidazione, e dai soci F. e R., avverso i decreti presidenziali di rigetto delle istanze di rateizzazione e contestuale revoca dei decreti di nomina degli Organismi di composizione della crisi da sovraindebitamento (in persona dello studio associato dei dottori M. e S.), motivati sul fatto che il mancato deposito delle somme richieste a titolo di fondo-spese – pari ad Euro __ per ciascuna delle tre procedure attivate – e la richiesta di riduzione e contestuale rateizzazione delle stesse, inducevano al ragionevole timore che difficilmente la proposta di accordo avrebbe trovato esecuzione.
  2. Avverso detto decreto i ricorrenti hanno proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
  3. Gli intimati non hanno svolto difese.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo si deduce testualmente la “Violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, in riferimento all’art. 24 Cost., dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, e della L. n. 3 del 2012 – artt. 6 e ss.”, in quanto il tribunale, rifiutando la richiesta di riduzione e rateizzazione delle esorbitanti somme di complessivi Euro __ richieste, a titolo di fondo-spese, per l’avvio delle tre procedure di composizione della crisi di sovraindebitamento avviate dalla società e dai due soci, avrebbe di fatto impedito loro l’accesso ai benefici previsti dalla L. n. 3 del 2012, finalizzata anche ad evitare il ricorso all’usura da parte dei soggetti sovraindebitati.
  2. Con il secondo mezzo si lamenta la “Violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, in riferimento alla L. n. 3 del 2012, artt. 7 e seguenti”, per essere stata ingiustamente disattesa l’ulteriore istanza di includere gli onorari previsti per l’Organismo di composizione della crisi tra le passività del piano, di cui lo stesso Organismo avrebbe dovuto verificare la fattibilità, anche al fine di verificare “possibili alternative di pagamento delle spese di procedura”.
  3. In via preliminare il ricorso va dichiarato inammissibile ex art. 111 Cost. per difetto dei caratteri di decisorietà e definitività del provvedimento impugnato.
  4. Invero, per consolidata giurisprudenza di questa Corte, tale mezzo di impugnazione straordinaria è proponibile avverso provvedimenti giurisdizionali emessi in forma di ordinanza o di decreto solo quando essi siano definitivi ed abbiano carattere decisorio, essendo in grado di incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale; di qui l’inammissibilità dell’impugnazione di provvedimenti adottati dal tribunale in sede di reclamo, pur quando se ne deduca la inesistenza, nullità o abnormità, tutte le volte in cui essi siano inidonei a conseguire efficacia di giudicato, sia dal punto di vista formale che da quello sostanziale, senza che ciò si ponga in contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost. – proprio per la loro inidoneità a incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale – e con l’art. 6 CEDU, essendo comunque garantita una duplice fase di tutela davanti a un’istanza nazionale (v. ex multis, Cass. 20954/2017, Cass. 12229/2018, Cass. 16161/2018, in tema di provvedimenti di natura cautelare, anche adottati ai fini degli accordi di ristrutturazione dei debiti L.F., ex art. 182 bis, comma 6).
  5. Tale principio è stato affermato anche nell’ambito delle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento di cui alla L. n. 3 del 2012, con specifico riguardo al “decreto reiettivo del reclamo avverso il provvedimento del giudice delegato che ha dichiarato inammissibile la proposta” (Cass. 6516/2017) e del “decreto reiettivo del reclamo avverso il provvedimento, successivo alla nomina del professionista L. n. 3 del 2012, ex art. 15, comma 9 di archiviazione della procedura” (Cass. 4497/2018).
  6. Ciò premesso, il Collegio ritiene che, ferma restando l’inammissibilità del ricorso, la questione posta meriti una pronuncia ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3.
  7. Occorre innanzitutto dare atto che nell’ambito delle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento di cui alla L. n. 3 del 2012 (come modificata dal D.L. n. 179 del 2012, convertito dalla L. n. 221 del 2012) non figurano disposizioni analoghe a quelle dettate in materia di concordato preventivo, in base alle quali: i) con il decreto di ammissione alla procedura “il tribunale stabilisce il termine non superiore a quindici giorni entro il quale il ricorrente deve depositare nella la cancelleria del tribunale la somma pari al 50% delle spese che si presumono necessarie per l’intera procedura, ovvero la diversa minor somma, non inferiore al 20 per cento di tali spese, che sia determinata dal giudice” (L.F., art. 163, comma 2, n. 4); ii) qualora non sia eseguito il suddetto deposito, il commissario giudiziale provvede a riferirne al tribunale che apre d’ufficio il procedimento per la revoca dell’ammissione al concordato (L.F., art. 163, comma 3 e art. 173, comma 1). Va altresì evidenziato come tali disposizioni non siano esplicitamente richiamate nemmeno nell’ipotesi di nomina facoltativa del commissario giudiziale in caso di deposito del ricorso contenente domanda di ammissione al concordato cd. con riserva, ai sensi dell’art. 161 c.p.c., comma 6.
  8. Anche nel Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza di cui al D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 – destinato in gran parte ad entrare in vigore dal 15 agosto 2020, con le modifiche che verranno apportate ai sensi della L. 8 marzo 2019, n. 20 (recante “Delega al Governo per l’adozione di disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi adottati in attuazione della delega per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza, di cui alla L. 19 ottobre 2017, n. 155”) – non si rinvengono disposizioni del genere nelle “Procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento” disciplinate nel Capo II, del Tit. IV, della Parte I del codice, fatto salvo il rinvio di cui all’art. 65, comma 2, in base al quale “si applicano, per quanto non specificamente previsto dalle disposizioni della presente sezione, le disposizioni del titolo III in quanto compatibili”, che potrebbe semmai legittimare l’applicazione degli artt. 44, comma 1, lett. d) e 47, comma 1, lett. d) in tema di deposito del fondo spese nelle procedure di concordato preventivo e omologazione degli accordi di ristrutturazione, previa apposita verifica di compatibilità, tenuto conto delle specifiche circostanze del caso concreto.
  9. Attualmente, in tema di compensi e spese di procedura, la L. n. 3 del 2012 si limita a prevedere (per quanto rileva in questa sede) che il debitore in stato di sovraindebitamento può proporre ai creditori un accordo di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti con l’ausilio degli organismi di composizione della crisi (art. 7, comma 1) i quali assumono ogni iniziativa funzionale alla predisposizione del piano di ristrutturazione e all’esecuzione dello stesso (art. 15, comma 5), con la precisazione che i compiti e le funzioni dell’organismo possono essere svolti anche da un professionista o una società tra professionisti in possesso dei requisiti di cui alla L.F., art. 28 ovvero da un notaio, nominati dal presidente del tribunale (o dal giudice da lui delegato) e che, sino all’entrata in vigore del regolamento previsto dal precedente comma 3, i compensi sono determinati secondo i parametri previsti per i commissari giudiziali nelle procedure di concordato preventivo, ridotti del quaranta per cento (art. 15, comma 9).
  10. Orbene, il D.M. 24 settembre 2014, n. 202 (Regolamento recante i requisiti di iscrizione nel registro degli organismi di composizione della crisi da sovraindebitamento) ha disciplinato, tra l’altro, la determinazione dei compensi e dei rimborsi spese spettanti agli organismi a carico dei soggetti che ricorrono alla procedura.

13.1. In particolare, l’art. 10 dispone (tra l’altro) che: al momento del conferimento dell’incarico l’organismo deve comunicare al debitore il grado di complessità dell’opera, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili fino alla conclusione dell’incarico e deve altresì indicare i dati della polizza assicurativa di cui all’art. 4, comma 3, lett. c) (polizza necessaria ai fini dell’iscrizione nel registro nazionale, con massimale non inferiore a un milione di Euro, per le conseguenze patrimoniali comunque derivanti dallo svolgimento del servizio di gestione della crisi); la misura del compenso è previamente resa nota al debitore con un preventivo, indicando per le singole attività tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi (comma 3); l’organismo è obbligato a portare a conoscenza dei creditori l’accordo concluso con il debitore per la determinazione del compenso (comma 4). Il successivo art. 11, comma 2, aggiunge che al gestore della crisi e ai suoi ausiliari è fatto divieto, tra l’altro, di percepire, in qualunque forma, compensi o utilità direttamente dal debitore.

13.2. A livello operativo, l’art. 14 prevede che, in difetto di accordo con il debitore che lo ha incaricato, la determinazione dei compensi e dei rimborsi spese spettanti all’organismo ha luogo secondo le disposizioni del presente capo, le quali si applicano in particolare per la determinazione dei compensi dei soggetti nominati dal giudice ai sensi della L. n. 3 del 2012, art. 15, comma 9, anche se i valori minimi e massimi indicati non sono vincolanti per la relativa liquidazione.

13.3. Infine, l’art. 15 stabilisce che per la determinazione del compenso si tiene conto dell’opera prestata, dei risultati ottenuti, del ricorso all’opera di ausiliari, della sollecitudine con cui sono stati svolti i compiti e le funzioni, della complessità delle questioni affrontate, del numero dei creditori e della misura di soddisfazione agli stessi assicurata con l’esecuzione dell’accordo o del piano del consumatore omologato ovvero con la liquidazione e che, sebbene la liquidazione così strutturata sia concretizzabile all’esito della prestazione resa, sono ammessi acconti sul compenso finale.

  1. Così ricostruite le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari, un provvedimento che condizioni la stessa ammissibilità della domanda di composizione della crisi da sovraindebitamento al deposito di un fondo spese, sostanzialmente destinato a coprire i compensi e le spese spettanti all’organismo di composizione della crisi – e, a maggior ragione, un provvedimento che neghi finanche la possibilità di una rateizzazione delle somme richieste – appare sfornito di fondamento normativo, poiché, come visto, il regime dettato dal D.M. 24 settembre 2014, n. 202 contempla solo la possibilità di acconti sul compenso finale (che include il rimborso delle spese vive e di quelle forfetarie), salvo diverso accordo con il debitore.
  2. Invero, l’imposizione di oneri che pongono una condizione di accesso non espressamente prevista dalla legge, incide sul diritto del debitore di avvalersi delle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, senza che ciò sia adeguatamente giustificato dall’esigenza di tutelare il diritto al compenso dell’organismo, sia perché esso ha pacificamente natura prededucibile, sia perché la stessa L. n. 3 del 2012 contempla meccanismi di garanzia, come l’art. 8, comma 2, in base al quale nei casi in cui i beni e i redditi del debitore non siano sufficienti a garantire la fattibilità dell’accordo o del piano del consumatore, la proposta deve essere sottoscritta da uno o più terzi che consentono il conferimento, anche in garanzia, di redditi o beni sufficienti per assicurarne l’attuabilità. Pertanto, solo una volta verificata, in concreto, l’assenza di qualsivoglia attivo sufficiente a sostenere compensi e spese dell’organismo di composizione della crisi, il tribunale potrebbe motivatamente assumere un provvedimento di inammissibilità della procedura.
  3. Al riguardo occorre anche considerare, tenuto conto dell’effetto esdebitatorio che consegue alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, che la Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, e che modifica la Dir. (UE) 2017/1132 – entrata in vigore il 16 luglio 2019 e da attuare per lo più entro il 17 luglio 2021 – prescrive agli Stati membri di provvedere affinché l’imprenditore insolvente abbia accesso ad almeno una procedura che porti all’esdebitazione (art. 20, par. 1), sia pure con le deroghe consentite dall’art. 23, stabilendo in particolare che essi possono escludere o limitare l’accesso, tra l’altro, quando non è coperto il costo della procedura che porta all’esdebitazione (art. 23, par. 2, lett. e). Ciò conferma indirettamente che, laddove tale facoltà non sia esplicitamente esercitata – come è attualmente nella L. n. 3 del 2012 – il giudice non può per simili ragioni impedire arbitrariamente al debitore sovraindebitato l’accesso ad una procedura che gli consenta di beneficiare dell’esdebitazione, al di là delle condizioni espressamente richieste dalla legge.
  4. Tra l’altro, sebbene l’art. 1, par. 2, lett. h), escluda dal campo di applicazione della Direttiva le persone fisiche che non siano imprenditori (i.e. consumatori), il primo capoverso del successivo par. 4 precisa che gli Stati membri possono estendere loro la disciplina dell’esdebitazione, ed anzi il Cons. 21 ne sostiene la massima opportunità, non solo perché il sovraindebitamento del consumatore rappresenta un problema di grande rilevanza economica e sociale, ma anche perché gli stessi imprenditori non godrebbero efficacemente di una seconda opportunità per liberarsi dai debiti legati all’impresa e da altri debiti maturati al di fuori dell’impresa, se dovessero sottoporsi a procedure distinte quanto a condizioni di accesso e termini.
  5. In proposito è appena il caso di rammentare che il principio di leale cooperazione ex art. 4, par. 3 TUE e art. 288, par. 3 TFUE consente ai giudici un’interpretazione del diritto nazionale conforme alla lettera e allo scopo di una direttiva (cfr. Corte giust. 13 novembre 1990, Marleasing) anche nel periodo intercorrente tra la data di entrata in vigore e quella della sua attuazione ad opera dello Stato membro (cfr. Corte giust. 17 gennaio 2008, Velasco Navarro) e con riguardo a tutto il diritto interno, per far sì “che esso possa essere applicato in modo da non addivenire ad un risultato contrario a quello cui mira la direttiva” (Cass., Sez. U, n. 23710/2008).
  6. In conclusione, il principio di diritto da affermare ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, è il seguente: “In tema di composizione della crisi da sovraindebitamento di cui alla L. n. 3 del 2012, il giudice non può, in assenza di una specifica norma che lo consenta, imporre al debitore, a pena di inammissibilità, il deposito preventivo di una somma per le spese che si presumono necessarie ai fini della procedura, potendo semmai disporre acconti sul compenso finale spettante all’organismo di composizione della crisi, ai sensi del D.M. 24 settembre 2014, n. 202, art. 15 tenendo conto delle circostanze concrete e, in particolare, della consistenza dei beni e dei redditi del debitore in vista della fattibilità della proposta di accordo o del piano del consumatore, anche ai sensi della L. n. 3 del 2012, art. 8, comma 2”.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 26 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2019.

 

Cass. civ. Sez. I Ord. 19_12_2019 n. 34105




Revocatoria fallimentare

Revocatoria fallimentare: il requisito temporale del compimento dell’atto nei sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento va accertato

Tribunale Ordinario di Cassino, Sezione Civile, Sentenza del 05/12/2019

Con sentenza del 5 dicembre 2019, il Tribunale Ordinario di Cassino, Sezione Civile, in tema di azione revocatoria fallimentare, il requisito temporale del compimento dell’atto nei sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento va accertato, nel caso di pagamento eseguito in adempimento di cambiali, in riferimento non già all’emissione o alla girata del titolo, che in quanto promessa di pagamento non ha l’effetto di soddisfare immediatamente il prenditore, ma alla riscossione del credito, che comporta la lesione della par condicio creditorum.


Tribunale Ordinario di Cassino, Sezione Civile, Sentenza del 05/12/2019

Revocatoria fallimentare: il requisito temporale del compimento dell’atto nei sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento va accertato

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI CASSINO

– Sezione Civile –

in persona del giudice unico, dott. __, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di primo grado iscritta al n. __ R.G., trattenuta in decisione all’udienza del __, proposta da

Fallimento M. S.r.l. – attore;

Nei confronti di

S. S.r.l. – convenuta contumace;

Nonché di

G. S.r.l. – convenuta costituita

OGGETTO: azione revocatoria ex art. 67 co. 2 L.F.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

  1. Con atto di citazione introduttivo del presente giudizio, iscritto a ruolo in data __, il fallimento attore ha chiesto a questo Tribunale:

“I in via principale, di ritenere e dichiarare inefficace nei confronti della massa dei creditori del Fallimento della M. S.r.l., e, conseguentemente, revocare ex art. 67, II comma, L.F., il pagamento di Euro __ effettuato dalla società fallita in favore della S. S.r.l. (già D. S.r.l.) mediante girata di n. 2 effetti cambiari di Euro __ ciascuno con scadenza __;

II conseguentemente, di condannare la S. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, a pagare alla Curatela la somma di Euro __, oltre gli interessi al tasso legale dalla dichiarazione di fallimento del __ al saldo effettivo;

III in via subordinata, ove venga accertato in corso di causa l’incasso dei suddetti effetti da parte della D. S.r.l. società con socio unico, quale cessionaria dell’azienda D. S.r.l., di ritenere e dichiarare inefficace nei confronti della massa dei creditori del Fallimento della M. S.r.l., e, conseguentemente. revocare ex art.67, II comma, L.F., il pagamento di Euro __ effettuato dalla società fallita in favore della D. S.r.l. mediante girata di n. 2 effetti cambiari di Euro __ ciascuno, con scadenza __;

IV conseguentemente, condannare la D. S.r.l. società con socio unico (ora S. S.r.l.) in persona del legale rappresentante pro tempore, a pagare alla Curatela la somma di Euro __, oltre gli interessi al tasso legale dalla dichiarazione di fallimento del __ al saldo effettivo;

V condannare le società convenute al pagamento delle spese, diritti ed onorari di causa, oltre spese generali ed oneri fiscali”.

Si è costituita solamente la G. (già D. unipersonale), eccependo la propria estraneità alla fattispecie sostanziale dedotta in giudizio e rimarcando l’infondatezza della domanda anche ex art. 67 co. 3 lett. a) L.F.

In prima udienza, il Fallimento attore veniva autorizzato a notificare nuovamente l’atto di citazione nei confronti della S. S.r.l. Tale notifica andava a buon fine nei confronti del suo amministratore unico.

In sede istruttoria venivano concessi i termini ex art. 183 co. 6 c.p.c. In dette memorie, il fallimento attore chiedeva un ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. della documentazione relativa all’incasso degli effetti cambiari con scadenza __ presso la__, in particolare se in favore della G. o della D. unipersonale, nonché l’interrogatorio formale dei legali rappresentanti delle società convenute. Tali richieste venivano respinte, essendo stati ritenuti inammissibili l’ordine di esibizione e superfluo l’interrogatorio formale perché vertente su circostanze già attestate documentalmente.

Infine, all’udienza del __, la causa veniva trattenuta in decisione, con concessione dei termini ex art. 190 c.p.c.

  1. La domanda revocatoria fallimentare è fondata solamente nei confronti della convenuta contumace.

Giova ricostruire brevemente la vicenda fattuale sottesa al presente giudizio.

  1. S.r.l. pluripersonale ha emesso le fatture del __, __ e __ nei confronti della società poi fallita, per la fornitura di materiali.

Parallelamente, P. S.r.l., in data __, ha emesso due cambiali tratte, di Euro __ ciascuna, con scadenza __, in favore di M. S.p.A. Successivamente, M. ha girato dette cambiali a M. S.r.l. ed in seguito M. S.r.l. le ha girate a D. S.r.l.

In seguito, il Tribunale di Cassino ha dichiarato il fallimento di M. S.r.l. con sentenza n. __ del __, ovvero entro il periodo di sei mesi dalla scadenza delle suddette cambiali.

Pertanto, il Curatore ha chiesto alla società P. informazioni circa i pagamenti e le suddette cambiali e, dalla risposta di quest’ultima, ha dedotto che erano state dapprima girate a D. S.r.l. e poi pagate alla scadenza proprio dall’obbligata principale.

A seguito di ulteriori verifiche, il Curatore ha riscontrato che, nel mese di __, le suddette cambiali sono state girate dalla società poi fallita a D. S.r.l. (inizialmente ritenendo esistesse solamente D. pluripersonale e, successivamente, ipotizzando che dette cambiali siano state poste all’incasso in alternativa da D. pluripersonale o da D. unipersonale).

In particolare, da un approfondimento delle vicende societarie delle convenute, è emerso che D. S.r.l. pluripersonale, con atto del __, efficace dal __, ha conferito il proprio ramo di azienda commerciale a D. S.r.l. unipersonale con sede in __ (iscritta nel registro delle imprese il __, come si evince dalla visura camerale depositata nel fascicolo di parte attrice). Sempre in data __, D. S.r.l. pluripersonale ha mutato denominazione sociale in S. S.r.l. e, dopo aver trasferito la sede da __ a __, successivamente l’ha ritrasferita in __. In seguito, la D. S.r.l. unipersonale è stata incorporata da G. S.r.l., attuale convenuta costituita.

Ha fatto seguito, pertanto, la richiesta del Curatore al G.D. al fallimento M., finalizzata a proporre l’azione revocatoria, nei confronti di entrambe le convenute, del pagamento del credito vantato da D. S.r.l. nei riguardi di M. S.r.l., avvenuto mediante la girata delle suddette cambiali.

  1. Tanto ricostruito, bisogna inquadrare per sommi capi l’azione revocatoria. Partendo dall’azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c., questa si compone di quattro elementi:

– un atto del debitore di disposizione patrimoniale, oneroso o gratuito;

– che tale atto arrechi un pregiudizio al creditore;

– la malafede del debitore;

– se l’atto è oneroso, anche la malafede del terzo accipiens.

La revocatoria fallimentare ex art. 67 L.F. prevede, invece, delle presunzioni che permettono una più agevole ricostruzione del patrimonio da sottoporre ad esecuzione concorsuale.

Il primo requisito, di carattere oggettivo, resta invariato, dovendo il Curatore provare l’avvenuto compimento dell’atto di disposizione patrimoniale.

Sul secondo requisito, di carattere oggettivo, intervengono invece due presunzioni. A tenore della prima, gli atti posti in essere dall’imprenditore in un certo periodo anteriore alla dichiarazione di fallimento (c.d. retrodatazione dell’insolvenza, calibrata sulla base delle diverse tipologie negoziali variamente idonee ad incidere sul patrimonio del debitore successivamente fallito) si presumono (iuris tantum) compiuti in stato di insolvenza, sicché sarà il terzo accipiens a dover provare in concreto che il debitore non era insolvente. Su tale prima presunzione si innesta la seconda, a tenore della quale tutti gli atti posti in essere in stato di insolvenza (anche se il fallimento non è stato ancora dichiarato) si presumono (iuris et de iure) pregiudizievoli per i creditori perché idonei ad alterare quanto meno la par condicio creditorum (Cass., n. 23430/2012). Il Curatore è quindi dispensato dall’onere di provare l’eventus damni.

Il Curatore è altresì dispensato dall’onere di provare il terzo requisito, di carattere soggettivo, dal momento che la malafede del debitore è presunta (iuris et de iure).

Ai sensi del quarto elemento, di carattere soggettivo, bisogna verificare se lo stato di insolvenza del debitore fosse noto al terzo (scientia decoctionis). Orbene, per alcuni atti di carattere anomalo (art. 67 co. 1 L.F.) e quindi particolarmente sintomatici dello stato di insolvenza, è posta anche una presunzione (iuris tantum) di conoscenza di tale stato in capo al terzo. La prova contraria non è soltanto quella di carattere negativo, con cui il convenuto tenta di dimostrare l’inesistenza di sintomi dello stato di insolvenza (come l’assenza di protesti o di procedure esecutive immobiliari), ma anche quella di carattere positivo, con cui il convenuto tenta di dimostrare che sussistevano circostanze tali da far ritenere che l’imprenditore successivamente fallito si trovasse in una situazione di normale esercizio dell’impresa (Cass., n. 8224/2011).

Al contrario, in presenza di atti c.d. normali, sarà il Curatore a dover provare la conoscenza di tale stato in capo al terzo accipiens. Al riguardo, poiché non è ipotizzabile l’accertamento processuale di un atteggiamento psichico interiore che per sua natura non è suscettibile di prova certa, ciò che rileva è il dato oggettivamente dimostrato che l’accipiens abbia percepito (anche ricorrendo alla prova per presunzioni ex artt. 2727 e 2729 c.c., qualora gli indizi siano gravi, precisi e concordanti) i segni esteriori del dissesto, ovvero anche la sola manifestazione di insolvenza che è insita nel sintomo, non anche che abbia ritenuto o meno inevitabile il fallimento del debitore (Cass., n. 26697/2006). In particolare, la certezza logica dell’esistenza di tale stato soggettivo può legittimamente dirsi acquisita non quando sia provata la conoscenza effettiva, da parte dello specifico creditore, dello stato di decozione dell’impresa, né quando tale conoscenza possa ravvisarsi con riferimento a una figura di contraente astratto, bensì quando la probabilità della scientia decoctionis trovi il suo fondamento nei presupposti e nelle condizioni nelle quali si sia concretamente trovato ad operare il creditore del fallito (Cass., n. 504/2016). E, a seconda delle circostanze, si potranno valorizzare a fini presuntivi: la continuità e l’importanza del rapporto commerciale, la natura dell’atto, nonché la contiguità territoriale con il luogo di manifestazione dei sintomi dell’insolvenza.

  1. Tanto esposto in linea generale, si possono esaminare nel caso di specie gli elementi costitutivi dell’azione revocatoria ex art. 67 L.F. e verificare, altresì, l’eventuale fondatezza delle eccezioni del convenuto costituito.

L’esame delle argomentazioni di parte attrice e della documentazione allegata porta a ritenere che l’incasso delle cambiali vi sia effettivamente stato e sia avvenuto in favore di D. S.r.l. pluripersonale. In primo luogo, le fatture depositate in atti riguardano un rapporto obbligatorio intervenuto tra la società poi fallita e D. pluripersonale, in un momento in cui non esisteva ancora quella unipersonale.

Inoltre, all’atto del conferimento del ramo aziendale commerciale da D. pluripersonale a quella unipersonale, i crediti già maturati sono rimasti in capo alla prima.

Infine, analizzando le cambiali in questione, in prossimità del timbro D. S.r.l., si evince la firma di __, non in proprio, ma nella qualità di socia di D. pluripersonale e titolare in quel periodo di poteri di riscossione dei crediti per conto della società (cfr. visura camerale depositata nel fascicolo di parte attrice). In ogni caso, un eventuale ordine di esibizione tardivo della documentazione sottesa all’incasso delle cambiali incontrerebbe il limite del decennio, non risultando agli atti alcun atto notificato alla banca (che ha posto le cambiali all’incasso) volto ad interrompere la prescrizione. Si può quindi ritenere che le cambiali siano rimaste nella sfera giuridica di D. pluripersonale (ora S. S.r.l.) e quindi che l’incasso sia stato compiuto in favore di questa società e non della D. unipersonale, la quale pertanto deve ritenersi estranea rispetto al presente giudizio.

  1. In ordine al secondo ed al terzo requisito, vengono in rilievo le presunzioni relative alla retrodatazione dell’insolvenza e del pregiudizio al ceto creditorio, nonché del consilium fraudis in capo al debitore.

Al riguardo, bisogna considerare che la cambiale non è un mezzo diretto di pagamento, come un assegno, bensì uno strumento di finanziamento. Pertanto, la sua emissione e trasmissione non costituiscono pagamento, in quanto l’adempimento della obbligazione portata dal titolo si verifica solo nel momento in cui, alla scadenza, il debitore provvede ad onorarla (Cass. n. 510/1999). Tale argomento è stato approfondito dalla giurisprudenza di legittimità anche in tema di azione revocatoria fallimentare, la quale ha sostenuto che “il requisito temporale del compimento dell’anno anteriore attualmente, dei sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento, previsto dall’art. 67, secondo comma L.F. – R.D. n. 267 del 1942, va accertato, nel caso di pagamento eseguito in adempimento di cambiali, in riferimento non già all’emissione o alla girata del titolo, che in quanto promessa di pagamento non ha l’effetto di soddisfare immediatamente il prenditore, ma alla riscossione del credito, che comporta la lesione della par condicio creditorum” (Cass., n, 16213/2007).

Orbene, posto che l’incasso delle cambiali è avvenuto in data __, entro i 6 mesi anteriori al fallimento, dichiarato con sentenza n. __ del __, risulta quindi compiuto nel c.d. periodo sospetto.

  1. Il Curatore ha inoltre fornito la prova della conoscenza dello stato di insolvenza in capo all’odierno convenuto contumace.

Invero, nel caso in esame, può certamente desumersi detta conoscenza dalla girata della cambiale della società poi fallita alla convenuta contumace. Infatti, è in primo luogo notorio che la cambiale, nell’ambito dei rapporti commerciali tra aziende abituate all’adempimento con normali mezzi bancari, è un espediente al quale il debitore ricorre allorquando non dispone più di liquidità (cfr. Trib. Verona, sent. n. 670/2010). In secondo luogo, con le girate delle suddette cambiali, sono stati rinegoziati i termini di pagamento previsti in origine nelle singole fatture, posticipandoli anche di oltre un anno rispetto alla loro iniziale scadenza. Orbene, anche tale differimento temporale ingenera nel creditore una sicura consapevolezza circa la scarsa solvibilità del debitore. Del resto, come ha sostenuto la giurisprudenza di merito, “la circostanza che la società non usufruisca più di affidamento presso gli istituti di credito e che, attraverso l’emissione di effetti cambiari – strumento non consueto di pagamento nelle normali transazioni commerciali tra imprese – realizzi di fatto una forma di finanziamento extra bancaria con una soluzione premiale per quel creditore disposto a tollerare il ritardo nel pagamento, appare significativo indice della conoscenza dello stato di insolvenza del terzo” (Tribunale Monza, 9/07/2010, n.2061).

Tale consapevolezza è avvalorata dalla presenza di un elevato numero di protesti, pari a 42, per un ingente ammontare (Euro __ circa, v all. 8 fascicolo di parte attrice). Si riscontra, altresì, la presenza di protesti di 12 assegni bancari, per un importo di Euro __ circa. Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità afferma che “in tema di accertamento della conoscenza dello stato d’insolvenza i protesti cambiari, in forza del loro carattere di anomalia rispetto al normale adempimento dei debiti d’impresa, si inseriscono nel novero degli elementi indiziari rilevanti, con la precisazione che trattasi non già di una presunzione legale iuris tantum, ma di una presunzione semplice che, in quanto tale, deve formare oggetto di valutazione concreta da parte del giudice del merito, da compiersi in applicazione del disposto degli art. 2727 e 2729 c.c., con attenta valutazione di tutti gli elementi della fattispecie. Consegue, sul piano della distribuzione dell’onere della prova, che l’avvenuta pubblicazione di una pluralità di protesti può assumere rilevanza presuntiva tale da esonerare il curatore dalla prova che gli stessi fossero noti al convenuto in revocatoria, su quest’ultimo risultando traslato in tal caso l’onere di dimostrare il contrario” (Cass. n. 504/2016). Anche la giurisprudenza di merito è concorde sul fatto che i protesti, quando pubblicati in numero elevato, integrino un elemento sintomatico ai fini della prova della scientia decoctionis, posto che proprio l’elevato numero sia un indice sicuro di una situazione di conclamata e percepibile decozione (cfr. Tr. Verona n. 1293/2010). In tale contesto, non essendosi nemmeno costituita la controparte, questa non ha in alcun modo tentato di confutare la presunzione di scientia decoctionis ricavata in via giurisprudenziale.

Pertanto, nel caso in esame, si deve ritenere che gli elementi sin qui descritti costituiscano presunzioni idonee a fornire la certezza logica dell’esistenza dello stato soggettivo di conoscenza circa l’insolvenza dell’impresa debitrice da parte della convenuta.

  1. Deve infine rilevarsi che non si rientra nell’ipotesi di esonero da revocatoria ex art. 67 co. 3 lett. a), contrariamente a quanto sostenuto dalla S. S.r.l. A tenore della norma in questione, “non sono soggetti all’azione revocatoria: a) i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso”. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha privilegiato un criterio soggettivo, incentrato sui rapporti tra le parti, a quello oggettivo, legato alle regole del settore commerciale, al fine di scongiurare il rischio che l’azione revocatoria diventi essa stessa causa dell’insolvenza di un imprenditore già in difficoltà. Pertanto, quanto alla tempistica, possono includersi nell’esenzione i pagamenti effettuati in ritardo, purché il ritardo costituisca elemento di usuale adempimento nel contesto di rapporti commerciali consolidati nel tempo tra le parti. Quanto alle modalità, potranno essere inclusi anche i pagamenti eseguiti con mezzi anormali qualora questi siano regolarmente effettuati tra le parti nel caso concreto.

Deve pur sempre considerarsi, però, che non possono certamente fruire del beneficio i pagamenti di crediti pregressi, da lungo tempo scaduti o effettuati a seguito di solleciti o di procedure di riscossione coattiva poste in essere dal creditore. Ed infatti, nel caso di specie, i pagamenti di cui è stata chiesta la revocatoria, per le tempistiche e per le modalità con cui sono avvenuti, non integrano i presupposti per l’esonero, trattandosi di fatture pagate a distanza anche di anni dalla loro scadenza e con modalità del tutto anomale rispetto alla prassi ordinaria, che in assenza di indicazioni da parte della convenuta contumace, prende a riferimento quella in essere nel settore di riferimento.

Ne consegue che non può ritenersi nemmeno integrata l’ipotesi di esonero da revocatoria ex art. 67 co. 3 lett. a).

  1. In definitiva, l’azione revocatoria ex art. 67 co. 2 L.F. risulta fondata solamente nei confronti della convenuta contumace. Il Fallimento attore è pertanto vincitore nei confronti della convenuta contumace e soccombente nei confronti della convenuta costituita.

Le spese di lite seguono il principio di soccombenza e vengono liquidate in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, con applicazione dei valori medi di tutte le fasi relative allo scaglione che va da Euro __ ad Euro __.

P.Q.M.

Il Tribunale di Cassino, definitivamente pronunciando nel giudizio R.G. __, disattesa ogni contraria istanza, domanda ed eccezione, a parziale accoglimento della domanda revocatoria ex art. 67 co. 2 L.F., così provvede:

– dichiara inefficace nei confronti della massa dei creditori del Fallimento di M. S.r.l., e, pertanto revoca ex art. 67, comma 2, L.F., il pagamento di Euro __ effettuato da M. S.r.l. in favore di S. S.r.l. (già D. S.r.l. pluripersonale) mediante girata di n. 2 effetti cambiari di Euro __ ciascuno con scadenza __;

– conseguentemente, condanna la S. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, a pagare al Fallimento attore la somma di Euro __, oltre gli interessi al tasso legale dalla dichiarazione di fallimento del __ al saldo effettivo;

– respinge la domanda per il resto;

– condanna, inoltre, la convenuta contumace S. S.r.l. (già D. S.r.l. pluripersonale) al pagamento delle spese di lite del presente giudizio in favore del Fallimento attore, che liquida in Euro __ oltre spese generali, IVA e CPA come per legge;

– condanna, infine, il Fallimento attore al pagamento delle spese di lite del presente giudizio in favore della convenuta costituita S. S.r.l. (già D. S.r.l. unipersonale), che liquida in Euro __ oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Cassino, il 3 dicembre 2019.

Depositata in Cancelleria il 5 dicembre 2019.

Tribunale Cassino Sent. 05_12_2019




Opposizione a decreto ingiuntivo: il giudice ha l’obbligo di pronunciarsi sul merito della domanda sulla base di tutte le prove offerte

Opposizione a decreto ingiuntivo: il giudice ha l’obbligo di pronunciarsi sul merito della domanda sulla base di tutte le prove offerte

Tribunale Ordinario di Napoli, Sezione XI Civile, Sentenza del 05/12/2019

Con sentenza del 5 dicembre 2019, il Tribunale Ordinario di Napoli, Sezione XI Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, il giudice ha l’obbligo di pronunciarsi sul merito della domanda sulla base di tutte le prove offerte tanto dal debitore-opponente quanto dal creditore-opposto, non potendo decidere la controversia alla luce del solo materiale probatorio prodotto al momento della richiesta di ingiunzione.


Tribunale Ordinario di Napoli, Sezione XI Civile, Sentenza del 05/12/2019

Opposizione a decreto ingiuntivo: il giudice ha l’obbligo di pronunciarsi sul merito della domanda sulla base di tutte le prove offerte

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI NAPOLI

– UNDICESIMA SEZIONE CIVILE –

in composizione monocratica e nella persona della dott.ssa __ pronunzia la seguente

SENTENZA

all’udienza del __, dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni in fatto e diritto della decisione, nella controversia civile iscritta al n. __ del Ruolo Generale Affari Contenziosi dell’anno __ e vertente

TRA

M. – Opponente

E

A. S.r.l. – Opposta

Oggetto: opposizione a decreto ingiuntivo

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La presente decisione è adottata ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c. e, quindi, è possibile prescindere dalle indicazioni contenute nell’art. 132 c.p.c. Infatti, l’art. 281-sexies c.p.c., consente al giudice di pronunciare la sentenza in udienza al termine della discussione dando lettura del dispositivo e delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, senza dover premettere le indicazioni richieste dal secondo comma dell’art. 132 c.p.c., perché esse si ricavano dal verbale dell’udienza di discussione sottoscritto dal giudice stesso. Pertanto, non è affetta da nullità la sentenza, resa nella forma predetta, che non contenga le indicazioni riguardanti il giudice e le parti, le eventuali conclusioni del P.M. e la concisa esposizione dei fatti e dei motivi della decisione (Cass. civ., Sez. III, 19 ottobre 2006, n. 22409).

Ancora, in tale sentenza è superflua l’esposizione dello svolgimento del processo e delle conclusioni delle parti, quando questi siano ricostruibili dal verbale dell’udienza di discussione e da quelli che lo precedono (Cass. civ., Sez. III, 11 maggio 2012, n. 7268; Cass. civ., Sez. III, 15 dicembre 2011, n. 27002).

M., già titolare della omonima ditta individuale M., ha proposto opposizione al decreto ingiuntivo n. __, emesso dal Tribunale di Napoli e notificato in data __, su ricorso della A. S.r.l., per la somma di Euro __ in linea capitale, oltre interessi e spese della procedura, a titolo di corrispettivo per fornitura di merci alla impresa M. come da fatture n. (…) del __ e n. (…) del __.

A sostegno dell’opposizione deduceva, con riguardo al debito di cui alla fattura n. (…) del __, che alcun ordinativo della merce ivi indicata e alcuna consegna della stessa era mai avvenuta in favore della impresa individuale, di cui era stata titolare, la quale aveva, infatti, cessato ogni attività già da tempo antecedente e precisamente sin dal __, con successiva cancellazione dal Registro delle Imprese in data __. Concludeva, quindi, chiedendo di accogliere l’opposizione spiegata dichiarando come dovuta la sola somma di Euro __ di cui alla fattura del __. Spese vinte.

Si costituiva l’opposta, resistendo in fatto e diritto all’opposizione proposta di cui chiedeva il rigetto.

Concessa la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto, autorizzato il deposito delle memorie ex art. 183 co. 6 c.p.c., rigettate le richieste istruttorie avanzate dalle parti (cfr. ordinanza del __, qui da intendersi richiamata e trascritta), la causa veniva rinviata per la precisazione delle conclusioni. A seguito di avvicendamento degli Istruttori nella titolarità del fascicolo, la causa perveniva a questo Giudice, alla cui attenzione veniva sottoposta per la prima volta all’udienza del __ e, quindi, veniva decisa all’odierna udienza di discussione, con sentenza pubblicamene letta, all’esito della camera di consiglio.

In diritto, giova ricordare che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo si verifica un’inversione della posizione processuale delle parti, mentre resta invariata la posizione sostanziale, nel senso che si apre un ordinario giudizio di cognizione, nel quale ciascuna delle parti viene ad assumere la propria effettiva e naturale posizione, risultando a carico del creditore-opposto, avente in realtà veste di attore per aver chiesto l’ingiunzione, l’onere di provare l’esistenza del credito, ossia i fatti costitutivi dell’obbligazione posti a fondamento del decreto ingiuntivo, ed a carico del debitore-opponente, avente la veste di convenuto, quello di provare eventuali fatti estintivi, modificativi o impeditivi (cfr. Cass. civile, sez. lav., 13 luglio 2009, n. 16340; Cass. civile, sez. I, 31 maggio 2007 n. 12765; Cass. civile, sez. I, 3 febbraio 2006, n. 2421; Cass. civile, sez. III, 24 novembre 2005, n. 24815; Cass. civile, sez. II, 30 luglio 2004, n. 14556; Cass. civile, sez. III, 17 novembre 2003, n. 17371; Cass. civile, sez. II, 4 aprile 2003, n. 5321; Cass. civile, sez. I, 27 giugno 2000, n. 8718; Cass. civile, sez. II, 29 gennaio 1999, n. 807; Cass. civile, sez. lav., 17 novembre 1997, n. 11417; Cass. civile, Sezioni Unite, 7 luglio 1993 n. 7448; Corte app. Palermo, sez. III, 21 gennaio 2009, n. 62; Trib. Genova, 23 gennaio 2009, n. 347).

Naturalmente, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, il giudice ha l’obbligo di pronunciarsi sul merito della domanda sulla base di tutte le prove offerte tanto dal debitore-opponente quanto dal creditore-opposto, non potendo decidere la controversia alla luce del solo materiale probatorio prodotto al momento della richiesta di ingiunzione (cfr. in tal senso: Cass. civile, sez. II, 18 maggio 2009, n. 11419; Cass. civile, sez. II, 16 maggio 2007, n. 11302: nella fattispecie, la S.C., in applicazione del suddetto principio, ha cassato la sentenza del giudice di merito che, senza decidere sui mezzi istruttori richiesti dall’opposto, aveva accolto l’opposizione reputando insufficienti gli elementi di prova posti a fondamento del decreto ingiuntivo).

A completamento del quadro giurisprudenziale tracciato, deve richiamarsi il fondamentale orientamento seguito dalla Cassazione a Sezioni Unite 30 ottobre 2001 n. 13533 secondo cui “il creditore e, dunque, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, il convenuto-opposto, sia che agisca per l’adempimento, sia che agisca per la risoluzione o per il risarcimento del danno, è tenuto a provare solo l’esistenza del titolo, ossia della fonte negoziale o legale del suo diritto (e, se previsto, del termine di scadenza), mentre può limitarsi ad allegare l’inadempimento della controparte: è il debitore convenuto e, dunque, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, l’attore-opponente a dover fornire la prova estintiva del diritto, costituito dall’avvenuto adempimento” (cfr. Cassaz. civile, SS.UU., 30 ottobre 2001, n. 13533; conformi: Cassaz. civile, sez. II, 14 gennaio 2002, n. 341; Cassaz. civile, sez. III, 12 aprile 2006, n. 8615; Trib. Torino, 15 giugno 2007, n. 4134/07; Trib. Salerno, sez. II, 31 ottobre 2014, n. 5151; Trib. Salerno, 27 marzo 2015, n. 1439).

La giurisprudenza, in proposito, ha, altresì, chiarito come: “In tema di opposizione a decreto ingiuntivo, l’opponente è gravato dall’onere di contestazione specifica proprio della sua posizione processuale di convenuto in senso sostanziale ai sensi dell’art. 167 c.p.c., e dall’onere di particolare esaustività che deve connotare l’atto di opposizione anche al fine di scongiurare la concessione della provvisoria esecuzione del D.I. opposto eventualmente richiesta dal creditore opposto, qualora non lo sia stata dal giudice del monitorio” (cfr. Tribunale Taranto, sez. II, 06/12/2016, n. 3393).

Orbene, nel caso di specie, deve rilevarsi che la pretesa creditoria della società opposta trova riscontro, innanzitutto, nella documentazione posta a correndo della domanda monitoria e in particolare: nelle fatture e documenti di trasporto sottoscritti per ricevuta.

A fronte di tale documentazione, parte opponente eccepisce che l’impresa di cui era titolare non aveva mai né ordinato né ricevuto la merce di cui alla fattura del __.

Non disconoscendo i pregressi rapporti commerciali con l’opposta (e, a tale riguardo, ammettendo la debenza delle somme di cui alla fattura del __) deduce di aver cessato la propria attività già in data __, secondo quanto emergente anche dalla visura camerale, in atti depositata.

Ricorda, tuttavia, il Tribunale che l’imprenditore individuale non si distingue dalla persona fisica che compie l’attività imprenditoriale, sicché l’inizio e la fine della qualità di imprenditore non sono subordinati alla realizzazione di formalità, ma all’effettivo svolgimento o al reale venir meno dell’attività imprenditoriale (Cass. 4 maggio 2011, n. 9744).

La qualità di imprenditore va ricondotta, quindi, al fatto storico dell’esercizio dell’impresa, mentre le annotazioni inserite nel registro delle imprese, lungi dal possedere alcun effetto costitutivo o estintivo della qualità di imprenditore, segnano l’efficacia di mera notizia o dichiarativa, con riguardo a quelle previste dall’art. 2193 c.c., della relativa pubblicità.

La mera formalità della annotazione della cessazione dell’attività non vale di per sé, quindi, a dimostrare l’assenza di ogni ordinativo.

Va, poi, rilevato che a fronte della consegna della merce di cui alla fattura del __ presso l’impresa della M. (consegna attestata dalla sottoscrizione de DDT), appare del tutto inverosimile che in assenza di ogni ordinativo al riguardo, la merce sia stata ritirata senza alcuna contestazione, che in atti non si rinviene.

Né appare avere alcun rilievo probatorio la mail prodotta dalla opponente del __ (in cui tale L., per l’opponente), in maniera peraltro dubitativa, faceva riferimento all’invio dell’ultima fattura a quella data, considerato che la fattura qui contestata è comunque successiva.

Tale mail corrobora, piuttosto, le allegazioni della opposta, ove la stessa riferisce che era proprio il signor L. ad espletare gli ordinativi per la ditta opponente, tra cui appunto quello della fattura del __.

Rilevato, pertanto, che alla luce della documentazione in atti e delle generiche contestazioni (compresa quella attinente al disconoscimento dei documenti di trasporto) per come operate dalla opponente, deve senz’altro ritenersi comprovata l’esistenza del credito contestato, l’opposizione deve essere sicuramente rigettata e il decreto ingiuntivo confermato, non avendo l’opposta comprovato il pagamento degli importi dovuti.

Per quanto concerne le spese di lite, esse seguono la soccombenza e sono liquidate, d’ufficio, sulla base dei parametri introdotti dal D.M. n. 55 del 2014, avuto riguardo all’effettiva attività processuale espletata

P.Q.M.

Il Tribunale di Napoli, undicesima sezione civile, in composizione monocratica, definitivamente pronunziando sulla opposizione promossa come in epigrafe, disattesa ogni altra istanza ed eccezione, così provvede:

1) rigetta l’opposizione;

2) condanna M. al pagamento, in favore della parte opposta, delle spese di lite che liquida in Euro __, per compensi, oltre IVA e CPA e rimborso spese forfettarie (nella misura del 15% del compenso), come per legge;

Così deciso in Napoli, il 5 dicembre 2019.

Depositata in Cancelleria il 5 dicembre 2019.

 

Tribunale Napoli Sez. XI Sent. 05_12_2019

 

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L’oggetto del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo 

L’oggetto del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo 

Tribunale Ordinario di Napoli, Sezione VI Civile, Sentenza del 03/12/2019

Con sentenza del 3 dicembre 2019, il Tribunale Ordinario di Napoli, Sezione VI Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che l’oggetto del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo non è ristretto alla verifica delle condizioni di ammissibilità e di validità del decreto stesso, ma si estende all’accertamento, con riferimento alla situazione di fatto esistente al momento della pronuncia della sentenza, e non a quello anteriore della domanda o dell’emissione del provvedimento opposto dei fatti costitutivi del diritto in contestazione.


Tribunale Ordinario di Napoli, Sezione VI Civile, Sentenza del 03/12/2019

L’oggetto del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Napoli, Sezione Sesta, in persona della dott.ssa __, all’udienza del 3 dicembre 2019, ha dato lettura, ai sensi dell’art. 281 sexies, della seguente

SENTENZA

Nelle civili riunite ed iscritte ai numeri R.G. __ e __, aventi ad oggetto: opposizione a decreto ingiuntivo, vertenti

tra

P. ed A. – Parti opponenti nel giudizio principale

e

E. – Parte opponente nel giudizio riunito

Contro

Condominio N. – Parte opposta in entrambi i giudizi

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

In applicazione dell’art. 58, comma 2, L. 18 giugno 2009, n. 69 e quindi delle novellate disposizioni di cui agli artt. 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., si omette di dar conto dello svolgimento delle fasi processuali della lite.

P., A. ed E. hanno proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. __ con cui veniva loro intimato il pagamento di oneri condominiali non corrisposti, per un totale di Euro __.

Verranno analizzate successivamente le doglianze all’uopo formulate.

Si è costituito il condominio che ha concluso per il rigetto dell’opposizione.

Negata la richiesta di sospensione dell’esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo, adempiuta, su ordine del giudice, la prescritta condizione di procedibilità, la causa viene decisa all’odierna udienza ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c.

Ciò doverosamente premesso, vanno analizzate le domande delle parti.

Mette conto preliminarmente precisare che l’oggetto del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo non è ristretto alla verifica delle condizioni di ammissibilità e di validità del decreto stesso, ma si estende all’accertamento, con riferimento alla situazione di fatto esistente al momento della pronuncia della sentenza, e non a quello anteriore della domanda o dell’emissione del provvedimento opposto dei fatti costitutivi del diritto in contestazione (cfr., in esatti termini, Cass. sez. 1, Sentenza n. 4103 del 21/02/2007).

Deve pertanto procedersi ad un completo riesame, nel contraddittorio delle parti, della valutazione di merito sottesa al decreto di condanna, mediante l’accertamento dell’esistenza e della validità della pretesa creditoria azionata, alla luce della situazione di fatto esistente al momento della pronuncia resa all’ esito del giudizio a cognizione piena (ex plurimis, cfr. Cass., 27 settembre 1999 n. 10704; Cass., 14 aprile 1999 n. 3671; Cass., 29 gennaio 1999 n. 807). Con l’atto di opposizione si instaura infatti un ordinario giudizio di cognizione, nel quale le parti assumono la posizione corrispondente alla effettiva situazione sostanziale, anche ai fini della regola dell’onere probatorio stabilita dall’art. 2697 c.c.: spetta dunque all’opposto, attore in senso sostanziale, fornire adeguata dimostrazione della sussistenza dei fatti costitutivi del diritto azionato, incombendo sull’opponente la prova della fondatezza delle eccezioni sollevate (v., oltre alle sentenze citate, anche Cass., 8 settembre 1998 n. 8853; Cass., 17 novembre 1997, n. 11417) Va dato atto che la complessiva somma azionata dal condominio appare comprovata pienamente dalla documentazione in atti, risultando versati in atti i bilanci, e relativi riparti, su cui si fonda il credito, e le relative delibere di approvazione.

Come noto, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte di Cassazione, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, il giudice deve accogliere l’opposizione soltanto qualora la delibera condominiale abbia perduto la sua efficacia, per esserne stata l’esecuzione sospesa dal giudice dell’impugnazione, ex art. 1137, comma 2, c.c., o per avere questi, con sentenza sopravvenuta alla decisione di merito nel giudizio di opposizione ancorché non passata in giudicato, annullato la deliberazione (cfr. Cass., 14 novembre 2012, n. 19938).

Tanto lo si dice in replica alle doglianze degli opponenti che ritengono che nel presente procedimento, a cognizione piena, nessuna efficacia probatoria avrebbe la documentazione prodotta dal condominio.

Al contrario, la stessa pertanto prova, di per sé, l’esistenza di tale credito, legittimando, senz’altro, non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del singolo condomino a pagare le somme all’esito del giudizio di opposizione che quest’ultimo proponga contro tale decreto, il cui ambito è ristretto solamente alla verifica dell’esistenza e dell’efficacia della deliberazione assembleare medesima relativa all’approvazione della spesa e alla ripartizione degli inerenti oneri.

Gli opponenti contestano, poi, sotto il profilo soggettivo, la debenza della somma azionata in via monitoria.

Invero, posto che gli oneri condominiali de quibus sono relativi ad immobile originariamente appartenente alla comune genitrice R., nulla dovrebbero, in quanto non hanno mai provveduto ad accettare la relativa eredità.

Il ragionamento svolto non va condiviso

Invero, in assenza di rinuncia all’eredità de qua, nel caso di specie trova applicazione il disposto dell’art. 485 c.c. a mente del quale “il chiamato alla eredità, quando a qualsiasi titolo è nel possesso di beni ereditari, deve fare l’inventario entro tre mesi dal giorno dell’apertura della successione 456 o della notizia della devoluta eredità. Se entro questo termine lo ha cominciato ma non è stato in grado di completarlo, può ottenere dal tribunale del luogo in cui si è aperta la successione una proroga che, salvo gravi circostanze, non deve eccedere i tre mesi 7495 c.p.c. Trascorso tale termine senza che l’inventario sia stato compiuto, il chiamato all’eredità è considerato erede puro e semplice”.

Difatti, il possesso dei beni ereditari va desunto dalle risultanze anagrafiche storiche prodotte dal condominio che comprovano come gli odierni opponenti abitino in immobili originariamente appartenenti a R.

La presunzione ricavabile dalle dette risultanze non risulta in alcun modo superata dalle deduzioni degli opponenti che non hanno neppure specificatamente contestato la detta situazione fattuale.

Nulla dimostra, poi, la sentenza prodotta da parte opponente in allegato alle note conclusionali, in cui si dà semplicemente atto che, in quel giudizio, non è stata fornita la prova dell’accettazione dell’eredità o della ricorrenza dei presupposti di cui all’art. 485 c.c., ma manca qualsivoglia accertamento in ordine alla qualità di erede.

Quel che si vuol dire è che nella detta sentenza, emessa in processo originariamente promosso contro R. e poi riassunto, a seguito del suo decesso, nei confronti degli odierni opponenti nella qualità di eredi della predetta, si dà solo atto di una carenza probatoria in ordine alla prova della qualità di eredi degli indicati opponenti: alcun vincolo, quindi, deriva dalla indicata pronuncia.

Del pari destituita di fondamento è la dedotta violazione dell’art. 752 c.c. a mente del quale i coeredi contribuiscono tra loro al pagamento dei debiti e pesi ereditari in proporzione delle loro quote ereditarie

Il richiamo non è pertinente: la difesa appare dimentica che gli oneri azionati in via monitoria sono maturati in periodo successivo alla morte della de cuius, e che pertanto gravano sui germani E. in via solidale in quanto comproprietari, e non in quanto coeredi.

In definitiva, pertanto, l’opposizione va reietta, con integrale conferma del decreto ingiuntivo opposto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano d’ufficio in dispositivo, tenuto conto del valore della causa e dell’attività svolta, con la maggiorazione prevista ex art. 4, II comma, D.M. n. 55 del 2014, in applicazione dei parametri vigenti, e con distrazione in favore dell’avv. __, procuratore antistatario.

P.Q.M.

Il Giudice, definitivamente decidendo, ogni contraria istanza ed eccezione disattesa, così provvede:

  1. a) rigetta l’opposizione e per l’effetto, conferma il decreto ingiuntivo n. __, emesso dal Tribunale di Napoli, in data __, e lo dichiara definitivamente esecutivo ex 653 c.p.c.;
  2. b) condanna gli opponenti, in solido, al rimborso in favore di parte opposta delle spese dei procedimenti riuniti che liquida in Euro __, per compensi, oltre rimborso spese generali al 15%, IVA e CPA come per legge, con distrazione in favore dell’avv. __.

Così deciso in Napoli, il 3 dicembre 2019.

Depositata in Cancelleria il 3 dicembre 2019.

Tribunale Napoli Sez. VI Sent. 03_12_2019

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La consecuzione è un fenomeno consistente nel collegamento sequenziale fra procedure concorsuali di qualsiasi tipo

La consecuzione è un fenomeno consistente nel collegamento sequenziale fra procedure concorsuali di qualsiasi tipo

Tribunale Ordinario di Milano, Sezione Fallimentare Civile, Decreto del 04/12/2019

Con sentenza del 4 dicembre 2019, il Tribunale Ordinario di Milano, Sezione Fallimentare Civile, in tema di procedure concorsuali, ha stabilito che la consecuzione è un fenomeno consistente nel collegamento sequenziale fra procedure concorsuali di qualsiasi tipo volte a regolare una coincidente situazione di dissesto dell’impresa e unite da un rapporto di continuità causale e unità concettuale piuttosto che di rigorosa successione cronologica. Ai fini della valutazione della sussistenza di questa sequenza qualificata rimane irrilevante la presenza di una finale dichiarazione di insolvenza in funzione dell’avvio di una procedura fallimentare o di amministrazione straordinaria. Occorre invece verificare, partendo dal dato cronologico per proseguire in una valutazione di carattere giuridico e/o economico, se l’imprenditore, nell’eventuale iato temporale fra le procedure susseguitesi fra loro, sia intervenuto attivamente nella gestione dell’impresa ed abbia variato la consistenza economica del suo stato di dissesto in maniera sostanziale, introducendo elementi di rilevante difformità rispetto alla situazione in precedenza apprezzata dagli organi giudiziari.

 


Tribunale Ordinario di Milano, Sezione Fallimentare Civile, Decreto del 04/12/2019

La consecuzione è un fenomeno consistente nel collegamento sequenziale fra procedure concorsuali di qualsiasi tipo

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di MILANO

SECONDA CIVILE

FALLIMENTI

Il Tribunale, nella persona dei seguenti magistrati

Dott. __ – Presidente

Dott. __ – Giudice

Dott. __ – Giudice

ha pronunciato il seguente

DECRETO

ex art. 98 L.F.

nella controversia iscritta al n. __ R.G. promossa da:

E. – Opponente

contro

Fallimento G. S.r.l. – Convenuto contumace

OGGETTO: Opposizione allo stato passivo ex art. 98 L.F.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ricorso depositato in data __ e regolarmente notificato alla controparte E. ha proposto opposizione avverso lo stato passivo del Fallimento G. S.r.l. dichiarato esecutivo, con il quale è stata decretata la esclusione dalla prededuzione del credito vantato dal ricorrente nei confronti del fallimento. Tale credito, ammonta ad Euro __ e deriva dall’esercizio del ruolo di amministratore sociale della fallita da parte del ricorrente nel periodo successivo alla omologa dell’accordo di ristrutturazione. La motivazione della decisione assunta dal Giudice che degradava il credito al chirografo era la seguente: “esclusa la prededuzione richiesta mancando la continuità tra le procedure” (doc. 9).

Quali motivi di opposizione ha dedotto l’opponente:

– che l’attività è stata svolta nel corso della esecuzione della procedura di 182 bis cui la giurisprudenza della Suprema Corte ha recentemente riconosciuto senza restrizione natura di procedura concorsuale e, quindi, il credito sorto in occasione o funzione della procedura è credito prededucibile;

– che anche sotto il profilo della consecuzione di procedure rilevava la erroneità della decisione del giudice delegato, posto che la consecuzione si verifica quando si opera all’interno della stessa situazione di insolvenza che qui si era evoluta come sviluppo logico tra la procedura di accordo di ristrutturazione ed il fallimento successivo;

– che tutte le procedure succedutesi si erano caratterizzate per la carenza di liquidità connessa alla mancata vendita dei medesimi immobili e la consecuzione non poteva essere esclusa in forza di un breve lasso di tempo intercorso fra una procedura e l’altra.

– Insisteva, quindi per l’accoglimento della opposizione ed il riconoscimento della prededuzione al suo emolumento di amministratore.

Non si è costituito il Fallimento G. che ha ritenuto trattarsi, evidentemente di questione di diritto;

In prima udienza la procedura veniva dichiarata contumace. In assenza di fase istruttoria il Giudice relatore autorizzava la precisazione delle conclusioni e riservava la decisione finale al collegio.

Occorre rammentare preliminarmente in diritto alcuni principi fondamentali che vengono ad innervare l’intera materia dell’ammissione allo stato passivo e dell’opposizione alla stessa (procedimento compreso), e cioè che:

1) il procedimento di opposizione allo stato passivo è retto dalle regole ordinarie in tema di onere della prova, con la conseguenza che grava sull’opponente (attore) fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto di credito (Cassazione civile 20.01.2015 n. 826; Cass. 09.02.2004 n. 2387: e Cass sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533; cfr. altresì Cassazione civile sez. III, 28 gennaio 2002, n. 982;) mentre graverà sulla curatela l’onere di dimostrare fatti modificativi, impeditivi o estintivi dell’obbligazione (Cass. civ., Sez. I, 9 maggio 2001, n. 6465; Cass. civ., Sez. I, 11 marzo 1995, n. 2832);

2) tuttavia, nel procedimento di accertamento del passivo il curatore deve essere considerato terzo sia rispetto al fallito sia rispetto ai creditori concorsuali e, pertanto, al predetto curatore non sono opponibili i crediti non aventi data certa (cfr. da ultimo Cass. S.U. 20.02.2013, n. 4213; Cass. 9.5.2011 n. 10081; Cass. civ., Sez. I, 15 marzo 2005, n. 5582;);

3) il procedimento di opposizione allo stato passivo è un giudizio di carattere impugnatorio, con la rilevante conseguenza che in esso non possono essere avanzate domande nuove che non siano già contenute nell’istanza di ammissione al passivo operando il principio della immutabilità della domanda (Cass. civ., Sez. I, 18 giugno 2003, n. 9716; Cass. civ., Sez. lavoro, 28 maggio 2003, n. 8472; Cass. civ., Sez. I, 8 novembre 1997, n. 11026);

4) per contro, poiché nel giudizio di opposizione allo stato passivo è lo stesso creditore opponente ad avere la veste di attore, mentre il curatore che contesti la pretesa assume quella di convenuto, nulla impedisce – nei limiti in cui le regole del processo di cognizione lo consentono – al curatore di far valere, in via di eccezione, ragioni di infondatezza della pretesa del ricorrente diverse da quelle enunciate nell’originario provvedimento di non ammissione del credito al passivo, non essendovi alcun onere di sollevare tutte le possibili contestazioni nel corso dell’adunanza prevista dall’art. 96 L.F. (Cass. 11.5.2001 n. 656; Cass. civ., Sez. I, 1° agosto 1996, n. 6963; App. Trieste, 29 marzo 2006;);

5) il tribunale ha la sola facoltà – il cui mancato esercizio non esonera la parte dalle conseguenze del mancato assolvimento dell’onere probatorio – di acquisire il fascicolo fallimentare e da esso eventualmente desumere elementi o argomenti di prova (Cass. civ., 21.12.2005 n. 28302; Cass. Sez. I, 9 maggio 2001, n. 6465; Cass. civ., Sez. I, 11 marzo 1995, n. 2832; Trib. Milano, 7 ottobre 2003; Trib. Padova, 27 febbraio 2002).

6) quanto alla prova del credito, nella procedura di verifica dei crediti e nel conseguente giudizio di opposizione allo stato passivo, il curatore del fallimento agisce in qualità di terzo sia rispetto ai creditori del fallito che richiedono l’ammissione al passivo, sia rispetto allo stesso fallito; conseguentemente, non è applicabile nei suoi confronti l’art. 2709 c.c., secondo cui i libri e le scritture contabili delle imprese soggette a registrazione fanno prova contro l’imprenditore, invocabile solo nei rapporti fra i contraenti o i loro successori, fra i quali ultimi non è annoverabile il curatore nella sua funzione istituzionale di formazione dello stato passivo (ancorché, peraltro, dette scritture possano essere prese in considerazione dal giudice di merito quali elementi indiziari in ordine all’esistenza del credito) (Cass. Civ. 9.5.2013 n. 11017; Cass. civ., 9-5.2011 n. 10081; Cass. Sez. I, 15 marzo 2005, n. 5582;);

7) in sede di ammissione al passivo fallimentare, al fine dell’accertamento dell’anteriorità del credito rispetto alla dichiarazione di fallimento, la scrittura privata allegata a documentazione della pretesa (nell’ipotesi, effetti cambiari emessi da una società successivamente fallita) è soggetta alle regole dettate dall’art. 2704, comma 1, c.c. in tema di certezza e computabilità della data riguardo ai terzi, le quali possono essere fatte valere nell’interesse della massa o del fallito dal curatore, data la sua posizione di terzietà rispetto agli atti compiuti dal fallito medesimo (Cass. Sez. civ. 9.5.2011 n. 10081; Cass. civ., Sez. I, 15 marzo 2005, n. 5582; Cass. civ., Sez. I, 9 maggio 2001, n. 6465; Cass. civ., Sez. I, 20 luglio 2000, n. 9539; Cass. civ., Sez. I, 8 febbraio 2000, n. 1370;);

8) infine, ma in questo caso si tratta di regola generale e non operante in via esclusiva per il Fallimento, le fatture commerciali non accettate, non integrano di per sé la piena prova del credito in esse indicato e non determinano neppure alcuna inversione dell’onere probatorio; ne consegue che, quando il preteso debitore muove contestazioni sull’an o sul quantum debeatur, le fatture non valgono a dimostrare l’esistenza del credito, né, tanto meno, la sua liquidità ed esigibilità (cfr. Cass. Sez. civ. 11.03.2011 n. 5915; Cass. Sez. civ.3.3.2009 n. 5071; Cass. civ., Sez. II, 11 maggio 2007, n. 10860; Cass. civ. (Ord.), Sez. II, 29 novembre 2004, n. 22401; Cass. civ., Sez. II, 27 agosto 2003, n. 12518; Cass. civ., Sez. II, 4 marzo 2003, n. 3188).

Richiamati tali principi generali e passando al caso di specie, osserva il tribunale che il tema che involve la presente controversia è di pura interpretazione delle norme, in quanto la sola qualificazione del credito maturato indubitabilmente da E. (ammesso al chirografo e come tale riconosciuto nell’an e nel quantum) è sicuramente questione di puro diritto.

Il credito vantato da E. è maturato per gli emolumenti di amministratore sociale della società maturati nella fase di esecuzione dell’accordo di ristrutturazione omologato il __.

Assume il ricorrente di essere creditore prededucibile perché tratterebbesi di obbligazione per la quale nel piano era stato appostato un fondo per spese di procedura necessarie alla esistenza della società ed al perseguimento dei fini dell’accordo di ristrutturazione, nel periodo di esecuzione previsto di due anni e mezzo, definito in allora dalla difesa della richiedente omologa prededucibile. In proposito è evidente che l’uso di tale termine è atecnico, in quanto, la procedura di 182 bis L.F. si chiude formalmente con l’omologa, quindi la definizione di prededucibilità non è connessa allo svolgimento della procedura, ma alla necessità reputata dalla parte di coprire la spesa per l’attività del Liquidatore nella fase esecutiva, mediante l’appostazione di un fondo, a dimostrazione della fattibilità del piano redatto a sostegno dell’accordo di ristrutturazione, elemento che il Tribunale avrebbe vagliato in sede di omologa. La definizione adottata autonomamente dal piano esprime la posizione di preminenza riconosciuta dal proponente alla spesa all’interno della fase esecutiva, cioè dentro il Piano di ristrutturazione e non può, certo, per sé solo vincolare il diverso e futuro giudice del fallimento che sia dichiarato in seguito all’insuccesso dell’accordo stesso.

Si deve rilevare allora, approfondendo il tema della prededuzione post omologa, che l’obbligazione esecutiva del 182 bis L.F. è definita dalla legge prededucibile per particolari obbligazioni di finanziamento assunte dopo l’omologa, dove la prededuzione ha una funzione incentivante l’erogazione di credito, (cfr. 182 quater L.F.), al di fuori di questa ipotesi il riconoscimento della prededucibilità tecnicamente intesa ai sensi del 111 L.F., nel successivo fallimento, deve essere ancorato ai normali parametri del 111 comma 2 L.F. e passa attraverso la disamina del legame di occasionalità o funzionalità della obbligazione rispetto alla procedura concorsuale che si sia risolta in modo infausto.

Ciò introduce il primo tema sul quale il Collegio si è soffermato, rivedendo il proprio precedente orientamento che partendo inizialmente dalla necessità che la procedura conclusasi negativamente sia stata una procedura concorsuale contenuta nella legge fallimentare, aveva ritenuto che tale non potesse definirsi il 182 bis risolvendo a monte così il tema della prededucibilità negativamente . Il decidente ha rilevato che la Corte nelle note pronunce del gennaio 2018 ha osservato che la figura dell’accordo era sempre stata percepita come figura intermedia tra la composizione stragiudiziale che ha la massima espressione nel 67 L.F. lettera d, e le soluzioni concordatarie connesse al 160 L.F., dando vita a lunghissimi confronti e scontri dottrinari, che avevano in maggioranza però escluso in principio la concorsualità, per l’assenza di un procedimento di apertura, della nomina di un giudice delegato e di un commissario, della fase di voto dei creditori interna, del rispetto formale della par condicio, dei limiti alla gestione del proprio patrimonio dell’imprenditore, del blocco degli interessi sui debiti chirografari ecc. È indubbio, però, che l’istituto dal primo momento in cui è stato delineato con D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito in L. 14 maggio 2005, n. 80, quando constava di 5 piccoli commi è andato sviluppandosi e in questa fase accrescitiva, in cui si è disegnato sempre più precisamente, arricchendosi di contenuti, ha costantemente acquisito (assorbito) elementi che lo avvicinavano alla procedura concorsuale minore per antonomasia, il concordato preventivo, rispetto al quale costituiva una alternativa che il legislatore voleva potenziare e favorire nell’utilizzo. Così nel 2007 con il c.d. decreto correttivo, L. n. 169 del 12 settembre, sono stati inseriti, da un lato il divieto di azioni cautelari ed esecutive durante la fase di omologa, dopo la pubblicazione della richiesta di omologa sul Registro delle imprese, e dall’altro il richiamo al 168 L.F. II comma, con l’interruzione delle prescrizioni. Il divieto di iniziare le azioni esecutive e cautelari, è poi stato allargato alla fase delle trattative avviate, chiedendo la produzione di tutti i documenti necessari per il concordato preventivo, indicati dal 161 primo e secondo comma oltre alla dichiarazione autocertificata dell’imprenditore e l’attestazione di pendenza delle trattative (che ove si concludano positivamente sarebbero in grado di risolvere la situazione di crisi). In questo caso il Tribunale deve fissare un’udienza e stimolare la costituzione del contraddittorio con tutti i creditori che possono, ove lo ritengano, comparire ed opporsi e, in caso non si acquietino, impugnare reclamando il decreto di concessione del termine per il deposito dell’accordo di ristrutturazione.

Quello che comunemente si chiama lo stay, perché si ispira ad un istituto dei paesi anglosassoni, ha cominciato a far rifluire all’interno dell’Accordo degli elementi di contiguità con il Concordato, perché deve essere comunicato a tutti i creditori, questa volta non con la sola pubblicazione sul Registro imprese, ma mediante notifica e permette loro di interloquire coll’organo giurisdizionale, analogamente protegge da iniziative depauperatorie o di possibile inibitoria e distrubo la fase delle trattative, preparatoria, come avviene anche nel concordato, prima dell’adunanza in cui si forma la volontà dei creditori.

Nel 2012, poi con L. n. 134 del 7 agosto 2012, l’istituto è stato nuovamente oggetto di interventi, che hanno stabilito che l’attestatore lo designa sicuramente il debitore (come nel concordato, superando le ipotesi concrete in da taluno cui si era chiesto al Presidente del Tribunale di farlo,) che l’attestazione, come nel concordato, deve riguardare anche l’aspetto della veridicità dei dati aziendali e non solo l’attuabilità dell’accordo, infine si è introdotta una moratoria dei pagamenti integrali dei dissenzienti che caratterizzano l’accordo, in 120 giorni dalla omologa o dalla scadenza se non ancora scaduti . Molto importante il passaggio operato dalla già citata L. n. 134 del 7 agosto 2012 che ha allargato il divieto di acquisire prelazioni, salvo che siano concordate, facendo rientrare nel 182 bis dei richiami espressi alla disciplina fondamentale del concordato che limita la possibilità di acquisire nuovi titoli di prelazione, anche se qui non può parlarsi di diretta autorizzazione del giudice, ma di inserimento delle prelazioni nel piano, noto a tutti i creditori e oggetto di futura omologa da parte del Tribunale, che finisce per esaminarli e approvarli. La documentazione da presentare per l’accesso alla procedura è stata sempre più omologata al concordato, richiamandosi il contenuto del 161 lettere a, b, c, d. Ma il migliore argomento che illumina la riscontrata similitudine tra il 182 bis ed il concordato sta nell’ottavo comma (integrato sempre dalla L. n. 134 del 7 agosto 2012) che ha inserito la c.d. possibilità di switch, ovvero di passare da una domanda di futura omologa di accordo di ristrutturazione ad una di concordato preventivo nel termine assegnato con lo stay per il deposito . Con ciò il legislatore ha espresso la sua opinione in ordine alla natura non ostativa del passaggio biunivoco da una procedura all’altra, sostenendo, si deve ritenere implicitamente, che le due procedure siano affini, perciò sostanzialmente concorsuali entrambe. La riprova sta nella osservazione che è stata inserita dalla medesima L. n. 134 del 7 agosto 2012 anche la norma inversa che consentiva, in caso di deposito di domanda di concordato con riserva ai sensi del 161 co 9, di depositare poi legittimamente anche una richiesta di omologa del 182 bis. La L. 27 giugno 2015, n. 132 di conversione del D.L. n. 83, infine ha inserito nella legge fallimentare un ulteriore articolo che ha ampliato la portata funzionale del 182 bis, aumentandone peraltro il coinvolgimento giurisdizionale, il 182 septies, l’accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari, o accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa. Al fine di ottenere la possibilità di coartare gli ulteriori componenti di una categoria di creditori finanziari che si sia già espressa a favore dell’accordo di ristrutturazione per il 75 %, il controllo giurisdizionale è stato profondamente ampliato, dovendo il Tribunale, controllare la informativa a tutti gli appartenenti della categoria, la buona fede nelle trattative, la informativa specifica nei confronti del creditore estendendo. In caso di opposizione del soggetto coartato il Tribunale procede a controllare anche la posizione giuridica e gli interessi omogenei dei soggetti facenti parte della categoria, la completezza e l’aggiornamento delle notizie fornite, il fatto che siano stati messi in condizione di partecipare alle trattative, la circostanza che possano essere soddisfatti in misura non inferiore alle prospettive concretamente perseguibili in alternativa, effettuando una sorta di cram down. Sembra quindi evidente che l’istituto è cresciuto negli anni acquisendo sempre più caratteristiche concorsuali. La legge delega 155 del 2017, e poi i decreti delegati hanno confermato questo sviluppo, anche perché la procedura di accordo è stata costruita come alternativa a tutti gli effetti al concordato preventivo e stante la macchinosità di quest’ultimo vi è una spinta all’utilizzo dello strumento, meno giurisdizionale e più duttile, attraverso l’inserimento di una ulteriore estensione del septies, ampliato in sede di CC.II. dall’art. 61 che si applica a qualunque tipologia di creditore non solo finanziario e persino il nuovo art. 60, dove l’agevolazione prescinde da una maggioranza del 60%. Ciò consente di comprendere che il legislatore patrocina soluzioni “concorsuali sempre più elastiche e tra loro intercambiabili ed addirittura un 182 bis semplificato, con maggioranza minima (30 %) se non vengono chieste misure protettive o moratoria per il pagamento dei non aderenti. Da alcuni tale istituto è definito una sorta di concordato semplificato. Incidenter tantum, poi, nel confermare la possibilità di protezione nella fase delle trattative se pendono istanze di fallimento, il legislatore, ha persino previsto che possa essere nominato un commissario per coadiuvare il giudice e meglio tutelare i creditori.

La Corte di Cassazione nelle pronunce 2018, citate in apertura, ricostruendo gli elementi di comunanza ha rinvenuto delle caratteristiche di concorsualità (intesa come metodo per affrontare e disciplinare la convivenza e i conflitti tra l’imprenditore in crisi o in insolvenza, ed i suoi creditori,) ed ha individuato un ambito di intervento anche giurisdizionale, pur nel rispetto della autonomia negoziale delle parti che costituisce una delle caratteristiche fondanti dell’istituto, ispirato latamente ai prepakaged agreements and procedures statunitensi.

In primo luogo c’è sostanziale identità di presupposti soggettivi, è l’imprenditore commerciale non di piccole dimensioni e nemmeno di grandi o grandissime dimensioni che può essere assoggettato a 182 bis, quando si trova in crisi ed è prevista la conservazione degli effetti in caso di passaggio da 182 bis a concordato e viceversa al termine del periodo assegnato ai sensi del 161 per il concordato con riserva o del 182 bis a seguito di stay. In ambedue le procedure si opera un deposito presso il Tribunale sede dell’impresa ai sensi dell’art. 9 L.F. e si procede alla pubblicazione sul registro delle imprese della domanda e dei suoi allegati.

In ogni caso gli effetti dell’accordo si producono al deposito della domanda di omologa ma solo dopo la omologazione acquistano stabilità. Inoltre possono produrre quegli effetti protettivi che sono individuabili nella legge solo grazie al coinvolgimento del Tribunale ed alla necessità esiziale che poi vi sia una omologazione. La omologazione è istituto identico come funzione a quello concordatario, ovvero tra l’altro accerta la rispondenza della procedura concreta al modello minimo legale, in essa possono intervenire sia gli aderenti che i non aderenti (che subiscono la moratoria) ed i terzi interessati, e produce, quindi potenzialmente effetti per tutti costoro. Nel caso del 182 septies, poi, è solo l’intervento del Tribunale con le sue regole ed i controlli che gli sono propri e specifici, che consente la estensione degli effetti dell’accordo dei componenti della categoria ai soggetti riottosi.

La concorsualità trova una giustificazione anche nella comunanza delle misure protettive preventive ottenibili in favore della tutela delle trattative (161 sesto comma e 182 bis sesto comma) in tutte e due le procedure, sempre previo coinvolgimento del tribunale ed informazione di tutti i creditori, infine nelle misure protettive ordinarie, ottenibili per 60 giorni a seguito del deposito della richiesta di omologa, analoghe a quelle del 168.

La circostanza che non vi sia adunanza è legata alla diversa conformazione della raccolta delle adesioni negli accordi preconfezionati, essa avviene fuori dall’ambito giurisdizionale, ma la regolarità del consenso e la validità ed opponibilità della firma del creditore è compito di controllo del Tribunale in sede di omologa.

Anche il mancato rispetto della par condicio non risulta questione esiziale, giacché tale principio di giustizia, che tutelava la parità formale del trattamento dei creditori di fronte al patrimonio incapiente del debitore, salvo l’effetto delle cause legittime di prelazione, è principio cardine ma è derogabile e lo è stato principalmente in occasione dell’introduzione nel nostro ordinamento delle classi di creditori nel 2005, ammettendosi anche nel concordato il mancato rispetto della par condicio, ovvero il trattamento differente di soggetti giuridicamente identici, come i chirografari, in funzione della libertà di confezionamento della proposta concordataria ed in funzione della volontà di favorire il componimento del dissesto. Ormai il legislatore, lungi dal proteggere la parità formale tra i creditori, tende a favorire la composizione del dissesto anche nel concordato (della cui natura concorsuale nessuno dubita), lasciando la tutela di privilegiati alla concreta e reale valorizzazione della garanzia e quella dei chirografari, all’interesse economico che li accomuna in gruppi. È vero che il soggetto dissenziente può opporsi e se ne ha i numeri chiedere il cram down, nel concordato, ma anche nel 182 bis chi non vuole aderire ad un trattamento che reputa iniquo può restare estraneo all’accordo ed evitare la falcidia, o, se si tratta di 182 septies può opporsi e chiedere il cram down sostanzialmente instando per la valutazione che la soluzione impostagli non sia deteriore.

Risulta che gli aspetti di affinità siano andati intensificandosi a tal punto che mantenere l’accordo al di fuori della concorsualità rischia di presentarsi come una scelta critica, pur se l’adozione di tale decisione porterebbe alla non percorribilità di procedure di tal genere per i fondi comuni di investimento chiusi che, invece, in alcune fattispecie sono stati anche da questo Tribunale negli anni scorsi ammessi a goderne. Sembra però che una prospettiva di negazione, si presenti come antistorica, visto che il regolamento 848 del 2015 UE del parlamento Europeo e del consiglio del 20 maggio 2015 prevede espressamente tra le procedure concorsuali (cfr. art. 1 ed All. A) l’accordo di ristrutturazione, escludendo invece, in quanto l’elenco è tassativo, il 67 lettera d L.F. che non è citato. Esaminando la prospettiva europea si comprende come l’angolo visuale a cui l’interprete italiano è legato, risulti spesso concettualmente legato a soluzioni domestiche che in sede europea non trovano più piena condivisione e, d’altra parte, si comprende appieno perché in sede di riforma l’armonia rispetto ai principi dell’early warning, del regolamento 848 del 2015 e della direttiva del giugno 2019 siano esigenza fondamentale ed il piano di ristrutturazione ne rappresenti una componente imprescindibile.

Se quindi, re melius perpensa, si deve poter considerare la procedura di accordo di ristrutturazione dotata di quei requisiti minimi che ne denotano la concorsualità, allora per decidere se la prestazione di E. possa godere o meno di prededuzione, occorre, lo si riafferma, che essa lo sia secondo i criteri dettati dal 111 co. 2, L.F. ovvero sia o prevista dalla legge, o eseguita in funzione o in occasione della procedura concorsuale.

Vi sono, come già visto dei casi di prededucibilità del credito sorto in pendenza di 182 bis nel successivo fallimento, sono indicati dall’art. 182 quater 1 comma per i finanziamenti in esecuzione, II comma per i finanziamenti in funzione della presentazione della richiesta di omologa, e nel 182 quinquies, primo e terzo comma per la prosecuzione dell’attività. Al di fuori di tali ipotesi la legge non contempla nessun credito legalmente prededucibile.

Occorre allora esaminare se vi è un rapporto di funzionalità o di occasionalità.

La prima implica un rapporto di coerenza teleologica della obbligazione con i fini della procedura ed è connessa di regola alle spese preparatorie per la presentazione di una procedura concorsuale e non è apparentemente l’ipotesi qui esaminata.

Il collegio però prende atto dell’orientamento espresso dalla Suprema Corte in tema di concordato (in continuità, ma in forza di un obiter dictum valevole anche per il concordato per cessione di beni) (cfr. Cass 10.01.2018 n. 380 ord.; e Cass. 9.9.2016 n. 17911, ord.) con il quale ha affermato che la chiusura del concordato ex art. 181, pur determinando la cessazione del regime di amministrazione controllato conseguente allo spossessamento attenuato, a seguito della definitività del decreto di omologa, non comporta l’acquisizione in capo al debitore della piena disponibilità del proprio patrimonio, che resta vincolato alla attuazione degli obblighi da lui assunti con la proposta omologata, dei quali il commissario giudiziale, come espressamente previsto dall’art. 185 è tenuto a sorvegliare l’adempimento, secondo modalità stabilite nel decreto di omologazione. La fase di esecuzione, nella quale come si desume dalla rubrica del 185, si estrinseca l’adempimento del concordato, non può allora ritenersi scissa, e come a sé stante, rispetto alla fase procedimentale che l’ha preceduta: l’assoggettamento del debitore, dopo l’omologazione, all’osservanza del provvedimento giurisdizionale emesso ai sensi dell’art. 180, implica infatti la necessità che egli indirizzi il proprio agire al conseguimento degli obiettivi prefigurati nella proposta presentata ed approvata dai creditori. Omissis. È ben possibile, dunque, che nel corso dell’esecuzione del concordato l’imprenditore si trovi nella necessità di contrarre nuove obbligazioni, che, in tal caso siccome traenti origine da negozi diretti al raggiungimento degli obiettivi previsti dal piano, devono senz’altro ritenersi sorte in funzione della procedura. In forza di tale orientamento, allora, deve ritenersi che siano in funzione di una procedura di concordato o possano esserlo sia obbligazioni contratte per la presentazione della procedura sia quelle indispensabili eseguite in esecuzione di essa.

Sul punto specifico della prededucibilità nell’ambito del 182 bis, invece, la Suprema Corte con una delle sentenze in precedenza citate sul tema della concorsualità della procedura ha affermato senza esitazioni che “Il credito del professionista che abbia svolto attività di assistenza e consulenza funzionali alla presentazione ed all’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti, rientra de plano tra i crediti sorti in funzione di quest’ultima procedura e, come tale, a norma dell’art. 111, comma 2, L.F., va soddisfatto in prededuzione nel successivo fallimento, senza che ai fini di tale collocazione debba essere accertato, con valutazione ex post, che la prestazione resa sia stata concretamente utile per la massa in ragione dei risultati raggiunti (cfr. Cass. 18.01.2018 n. 1182). Successivamente Cass. 12.07.2018 n. 18488 ha chiarito che la prededuzione ha un duplice criterio guida, cronologico e teleologico, di individuazione delle obbligazioni relative. Tuttavia, affinché un credito sia ammesso in prededuzione, non è sufficiente che lo stesso venga a maturare durante la pendenza di una procedura concorsuale (quello che comunemente si definisce in occasione), essendo presupposto indefettibile, per il riconoscimento della prededucibilità, che la genesi dell’obbligazione sia temporalmente connessa alla pendenza della procedura medesima e che, comunque, l’assunzione di tale obbligazione risulti dal piano o dalla proposta. L’occasionalità, quindi, richiede il legame temporale di coesistenza fra procedura concorsuale e obbligazione; l’obbligazione deve essere stata assunta cioè durante la procedura e per il suo funzionamento. Ciò consente di superare il vaglio di utilità che considera rilevanti i soli risultati raggiunti nella procedura alternativa, perché così facendo il tenore del 111 L.F. sarebbe incomprensibile ed incoerente ogni volta che la procedura fosse terminata in modo infausto. Quando interviene il fallimento la prospettiva in cui la occasionalità va valutata è quella della coesistenza fra procedura concorsuale, suo corretto svolgimento previsto e insorgere dell’obbligazione.

Il legislatore non ha eseguito una valutazione assoluta di necessità di accollare ai debitori i costi maturati in costanza di procedura, occorre valutare appunto la sussistenza della procedura e la sussistenza della valida occasionalità. Nel caso in esame la spesa era prevista e quantificata esattamente dal piano omologato ed era indispensabile alla corretta conduzione dello stesso, trattandosi del liquidatore sociale cui era affidato il compito di curare la liquidazione del patrimonio che avrebbe dovuto dotare economicamente la procedura.

Tenuto conto che la spesa è stata preventivata in fase esecutiva post omologa, al fine di decidere se la stessa può legittimamente dare vita a prededuzione, si deve tenere conto di un ulteriore fattore: il nuovo codice della crisi ha soppresso terminologicamente la categoria della occasionalità, essendo stata sostituita, opportunamente, dalla indicazione specifica delle obbligazioni cui il legislatore, per meritevolezza rispetto ai fini che intende privilegiare, ha riconosciuto la prededuzione. Certamente tale indicazione restringe la paventata prededuzione tout court a qualsiasi obbligazione contratta in sede esecutiva e realizza quel risparmio che senza infingimenti il legislatore della riforma perseguiva, Le ipotesi di prededuzione previste riguardano tra l’altro le spese per la gestione del patrimonio del debitore, quelle per la continuazione dell’esercizio dell’impresa, il compenso degli organi preposti (cfr. art. 6 ccii). Ciò consente, in base ad un convincimento più meditato, di ritenere che il ruolo indispensabile svolto da E., nella esecuzione del piano dell’accordo di ristrutturazione omologato, in quanto procedura concorsuale, possa avere dato vita a obbligazioni prededucibili. Si reputa che le ragioni che si potrebbero valorizzare per escludere in fase esecutiva le obbligazioni in caso di accordo di ristrutturazione, che potrebbero impingere nella mancanza di organi di controllo e sorveglianza che possano colla loro presenza garantire la legittimità della prededuzione maturanda, siano apparentemente suggestive ma non colgano nel segno, in questo caso, trattandosi di spesa controllata in quanto specificata nell’an e nel quantum e prevista dal piano omologato dal Tribunale . Non risulta ex post che si sia distorta la previsione contenuta nella omologa ed accettata dai creditori aderendo al piano che supportava la proposta di ristrutturazione.

La ulteriore questione della mancata consecuzione, rilevata dal giudice delegato, tra il 182 bis ed il fallimento appare ad avviso del Collegio non è condivisibile, alla luce dell’orientamento recente della corte Suprema che ha ritenuto possibile che la stessa si esplichi anche in senso orizzontale, ovvero tra procedure minori che abbiano presupposti simili e servano a risolvere situazioni identiche e non solo tra procedure minori e fallimento (Cfr., Cass11.06.2019 n. 15724). La Corte ha ricostruito la prededuzione come precedenza assoluta nel riparto, un’operazione di prelevamento che si realizza tramite la separazione delle somme necessarie per la copertura delle spese della procedura dal ricavato dell’espropriazione forzata dei beni del debitore. Dunque mentre il privilegio è una palese eccezione alla par condicio, ha natura sostanziale e si trova in un rapporto di accessorietà con il credito garantito, poiché ne suppone l’esistenza e lo segue; la prededuzione, attribuisce una precedenza rispetto a tutti i creditori sull’intero patrimonio del debitore, ha natura procedurale perché nasce e si realizza in tale ambito e assiste il credito di massa finché esiste la procedura concorsuale. La prededuzione attribuisce, secondo la Corte, una precedenza processuale, in ragione della volontà di rendere efficiente la procedura, per questo le obbligazioni strumentali al suo corretto e sollecito svolgimento sono preferite nell’ordine di distribuzione.

Il fenomeno conosciuto come consecuzione delle procedure concorsuali (storicamente di matrice interpretativa e giurisprudenziale) costituisce l’unica alternativa alla cessazione della prededuzione con il cessare dello specifico processo in cui nasce e consente il permanere della precedenza riservata al credito di massa anche al di fuori dell’ambito procedurale in cui è sorto. La collocabilità in prededuzione in una seconda procedura di crediti conseguenti a un’attività svolta in una procedura antecedente postula però uno specifico accertamento di consecutività tra i procedimenti susseguitisi.

Qui la Corte ha affermato sinteticamente un principio assai cogente e cioè che una volta constatato che nella fattispecie i giudici del merito non hanno ritenuto di arrestare la moltiplicazione di procedure, e ciò va inteso evidentemente perché non hanno riscontrato ipotesi di abuso delle finalità delle procedure (non rinvenendo nel caso concreto finalità distorte o deviate rispetto a quelle legali si veda sul punto Cass. 25210/2018), nulla vieta la possibilità di una consecuzione fra procedure, non solo rispetto a procedure minori a cui faccia seguito il fallimento ma anche con riferimento a casi di successione fra sole procedure minori.

Recentemente Cass. 10106/2019 ha ammesso la possibilità che a un accordo di ristrutturazione, faccia seguito un successivo concordato preventivo riconoscendo che occorre consentire all’imprenditore di comporre, con tutte le modalità consentite dall’ordinamento, la crisi della propria impresa, in quanto finalità meritevole di tutela. Questa interpretazione reiterata della Corte ora si basa sul dato normativo costituito dall’art. 111, comma 2, L.F., che, facendo ricorso a una terminologia plurale e generale (laddove parla di procedure concorsuali di cui alla presente legge), deve intendersi come riferito non solo all’ipotizzabile ventaglio delle procedure concorsuali in cui la prededuzione può essere riconosciuta, ma anche alla possibilità che la prededuzione sia ammessa nell’ambito di procedure concorsuali fra loro consecutive. La corte osserva ulteriormente che la medesima terminologia plurale e generale è stata utilizzata anche dal codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, che all’art. 6, comma 1, lett. d), riconosce la natura prededucibile ai “crediti legalmente sorti durante le procedure concorsuali per la gestione del patrimonio del debitore, la continuazione dell’esercizio dell’impresa, il compenso degli organi preposti e le prestazioni professionali richieste dagli organi medesimi.

Da questo combinato disposto tra legge attuale e legge futura in attesa di entrata in vigore, la Corte ha elaborato un principio di diritto condivisibile e cioè che la consecuzione è un fenomeno generalissimo consistente nel collegamento sequenziale fra procedure concorsuali di qualsiasi tipo volte a regolare una coincidente situazione di dissesto dell’impresa (vuoi che essa si atteggi come crisi, vuoi che consista in una situazione di insolvenza, dato che stato di crisi e stato di insolvenza possono rappresentare una mera distinzione di grado della medesima crisi economica) e unite da un rapporto di continuità causale e unità concettuale piuttosto che di rigorosa successione cronologica.

Ai fini della valutazione della sussistenza di questa sequenza qualificata rimane irrilevante la presenza di una finale dichiarazione di insolvenza in funzione dell’avvio di una procedura fallimentare o di amministrazione straordinaria, non è più come sembrava in passato rilevante che l’esito infausto si concluda in fallimento. Occorre invece verificare, partendo dal dato cronologico per proseguire in una valutazione di carattere giuridico e/o economico, se l’imprenditore, nell’eventuale iato temporale fra le procedure susseguitesi fra loro, sia intervenuto attivamente nella gestione dell’impresa ed abbia variato la consistenza economica del suo stato di dissesto in maniera sostanziale, introducendo elementi di rilevante difformità rispetto alla situazione in precedenza apprezzata dagli organi giudiziari (cfr. Cass. 9289/2010, Cass. 8164/1999). La consecuzione opera in una prospettiva non cronologica ma logica, a prescindere dalla presenza di una finale dichiarazione di insolvenza “e la sua giustificazione è rinvenibile nell’unica e comune finalità delle procedure coinvolte di dare soluzione alla medesima situazione di crisi economica; ed è proprio l’unicità del fenomeno sostanziale a cui ciascuna procedura ha cercato di porre rimedio a dare ragione di un regime consecutivo di procedure concorsuali.

Il principio sancito dalla pronuncia in esame è sostanzialmente che la consecuzione funge da elemento di congiunzione fra procedure distinte, come se l’una si evolvesse nell’altra, e consente di traslare dall’una all’altra procedura la preferenza procedimentale in cui consiste la prededuzione, facendo sì che la stessa valga non solo nell’ambito in cui è maturata ma anche negli altri che sia conseguiti per risolvere la stessa situazione di dissesto.

Conseguentemente, appurato che nel caso in esame non vi è stato abuso di procedure minori, che la crisi era indubitabilmente la stessa nel passaggio tra il 182 bis ed il concordato con riserva, poi rinunciato per chiedere il fallimento, constatato altresì che l’imprenditore non aveva eseguito interventi che falsassero i presupposti esaminati dalla omologa del 182 bis, ma invece lo aveva fatto il mercato e la crisi sopraggiunta, non si può negare che nel caso in esame vi è stata consescuzione fra il 182 bis, il concordato con riserva ed il fallimento.

Si deve accogliere pertanto l’opposizione e va rivista la collocazione del credito di E. che è prededucibile, ma chirografario, perché era il legale rappresentante della società, per Euro __.

Le spese di causa seguono a soccombenza e vengono poste a carico della procedura e trattandosi di questione nuova e controversa sono liquidate al minimo in Euro __ oltre Iva CPA, rimborso forfettario e __ di spese per contributo unificato e marca.

P.Q.M.

1) Accoglie l’opposizione di E. ed a modifica dello stato passivo dichiarato esecutivo, dichiara ammesso allo stato passivo del Fallimento G. S.r.l. il credito di E., pari ad Euro __ in prededuzione chirografaria;

2) condanna il fallimento alla rifusione delle spese di lite nella misura di Euro __ oltre Iva CPA, rimborso forfettario e __ di spese per contributo unificato e marca.

Così deciso in Milano, nella camera di consiglio della Seconda Sezione Civile, in data 21 novembre 2019.

Depositata in Cancelleria il 4 dicembre 2019.

Tribunale Milano Sez. fall. Decr. 04_12_2019

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L’azione di responsabilità promossa dal curatore ai danni degli amministratori, dei liquidatori e dei sindaci della società fallita

L’azione di responsabilità promossa dal curatore ai danni degli amministratori, dei liquidatori e dei sindaci della società fallita

Tribunale Ordinario di Catania, Sezione Civile Specializzata in materia di imprese, Sentenza del 29/11/2019

Con sentenza del 29 novembre 2019, il Tribunale Ordinario di Catania, Sezione Civile Specializzata in materia di imprese, in tema di recupero crediti, ha stabilito che L’azione di responsabilità promossa dal curatore ai danni degli amministratori, dei liquidatori e dei sindaci della società fallita ex art. 146 L. F. compendia in sé gli elementi tipici sia dell’azione sociale di responsabilità ex artt. 2392 e 2393 c.c., la quale si ricollega alla violazione da parte degli amministratori nell’esercizio delle loro attribuzioni di specifici obblighi di derivazione legale o pattizia che si sia tradotta in pregiudizio per il patrimonio sociale, sia dell’azione spettante ai creditori sociali ex art. 2394 c.c., che integra una fattispecie di responsabilità extracontrattuale e tende alla reintegrazione del patrimonio sociale diminuito dall’inosservanza degli obblighi facenti capo all’amministratore.

 


L’azione di responsabilità promossa dal curatore ai danni degli amministratori, dei liquidatori e dei sindaci della società fallita

Tribunale Ordinario di Catania, Sezione Civile Specializzata in materia di imprese, Sentenza del 29/11/2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Tribunale di Catania

Sezione Specializzata Materia di Impresa CIVILE

Il Tribunale, in composizione collegiale nella persona dei sigg:

dott. __ – Presidente

dott. __ – Giudice relatore

dott. __ – Giudice

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel procedimento n. __ RG

PROMOSSO DA

Fallimento V. S.r.l. – Attore

CONTRO

C., G. e S. – Convenuti

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con atto di citazione notificato il __, la curatela del Fallimento di V. S.r.l. promuoveva azione sociale di responsabilità ex art. 146 L.F. e conveniva in giudizio innanzi il Tribunale di Catania, Sezione specializzata in Materia di Imprese, C., quale amministratore della società dal __ al __ (anno del fallimento), nonché G. e S., quali eredi di A. (amministratore della società dal __ al __, deceduta il __), rilevando la responsabilità degli amministratori, nei periodi di rispettiva competenza, ai sensi degli artt. 2476 e 2482 bis e ter, nonché la responsabilità solidale del socio Z., per gli atti di mala gestio posti in essere durante il periodo di amministrazione del figlio, C., ai sensi dell’art. 2476, comma 7 c.c.

Eccepiva, in particolare, parte attrice:

– l’omessa o irregolare tenuta delle scritture contabili, risultando quale ultimo bilancio approvato quello dell’esercizio chiuso il __ e l’ultima assemblea convocata il __;

– violazione dell’obbligo di convocazione dell’assemblea dei soci e riduzione del capitale sociale ai sensi degli artt. 2482 bis e ter, nei periodi in cui le perdite registratesi superavano 1/3 del capitale sociale;

– indebita prosecuzione dell’attività sociale in presenza di causa di scioglimento della società ex art. 2484 n. 4 c.c.;

– indebiti prelievi, dal conto corrente societario, di somme date a mutuo alla società fallita da parte dell’amministratore sine titulo, successivamente distribuite ai due soci per un ammontare complessivo di Euro __;

– occultamento e distrazione di beni e licenze commerciali, nonché cessione gratuita di ramo d’azienda in favore di altre società riconducibili allo stesso nucleo familiare, in particolare:

  1. a) alla ditta individuale C. di C., contestava la curatela l’utilizzazione di beni strumentali, personale e strutture di V. per lo svolgimento della propria attività di catering, traendo tali conclusioni da una pluralità di elementi di fatto, tra cui il rinvenimento presso la sede della fallita di documenti contabili della ditta individuale, di materiale pubblicitario riportante entrambi i loghi commerciali, fatture di utenza telefonica ed energia elettrica della ditta individuale pagate direttamente da V.;
  2. b) successivamente allo sfratto per morosità della sede del ramo d’azienda B. sito in __ – reso esecutivo nel __ – nonché al fallimento, rilevava la curatela la prosecuzione della medesima attività e l’utilizzazione di attrezzature e licenze commerciali proprie di B. da parte di F. S.r.l. (di cui A. è socio al __) e di D. S.r.l.; le due società esercitavano infatti l’attività di bar con sede attigua al precedente B., utilizzandone altresì i loghi, le insegne commerciali e tutte le attrezzature necessarie allo svolgimento della predetta attività (non rinvenute, invero, presso la sede oggetto di sfratto);
  3. c) cessione gratuita del ramo d’azienda costituito dal bar G. in __; trattavasi di attività di bar esercitata dalla fallita sin dal __ all’interno di locali concessi in comodato dalla socia A. (unica proprietaria dell’immobile). Il suddetto ramo d’azienda sarebbe stato dato poi in affitto alla società G. S.r.l. in data __, con annesso laboratorio e licenze commerciali; in data __ interveniva la risoluzione anticipata del contratto di affitto, per concorde volontà delle parti, con restituzione delle autorizzazioni commerciali concesse; risolto altresì il contratto di comodato, analogo contratto è stato poi stipulato direttamente da C. S.r.l. con la proprietaria A. Eccepiva pertanto la curatela che, per mezzo di società solo formalmente distinta, la fallita avrebbe continuato ad esercitare la medesima attività presso i summenzionati locali, avvalendosi peraltro delle relative licenze commerciali, le quali dovevano, invece, essere restituite; in tal senso deponevano l’utilizzazione da parte della C. S.r.l. di denominazione sociale, insegna e marchio di C. di cui è titolare la fallita, l’esiguità del canone pattuito, il periodo sospetto di realizzazione delle operazioni di cui sopra, la riconducibilità di tale seconda società allo stesso nucleo familiare (amministratore unico sarebbe il padre di C. e marito di A.), e altri elementi di fatto;

– mancato pagamento del prezzo di compravendita del ramo d’azienda P. di V. in favore di D. S.r.l.; invero, il prezzo pattuito di Euro __ era stato dichiarato in seno al contratto interamente corrisposto, in parte, mediante accollo di mutuo e in parte con l’emissione di una serie di assegni, i quali tuttavia risultano emessi prima della stipula dell’atto di vendita e recanti la clausola di non trasferibilità; in ogni caso, trattasi di assegni riportanti un importo minore;

– mancato pagamento del prezzo di una cessione di beni strumentali della fallita effettuata in favore di D. S.r.l. per un ammontare di Euro 314.808,00, non risultando la corresponsione di pagamento alcuno.

Chiedeva, pertanto, parte attrice accertarsi la responsabilità degli amministratori e, conseguentemente, condannare i convenuti al risarcimento dei danni subiti.

Con ricorso per sequestro conservativo notificato in data __, la curatela del Fallimento di V. S.r.l., riportandosi alle medesime difese azionate in sede di merito e ritenendo sussistenti i necessari presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora, chiedeva “disporre sequestro conservativo su tutti i beni mobili, crediti, partecipazioni societarie e beni immobili, in capo a C., G. e S. sino alla concorrenza di Euro __ almeno, potendosi oggi tale somma prudenzialmente quantificare il risarcimento spettante alla massa, o a quella diversa somma che sarà ritenuta opportuna”.

Si costituiva in giudizio C. eccependo, con entrambe e separate comparse in sede di merito e in sede cautelare, in via preliminare, il difetto di legittimazione attiva della curatela all’esercizio dell’azione verso i creditori sociali nelle società a responsabilità limitata.

Nel merito, eccepiva invece:

– che dall’ultimo bilancio approvato le perdite registrate dalla società non superavano 1/3 del capitale sociale, non sussistendo pertanto gli estremi per procedere alle operazioni ex art. 2482 bis e ter; per il periodo successivo, invece, difetterebbe la prova che tali presupposti effettivamente ricorressero;

– che la somma mutuataria prelevata dagli amministratori sarebbe stata utilizzata per il ripianamento di pregresse esposizioni debitorie della società;

– che nessun collegamento o commistione risulta tra i rami d’azienda di V. e le società menzionate dalla curatela attrice, non risultando in tal senso alcuna prova documentale;

– di aver ricevuto, da parte di D. S.r.l., l’integrale pagamento del prezzo del P. di C. compravenduto.

Rilevava, peraltro, il convenuto A. che una eventuale condanna al risarcimento dei danni non potrebbe, in questo caso, superare la differenza tra attivo e passivo fallimentare; invero, tale tetto insormontabile previsto dalla legge nei confronti dei creditori sociali, risulterebbe nel caso di specie estensibile all’amministratore in quanto egli sarebbe divenuto socio unico della fallita, e pertanto (il solo) titolare effettivo dell’azione di responsabilità sociale.

Con riferimento al ricorso per sequestro conservativo, eccepiva l’insussistenza del periculum in mora, non sussistendo alcuna prova del rischio di alienazione o sottrazione dei beni.

Chiedeva, pertanto, il rigetto delle domande formulate da parte attrice.

I convenuti C., G. e S.., citati quali eredi di A., si costituivano in giudizio eccependo, con entrambe e separate comparse in sede di merito e in sede cautelare, in via preliminare, il difetto di legittimazione passiva, rivestendo gli stessi la qualità di semplici legatari, e non già di eredi.

Nel merito, rilevavano:

– l’infondatezza delle pretese di parte attrice, in particolare, per il mancato superamento delle perdite di 1/3 del capitale sociale, alla data di approvazione dell’ultimo bilancio (__), e che successivamente in data __ A. cessava dalla carica di amministratore, con ciò decadendo da ogni responsabilità in relazione alle perdite registratesi a partire da tale data;

– di non aver, A., effettuato alcun prelievo dal conto corrente societario, non avendone la possibilità in quanto già cessata dalla carica di amministratore, nonché la destinazione di tali somme prelevate da C. al ripianamento di debiti societari pregressi;

– l’impossibilità di estendere la responsabilità del socio ai sensi dell’art. 2476, comma 7 c.c. a condotte meramente omissive, quali l’aver omesso di protestare con l’amministratore per la mancata convocazione dell’assemblea per l’approvazione del bilancio ovvero l’aver consentito allo stesso, senza opposizione alcuna, il compimento di atti di mala gestio.

Con riferimento al ricorso per sequestro conservativo, eccepivano l’insussistenza del periculum in mora, per carenza di prova in ordine agli elementi che renderebbero attuale e concreto il pericolo.

Chiedevano, pertanto, il rigetto delle domande di parte attrice.

Fissata l’udienza di comparizione, il Giudice con ordinanza del __ autorizzava la curatela del Fallimento “a procedere al sequestro conservativo, anche presso terzi, sui beni mobili ed immobili, denaro e crediti di C. fino alla concorrenza di Euro __ e, sui beni mobili ed immobili, denaro e crediti di C. e V., fino alla concorrenza di Euro __”.

Successivamente, in seguito alla proposizione di reclamo da parte di C.., nonché di G. e S., il Collegio, con ordinanza del __, confermava il sequestro conservativo e, tuttavia, riformava parzialmente il provvedimento cautelare reso dal Giudice di prime cure, limitando la misura del sequestro sino alla concorrenza di Euro __ per tutti i convenuti.

Nel corso della trattazione dell’azione di merito è stata esperita consulenza tecnica d’ufficio, dandone il relativo mandato con ordinanza del __, con la quale si conferiva a CTU l’incarico di “A) accertare se, e durante quale esercizio, le perdite sociali effettivamente subite abbiano azzerato il capitale sociale ovvero la sua riduzione di oltre un terzo; B) quantificare la differenza esistente tra l’attivo e il passivo fallimentare alla data odierna; C) accertare quale sia stato l’utilizzo della somma di Euro __, ottenuta dalla società fallita in seguito alla stipula di un mutuo ipotecario con B. S.p.A.; D) accertare e quantificare i pagamenti effettuati dalla fallita in favore o per conto di C., con sede in __; E) accertare se D. S.r.l. abbia effettivamente corrisposto alla società fallita il prezzo di Euro __ per l’acquisto del P. di V. in __ del __, ovvero se sia stata pagata solo una parte di detta somma; F) accertare se D. S.r.l. abbia pagato alla società fallita l’importo di Euro __ oltre IVA, per la cessione di beni strumentali di cui alla fattura n. (…)”.

Ad integrazione della CTU, con ordinanza del __, il Giudice disponeva “richiamo del CTU affinché risponda alle eccezioni di parte attrice inviate al consulente a mezzo PEC in data __”. Successivamente, con ordinanza del __, rilevato il decesso del consulente tecnico nominato, il Giudice procedeva a nominare nuovo CTU.

Indi, sulle conclusioni come precisate all’udienza del __, la causa veniva rimessa al Collegio per la decisione, previa assegnazione dei termini di legge per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.

Giova rilevare in premessa che nessuna attività difensiva è stata svolta dai convenuti successivamente al deposito delle memorie ex art. 183, 6 comma c.p.c., né risulta depositata alcuna comparsa conclusionale.

Inoltre, come rilevato dalla curatela in seno alle proprie comparse conclusionali, i medesimi addebiti sono già oggetto di accertamento in sede penale, come risulta dalla richiesta di rinvio a giudizio e fissazione di udienza innanzi al G.I.P. nei confronti di C., T. e S.

Preliminarmente occorre esaminare le eccezioni formulate dai convenuti.

Circa il difetto di legittimazione attiva eccepito da C., il Collegio si riporta interamente all’orientamento interpretativo cui già, in sede di reclamo, riteneva di dover aderire. Pertanto, va, altresì, respinta l’eccezione di difetto di legittimazione attiva della curatela ad esercitare l’azione di responsabilità in surroga dei creditori sociali, in forza delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 6 del 2003, proposta da C. È, invero, ferma opinione del Collegio che l’azione di responsabilità promossa dal curatore ai danni degli amministratori, dei liquidatori e dei sindaci della società fallita ex art. 146 L.F. compendia in sé gli elementi tipici sia dell’azione sociale di responsabilità ex artt. 2392 e 2393 c.c., la quale si ricollega alla violazione da parte degli amministratori nell’esercizio delle loro attribuzioni di specifici obblighi di derivazione legale o pattizia che si sia tradotta in pregiudizio per il patrimonio sociale, sia dell’azione spettante ai creditori sociali ex art. 2394 c.c., che integra una fattispecie di responsabilità extracontrattuale e tende alla reintegrazione del patrimonio sociale diminuito dall’inosservanza degli obblighi facenti capo all’amministratore (Cass. 10488/1998) e ciò anche dopo le modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 6 del 2003 (v., in tal senso, la recente Cass. 17121/10, TRIBUNALE DI CATANIA, sezione quarta – ordinanza del 17 febbraio 2006 – Pres. Macrì – Relatore Sciacca, in www.judicium.it; Tribunale Pescara, 15 novembre 2006, IN Foro it. 2007, 7-8, 2262, nella cui parte motiva, per quanto qui di interesse, si afferma: “L’azione di responsabilità promossa nella specie dal curatore Fallimentare di S.R.L. ex Art. 146 L. F. come (persistente) cumulo delle azioni ex art. 2393 e 2394 c.c. anche dopo la riforma ex D.Lgs. n. 6 del 2003 del diritto societario. Profili particolari solleva, sulla scorta delle modifiche introdotte con il nuovo diritto societario sostanziale (D.Lgs. n. 3 del 2006) e di quelle di cui all’attuale legge fallimentare (ex D.Lgs. n. 5 del 2006), la proponibilità dell’azione di responsabilità da parte del curatore nei confronti degli amministratori della S.r.l. La questione assume quivi particolare rilievo in ragione della prima richiamata eccezione quivi spiegata da taluni convenuti di inammissibilità dell’azione del Curatore di responsabilità nell’interesse dei creditori sociali della A. S.r.l. Orbene, deve innanzitutto sottolinearsi che il nuovo articolo 2476 del codice civile disciplina in modo autonomo la responsabilità degli amministratori, senza più alcun richiamo- com’è noto- a quanto previsto in sede di S.p.A. La norma in questione, infatti, fa riferimento esclusivamente all’azione promossa dai singoli soci, senza richiamare, a fronte dell’accentuata diversità dei due modelli, la disciplina prevista in materia di azione di responsabilità nelle S.p.A. Dottrina e giurisprudenza si sono pertanto interrogate sulla permanenza, nel nuovo regime, del diritto alla proposizione dell’azione di responsabilità anche da parte della società. La soluzione che appare preferibile, e che peraltro è seguita dalla giurisprudenza di merito assolutamente prevalente (Tribunale Napoli 12. 5. 04; Tribunale di Mantova 14. 5. 05; Tribunale Catania 17 2. 06) è quella di ritenere che permanga la legittimazione della società, sia perché, in base ai principi generali, ogni soggetto ha il libero esercizio dei diritti che gli spettano e sia perché, in realtà, l’azione proposta dei singoli soci, null’altro è che l’azione sociale, com’è confermato, senza ombra di dubbio, dalla circostanza che la causa promossa dai soci può essere oggetto di rinunzia o transazione da parte della società, come previsto dal quinto comma dell’articolo 2476 del codice civile. Analoghe perplessità sono sorte sulla permanenza dell’azione a favore dei creditori sociali, oggetto di espressa previsione solo nelle Spa, senza alcun richiamo di dette norme, e senza alcuna previsione autonoma, nelle S.r.l. La tesi negativa si fonda sull’esclusivo argomento letterale- fondato sul principio ermeneutica racchiuso nel brocardo “ubi lex voluti dixit, ubi noluiti tacuit” – della intervenuta abrogazione, da parte del legislatore della riforma, del richiamo (operato dal comma II dell’art. 2487 c.c.) all’azione prevista dall’art. 2394 c.c. in materia di S.p.A., per inferire la volontà legislativa di escludere il detto strumento di tutela del ceto creditorio. Tuttavia, il percorso argomentativo che, opportunamente, consente di ritenere l’esistenza di una tale azione, in capo ai creditori e quindi, successivamente al fallimento, in capo al curatore, non può che partire dal rilievo che l’articolo 2394 del codice civile è norma meramente ricognitiva di un principio generale, quello della cosiddetta tutela extracontrattuale del diritto di credito, che trova pieno riconoscimento nelle previsioni di cui agli articoli 2740 e 2043 e seguenti del codice civile. Tale interpretazione sembra coincidere con quella sottesa, in veste di obiter dictum, alla pronunzia della Corte Costituzionale n. 481 del 29.12.2005 (secondo cui “la salvezza del diritto al risarcimento dei danni spettanti al terzo danneggiato da atti dolosi e colposi degli amministratori (art. 2476 comma VI c.c.) costituisce previsione che non preclude interpretazioni- peraltro proposte in dottrina- idonee ad assicurare efficace tutela ai creditori sociali), che rimanda all’azione risarcitoria diretta espressamente prevista (anche) in materia di S.R.L. a tutela dei terzi (tra i quali rientrerebbero anche i creditori sociali) quale norma meramente ricognitiva della clausola generale di cui all’art. 2043 c.c.. Del resto in materia societaria vi sono specifiche previsioni di azioni dei creditori della Srl nei confronti degli amministratori, ad esempio per il risarcimento dei danni connessi a ritardi od omissioni in ordine all’accertamento della causa di scioglimento (articolo 2485 comma primo del codice civile), per il risarcimento dei danni connessi alla infedele gestione della società al verificarsi di una causa di scioglimento ai sensi dell’articolo 2486 del codice civile e per la responsabilità dei medesimi, in solido con la società da essi amministrata, che eserciti attività di direzione o coordinamento su altra società, nel caso di cui all’art. 2497 c.c. L’esistenza in materia di una mera svista del legislatore societario trova ulteriore conferma nella circostanza che anche nel nuovo codice societario è espressamente prevista la legittimazione dei creditori sociali ad agire nei confronti dei sindaci -ove questi siano stati nominati-, e ciò in virtù del richiamo previsto dall’articolo 2477 c.c. alla disciplina in materia di società per azioni -e dunque anche all’articolo 2407 del codice civile- e dei liquidatori e ciò in virtù della previsione di cui all’articolo 2489 del codice, che consente di ritenere applicabile anche ai liquidatori di S.r.l. tutte le norme in tema di responsabilità degli amministratori e dunque anche quella di cui all’articolo 2394 del codice civile. L’iter ricostruttivo che precede appare, del resto, l’unico atto a sottrarre le norme in questione a censure di illegittimità costituzionale, non giustificandosi in alcun modo una disparità di trattamento così patente tra i creditori della S.p.A. e i creditori della Srl, in presenza di un’analoga situazione di partenza e cioè di una limitazione legislativa della responsabilità dei soci. La ricostruita, sul piano sistematico, legittimazione dei creditori ad agire nei confronti degli amministratori della S.r.l. consente poi, come sopra rilevato, l’attribuzione di tale azione al curatore fallimentare ex articolo 146 L.F. (“pre riforma” ex D.Lgs. n. 5 del 2006), lasciato assolutamente immutato dalla riforma del diritto societario. Che questa sia l’interpretazione corretta appare oggi confermato dal D.Lgs. n. 5 del 2006, recante la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali, il quale, nell’attribuire al curatore tutte, indistintamente, le azioni di responsabilità previste dal codice civile, (ivi comprese, quindi, quelle esercitate dai creditori sociali, senza più alcun richiamo specifico a quelle di cui all’articolo 2393 e 2394 del codice, consente, ulteriormente, di ritenere la legittimazione del curatore, anche per tale azione, in quanto spettante, in base alle considerazioni sopra espresse, a favore della società ‘in bonis'”). Né, del resto, a contrarie conclusioni consente di pervenire Cass. 13465/10, atteso che la stessa si riferisce esclusivamente ai consorzi i quali presentano regole di funzionamento e di organizzazione assolutamente distinte da quelle previste dal codice civile per le S.r.l.”.

Per quanto attiene, poi, il difetto di legittimazione passiva eccepito da G. e S., il Collegio condivide le conclusioni cui è pervenuto il Giudice di prime cure in sede cautelare, secondo cui: ritiene il Tribunale che l’eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dai resistenti G. e S. vada rigettata. Va premesso che il testamento olografo della A. pubblicato il __ prevede: 1) con la formula “lego e lascio a mio figlio N.”, l’attribuzione al predetto di una serie di cespiti specificamente indicati; 2) con la formula “lego e lascio a mio nipote C.” l’attribuzione allo stesso di altra serie di cespiti specificamente indicati; 3) la riserva di usufrutto in favore della nuora S. su tre appartamenti lasciati al nipote C. Va altresì premesso che non costituisce oggetto di contestazione che con il detto testamento la A. abbia disposto dell’intero suo patrimonio. Ciò posto, come è noto, secondo l’art. 588, comma 2, c.c. “L’indicazione di beni determinati o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale, quando risulta che il testatore ha inteso assegnare quei beni come quota del patrimonio”. Atteso che, come è parimenti noto, ai sensi dell’art. 734, comma 1, c.c. il testatore ha la facoltà di dividere i suoi beni tra gli eredi, detta facoltà può esprimersi sia come attribuzione di singoli beni a soddisfacimento di quote di eredità stabilite, che, direttamente, come attribuzione di beni senza espresso riferimento alla quota ereditaria. In tale ultimo caso l’attribuzione degli specifici beni vale come assegnazione, in funzione divisoria, di una quota del patrimonio e quindi come istituzione ex re certa. Orbene, secondo quanto condivisibilmente sostenuto da autorevole dottrina, si deve presumere che l’intento divisorio quando il testatore distribuisca tra i designati l’intero patrimonio o comunque tutti i beni economicamente importanti. Detto criterio interpretativo risulta del resto recepito anche in giurisprudenza. Invero, si legge nella motivazione di Cass., sez. II, 1 marzo 2002, n. 3016, che “esauriente, logica e immune da errori di diritto” è la motivazione della sentenza impugnata che aveva ritenuto ricorrere l’istituzione di erede ex re certa sul presupposto che il testatore con le sue disposizioni aveva avuto presente l’intero patrimonio (come risultante dai verbali dell’inventario della eredità redatti dal notaio), e assegnato, quindi, gli indicati singoli beni come quote dell’asse ereditario. Nel caso di specie, come detto, è certo che la A., con le disposizioni testamentarie sopra ricordate, abbia interamente distribuito tra il figlio, il nipote e la nuora l’intero suo patrimonio. Ne consegue che, in mancanza di elementi di segno contrario ed in applicazione del criterio sopra esposto, deve ritenersi che gli odierni resistenti, con le disposizioni testamentarie in questione, siano stati istituiti suoi eredi. È appena il caso infine di evidenziare come l’utilizzo, nelle disposizioni in esame, della parola “lego” (comunque insieme alla meno pregnante “lascio”), di per sé non valga a incidere sull’interpretazione della volontà testamentaria nei termini sopra esposti atteso che, secondo quanto chiarito dalla Suprema Corte “.. l’attribuzione formale del titolo di erede (o di legatario) può essere valutata solo come elemento confermativo del risultato delle indagini condotte sull’obiettiva consistenza della disposizione” (così Cass. n. 5625/85). Va quindi in definitiva riconosciuta la legittimazione passiva di G. e S. (oltre che di C. il quale non la aveva contestata) atteso che i predetti, quali eredi di A., devono rispondere dei debiti di quest’ultima, incluso il debito risarcitorio/restitutorio derivante dai fatti enunciati dalla curatela con il ricorso cautelare.

Sgombrato il campo dalle suddette eccezioni, entrambe rigettate, occorre a questo punto entrare nel merito dell’azione proposta dalla curatela.

L’azione sociale di responsabilità ex art. 2476 cod. civ. assurge alla funzione di dedurre l’inadempimento degli amministratori agli obblighi derivanti dalla legge ovvero dallo statuto societario, relativi alle specifiche competenze e alla natura dell’incarico loro affidato. Essa mira pertanto a reintegrare il patrimonio sociale che dovesse risultare minato da tali inadempimenti, ovvero anche in termini di mancato guadagno. Tale azione può essere esercitata solo in seguito a deliberazione in tal senso da parte dell’assemblea. Ciò, naturalmente, fino all’eventuale fallimento della società: con la dichiarazione di fallimento, invero, la legittimazione all’esercizio dell’azione sociale passa direttamente al curatore ai sensi degli artt. 42 e 43 L.F., secondo cui con la dichiarazione di fallimento la legittimazione sostanziale e processuale per l’esercizio e la tutela dei diritti del fallito – quindi della società verso terzi amministratori – spetta al curatore.

Lo stesso può dirsi dell’azione di responsabilità verso i creditori sociali. Trattasi pur sempre di azione esercitata allo scopo di reintegrare il patrimonio sociale che sia stato leso dall’azione degli amministratori (nei limiti della misura dei crediti insoddisfatti), nonché a reintegrare il patrimonio del singolo creditore sociale. L’azione ex art. 2394 cod. civ. inerisce pertanto alla violazione, da parte degli amministratori, del generale dovere di conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, quale garanzia generica dell’adempimento delle obbligazioni verso terzi ex art. 2740 cod. civ. Anche la legittimazione in ordine all’esercizio dell’azione verso i creditori sociali spetta al curatore, in caso di fallimento della società. Questione ancora controversa è, tuttavia, se tale legittimazione permanga anche nelle società a responsabilità limitata, in seguito alle modifiche intervenute con D.Lgs. n. 6 del 2003.

Questo Tribunale ha – come già sopra riferito – aderito all’orientamento prevalente in giurisprudenza, il quale fonda l’ammissibilità di tale legittimazione in capo al curatore sulla natura extracontrattuale dell’azione verso i creditori sociali, riconducibile alla più generale responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 cod. civ. Ne consegue pertanto che, con l’azione esercitata ai sensi dell’art. 146 L.F., secondo cui “gli amministratori e i liquidatori della società sono tenuti agli obblighi imposti al fallito dall’articolo 49. Essi devono essere sentiti in tutti i casi in cui la legge richiede che sia sentito il fallito. Sono esercitate dal curatore previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori: a) le azioni di responsabilità contro gli amministratori, i componenti degli organi di controllo, i direttori generali e i liquidatori; b) l’azione di responsabilità contro i soci della società a responsabilità limitata, nei casi previsti dall’art. 2476, comma 7 cod. civ.”, la curatela può cumulare entrambe le azioni.

Entrando nel merito di tali azioni, occorre esaminare, alla luce delle risultanze della CTU, i singoli addebiti lamentati dalla curatela nei confronti degli amministratori.

Il CTU ha preliminarmente esaminato la documentazione contabile della società, risultando esclusivamente: l’ultimo bilancio approvato, relativo all’esercizio chiuso il 13.12.2004, il libro giornale e degli inventari tenuto fino al __, libri IVA degli acquisti e delle vendite tenuti fino al __.

Anche sulla base delle risultanze della CTU, questo Tribunale ritiene fondato l’addebito mosso dalla curatela, relativo alla mancata attivazione delle operazioni di cui agli artt. 2482 bis e ter c.c., quindi obbligatoria convocazione dell’assemblea e reintegrazione del capitale sociale, allorché le perdite registratesi superino la misura di 1/3 del capitale sociale. Il CTU ha infatti avuto modo di accertare che, sebbene alla data dell’ultimo bilancio le perdite non superassero ancora la misura di 1/3 del capitale sociale, nel corso del __ esse non solo hanno superato tale soglia ma hanno altresì, interamente, azzerato il capitale sociale. Riporta la consulenza che lo stesso giornale di contabilità nelle scritture di chiusura dell’esercizio __, fermo restando il capitale sociale per un importo di Euro 103.100,00 evidenzia perdite per Euro __.

Ciò postula, senz’altro, un inadempimento in capo a C., amministratore della società dal __ al fallimento intervenuto nel febbraio __.

Con riferimento, invece, al breve periodo di amministrazione di A., riferito sostanzialmente ai mesi di gennaio e, in parte, febbraio __, il CTP della curatela attrice ha ricostruito, con l’ausilio delle scritture contabili a disposizione, una perdita già di Euro __, superiore dunque ad 1/3 del capitale sociale. Tale circostanza può essere considerata provata, anche alla luce delle difese dei convenuti, i quali, non contestando la perdita accertata, hanno addotto che, svolgendo la società un’attività di tipo stagionale, le perdite sarebbero senz’altro state assorbite durante i mesi più caldi dell’anno. Ciò infatti risulta, non solo, smentito dalle risultanze della CTU – che ha evidenziato un aumento vertiginoso delle perdite nel corso dell’anno – ma, in ogni caso, irrilevante ai fini del riconoscimento della responsabilità in capo alla A.: come già rilevato dal Giudice di prime cure, infatti, la lettera della norma prevede che nel caso in cui le perdite superino il terzo del capitale sociale, gli amministratori debbano convocare senza indugio l’assemblea per deliberare la riduzione e il contemporaneo aumento del capitale sociale.

Ne consegue che nel caso di specie, alla fine del mese di gennaio del __, le perdite registrate nell’esercizio chiuso al __, sommate a quelle maturate nel mese in questione, avevano completamente azzerato il capitale sociale. L’amministratore all’epoca in carica A., avrebbe quindi dovuto senza indugio convocare l’assemblea ex art. 2482 ter c.c. Risulta invece che la predetta è rimasta inerte fino a quando (il __), le è succeduto il figlio C.

Risulta altresì provata la prosecuzione dell’attività sociale successivamente all’intervento di una causa di scioglimento della società ai sensi dell’art. 2484 n. 4 cod. civ.

In particolare risulta che anche dopo il __, anno in cui – si ripete – le perdite avevano finanche quintuplicato il capitale sociale, la fallita ha continuato ad organizzare eventi ed esercitato altre attività sociali tipiche; tale circostanza emerge, con certezza, dalle domande di insinuazione al passivo fallimentare, alcune delle quali ineriscono a crediti sorti dopo il __ per l’organizzazione di eventi tenutisi nel __.

Sui prelievi indebitamente effettuati dagli amministratori dal conto corrente societario, in particolare sull’utilizzazione della somma di Euro __ concessa con mutuo ipotecario alla fallita da B. S.p.A., il CTU ha accertato che parte della stessa sia stata utilizzata per coprire lo scoperto di conto; della restante parte, alcune somme risultano utilizzate per ripianare altri conti correnti, intrattenuti presso B. e C. (rispettivamente Euro __ e __), ed un’altra parte per reintegrare la cassa contanti (Euro __).

Infine, hanno confermato i CTU nominati, anche con le integrazioni successive alla prima consulenza tecnica, la sussistenza di prelevamenti da parte degli amministratori per un ammontare complessivo di Euro __, distribuiti tra i soci per metà ciascuno.

Deve pertanto essere accolta la richiesta della curatela di condanna dei convenuti G. e S. alla ripetizione dell’indebito, percepito dalla A., di Euro __.

Sull’attività di distrazione di beni, licenze commerciali e rami d’azienda, come eccepita dalla curatela occorre distinguere.

Con riferimento alla ditta individuale C. di C., risultano esclusivamente provate e quantificate, con l’ausilio della CTU, le fatture – a carico del patrimonio della fallita – relative al pagamento di bollette di utenza telefonica e di energia elettrica intestate alla ditta, per un ammontare complessivo di Euro __. Non sembra invece possa rilevare l’utilizzazione di documentazione riportante entrambi i loghi commerciali, trattandosi dello svolgimento di attività sociali differenti, seppur complementari.

Per quanto riguarda il ramo d’azienda costituito da B., sito in __, ritiene il Collegio che debba essere accolto l’addebito della curatela circa l’intervenuta distrazione di beni strumentali dallo stesso utilizzati, di proprietà di V. S.r.l., in favore di F. S.r.l. e D. S.r.l. Ciò, soprattutto, alla luce del fatto che la maggior parte dei beni e dell’attrezzatura fondamentali per l’esercizio dell’attività di bar (stoviglie, cristalleria, servizi da bar, tovagliato) non sono stati rinvenuti in sede di inventario nei precedenti locali, nonché in considerazione del fatto che il convenuto C., non solo non ha contribuito al rinvenimento di tali beni, ma ha in un primo momento dichiarato alla curatela di averli interamente dismessi in quanto obsoleti.

Aggiungasi, peraltro, la circostanza per cui le predette società, entrambe di nuova costituzione e riconducibili al medesimo nucleo familiare (C. risulta infatti socio di F. S.r.l. al 50 %), eserciterebbero la medesima attività del precedente bar, ramo d’azienda della fallita, nella stessa piazza in cui lo stesso era ubicato.

Tutti gli elementi di fatto indicati inducono, senz’altro, a ritenere fondato l’addebito mosso dalla curatela.

Non risultano invece sufficientemente provate le circostanze per cui le predette società avrebbero usufruito, anche dopo la data del fallimento, delle insegne e marchi commerciali C. ovvero delle relative licenze commerciali.

Anche in relazione all’altro ramo d’azienda della fallita, B. sito in __, il Collegio ritiene fondato l’addebito mosso da parte attrice, sulla cessione a titolo gratuito del ramo d’azienda alla società C. S.r.l. Gli elementi di fatto accertati propendono, infatti, tutti in tal senso: la sospetta collocazione temporale delle operazioni poste in essere dalla fallita con C. s.r.l., quali l’affitto del ramo d’azienda ad un prezzo esiguo e la successiva risoluzione del contratto; l’attribuzione dei medesimi locali in comodato gratuito da parte della proprietaria A., il tutto avvenuto nel corso e alla fine del 2009, poco prima, dunque, della dichiarazione di fallimento della società (intervenuta nel febbraio __); la prosecuzione dell’attività da parte della nuova società, usufruendo dell’avviamento e delle attrezzature e beni strumentali della fallita, anch’essi non rinvenuti dalla curatela fallimentare in sede di inventario.

Sul punto, occorre peraltro rilevare che la documentazione depositata dal convenuto, ossia documenti di trasporto e fatture di vendita contenenti i beni presumibilmente restituiti alla fallita e quelli venduti alla nuova società dopo la risoluzione del contratto d’affitto, non possono essere considerati attendibili: come correttamente rilevato dalla curatela, la fattura riporta una numerazione alterata e alcuni dei beni contenuti nel documento di trasporto (che dovrebbero quindi ritenersi restituiti alla fallita) coincidono con quelli indicati nelle fatture di vendita.

Nello svolgimento di tali operazioni, occorre peraltro sottolineare la partecipazione attiva della allora socia, A., senza il cui intervento non sarebbe stata possibile la prosecuzione dell’attività sociale da parte di C. S.r.l. Ne consegue che di tale addebito, la stessa dovrà rispondere a titolo di responsabilità solidale ex art. 2476, comma 7 cod. civ.

Infine, occorre esaminare l’esito della compravendita del P. di V. (altro ramo d’azienda della fallita) e di alcuni beni strumentali in favore di D. S.r.l., per un prezzo rispettivamente di Euro __ ed Euro __.

Sul trasferimento del ramo d’azienda, risulta ormai accertato, alla luce della sentenza resa da codesto Tribunale, sez. I., in data ___, l’integrale mancato pagamento del prezzo. Il Tribunale ha infatti dichiarato la risoluzione del contratto per inadempimento, accertando il mancato pagamento integrale del prezzo di compravendita in quanto, per la parte di prezzo che era stata oggetto di accollo del mutuo, D. non risulta aver mai pagato le relative rate; mentre, per la parte risultante dagli assegni indicati nel contratto stesso, il Giudice ha accertato la non riconducibilità degli assegni alla compravendita in questione, trattandosi di assegni tutti privi di clausola di non trasferibilità, inerenti a pagamenti antecedenti alla conclusione del contratto stesso.

Ciò posto, tuttavia, non pare possa dirsi sussistente un danno per il patrimonio sociale della fallita, avendo il Giudice disposto la restituzione del bene.

Anche sulla cessione di beni strumentali, sempre in favore di D. S.r.l., la curatela eccepiva il mancato pagamento integrale del prezzo. Sebbene il CTU, a causa della assoluta carenza di scritture contabili, non abbia potuto fornire chiarimenti in tal senso, l’addebito può essere ritenuto fondato, sulla base della generale regola dell’onere probatorio: dedotto da parte attrice l’inadempimento, ricade sulla convenuta l’onere di provare l’intervenuto adempimento, prova che non è stata fornita dai convenuti.

Occorre dunque riconoscere il danno arrecato al patrimonio sociale per la privazione di Euro __, a fronte della cessione di beni strumentali, propri della fallita.

A questo punto, occorre fornire una precisazione con riferimento all’azione esercitata dalla curatela ex art. 2476, comma 7, cod. civ., relativa alla responsabilità della A., nei periodi in cui la stessa rivestiva la qualità di socia e per gli inadempimenti posti in essere dal figlio, allora amministratore, C.

I convenuti hanno infatti correttamente eccepito che tale responsabilità non può tradursi in una forma di controllo e vigilanza esercitata dai soci nei confronti per gli amministratori, tale da renderli responsabili anche per comportamenti meramente omissivi: ad esempio non aver impedito agli amministratori il compimento di atti di mala gestio, ovvero non aver controllato la corretta tenuta delle scritture contabili obbligatorie e la puntuale convocazione dell’assemblea. Invero, una responsabilità del socio c.d. gestore può essere rinvenuta nei soli casi in cui lo stesso, sia pur esercitando una qualche influenza sulle scelte gestorie degli amministratori, abbia comunque tenuto un comportamento positivo, dal quale possa dedursi tale forma di influenza. Da una parte quindi, pacificamente, è possibile rinvenire tale forma di responsabilità nei casi di decisioni e autorizzazioni espresse rese dal socio, anche in forma non istituzionale o ufficiosa; dall’altra, essa può essere rinvenuta anche nei casi di semplice influenza esercitata dal socio nei confronti degli amministratori; tuttavia, in quest’ultimo caso, è pur sempre necessario il rinvenimento di un comportamento e di una condotta attivi, che il socio abbia tenuto e che in questo senso lasci propendere (vedasi nel medesimo senso Trib. Salerno, I sez. civ., 9 marzo 2010, nonché Trib. Roma 20844/2015, secondo il quale “il coinvolgimento del socio non può essere fondato contestando atteggiamenti di mera inerzia e di mancata attivazione dei poteri di controllo di cui all’art. 2476 comma 2 c.c.”).

Non a caso, requisito fondamentale richiesto dalla norma è quello dell’intenzionalità del compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi. Infatti, non è nemmeno sufficiente che il socio abbia partecipato, con una condotta attiva, al compimento di atti dannosi: è necessario, altresì, l’accertamento dell’elemento soggettivo – l’intenzionalità – che connota tale condotta.

Affinché tale responsabilità possa essere rinvenuta, dunque, il socio deve dunque aver voluto, intenzionalmente, arrecare danno alla società, ai soci o ai creditori sociali, proprio tramite l’induzione all’inadempimento degli amministratori. Quale elemento costitutivo dell’illecito, anche il requisito dell’intenzionalità deve essere provato da chi intenda far valere in giudizio tale responsabilità (Trib. Perugia, III sez., sentenza 10 gennaio 2019, n. 80; Trib. Roma n. 11177/2016; Trib. Roma 20844/2015), dunque dalla curatela attrice.

Nel caso di specie, unico comportamento attivo, tenuto dalla socia A. e volto a specificamente ledere il patrimonio sociale e i creditori sociali, può essere rinvenuto nell’operazione di cessione gratuita del ramo d’azienda di V. e dei relativi beni strumentali, in favore della società di nuova costituzione C. S.r.l. Trattandosi infatti di immobile di proprietà esclusiva della A., concesso in comodato dapprima a V. e successivamente a C. S.r.l., non sarebbe stato possibile realizzare tale operazione senza il fondamentale supporto dalla stessa fornito.

Non sembra invece possa dirsi lo stesso degli altri comportamenti imputategli dalla curatela, trattandosi di comportamenti meramente omissivi.

Orbene, visti gli addebiti mossi dalla curatela e ritenuti fondati dal Collegio, si pone il problema relativo alla quantificazione del danno da liquidare in via equitativa.

Com’è noto, infatti, le Sezioni Unite sono intervenute, sul punto, con sentenza Cass. S.U. 6 maggio 2015, n. 9100, a seguito della quale il criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare (c.d. deficit fallimentare), utilizzato dalla giurisprudenza precedente, ha assunto un carattere meramente residuale. Secondo le Sezioni Unite “1. Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa, l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento. 2. Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa, la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sta individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto”.

L’innovazione giurisprudenziale di cui sopra, cui questo Tribunale ritiene di dover aderire, impedisce di procedere, automaticamente e per ciò solo, alla liquidazione del danno tramite la differenza tra l’attivo e il passivo fallimentare a causa della accertata carenza di scritture contabili.

Quantomeno, non è possibile ricorrervi nei casi in cui sussistano degli specifici inadempimenti allegati dalla curatela attrice e tali inadempimenti siano sufficientemente quantificabili.

Così è nel caso di specie.

Muovendo pertanto dalla quantificazione dei singoli addebiti riconosciuti in capo ai convenuti, in particolare: la sottrazione di somme mutuatarie della fallita, per un ammontare di Euro __; il pagamento di fatture relative ad utenza telefonica e di energia elettrica di altra ditta individuale, per Euro __; la cessione gratuita di beni strumentali in favore di D. S.r.l., per complessivi Euro __, i convenuti, C., G. e S., quest’ultimi quali eredi di A., devono essere condannati in solido al pagamento in favore della curatela attrice, di complessivi Euro __, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria (trattandosi di debito risarcitorio, e dunque di valore) calcolati in applicazione della nota pronuncia delle Sezioni unite n. 1712 del 1995 e dunque con rivalutazione dalla data di dichiarazione del fallimento alla data della presente pronuncia ed oltre interessi legali sulla somma così rivalutata fino al soddisfo.

Le spese processuali seguono la soccombenza e, liquidate come da dispositivo secondo i parametri di cui al D.M. n. 37 del 2018, avuto riguardo alla natura ed al valore della causa nonché all’attività difensiva concretamente espletata, vanno poste in favore dell’Erario, posto che il fallimento è stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato (art. 133 D.P.R. n. 115 del 2002).

P.Q.M.

Il Tribunale, sezione specializzata in materia di imprese,

definitivamente pronunciando sulla causa iscritta al n. __ R.G., ogni diversa istanza o eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

CONDANNA C., G. e S. (quest’ultimi quali eredi di A. al pagamento, in solido, in favore della curatela del Fallimento V. S.r.l. della somma di Euro __, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria con le decorrenze indicate in motivazione.

CONDANNA altresì i convenuti al pagamento, in solido, in favore dell’Erario. delle spese del presente procedimento (in esse comprese quelle relative al ricorso per sequestro conservativo e al reclamo), che liquida complessivamente in Euro __, di cui Euro __ per spese vive ed Euro __per compensi professionali, oltre rimborso forfetario al 15%, IVA e CPA come per legge.

Pone le spese di CTU, già liquidate come da separati decreti e anticipate dall’Erario, definitivamente a carico dei convenuti.

Così deciso in Catania in data 14 novembre 2019 nella Camera di Consiglio della Sezione Specializzata in Materia di Impresa del Tribunale di Catania.

Depositata in Cancelleria il 29 novembre 2019.

Tribunale Catania Sez. spec. in materia di imprese Sent. 29_11_2019

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Il giudice dell’opposizione è investito del potere-dovere di pronunciare sulla pretesa fatta valere con la domanda di ingiunzione

Il giudice dell’opposizione è investito del potere-dovere di pronunciare sulla pretesa fatta valere con la domanda di ingiunzione

Tribunale Ordinario di Piacenza, Sezione Civile, Sentenza del 03/12/2019

Con sentenza del 3 dicembre 2019, il Tribunale Ordinario di Piacenza, Sezione Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che l’opposizione a decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario procedimento di cognizione in cui il giudice dell’opposizione è investito del potere-dovere di pronunciare sulla pretesa fatta valere con la domanda di ingiunzione (nonché sulle eccezioni e sull’eventuale domanda riconvenzionale proposta dall’opponente) ancorché il decreto ingiuntivo sia stato emesso fuori delle condizioni stabilite dalla legge per il procedimento monitorio.


Tribunale Ordinario di Piacenza, Sezione Civile, Sentenza del 03/12/2019

Il giudice dell’opposizione è investito del potere-dovere di pronunciare sulla pretesa fatta valere con la domanda di ingiunzione

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di PIACENZA

SEZIONE CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. __

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. __ R.G. promossa da:

R. e F. – Attori Opponenti

contro

S. S.r.l e per essa C. S.p.A., in qualità di Cessionaria del credito di B. Società Cooperativa – Convenuto Opposto

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, su ricorso proposto da B. Società Cooperativa in qualità di incorporante P. S.p.A. e di N. S.p.A., questo Tribunale ingiungeva a F. e a R. nella loro qualità di fideiussori e garanti, nei limiti delle fideiussioni prestate per la S. S.r.l. pari a complessivi Euro __ quanto ai rapporti intrattenuti con l’allora C. S.p.A., Euro __ quanto ai rapporti intrattenuti con P. S.p.A. ed Euro __ con la N. S.p.A., il pagamento immediato in favore della ricorrente B. Società Cooperativa della somma complessiva di Euro __ oltre gli interessi al tasso legale dal __ sino al saldo.

Avverso il predetto provvedimento gli ingiunti proponevano opposizione deducendo:

– che l’importo di Euro __ ingiunto in monitorio e pari alla sommatoria degli scoperti dei tre conti correnti intestati alla società S. S.r.l. eccedeva quantomeno di Euro __ le somme garantite dalle fideiussioni concesse dagli opponenti ai tre istituti di credito incorporati dal B. Società Cooperativa;

– l’inidoneità della documentazione prodotta in sede monitoria dalla convenuta a fondare il credito azionato;

– la previsione nei contratti di conto corrente con apertura di credito in questione di interessi superiori al tasso soglia usura, nonché l’illegittima capitalizzazione degli interessi;

– l’illegittimità degli importi dovuti a titolo di interessi convenzionali e di mora per violazione dell’art. 55 L.F. con conseguente estinzione della fideiussione per fatto e colpa della creditrice ai sensi dell’art. 1955 c.c.

Alla luce di ciò gli opponenti domandavano, in via principale, la revoca del decreto ingiuntivo opposto, previa sospensione della sua efficacia esecutiva ed in subordine, l’accertamento della minor somma dovuta alla controparte, previa consulenza contabile.

Si costituiva ritualmente in giudizio la convenuta opposta la quale insisteva nella domanda monitoria e nel rigetto della proposta opposizione.

Con provvedimento del __, il precedente G.I. rigettava l’istanza formulata ai sensi dell’art. 649 c.p.c. dalla difesa degli attori.

Alla successiva udienza del __ venivano concessi i termini per il deposito delle memorie di cui all’art. 183 comma 6 c.p.c. e le parti depositavano ritualmente le rispettive memorie.

La causa veniva istruita mediante l’espletamento della CTU contabile disposta dal precedente G.I. e successivamente veniva fissata per la precisazione delle conclusioni l’udienza del __.

Nelle more del giudizio si costituiva in giudizio la società S. S.r.l. in qualità di cessionaria del credito di C. S.p.A., già B. Soc. Coop.

Assegnato il procedimento al sottoscritto Giudice (in sostituzione in via definitiva del Giudice precedentemente assegnatario della causa a decorrere dal __), all’udienza del __ sulle conclusioni rassegnate dalle parti e previa concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c., la causa veniva così decisa.

Con il primo motivo di opposizione gli opponenti deducono che il credito garantito con le tre fideiussioni in questione debba essere contenuto nei limiti delle garanzie concesse singolarmente e pertanto in Euro __ per il C. S.p.A.; Euro __ per P. S.p.A.; Euro __ per N. S.p.A. e così complessivamente per Euro __.

L’assunto non ha pregio in quanto l’impegno fideiussorio assunto dai garanti deve essere considerato in maniera unitaria, posto che le garanzie prestate dai signori S. e R. nei confronti dei tre istituiti di credito incorporati, nel tempo, in B. Soc. Coop. sono state trasferite, senza soluzione di continuità, in capo a quest’ultima unitamente ai rapporti di conto corrente originariamente accesi.

Invero nell’atto di cessione intervenuta a suo tempo con C. si precisa testualmente che: “… la presente cessione avviene ai sensi e per gli effetti dell’art. 58 del TUB e, in particolare, a norma del suo comma 3, per cui i privilegi e le garanzie di qualsiasi tipo e da chiunque prestate o comunque esistenti a favore della Cedente conservano la loro validità a favore della Cessionaria senza bisogno di alcuna formalità o annotazione” (cfr. art. 3.1 – Oggetto del Contratto – sub doc. 6, fascicolo monitorio).

Quanto, invece, agli atti di fusione di P. S.p.A. e di N. S.p.A. gli stessi prevedono espressamente all’art. 5 quanto segue: “ai sensi dell’art. 2504 bis, comma primo, del codice civile la società incorporante si assume i diritti e gli obblighi della società incorporata, proseguendo in tutti i relativi rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione. A seguito della presente operazione di fusione, quindi, il B. – Società Cooperativa subentra alla P. S.p.A. e a N. S.p.A. di pieno diritto, senza soluzione di continuità, a titolo esemplificativo e non esaustivo: a) in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi; b) in ogni convenzione, patto e contratto, definitivo o preliminare, anche in pendenza e in formazione (compresi, tra l’altro, i contratti relativi all’esercizio della propria attività bancaria, tutti i contratti bancari e parabancari tipici e atipici tra cui quelli di mutuo e di finanziamento, anche ipotecari, di garanzia, e comunque qualsiasi rapporto con la clientela …)” (cfr. sub docc. 2 e 3, fascicolo monitorio).

Da tali evidenze documentali emerge chiaramente che a far data dall’intervenuta efficacia dei richiamati atti di cessione/fusione B. è divenuto titolare di tutti i rapporti precedentemente riconducibili alle Società incorporate.

Con il secondo motivo di opposizione gli attori lamentano la carenza di documentazione idonea a legittimare l’emissione del provvedimento opposto.

In particolare gli opponenti eccepiscono che, quanto all’esposizione debitoria riconducibile all’allora C. S.p.A., la controparte non avrebbe prodotto in sede monitoria documentazione attestante la titolarità del credito fatto valere.

I garanti contestano, inoltre, che P. avrebbe prodotto in giudizio un mero saldaconto in luogo di un estratto conto certificato ex art. 50 TUB e che comunque i doc. da 7 a 13 allegati alla richiesta di ingiunzione risulterebbero sottoscritti da un dirigente di P. in assenza di specifica indicazione dei poteri allo stesso attribuiti.

Preliminarmente occorre precisare che oggetto del presente giudizio è l’accertamento della fondatezza della pretesa azionata dall’ingiungente indipendentemente dall’analisi circa la sussistenza di vizi che possono eventualmente avere inficiato il decreto ingiuntivo a suo tempo emesso.

Infatti, come noto l’opposizione a decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario procedimento di cognizione in cui il giudice dell’opposizione è investito del potere-dovere di pronunciare sulla pretesa fatta valere con la domanda di ingiunzione (nonché sulle eccezioni e sull’eventuale domanda riconvenzionale proposta opponente) ancorché il decreto ingiuntivo sia stato emesso fuori delle condizioni stabilite dalla legge per il procedimento monitorio.

Ebbene, allo stato, le questioni sollevate dagli attori appaiono superate dal fatto che parte convenuta ha fornito compiutamente la prova del proprio credito (nei limiti quantitativi di cui si dirà), avendo prodotto copia dei contratti di apertura dei tre rapporti di conto corrente, i relativi contratti di fideiussione e gli estratti conto afferenti a detti rapporti dall’inizio del rapporto al passaggio a sofferenza.

Gli opponenti deducono altresì che l’istituto di credito convenuto avrebbe avanzato richieste non dovute a titolo di interessi convenzionali e di mora in spregio all’art. 55 L.F. e pertanto eccepiscono l’estinzione della garanzia fideiussoria ex art. 1955 c.c.

Anche tale motivo di opposizione non può trovare accoglimento, posto che, da un lato, l’art. 55 L.F. non esclude la maturazione degli interessi nei confronti della debitrice fallita, ma esclude il corso degli stessi ai soli effetti del concorso dei creditori alla distribuzione dell’attivo fallimentare.

Dall’altro, avendo i fideiussori rinunciato alla decadenza del creditore dal diritto di pretendere l’adempimento dell’obbligazione fideiussoria, sancita dall’art. 1957 c.c. (v.art. 6 contratti di fideiussione) ciò determina necessariamente l’assunzione, per i garanti, del maggior rischio inerente al mutamento delle condizioni patrimoniali del debitore (sul punto v. Cassazione Civ n. 20306 del 26/07/2019; Cass. 21867/2013; Cass. 8839/2007; Cass. n. 394 del 2006; Cass Civ n.13078 del 2008).

Infine, in merito al quantum della pretesa avanzata dall’Istituto di credito, gli attori ritengono che l’opposto abbia conteggiato importi non dovuti a titolo di capitalizzazione degli interessi.

La contestazione non è fondata in quanto, come già evidenziato dal precedente G.I. con ordinanza del __, tutti i contratti di apertura di credito in questione stabiliscono, in conformità alla Del. CICR del 9 febbraio 2000, la pari periodicità di capitalizzazione trimestrale degli interessi (art.9).

Non si registra, pertanto, nessuna disparità di trattamento tra la periodicità di conteggio di interessi creditori e debitori.

Risulta invece fondata la contestazione relativa all’applicazione di tassi di interesse superiori al limite fissato dalla legge antiusura unicamente con riguardo al conto corrente n.(…) acceso presso N.

Nel caso di specie la CTU espletata, corretta da un punto di vista contenutistico in quanto priva di vizi tecnici e logici e redatta secondo metodologia condivisibile, ha riscontrato nel rapporto sopra indicato il superamento del tasso soglia nel IV trimestre __ e nel I e II trimestre del __.

Al riguardo non può condividersi la tesi avanzata da parte convenuta secondo cui non sarebbe ravvisabile alcun profilo di illegittimità in quanto le spese fisse di chiusura periodica non dovrebbero rientrare nel calcolo del TEG perché aventi natura di mero costo del servizio di tenuta del conto corrente in questione.

Sul punto si osserva quanto segue.

Gli oneri da considerare e da includere nel calcolo del TEG sono precisati al punto C4 delle istruzioni per la rilevazione dei tassi medi valide ed in vigore sino __ che, per quanto qui rileva, stabilisce che “le spese di chiusura o di liquidazione addebitate con cadenza periodica, in quanto diverse da quelle per tenuta conto, rientrano tra quelle incluse nel calcolo del tasso”.

È chiaro quindi che si debbano includere nel TEG le spese fisse di chiusura (legate al fatto che la chiusura viene fatta trimestralmente, anziché annualmente) in quanto risultano effettivamente collegate al credito concesso.

Tale aspetto si desume anche dal passaggio riportato nelle istruzioni per la rilevazione dei tassi medi, che specificano espressamente quanto segue: “le spese di chiusura o di liquidazione addebitate con cadenza periodica, in quanto diverse da quelle per tenuta conto, rientrano tra quelle incluse nel calcolo del tasso”.

Alla luce di ciò, quindi, il saldo effettivo del rapporto va rideterminato in Euro __ (in luogo della maggior somma pari ad Euro __ addebitata dalla Banca).

Conseguentemente il quantum dovuto in linea capitale dagli attori all’istituto di credito convenuto è pari ad Euro __.

Alla luce dell’esito della lite (rigetto della quasi totalità delle doglianze proposte dagli opponenti) le spese processuali vanno compensate tra le parti nella misura di 1/6, mentre la quota residua (5/6) va posta a carico di parte attrice e si liquidano come in dispositivo con applicazione dei parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa e/o assorbita, così dispone:

– accoglie parzialmente l’opposizione e per l’effetto revoca il decreto ingiuntivo numero __ emesso in data __;

– dichiara che parte convenuta è creditrice nei confronti degli attori della somma pari ad Euro __, oltre interessi dal dovuto al saldo effettivo e per l’effetto condanna gli attori, in solido tra loro, al pagamento in favore di parte convenuta della predetta somma;

– condanna gli opponenti, in solido tra loro, alla refusione in favore della convenuta delle spese di lite che liquida, a titolo di compenso, in Euro __, oltre spese generali, IVA e CPA, compensando tra le parti la quota residua;

-spese di CTU poste per __ a carico degli attori e per __ a carico della convenuta.

Così deciso in Piacenza, il 2 dicembre 2019.

Depositata in Cancelleria il 3 dicembre 2019.

Tribunale Piacenza Sent. 03_12_2019

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La fattura rappresenta idonea prova scritta del credito sempre che ne risulti la regolarità

La fattura rappresenta idonea prova scritta del credito sempre che ne risulti la regolarità

Tribunale Ordinario di Tribunale Napoli, Sezione XI Civile, Sentenza del 02/12/2019

Con sentenza del 2 dicembre 2019, il Tribunale Ordinario di Napoli, Sezione XI Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che la fattura, ove proveniente da un imprenditore esercente attività commerciale o professionale e relativa fornitura di merci o prestazioni di servizi (anche a cliente non esercente, a sua volta, la medesima attività), rappresenta idonea prova scritta del credito quale richiesta ex lege per l’emissione di un decreto ingiuntivo, sempre che ne risulti la regolarità amministrativa e fiscale. Deve escludersi, peraltro, che la stessa fattura possa rappresentare nel giudizio di merito – e anche in quello di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto in base a essa – prova idonea in ordine così alla certezza, alla liquidità e alla esigibilità del credito dichiaratovi, come ai fini della dimostrazione del fondamento della pretesa. La fattura, infatti, si inquadra tra gli atti giuridici a contenuto partecipativo, consistendo nella dichiarazione indirizzata all’altra parte di fatti concernenti un rapporto già costituito, per cui quando tale rapporto sia contestato tra le parti, la fattura, ancorché annotata nei libri obbligatori, proprio per la sua formazione a opera della stessa parte che intende avvalersene, non può assurgere a prova del contratto, ma, al più, può rappresentare un mero indizio della stipulazione di esso e dell’esecuzione della prestazione, mentre nessun valore, neppure indiziario, le si può riconoscere in ordine alla rispondenza della prestazione stessa a quella pattuita, come agli altri elementi costitutivi del contratto.


Tribunale Ordinario di Tribunale Napoli, Sezione XI Civile, Sentenza del 02/12/2019

La fattura rappresenta idonea prova scritta del credito sempre che ne risulti la regolarità

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Napoli, Sezione Undicesima Civile, in persona del Giudice onorario dott. __, ha pronunziato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. __ R.G.A.C. riservata per la decisione all’udienza del __

TRA

L. S.a.s. – Opponente

E

T. S.r.l. – Opposto

Oggetto: opposizione al decreto ingiuntivo n. __, R.G. __, emesso dal Tribunale di Napoli il __.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La presente sentenza, resa a seguito dell’istruttoria interamente espletata dal G.U. dott.ssa __, viene redatta ai sensi dell’art. 132, co.2 n. 4 c.p.c., come modificato dall’art. 45, co. 17 della L. 18 giugno 2009, n. 69, applicabile anche ai giudizi in corso al momento della entrata in vigore di tale legge di modifica (4 luglio 2009) ai sensi dell’art. 58 co. 2 della stessa legge, la presente sentenza viene motivata attraverso una concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. Rilevato che il novellato art. 132 c.p.c. esonera il giudice dal redigere lo svolgimento del processo; ritenuta la legittimità processuale della motivazione c.d. per relationem (cfr., da ultimo, Cass. Civ n. 3636/07), la cui ammissibilità – così come quella delle forme di motivazione c.d. indiretta – risulta oramai definitivamente codificata dall’art. 16 del D.Lgs. n. 5 del 2003, recettivo degli orientamenti giurisprudenziali ricordati; osservato che per consolidata giurisprudenza del S.C. il giudice, nel motivare concisamente la sentenza secondo i dettami di cui all’art. 118 disp. att. c.p.c., non è affatto tenuto ad esaminare specificamente ed analiticamente tutte le questioni sollevate dalle parti, ben potendosi egli limitare alla trattazione delle sole questioni – di fatto e di diritto – rilevanti ai fini della decisione concretamente adottata; che, in effetti, le restanti questioni non trattate non andranno necessariamente ritenute come omesse (per l’effetto dell’error in procedendo), ben potendo esse risultare semplicemente assorbite (ovvero superate) per incompatibilità logico-giuridica con quanto concretamente ritenuto provato dal giudicante; richiamata adesivamente Cass. Civ. SS.UU. 16/01/2015 n. 642, secondo la quale nel processo civile – ed in quello tributario, in virtù di quanto disposto dal secondo comma dell’art. 1 D.Lgs. n. 546 del 1992 – non può ritenersi nulla la sentenza che esponga le ragioni della decisione limitandosi a riprodurre il contenuto di un atto di parte (ovvero di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari) eventualmente senza nulla aggiungere ad esso, sempre che in tal modo risultino comunque attribuibili al giudicante ed in maniera chiara, univoca ed esaustiva, le ragioni sulle quali la decisione è fondata, dovendosi anche escludere che, alla stregua delle disposizioni contenute nel codice di rito civile e nella Costituzione, possa ritenersi sintomatico di un difetto di imparzialità del giudice il fatto che la motivazione di un provvedimento giurisdizionale sia, totalmente o parzialmente, costituita dalla copia dello scritto difensivo di una delle parti; richiamato il contenuto assertivo degli atti introduttivi citazione e quello impeditivo/modificativo/estintivo delle comparse di risposta dei convenuti; richiamato il contenuto delle ordinanze istruttorie emesse in corso di causa; ritenuta esaustiva l’attività istruttoria svolta.

In fatto ed in sintesi, la società L. S.a.s. (d’ora innanzi solo l’opponente) citava in giudizio la società T. S.r.l. (d’ora innanzi solo l’opposta) proponendo opposizione al D.I. n. __ del __ emesso dal Tribunale di Napoli il __ con il quale le era stato ingiunto il pagamento dell’importo di Euro __, oltre accessori e spese, a titolo di mancato pagamento della fattura n. __ del __ a saldo per la fornitura e posa in opera di attrezzature da ristorazione.

In particolare, l’opponente eccepiva l’intervenuto pagamento dell’importo di Euro __ mediante assegni bancari ed Euro __ versati in contanti; contestava, inoltre, i lavori in quanto non eseguiti a regola d’arte per cui spiegava domanda riconvenzionale per il risarcimento dei danni subiti a causa dei vizi e difformità delle opere realizzate.

Si costituiva la società opposta che contestava le avverse deduzioni; eccepiva come i pagamenti indicati dall’opponente dovevano riferirsi quali acconti di cui alle fatture n. __ del __ e n. __ del __; contestava la domanda riconvenzionale stante l’intervenuta decadenza della denuncia dei vizi avvenuta tardivamente, oltre il termine di cui all’art. 1667 c.c. ed avendo, comunque, realizzato i lavori a regola d’arte.

Concessa con ordinanza del __ la provvisoria esecutorietà del D.I., all’esito del deposito delle memorie istruttorie veniva disposto dal precedente istruttore l’ordine alla parte opponente di esibire la copia conforme del libro giornale Iva concernente il periodo relativo all’invio delle fatture della T. S.r.l. n. __del __ n. __ del __ e n. __ del __; la causa, quindi, veniva rinviata per la precisazione delle conclusioni e, assegnata allo scrivente per la trattazione a far data dall’udienza del __, veniva riservata per la decisione con la concessione dei termini di legge per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.

In via preliminare occorre rilevare la legittimità del decreto ingiuntivo emesso, in quanto fondato su prova scritta, consistente, nel caso specifico, nella documentazione di cui al fascicolo della fase monitoria, ossia in particolare dalla copia della fattura, estratto contabile del libro Iva vidimato, richiesta di pagamento.

Tale documentazione, ancorché non contestata dall’opponente, costituisce prova scritta del diritto fatto valere a norma dell’art. 633 c.p.c.

Per giurisprudenza pacifica, nel procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo, in cui il contraddittorio è eventuale e posticipato, instaurandosi solo per effetto dell’opposizione, non si verifica alcuna inversione della posizione sostanziale delle parti.

Precisamente, il creditore mantiene la veste sostanziale di attore ed all’opponente compete la posizione tipica del convenuto, e ciò esplica i suoi effetti anche in tema di onere della prova (Cass. Civ., Sez. I, 27/06/2000, n. 8718; Cass. Civ. 05/03/1994, n. 2124).

Da ciò consegue che, secondo i principi generali in tema di onere della prova, incombe a chi fa valere il diritto in giudizio fornire gli elementi probatori a sostegno della propria pretesa (Cass. Civ., Sez. III, 03/03/2009, n. 5071; Cass. Civ. Sez. II, 29/01/1999, n. 807).

In particolare, con riferimento al caso che ci occupa, la fattura, ove proveniente da un imprenditore esercente attività commerciale o professionale e relativa fornitura di merci o prestazioni di servizi (anche a cliente non esercente, a sua volta, la medesima attività), rappresenta idonea prova scritta del credito quale richiesta ex lege per l’emissione di un decreto ingiuntivo, sempre che ne risulti la regolarità amministrativa e fiscale.

Deve escludersi, peraltro, che la stessa fattura possa rappresentare nel giudizio di merito – e anche in quello di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto in base a essa – prova idonea in ordine così alla certezza, alla liquidità e alla esigibilità del credito dichiaratovi, come ai fini della dimostrazione del fondamento della pretesa. La fattura, infatti, si inquadra tra gli atti giuridici a contenuto partecipativo, consistendo nella dichiarazione indirizzata all’altra parte di fatti concernenti un rapporto già costituito, per cui quando tale rapporto sia contestato tra le parti, la fattura, ancorché annotata nei libri obbligatori, proprio per la sua formazione a opera della stessa parte che intende avvalersene, non può assurgere a prova del contratto, ma, al più, può rappresentare un mero indizio della stipulazione di esso e dell’esecuzione della prestazione, mentre nessun valore, neppure indiziario, le si può riconoscere in ordine alla rispondenza della prestazione stessa a quella pattuita, come agli altri elementi costitutivi del contratto (Cass. Civ. 03/04/2008, n. 8549, Cass. Civ. 04/03/2003, n. 3188; Cass. Civ. 08/06/2004, n. 10830).

Con l’atto di opposizione al D.I. si instaura, quindi, un ordinario giudizio di cognizione nel quale le parti assumono in concreto la posizione processuale corrispondente alla effettiva situazione sostanziale. Al fine dell’applicazione della ripartizione dell’onere probatorio regolata dall’art. 2697 c.c. sul creditore opposto, da ritenersi attore in senso sostanziale, incombe l’onere di fornire adeguata prova della sussistenza dei fatti costitutivi del diritto azionato, mentre sull’opponente, convenuto in senso sostanziale, grava l’onere della prova dei fatti estintivi, impeditivi o modificativi del credito, di tal che le difese con le quali l’opponente miri ad evidenziare l’inesistenza, l’invalidità o comunque la non azionabilità del credito vantato ex adverso non si collocano sul versante della domanda – che resta quella prospettata dal creditore nel ricorso per ingiunzione – ma configurano altrettante eccezioni (Cass. Civ. 22/04/2003 n. 6421).

Non vi è dubbio, pertanto, che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo la posizione dell’opponente è quella di convenuto in senso sostanziale, incombendo sull’opposto l’onere di provare il fondamento della sua pretesa.

Nel merito l’opposizione è risultata infondata e va rigettata nei limiti e per le motivazioni che, di seguito, si espongono.

Nel caso di specie l’opposta ha fondato la propria richiesta di pagamento sulla base della fattura n. __ del __, che la società opponente non ha contestato, ma di cui ha eccepito l’avvenuto pagamento mediante il versamento degli assegni bancari (n. __) emessi dal __ al __, ciascuno dell’importo di Euro __, oltre al pagamento dell’importo di Euro __ eseguito in contanti.

A tale imputazione di pagamento replicava la difesa dell’opposta che a sua volta eccepiva che gli assegni indicati dall’opponente in realtà dovevano essere imputati quale pagamento delle fatture n. __ del __ e n. __ del __ (docc. A e B allegati al fascicolo di parte opposta) quali acconti ai lavori commissionati e che riportano le scadenze di pagamento e gli importi che coincidono con gli assegni bancari indicati dall’opponente.

Sul punto, tuttavia, l’opponente nulla deduceva in senso contrario e nulla depositava in seguito all’ordine disposto dal precedente istruttore con ordinanza del 03/10/2016, (ordine di esibizione della copia conforme del libro giornale Iva concernente il periodo relativo all’invio delle fatture della T. S.r.l. n. __ del __, n. __ del __ e n. __ del __), per cui questo Tribunale ritiene raggiunta la prova del credito vantato dall’opposta, anche in quanto appare del tutto inverosimile che l’opponente abbia eseguito il pagamento dell’importo di Euro __ con assegni bancari per poi pagare l’importo di Euro __ in contanti, senza che di tale pagamento ne venisse rilasciata alcuna ricevuta.

Circa la domanda riconvenzionale di parte opponente la stessa non può che essere rigettata.

Infatti, il committente ha l’onere di provare di aver denunciato all’appaltatore i vizi dell’opera, non facilmente riconoscibili al momento della consegna, entro sessanta giorni dalla scoperta, costituendo tale denuncia una condizione dell’azione di garanzia, essendo quegli assolto da tale onere solo per i vizi dolosamente occultati dall’appaltatore (Cass. Civ. 17/05/2001, n. 6774).

Quindi, a fronte dell’eccezione di decadenza sollevata dall’opposta, era onere dell’opponente dare la prova del momento dell’avvenuta scoperta dei vizi e della tempestività della denuncia.

Tuttavia l’opponente si è limitata al deposito della nota raccomandata del __ (doc. 3 allegato al fascicolo di parte opponente), dove non vi è altro che un generico riferimento ad ingenti danni arrecati alla soc. L. S.a.s., e senza in ogni caso fornire la prova del momento della scoperta dei vizi ai fini della tempestività della denuncia.

Deve, in conclusione, rigettarsi l’opposizione e la domanda riconvenzionale di parte opponente con la conferma del D.I. opposto.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo (valore medio dello scaglione fino ad Euro __ ridotto del 30%) tenendo conto della natura e del valore della controversia, della qualità e quantità delle questioni trattate e dell’attività complessivamente svolta dai difensori sulla base, però, dei nuovi parametri introdotti dal decreto del Ministro della Giustizia 10 marzo 2014, n. 55 (G.U. n. 77 del 02/04/14).

P.Q.M.

il Tribunale di Napoli – XI Sezione civile – definitivamente pronunciando sulla domanda come in epigrafe proposta e tra le parti ivi indicate, disattesa ogni diversa domanda ed eccezione, così provvede:

1) rigetta l’opposizione;

2) conferma il decreto ingiuntivo n. __ rilasciato dal Tribunale di Napoli il __;

3) rigetta la domanda riconvenzionale dell’opponente;

4) condanna l’opponente al rimborso in favore dell’opposta delle spese processuali liquidate in Euro __ per compenso professionale, oltre rimborso spese forfettario 15%, IVA, CPA con attribuzione.

Così deciso in Napoli, il 29 novembre 2019.

Depositata in Cancelleria il 2 dicembre 2019.

Tribunale Napoli Sez. XI Sent. 02_12_2019

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Il contratto di locazione di un bene sottoposto a pignoramento

Il contratto di locazione di un bene sottoposto a pignoramento

Corte d’Appello di Milano, Sezione III Civile, Sentenza del 29/11/2019

Con sentenza del 29 novembre 2019, la Corte d’Appello di Milano, Sezione III Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che il contratto di locazione di un bene sottoposto a pignoramento sottoscritto senza l’autorizzazione del Giudice dell’esecuzione non è invalido, ma semplicemente inopponibile ai creditori e all’assegnatario; legittimato ad esercitare le azioni derivanti da siffatta locazione è il custode, che, in caso di fallimento, è il Curatore, il quale si sostituisce di diritto al creditore istante, senza necessità di un provvedimento giudiziale.


Corte d’Appello di Milano, Sezione III Civile, Sentenza del 29/11/2019

Il contratto di locazione di un bene sottoposto a pignoramento

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE D’APPELLO DI MILANO

Sezione Terza civile

nelle persone dei magistrati:

dott. __ – Presidente rel.

dott. __ – Consigliere

dott. __ – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. __ R.G. promossa in grado d’appello con atto di citazione notificato il __ e depositato/iscritto a ruolo il __

DA

C.- Appellante

CONTRO

Fallimento C. S.r.l. – Appellato

OGGETTO: sentenza Tribunale di Varese n.__ pubblicata il __ in materia di “Risoluzione del contratto di locazione per inadempimento – uso abitativo”

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con atto di citazione notificato il __ e depositato/iscritto a ruolo il __, C. ha proposto appello avverso la sentenza n. __ pubblicata il __ con la quale il Tribunale di Varese, decidendo nella causa contro di lui promossa dal Fallimento C. S.r.l., in persona del Curatore – legale rappresentante pro tempore, in accoglimento della domanda del medesimo, ha dichiarato la risoluzione del contratto di locazione ad uso abitativo -riguardante l’immobile sito in __- stipulato tra le parti il __, per grave inadempimento del conduttore C., condannando il medesimo a restituire immediatamente l’immobile e a versare al Fallimento l’importo di Euro __ per canoni insoluti da __ alla data della pronuncia, oltre Euro __ al mese (pari all’ultimo canone dovuto) a titolo di indennità di occupazione dal __ sino al rilascio effettivo ed oltre spese di lite.

Con il primo motivo d’appello, C. ha censurato la sentenza laddove il primo Giudice, a fronte della propria eccezione di nullità del contratto, aveva ritenuto che “il contratto non può considerarsi nullo e i canoni dovevano essere in ogni caso corrisposti”, non considerando che, prima della sua stipulazione, l’immobile era stato sottoposto a vincolo pignoratizio, che non vi era stata l’autorizzazione del Giudice dell’esecuzione, che il contratto era stato stipulato da soggetto non legittimato, che ciò ne comportava l’inoperatività e la non debenza dei canoni, che – inoltre- trattavasi di contratto ex art.1523 c.c. in ragione della previsione del diritto del conduttore di acquistare la proprietà dell’immobile al prezzo concordato con imputazione dei canoni corrisposti medio tempore, che -ancora- il contratto era nullo anche per impossibilità dell’oggetto essendo stato l’immobile già promesso in vendita ad altri prima di essere sottoposto a procedura esecutiva.

Con il secondo motivo d’appello, ha censurato la sentenza laddove statuiva che “neppure può trovare ingresso la domanda di annullamento del contratto di locazione per asserito vizio del consenso, perché quest’ultimo non è stato provato”, in quanto C. era stato indotto a sottoscrivere il contratto dal comportamento sottacente di controparte, essendo invero provato per tabulas il consenso viziato, posto che l’aspettativa del conduttore di acquistare l’immobile, garantita dalla clausola contrattuale n. __, era inveritiera ed impossibile, con conseguente violazione da parte del locatore dell’obbligo di correttezza e buona fede sancito dall’art.1337 c.c.

Con il terzo motivo, l’appellante ha censurato la sentenza laddove il Giudice aveva statuito che “non risulta che le parti abbiano determinato l’ammontare del canone in considerazione del diritto di opzione riconosciuto al conduttore”, posto che dalla documentazione prodotta risultava che il canone era stato maggiorato circa del 50% rispetto al canone di mercato per permettere al conduttore l’acquisto dell’immobile nei termini stabiliti alla clausola n. __; che in ogni caso l’indennità di occupazione non era dovuta a motivo della inefficacia/invalidità/annullabilità del contratto, e comunque avrebbe dovuto essere eventualmente considerata per il solo periodo intercorrente dalla pubblicazione della sentenza alla liberazione dell’immobile e rideterminata secondo i valori di mercato.

Con il quarto motivo, ha censurato la sentenza ove era stata ritenuta “irrilevante, ai fini dell’esonero dal pagamento dei canoni, la circostanza dell’esistenza di problematiche agli impianti di riscaldamento o di erogazione dell’acqua calda, considerato che, a prescindere da ogni altra considerazione, comunque non è stato provato che gli inconvenienti lamentati fossero direttamente imputabili alla locatrice”; l’appellante ha in proposito dedotto che le problematiche all’impianto di riscaldamento rientravano nelle opere di manutenzione straordinaria, che erano state più volte denunciate all’appellata la quale per contratto era tenuta a provvedervi e ne avrebbe dovuto sostenere i costi ex art.1575 c.c.

Ha concluso come in epigrafe.

Il Fallimento C. S.r.l., costituendosi, ha sottolineato la correttezza di quanto ritenuto in sentenza e l’infondatezza di ciascuno dei motivi d’appello; ha chiesto il rigetto dell’appello come da conclusioni riportate in epigrafe.

Va, innanzitutto, osservato che il giudizio di primo grado si è svolto secondo il rito speciale delle locazioni. Per il principio dell’ultrattività del rito, l’appello avrebbe dovuto proporsi con ricorso, e non con citazione. Tale principio è una specificazione del più generale principio per cui l’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile deve avvenire in base all’apparenza, cioè con riguardo esclusivo alla qualificazione (anche implicita) dell’azione e del provvedimento compiuta dal giudice (anche indipendente dalla relativa esattezza; cfr. Cass., SS. UU., 9.5.2011 n. 10073); ciò comporta che -in sostanza- il giudizio impugnatorio deve proseguire nella stessa forma (v. Cass., 7/6/2011, n.12290). Tuttavia, laddove il giudizio sia stato erroneamente proposto con il rito ordinario, ossia con citazione, ai fini della tempestività del gravame rileva la data non già della notificazione alla controparte, bensì del deposito in Cancelleria (cfr. Cass. 30.6.2011 n.14406), che nella specie è avvenuto nel rispetto del termine.

Superata, per tale aspetto, la questione -rilevabile d’ufficio- dell’ammissibilità del gravame proposto da C. con atto di citazione, è, ancora, opportuno premettere -sempre per l’attitudine della questione ad essere rilevata d’ufficio- che il perimetro del giudizio demandato a questa Corte è delimitato dalle domande e dalle eccezioni ritualmente proposte in primo grado e in appello altrettanto ritualmente reiterate, sicché è inammissibile l’introduzione -e corrispondentemente impedito l’esame da parte del Giudice del gravame- di argomenti o domande successivamente (e pertanto tardivamente) avanzati nella dialettica processuale e non suscettibili di esame d’ufficio. Quanto osservato vale rispetto ad alcuni argomenti introdotti soltanto in questa sede dall’appellante, mai prima prospettati, di seguito evidenziati in seno alla trattazione dei singoli motivi d’appello.

Quanto al primo motivo, sono inammissibili, perché nuove, le deduzioni concernenti la configurazione del contratto in oggetto quale contratto di compravendita con riserva di proprietà riconducibile alla disciplina dell’art.1523 c.c. – che oltretutto contraddice quanto sostenuto nelle difese ritualmente introdotte in primo grado laddove il contratto veniva configurato come un atipico contratto di locazione con diritto di opzione- e quelle concernenti la nullità sotto il profilo dell’impossibilità dell’oggetto determinata dal fatto che l’immobile era già stato promesso in vendita ad altri prima di essere sottoposto a procedura esecutiva, fatto non ritualmente dedotto in primo grado. Per il resto, il motivo è nel merito infondato. Infatti, come correttamente rilevato dal primo Giudice, in linea con quanto sancito dalla Suprema Corte nelle sentenze appropriatamente citate (Cass.n.13216/2016, n.10599/2009, n.7422/1999), il contratto di locazione di un bene sottoposto a pignoramento sottoscritto senza l’autorizzazione del Giudice dell’esecuzione non è invalido, ma semplicemente inopponibile ai creditori e all’assegnatario; legittimato ad esercitare le azioni derivanti da siffatta locazione è il custode, che, in caso di fallimento, è il Curatore, il quale si sostituisce di diritto al creditore istante, senza necessità di un provvedimento giudiziale. Non può dunque configurarsi nella specie la nullità prospettata dal C. con riferimento al fatto che l’immobile fosse stato sottoposto a vincolo pignoratizio prima della stipulazione del contratto di locazione in oggetto e che non vi fosse stata l’autorizzazione del Giudice dell’esecuzione, essendo divenuta la legittimazione in capo al Curatore (indipendentemente dal compimento delle formalità previste dall’art.88 L.F. e ciò dalla data di trascrizione dell’estratto della sentenza di fallimento nei pubblici registri), cui competeva dunque l’azione di risoluzione del contratto, di rilascio dell’immobile, di pagamento dei canoni pregressi e dell’indennità di occupazione. Con la titolarità in capo al Curatore dell’azione, il primo Giudice ne ha correttamente affermato anche la fondatezza. In assenza di nullità il contratto non potrebbe ritenersi inoperativo, come sostenuto dall’appellante, con il conseguente obbligo di corrispondere i canoni, quale controprestazione dovuta a fronte del mantenimento in essere, da parte del Curatore (che, quale rappresentante della massa dei creditori, agisce per loro conto), del contratto, e della permanenza del godimento dell’immobile in capo al conduttore.

Tutto ciò è assorbente rispetto ad ogni problematica consequenziale e connessa alla domanda di C. di restituzione dei canoni, compresa quella sulla proponibilità/ammissibilità di tale domanda del conduttore azionata nei confronti del Fallimento al di fuori delle regole endoprocessuali sancite in ambito fallimentare.

Neppure è fondata la tesi dell’appellante, oggetto del secondo motivo d’appello, sul dedotto vizio del consenso e specificamente sulla prova per tabulas in ordine all’esistenza di tale causa di annullamento del contratto. Con la clausola n. __ del contratto la parte locatrice si è limitata a riconoscere al conduttore il diritto di opzione all’acquisto dell’immobile ed a fissarne anticipatamente, per tale evenienza, il prezzo, senza con ciò impegnarsi alla vendita, tanto che il rogito è stato espressamente previsto, appunto, come semplicemente eventuale. Non può pertanto ritenersi insito nella pattuizione -secondo quanto sostiene C. – un comportamento del locatore intenzionalmente reticente e di mala fede, volto a carpire il consenso del conduttore; e ciò anche a prescindere dal fatto che non vi sono elementi dirimenti che consentano di ritenere appurato che parte locatrice – che secondo quanto non contestato era in preda ad una grave crisi aziendale – avesse effettivamente contezza del pignoramento – avvenuto poco tempo prima -, che il conduttore – al momento della stipula – fosse completamente all’oscuro delle condizioni economiche di parte locatrice e del pignoramento del bene, che C. non avrebbe stipulato il contratto se non fosse stato certo che l’immobile gli sarebbe stato senz’altro venduto. La prova della sussistenza dei requisiti del vizio lamentato non è dunque stata fornita e neppure può desumersi in modo evidente dalla clausola contrattuale di opzione.

Non smentisce il convincimento che la prova non possa automaticamente ricavarsi dal contesto del contratto l’entità del canone pattuito, argomento oggetto del terzo motivo d’appello, secondo cui le parti avevano determinato l’ammontare del canone in funzione del pattuito diritto di opzione. Trattasi in effetti di circostanza del tutto indimostrata. Anzi, non essendo contestato che oggetto della locazione fosse un appartamento lussuoso situato in una villa d’epoca e che, per quanto emergente dal contratto, si trattasse di unità immobiliare in ottimo stato di manutenzione, si è in presenza di caratteristiche sufficienti, in mancanza di adeguati elementi probatori di segno contrario, a giustificare il superamento, nella determinazione del canone, e della corrispondente indennità, del parametro del valore medio corrente di mercato per gli immobili ubicati nella medesima località.

Manca comunque, sin dal giudizio di primo grado, una specifica domanda di riduzione del canone, sicché il tema difensivo va considerato soltanto in funzione della censura mossa al primo Giudice di superficialità nella valutazione delle prove documentali.

Anche il quarto motivo è infondato. In proposito, non solo manca – come affermato dal primo Giudice – la prova che i problemi allegati in relazione al funzionamento dell’impianto di riscaldamento e all’erogazione dell’acqua calda dipendessero da vizi o da mancanze nella manutenzione straordinaria riferibili alla locatrice, ma, prima ancora, vi è un difetto di allegazione in ordine alla precisa individuazione e descrizione degli inconvenienti e della loro effettiva consistenza, a fronte, peraltro, anche a questo proposito, di una consegna dell’immobile in ottimo stato di manutenzione, come da descrizione contenuta nel contratto.

Per tutto quanto rilevato l’appello va rigettato, con conseguente conferma della sentenza appellata.

Anche le spese del presente grado, per il principio della soccombenza sancito dall’art. 91 c.p.c., vanno poste a carico di C., così come liquidate in dispositivo, avuto riguardo ai criteri indicati dal vigente D.M. n. 55 del 2014, con riferimento al valore della controversia (indicato nell’atto d’appello in Euro __) e, attesa la media difficoltà delle questioni trattate, al valore medio per le tre fasi, esclusa quella istruttoria di fatto non svoltasi.

Non va disposta la distrazione delle spese a favore dei difensori del Fallimento, posto che la relativa domanda, avanzata nella comparsa di costituzione, è stata abbandonata nelle conclusioni definitive precisate all’udienza di discussione.

Si dà atto, ai sensi dell’art.13, comma 1-quater, D.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico di parte appellante, dell’ulteriore importo pari al contributo unificato versato.

P.Q.M.

La Corte d’Appello di Milano, definitivamente pronunciando sull’appello proposto da C. contro il Fallimento C. S.r.l., avverso la sentenza del Tribunale di Varese n. __ pubblicata il __, così provvede:

– rigetta l’appello;

– condanna l’appellante a rifondere all’appellato le spese di lite liquidate in complessivi Euro __ di cui Euro __ per la fase di studio, Euro __ per la fase introduttiva, Euro __ per la fase decisionale, oltre il 15% per rimborso forfettario spese ed oltre IVA e CPA secondo legge;

– dà atto, della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dell’appellante dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato a mente dell’art.13 c. 1 quater D.P.R. n. 115 del 2002 comma inserito dall’art.1 comma 17 L. n. 228 del 2012.

Così deciso in Milano, il 23 ottobre 2019.

Depositata in Cancelleria il 29 novembre 2019.

Corte d'Appello Milano Sez. III Sent. 29_11_2019

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