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Fallimento: l’azione di responsabilità promossa dal curatore

Fallimento: l’azione di responsabilità promossa dal curatore

Corte di Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza n. 27610 del 29/10/2019

Con ordinanza del 29 ottobre 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione III, in tema di recupero crediti, ha stabilito che nell’azione di responsabilità promossa dal curatore, a norma dell’art. 146, 2° comma, della L.F., la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, sempreché il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo.

 


Corte di Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza n. 27610 del 29/10/2019

Fallimento: l’azione di responsabilità promossa dal curatore

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. __ R.G. proposto da:

T. – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della Corte d’appello di Bologna, depositata il __;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere Dott. __;

udito l’Avvocato __;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. __, che ha concluso chiedendo il rigetto.

Svolgimento del processo

  1. Il Tribunale di Bologna con sentenza depositata il __ ha accolto l’azione di responsabilità esercitata dal curatore del fallimento della (OMISSIS) S.r.l. nei confronti del suo amministratore, T., condannando quest’ultimo al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, della somma di Euro __, oltre rivalutazione e interessi.
  2. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Bologna ha confermato tale decisione, respingendo il gravame interposto dal soccombente.

Respinte le reiterate eccezioni di nullità della procura apposta a margine dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, di prescrizione del credito risarcitorio e di nullità della domanda, la Corte territoriale ha nel merito rilevato che:

– l’omessa tenuta della contabilità e l’omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali per gli esercizi dal __ al __ è un fatto pacifico (e comunque, grazie alla verifica fiscale della Gdf, documentalmente provato);

– è incontestabile che almeno le sanzioni fiscali irrogate per l’omesso versamento dei tributi e dei contributi previdenziali siano un danno causalmente ricollegabile alla condotta di T. in modo immediato e diretto;

– il Tribunale ha quantificato il danno cagionato da T. nella misura di Euro __ facendo richiamo all’equità, ossia applicando la percentuale del __% al complessivo credito di Equitalia iscritto al passivo;

– la determinazione equitativa del tribunale deve essere condivisa, sia perché non è stata specificamente contestata dall’appellante, sia perché essa corrisponde al maggior importo che mediamente e notoriamente deriva a carico dell’imprenditore per l’omissione degli adempimenti tributari e contributivi.

  1. Avverso tale decisione T. propone ricorso per cassazione articolando ventitré motivi, cui resiste la curatela, depositando controricorso.

Motivi della decisione

  1. Premessa sui criteri espositivi.

I numerosi motivi di ricorso verranno qui di seguito sinteticamente descritti, attraverso la trascrizione testuale delle rispettive rubriche (in grassetto) e, di seguito, una sintesi della loro illustrazione (omessa nei casi in cui la rubrica risulti già di per sé esaustivamente esplicativa del contenuto della censura).

Seguirà, al termine di ciascuno dei paragrafi dedicati ai singoli motivi, ovvero a più di essi raggruppati se congiuntamente esaminabili (per sostanziale sovrapposizione e/o per comunanza di tema trattato), l’esposizione della valutazione operata dal Collegio.

  1. Primo motivo: l’eccezione di nullità della procura rilasciata a margine dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado.

Violazione di legge per non aver ritenuto la nullità della procura ex art. 83 c.p.c.

Viene riprodotta la parte della sentenza dedicata alla questione; da essa si ricava che l’eccezione era basata:

  1. a) sul rilievo che la procura sarebbe stata rilasciata in data (__) precedente ai fatti descritti nella stessa prima pagina dell’atto di citazione (__), dal che la sua natura di procura in bianco non consentita nel nostro ordinamento;
  2. b) sull’ulteriore rilievo della illeggibilità della sottoscrizione.

La Corte d’appello ha ritenuto l’eccezione:

  1. a) infondata quanto al primo rilievo (per essere richiesta, ai fini della validità della procura, solo la certezza e la conoscibilità del potere rappresentativo del difensore che sostituisce in giudizio la parte);
  2. b) inammissibile quanto al secondo (per non essere stato in precedenza dedotto) e, comunque, manifestamente infondata.

Con il motivo in esame il ricorrente contesta che il secondo dei predetti rilievi possa considerarsi nuovo ed afferma che l’invalidità della procura è evidente risultando non solo illeggibile la sottoscrizione e la persona o l’ente dalla quale la stessa è conferita (sicché se ne deve presumere la riferibilità al curatore) ma è in bianco e non si riferisce all’oggetto della causa (così testualmente in ricorso).

2.1. Il motivo si appalesa inammissibile, sotto diversi profili.

2.1.1. Anzitutto per evidente aspecificità.

Il ricorrente si limita invero a riferire genericamente le ragioni della dedotta nullità della procura dell’atto introduttivo (peraltro assai brevemente e in termini che non consentono di coglierne il senso, non essendo precisato quali siano i fatti descritti nella prima pagina della citazione e perché la loro asserita posteriorità rispetto alla data della procura dovrebbe dimostrare che questa sia stata rilasciata in bianco, tanto più se si considera che l’azione di responsabilità è riferita alle cause ed alle conseguenze di una insolvenza emersa diversi anni prima e sfociata in una dichiarazione di fallimento del marzo del 2010 e considerato che tra le eccezioni opposte in primo grado e, come detto, respinte, vi era anche quella di prescrizione del credito risarcitorio: il che presuppone che, secondo la stessa prospettazione difensiva dell’odierno ricorrente, i fatti posti a fondamento della domanda erano talmente anteriori alla sua proposizione da risultare questa addirittura, in tesi, tardiva rispetto al termine prescrizionale).

Il ricorrente in ogni caso omette di riprodurre in ricorso il contenuto dell’atto di cui afferma la nullità, né indica in quale sede processuale lo stesso risulti prodotto, violando così palesemente l’onere imposto dall’art. 366 c.p.c., n. 6, a pena di inammissibilità, di specificamente indicare gli atti e i documenti su cui il ricorso si fonda.

È noto c e al riguardo che, oltre ad una compiuta descrizione in ricorso – nella specie come detto mancante – del contenuto dell’atto o documento che possa consentire una immediata verifica delle ragioni e delle pertinenze della censura, è necessario anche che si provveda alla relativa individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta alla Corte di Cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (v. Cass. 16/03/2012, n. 4220), con precisazione (anche) dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità (v. Cass. 09/04/2013, n. 8569; 06/11/2012, n. 19157; 16/03/2012, n. 4220; 23/03/2010, n. 6937; ma v. già, con riferimento al regime processuale anteriore al D.Lgs. n. 40 del 2006, Cass. 25/05/2007, n. 12239), la mancanza anche di una sola di tali indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr. Cass. Sez. U. 19/04/2016, n. 7701).

Un tale onere, come noto, si impone anche in relazione alle censure di carattere processuale, avendo questa Corte costantemente affermato che, anche in ipotesi di error in procedendo per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del fatto processuale, il potere dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali è condizionato all’adempimento da parte del ricorrente, per il principio di autosufficienza de ricorso per cassazione, dell’onere di indicarli compiutamente, non essendo consentita al giudice una loro autonoma ricerca, ma solo una loro verifica (v. e plurimis Cass. Sez. U. 03/11/2011, n. 22726; Sez. U. 27/03/2008, n. 7930; Sez. U. 28/07/2005, n. 15781; Cass. 13/06/2014, n. 13546; 19/3/2007, n. 6371).

2.1.2. Mette conto comunque rilevare che, pur riguardata nella sua astratta prospettazione, la tesi della invalidità della procura speciale, perché rilasciata in bianco, è destituita di fondamento, palesandosi corretta e conforme a consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità la regola di giudizio al riguardo evocata in sentenza: rispetto alla quale il ricorrente omette peraltro qualsiasi considerazione critica, esponendosi sotto tale profilo il motivo a ulteriore rilievo di inammissibilità ex art. 360-bis c.p.c., n. 1.

Costituisce invero jus receptum nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione che la procura – salvo che non si tratti di quella rilasciata per ricorrere per cassazione – è validamente rilasciata anche prima della redazione dell’atto difensivo in calce o a margine del quale è posta, in quanto la corrispondenza tra l’attività svolta dal difensore e l’effettivo volere del rappresentato attiene esclusivamente al rapporto interno tra difensore e cliente (Cass. 18/07/2003, n. 11256; 26/07/2002, n. 11106, 16/05/1997, n. 4389), non essendo richiesta, a pena di nullità, la dimostrazione della volontà delle parti di fare proprio il contenuto del medesimo atto nel momento stesso della sua formazione ovvero ex post (Cass. 10/07/2014, n. 15759; 06/11/2006, n. 23608; n. 11106 del 2002, cit.).

2.1.3. I superiori rilievi di aspecificità della censura riguardano anche la dedotta illeggibilità della sottoscrizione della procura, rispetto alla quale risulta altresì aspecifica e meramente assertiva la contestazione della inammissibilità dell’eccezione poiché tardiva ex art. 157 c.p.c., comma 2, in quanto per la prima volta proposta in appello (sulla correttezza del relativo rilievo v. Cass. 29/03/2019, n. 8930; Cass. Sez. U. 07/03/2005 n. 4810; 07/11/2013, n. 25036; Cass. 4149/2012; Cass. SS.UU. 4810/2005) e analogamente, comunque, meramente oppositiva e priva dunque di alcun valore censorio quella della sua infondatezza, pure affermata in sentenza.

  1. Secondo motivo: dedotta nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia ex art. 112 c.p.c. in relazione a tutta l’impostazione della sentenza.

Si lamenta che la sentenza non prenda posizione sulle questioni e argomentazioni svolte con l’atto d’appello, delle quali si offre un ampio riassunto.

3.1. Il motivo si appalesa inammissibile per non essere immediatamente riconducibile ad un preciso vizio cassatorio tra quelli tassativamente indicati dall’art. 360 c.p.c., oltre che per genericità.

Si fa confuso riferimento in rubrica ad un error in procedendo (nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4) ma al contempo ad un vizio di omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia (così evocando un vizio di motivazione secondo il non più attuale paradigma censorio del previgente testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5); il tutto riferito a tutta l’impostazione della sentenza.

Risulta così palesemente disatteso il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 4 che impone l’indicazione, a pena appunto di inammissibilità, dei motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano e che comporta – come chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte – l’esigenza di una chiara esposizione, nell’ambito del motivo, delle ragioni per le quali la censura sia stata formulata e del tenore della pronunzia caducatoria richiesta, che consentano al giudice di legittimità di individuare la volontà dell’impugnante e stabilire se la stessa, così come esposta nel mezzo di impugnazione, abbia dedotto un vizio di legittimità sostanzialmente, ma inequivocamente, riconducibile ad alcuna delle tassative ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c. (Cass. Sez. U. 24/07/2013, n. 17931).

Nel far riferimento a tutta l’impostazione della sentenza la postulazione risulta poi, come detto, anche del tutto generica e tale da impingere in inammissibilità per difetto di specificità alla stregua del consolidato principio di diritto di cui a Cass. n. 4741 del 2005, seguito da numerose conformi e avallato da Cass. Sez. U. n. 7074 del 2017 (Il requisito di specificità e completezza del motivo di ricorso per cassazione è diretta espressione dei principi sulle nullità degli atti processuali e segnatamente di quello secondo cui un atto processuale è nullo, ancorché la legge non lo preveda, allorquando manchi dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento del suo scopo, art. 156 c.p.c., comma 2). Tali principi, applicati ad un atto di esercizio dell’impugnazione a motivi tipizzati come il ricorso per cassazione e posti in relazione con la particolare struttura del giudizio di cassazione, nel quale la trattazione si esaurisce nella udienza di discussione e non è prevista alcuna attività di allegazione ulteriore (essendo le memorie, di cui all’art. 378 c.p.c., finalizzate solo all’argomentazione sui motivi fatti valere e sulle difese della parte resistente), comportano che il motivo di ricorso per cassazione, ancorché la legge non esiga espressamente la sua specificità (come invece per l’atto di appello), debba necessariamente essere specifico, cioè articolarsi nella enunciazione di tutti i fatti e di tutte le circostanze idonee ad evidenziarlo).

Nella misura in cui comunque il motivo può leggersi quale riepilogo e anticipazione delle censure che saranno poi ripetitivamente esposte negli altri motivi può farsi rimando alle valutazioni che saranno espresse con riferimento ad essi.

  1. Motivi dal sesto all’ottavo: sul rigetto della reiterata eccezione di nullità della domanda per mutatio libelli.

Sesto motivo: nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per non aver motivato in ordine all’inammissibilità del libello ed insanabilità dell’atto introduttivo del giudizio di merito ex artt. 163 e 164 c.p.c. non comprensibile si da rendere impossibile una difesa scientifica e specifica.

Settimo motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 per non aver motivato in ordine all’inammissibilità del libello ed insanabilità dell’atto introduttivo del giudizio di merito ex artt. 163 e 164 c.p.c. non comprensibile si da rendere impossibile una difesa scientifica e specifica.

Nell’illustrazione di quest’ultimo motivo (il settimo) si trascrive, in premessa, uno stralcio della sentenza d’appello ove è motivato il rigetto dell’eccezione, con il rilievo della sua infondatezza, per essere stati gli elementi costitutivi della domanda correttamente, anche se sinteticamente, enunciati nell’atto introduttivo.

Sarebbe questa, secondo il ricorrente, motivazione apparente e di stile.

Si osserva di contro, in ricorso, che l’atto introduttivo del giudizio si riferiva al ristoro di tutti i danni patiti a seguito delle omissioni, dell’amministratore unico negli anni in cui lo stesso ha rivestito tale carica.

Si rileva che il tribunale ha condannato al risarcimento del danno in assenza, non solo di elementi probatori, ma anche di allegazione e di determinazione nonché di relazione causale e di disamina sulle circostanze.

Vi sarebbe contraddizione tra le due sentenze di merito poiché mentre quella d’appello afferma che l’oggetto della domanda era stato denunciato nell’atto introduttivo, il primo giudice ammette che il danno venne indicato esclusivamente in comparsa conclusionale.

Si afferma che in realtà mai, nel corso del giudizio di primo grado, il convenuto venne posto a conoscenza della reale entità del danno.

Ottavo motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 per non aver considerato il vizio di mutatio libelli ex art. 183 e 184 c.p.c.

La denunciata mutatio libelli – la cui sussistenza si assume erroneamente negata dalla Corte territoriale – sarebbe in tesi determinata dal fatto che il curatore avrebbe in citazione fatto generico riferimento a tutti i danni patiti dal fallimento e che solo in comparsa conclusionale, peraltro in modo generico, avrebbe precisato l’oggetto della domanda.

4.1. I motivi surriferiti, congiuntamente esaminabili per la loro evidente sovrapponibilità, sono parimenti inammissibili.

4.1.1. Anzitutto per la loro evidente aspecificità, nessuno di essi confrontandosi con la prima e assorbente ratio decidendi sul punto spesa, rappresentata dalla rilevata inammissibilità del motivo di gravame, in quanto del tutto generico e affidato a meri richiami giurisprudenziali.

4.1.2. In secondo luogo per la parimenti palese inosservanza dell’onere di specifica indicazione dell’atto cui le censure fanno riferimento, ossia dell’atto di citazione introduttivo.

4.1.3. In terzo luogo per la contraddittorietà e incompatibilità delle censure di omessa pronuncia (che sottende la mancanza di qualsiasi statuizione sul motivo di gravame, peraltro esclusa dallo stesso ricorrente) e di mancanza di motivazione o motivazione apparente (che presuppone l’esistenza della statuizione ma la mancanza di una qualsiasi minima e comprensibile motivazione al riguardo): vizio, quest’ultimo, comunque certamente non predicabile nella specie, anche in tal caso la motivazione essendo chiara e ben comprensibile.

4.1.4. Infine varrà rilevare anche la manifesta infondatezza del motivo là dove postula che mutatio libelli possa aversi per la specificazione di danni inizialmente dedotti e diversamente quantificati nel loro ammontare (in misura anche maggiore, pari al passivo fallimentare accertato), essendo evidente che costituisce invece mera precisazione della domanda, non soggetta ad alcuna preclusione nella fase introduttiva del giudizio, la loro mera quantificazione, in riduzione rispetto all’importo prima indicato e fermi restando i fatti costitutivi della pretesa, ossia le condotte omissive o negligenti indicate in domanda quale fonte di responsabilità risarcitoria (omessa regolare tenuta della contabilità, mancata presentazione delle dichiarazioni fiscali).

  1. Motivi terzo, quarto, quinto, nono e decimo: sul nesso causale.

Terzo motivo: nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per omessa motivazione (ovvero totalmente apparente e priva di qualunque consistenza giuridica) in relazione alla questione dirimente del nesso causale ex art. 40 e 41 c.p. nonché art. 1223 c.c. e art. 111 Cost. tra la condotta di T.U. ed il danno riconosciuto in sentenza.

Viene trascritto testualmente uno stralcio dell’atto d’appello dedicato al tema del nesso causale, poi sintetizzato con l’affermazione che: non esiste insolvenza; i fondi sussistevano e sono tuttora bloccati in una banca in Libia per sanare ogni pendenza additiva e con avanzo primario; non vi era passivo bensì un attivo ma né lo Stato prima né la curatela poi hanno agito a causa de c.d. pantano libico.

Ci si duole quindi che la Corte territoriale: ha omesso di prendere posizione sulle questioni così ben articolate; non ha motivato sul punto.

Si deduce quindi la nullità della sentenza perché completamente priva di aderenza al motivo trattato.

Quarto motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 per omessa motivazione (ovvero totalmente apparente e priva di qualunque consistenza giuridica) in relazione alla questione dirimente del nesso causale ex art. 40 e 41 c.p. nonché art. 1223 c.c. e art. 111 Cost. tra la condotta di T. ed il danno riconosciuto in sentenza.

Per stessa ammissione del ricorrente il punto è sempre quello indicato al motivo che precede.

Riportate alcune massime giurisprudenziali in tema di nesso causale e relativo accertamento, si afferma che la Corte d’appello se ne sarebbe discostata, basandosi su mere congetture.

L’illustrazione del motivo si conclude quindi con le seguenti testuali affermazioni e domande:

Non si può motivare in modo brachilogico ovvero in forma apparente assumendo che vi sarebbe legame causale quando:

– v’è una sentenza penale assolutoria che esclude l’evasione fiscale;

– v’è la prova di un’ingente liquidità in Libia non escussa per lo sconvolgimento geopolitico del Paese e poi per l’inerzia delle autorità italiane;

– idem con riferimento all’inerzia della curatela;

– v’è un contegno della G.d.F. dichiarato da un giudice penale, con decisione irrevocabile, privo di senso e pure di logica ma che invece costituirà la base delle decisioni di merito;

– v’è una condotta della curatela inadempiente;

– v’è una condotta della curatela che non spiega l’inazione, anche dei canali diplomatici.

E che nesso causale v’è quando non sussiste procedimento penale per bancarotta documentale altro? E quale nesso v’è se non esiste contestazione di contegni distrattivi o di altra natura? E perché l’AGO neppure ha disposto C.T.U. per accertare il nesso? Un’istruttoria inesistente non può comportare l’accoglimento della domanda ma il suo rigetto.

Quinto motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 5 per omessa motivazione (ovvero totalmente apparente e priva di qualunque consistenza giuridica) in relazione alla questione dirimente del nesso causale ex art. 40 e 41 c.p. nonché art. 1223 c.c. e art. 111 Cost. tra la condotta di T.U. ed il danno riconosciuto in sentenza.

Si lamenta la mancata considerazione di fatti rilevanti così descritti:

– inesistenza di un processo penale per fatti di bancarotta fraudolenta o semplice o documentale;

– inesistenza di addebiti da parte di qualunque autorità di PG;

– esistenza di somme tuttora depositate in Libia;

– sussistenza di condizioni per procedere ad una chiusura del fallimento in attivo;

– non contestazione di tali fatti;

– mancanza di elementi a supporto delle tesi contrarie e di quanto sostenuto da T.

Nono motivo: nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per non essersi espresso sulla questione del nesso causale tra condotta di T. ed il danno specifico riconosciuto e cioè con riferimento al perché la condotta (peraltro non identificata) ha provocato quel danno.

Decimo motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 per non essersi espresso sulla questione del nesso causale tra condotta di T.U. ed il danno specifico riconosciuto e cioè con riferimento al perché la condotta (peraltro non identificata) ha provocato quel danno.

Si afferma che:

non esiste insolvenza ma una paralisi geopolitica per la quale non può pagare un terzo;

vi è un credito di circa 8/10 milioni che non è stato, colpevolmente peraltro, recuperato.

5.1. I motivi sopra esposti, che, al di là della variabile indicazione in rubrica del tipo di vizio cassatorio ipotizzato, sembrano tutti lamentare, ripetitivamente e con piena sovrapponibilità, un vizio di radicale mancanza ovvero apparenza della motivazione in punto di nesso causale, si appalesano inammissibili.

Gli argomenti spesi a sostegno della doglianza si muovono infatti non già sul piano formale della consistenza della motivazione quale espressa in sentenza, con la quale il ricorrente del resto non si confronta, ma, ben diversamente, sul piano prettamente di merito della fondatezza in fatto di quella valutazione, lamentandosi la mancata considerazione delle suindicate circostanze o argomenti difensivi.

Non può comunque certo dubitarsi che una motivazione esista e che non sia meramente apparente, consentendo la stessa di comprendere quale sia la ragione della decisione adottata (fondatezza della esercitata azione di responsabilità in ragione della omessa tenuta della contabilità e dell’omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali per gli anni 2004-2007 e conseguente responsabilità risarcitoria parametrata al danno rappresentato almeno dalle sanzioni fiscali erogate per l’omesso versamento dei tributi e dei contributi previdenziali a loro volta commisurato presuntivamente ad una percentuale del complessivo credito iscritto al passivo).

Ciò vale certamente ad escludere la dedotta violazione dai doveri decisori di cui all’art. 132 c.p.c. denunciata dall’amministrazione ricorrente, che si configura soltanto nell’ipotesi in cui sia mancata del tutto da parte del giudice – ovvero sia meramente apparente (come quando sia affidata ad espressioni del tutto generiche o tautologiche e prive di ogni specifico riferimento al caso concreto) – ogni giustificazione a supporto del decisum, mentre rientra nell’ambito dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e soggiace pertanto ai relativi limiti di ammissibilità ogni altra censura che riguardi il quomodo della motivazione.

Varrà in tal senso rammentare che, al fine di adempiere all’obbligo della motivazione il giudice di merito, non è tenuto a valutare singolarmente tutte le risultanze processuali e a confutare tutte le argomentazioni prospettate dalle parti, ma è invece sufficiente che, dopo avere vagliato le une e le altre nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il proprio convincimento, dovendosi ritenere disattesi, per implicito, tutti gli altri rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata.

I motivi in realtà, lungi dal precisare come e in che modo la Corte d’appello sia incorsa in siffatta radicale violazione dei propri doveri decisori, mescolano in modo confuso varie argomentazioni difensive che attengono sotto vari profili al merito delle questioni trattate, in buona sostanza volgendosi a contestare l’esito delle valutazioni in fatto e in diritto svolte dal giudice, muovendosi dunque su di un piano totalmente diverso da quello dei denunciati errores in procedendo e che attiene piuttosto al quomodo della motivazione.

5.2. Pur riguardate in tale ultima prospettiva, alla stregua di una lettura sostanzialistica del contenuto effettivo delle censure (v. Cass. Sez. U. 24/07/2013, n. 17931), i motivi si appalesano totalmente distanti dal rispettare i requisiti e i limiti del paradigma dettato dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Varrà al riguardo rammentare che, secondo l’interpretazione consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità, tale norma, se da un lato ha definitivamente limitato il sindacato del giudice di legittimità ai soli casi d’inesistenza della motivazione in sé (ossia alla mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, alla motivazione apparente, al contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili o alla motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile), dall’altro chiama la Corte di cassazione a verificare l’eventuale omesso esame, da parte del giudice a quo, di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extra testuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), rimanendo escluso che l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, integri la fattispecie prevista dalla norma, là dove il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti. A tal fine la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extra testuale, da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la decisività del fatto stesso. (cfr. Cass. Sez. Un., 22/9/2014, n. 19881; Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).

Dovendo dunque ritenersi definitivamente confermato il principio, già del tutto consolidato, secondo cui non è consentito richiamare la corte di legittimità al riesame del merito della causa, le esposte doglianze devono anche in detta prospettiva ritenersi inammissibili:

– anzitutto perché riferite non a fatti storici ma a mere generiche argomentazioni difensive (sussistenza di condizioni per procedere ad una chiusura del fallimento; non contestazione di tali fatti; non insolvenza ma paralisi geopolitica) ovvero a fatti negativi (inesistenza di addebiti da parte di qualunque autorità di PG);

– in secondo luogo, là dove possa ravvisarsi il riferimento a un fatto storico (esistenza di ingenti crediti verso lo Stato libico non recuperato) per la palese inosservanza dell’onere di specifica indicazione degli atti o documenti da cui e attraverso cui il fatto risulta acquisito al processo nei termini sopra indicati;

– in definitiva perché evidentemente dirette a censurare, non già l’omissione rilevante ai fini dell’art. 360, n. 5 cit., bensì la congruità del complessivo risultato della valutazione operata nella sentenza impugnata con riguardo all’intero materiale probatorio, che, viceversa, il giudice a quo risulta aver elaborato in modo completo ed esauriente, sulla scorta di un discorso giustificativo dotato di adeguata coerenza logica e linearità argomentativa, senza incorrere in alcuno dei gravi vizi d’indole logico-giuridica unicamente rilevanti in questa sede.

  1. Motivi undicesimo, dodicesimo, ventiduesimo e ventitreesimo: sussistenza del danno.

Undicesimo motivo: nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per non aver considerato che l’erario non aveva e non poteva avere crediti in relazione dunque all’insinuazione di Equitalia che andava respinta, vieppiù dopo il giudicato penale in relazione all’art. 324 c.p.c. e art. 2908 c.c. Si trascrive il quinto motivo di gravame con il quale si contestava la sentenza di primo grado nella parte in cui definiva il T. quale “evasore totale”, poiché basata sul rapporto di PG smentito da una sentenza penale.

Si trascrive quindi un ampio stralcio della sentenza di assoluzione dal reato di cui al D.Lgs. n. 70 del 2000, art. 5, comma 1, per mancato superamento della soglia di punibilità.

Si sostiene che detta assoluzione determina l’inesistenza del credito vantato dall’erario la cui ammissione al passivo però inopinatamente – si dice – non è stata rigettata.

Dodicesimo motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 per non aver considerato che l’erario non aveva e non poteva avere crediti in relazione dunque all’insinuazione di Equitalia che andava respinta, vieppiù dopo il giudicato penale in relazione all’art. 324 c.p.c. e art. 2908 c.c. Ventiduesimo motivo: nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per difetto di motivazione in relazione alle prove addotte dalla curatela ex art. 115, 116, 2697 c.c. che non avevano alcun valore.

Si lamenta omessa motivazione sugli argomenti difensivi svolti con riferimento alla colpevole inerzia del curatore nel recupero dei crediti vantati dalla società nei confronti della P.A. libica.

Ventitreesimo motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 per difetto di motivazione in relazione alle prove addotte dalla curatela ex art. 115, 116 e 2697 c.c. che non avevano alcun valore.

Si insiste sulla irrilevanza probatoria degli accertamenti della Guardia di Finanza, poiché asseritamente posti nel nulla dalla sentenza penale di assoluzione e considerate anche l’assenza di processi penali per bancarotta over violazioni contributive.

6.1. Anche i motivi così raggruppati per comunanza tematica si espongono ai medesimi rilievi di inammissibilità sopra esposti con riferimento ai motivi precedenti.

6.1.1. Non è certamente predicabile la violazione dei doveri decisori del giudice, anche in tale caso apparentemente e apoditticamente dedotta in rubrica senza alcun effettivo confronto con la motivazione della sentenza.

6.1.2. Risultano non attinti da alcuna censura in questa sede i rilievi contenuti in sentenza circa l’inammissibilità, sotto un duplice profilo, degli argomenti facenti leva sulla insussistenza del credito erariale: a) per non avere esso costituito oggetto di discussione nel primo grado di giudizio (primo rilievo di per sé assorbente); b) per non essere stata la relativa ammissione impugnata e per essere quindi la relativa contestazione totalmente preclusa, in questa sede, come anche nella procedura fallimentare.

6.1.3. In una prospettiva sostanzialistica anche tali censure, lungi dall’evidenziare l’applicazione di una regola di giudizio non conforme a diritto, si volgono a contestare, genericamente, il merito della valutazione operata dal giudice, su di un piano meramente fattuale.

A tal fine peraltro le doglianze poggiano tutte sul contenuto di una sentenza penale, della quale non si dice tuttavia: se e quando è passata in giudicato; dove e quando risulta prodotta e fatta oggetto di dibattito processuale; dove è localizzata nel fascicolo processuale formato per il presente giudizio di legittimità; tutto ciò, ancora una volta, in palese violazione degli oneri imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6.

Si tratta peraltro di elemento del tutto inconferente ai fini del presente giudizio, e dunque non decisivo nei termini richiesti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, atteso che:

  1. a) la Corte d’appello motiva l’affermazione di responsabilità sulla base di un presupposto (omessa tenuta della contabilità e mancata presentazione delle dichiarazioni) non confutato ma anzi confermato da quella sentenza;
  2. b) secondo quanto riferito dallo stesso ricorrente il debito nei confronti dell’Erario risulta ammesso al passivo; la sua contestazione nel presente giudizio di responsabilità, quand’anche fosse stata ritualmente proposta, rettamente risulta negletta dai giudici di merito, trattandosi di materia riservata alla giurisdizione tributaria e rispetto alla quale comunque nessun rilievo potrebbe avere il presunto giudicato penale di assoluzione.

È appena il caso di rammentare in proposito che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, in materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Ne consegue che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario (v. ex multis Cass. 28/06/2017; n. 16262; 23/05/2012, n. 8129; 27/09/2011, n. 19786).

  1. Tredicesimo motivo: la condotta illecita.

Violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione agli artt. 2392, 2394 e 2697 c.c. nonché L.F., art. 146.

Si deduce che la responsabilità dell’amministratore, in ambito fallimentare, non può essere riconosciuta sulla sola base dell’omessa od erronea tenuta dei bilanci o della contabilità ovvero della differenza tra attivo e passivo fallimentare.

7.1. Il motivo è inammissibile.

7.1.1. Quanto alla prima affermazione (responsabilità non affermabile sulla sola base dell’omessa od erronea tenuta dei bilanci o della contabilità), lo è ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1, poiché la Corte territoriale si è sul punto conformata all’opposto indirizzo incontrastato nella giurisprudenza di legittimità e il ricorso, lungi dal proporre argomenti che possano indurre a un diverso opinamento, si limita ad una mera apodittica asserzione contraria.

La giurisprudenza di questa Corte ha invero costantemente affermato che la totale mancanza di contabilità sociale (o la sua tenuta in modo sommario e non intelligibile) è, di per sé, giustificativa della condanna dell’amministratore al risarcimento del danno, in sede di azione di responsabilità promossa dalla società a norma dell’art. 2392 c.c., vertendosi in tema di violazione da parte dell’amministratore medesimo di specifici obblighi di legge, idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale; al di fuori di tale ipotesi, che giustifica l’inversione dell’onere della prova, resta a carico del curatore l’onere di provare il rapporto di causalità tra la condotta illecita degli amministratori e il pregiudizio per il patrimonio sociale (Cass. 04/04/2011 n. 7606 11/03/2011, n. 5876; n. 6493 del 19/12/1985).

A ben vedere anche il precedente citrato in ricorso, alle pagg. 3637, di Cass. 03/01/2017, n. 38, ribadisce nelle premesse tale principio, limitandosi solo ad escludere che, anche ove ricorra una siffatta ipotesi di condotta inadempiente, il danno risarcibile possa essere commisurato tout court alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare.

7.1.2. Quanto alla seconda affermazione (impossibilità di riconoscere il danno sulla base della differenza tra attivo e passivo fallimentare) il motivo è inammissibile per aspecificità, posto che la sentenza impugnata – come appresso sarà ulteriormente detto -non afferma affatto la responsabilità del ricorrente sulla base della (né liquida il danno in misura corrispondente alla) differenza tra attivo e passivo fallimentare.

  1. Motivi dal quattordicesimo al ventunesimo: la liquidazione equitativa del danno.

Quattordicesimo motivo: nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per non aver motivato in ordine alla dirimente questione della mancata prova del danno (artt. 1223, 2697 c.c.).

L’illustrazione del motivo si risolve pressoché integralmente nella trascrizione del motivo di appello dedicato alla questione suindicata. Questo a sua volta è strutturato attraverso:

– l’integrale trascrizione della motivazione della sentenza di primo grado nella parte dedicata alla quantificazione del danno (nella quale, posta la totale indisponibilità di documentazione contabile inerente alla società, si osserva, sulla scorta di citazioni giurisprudenziali, a cominciare dal richiamo a Cass. n. 7606 del 2011, che “il criterio residuale ancorato alla differenza tra attivo e passivo patrimoniale accertato in sede concorsuale… può costituire elemento presuntivo su cui ancorare la determinazione equitativa del danno risarcibile” e che, pertanto, nel caso di specie, può essere accolta la richiesta conclusiva di parte attrice che quantifica il danno, equitativamente, in un __% dell’esposizione complessiva nei confronti di Equitalia);

– il rilievo secondo cui (si riporta testualmente) tale motivazione non convince affatto perché appare surrogatoria (del)l’onere della prova gravante sulla controparte che determina una discutibile carenza decisionale.

Tutto ciò premesso, il motivo di ricorso in esame si conclude con la testuale affermazione (da supporre riferita alla parte della sentenza d’appello dedicata all’argomento): la motivazione è accorpata e non ben comprensibile ma non vi è una specifica motivazione in ordine alla mancata prova del pregiudizio che avrebbe dovuto essere chiara e specifica, tanto da doversi, detta motivazione, reputare inesistente o comunque nulla.

Quindicesimo motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 per non aver motivato in ordine alla dirimente questione della mancata prova del danno (artt. 1223 e 2697 c.c.) Si contestano le considerazioni svolte in sentenza a giustificazione della quantificazione del danno, osservandosi di contro, in sintesi, che, non essendo stati contestati né il reato di bancarotta né violazioni contributive, le sanzioni fiscali avrebbero dovuto essere annullate e il curatore avrebbe dovuto respingere le domande di ammissione al passivo dell’erario e degli enti previdenziali.

Sedicesimo motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 4 in relazione all’art. 1226 c.c. in ordine alla liquidazione del danno in forma equitativa in assenza dei presupposti.

Si contesta, in quanto di tipo meramente congetturale, la motivazione espressa in sentenza a conferma della liquidazione equitativa del danno.

Diciassettesimo motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione all’art. 1226 c.c. in ordine alla liquidazione del danno in forma equitativa in assenza dei presupposti.

Si afferma che non vi erano i presupposti per ricorrere alla liquidazione equitativa e che, diversamente da quanto postulato in sentenza, l’appello era in tal senso specifico.

Diciottesimo motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 5 in relazione all’art. 1226 c.c. in ordine alla liquidazione del danno in forma equitativa in assenza dei presupposti.

Fatto decisivo il cui esame sarebbe stato omesso dai giudici d’appello è, in tesi, la specifica contestazione contenuta nell’atto d’appello circa i presupposti della liquidazione equitativa del danno.

Diciannovesimo motivo: nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per omessa motivazione del perché il danno è stato per l’appunto equitativamente determinato nella misura del __% e non del __% ad esempio.

Si lamenta assenza di motivazione sulle questioni trattate, così indicate:

– inesistenza di redditi;

– mancato incasso per ragioni geopolitiche;

– incomprensibilità di una condotta che non coinvolse l’amministratore P.;

– inesistenza di evasione fiscale;

– inesistenza di passività;

– invalidità della presentazione dei bilanci per essere la situazione congelata per la presenza della guerra in Libia;

– sussistenza di un attivo non recuperato per mancanza e negligenza del curatore e delle autorità consolari e diplomatiche italiane;

– incoerenza di condotta della G.d.F. che non dà atto di questa situazione/condizione.

Ventesimo motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 per omessa motivazione del perché il danno è stato (per l’appunto equitativamente) determinato nella misura del __% e non del __% ad esempio.

Si deduce l’illegittimità della liquidazione equitativa poiché il danno poteva essere agevolmente determinato.

Ventunesimo motivo: vulnerazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 per omessa motivazione del perché il danno è stato per l’appunto equitativamente determinato nella misura del __% e non del __% ad esempio.

8.1. Anche i motivi sopra raggruppati, con ogni evidenza sostanzialmente ripetitivi, si appalesano inammissibili.

8.1.1. Anzitutto, anche in tal caso, la doglianza di omessa motivazione – se da intendere come denuncia di error in procedendo – per carenza totale di motivazione ovvero per il presunto carattere apparente tautologico della motivazione sul punto – è in contraddizione con la contestuale denuncia di error in iudicando ed è comunque palesemente fuori segno, non potendosi dubitare che la Corte d’appello dedichi alla questione una motivazione chiara e ben comprensibile. Se invece è da intendere come espressiva di una denuncia di vizio motivazionale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si appalesa del tutto carente dei requisiti a tal fine prescritti, quali sopra già rammentati, e volta sostanzialmente a sollecitare una rivalutazione dei fatti, peraltro del tutto genericamente dedotti, anche con riferimento a argomenti difensivi che, oltre a non trovare alcun appiglio nei fatti accertati, risultano anche, per quanto già sopra esposto, inconferenti.

8.1.2. L’argomento di fondo, con il quale si prospetta in sostanza un error iuris, per avere la Corte d’appello avallato una valutazione sostanzialmente equitativa del danno, si appalesa poi manifestamente infondato, risultando anche sul punto le decisioni di merito pienamente rispettose del principio costantemente affermato nella giurisprudenza di questa Corte (peraltro pure richiamata in ricorso), donde anche sul punto l’inammissibilità del ricorso ex art. 360-bis c.p.c., n. 1.

Il riferimento è al principio, affermato da Cass. Sez. U 06/05/2015, n. 9100, e poi sempre ribadito da numerose pronunce conformi, secondo il quale nell’azione di responsabilità promossa dal curatore a norma della L.F., art. 146, comma 2, la mancata (o irregolare) tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, sempreché il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo.

Nel caso di specie, nel rispetto e in piena coerenza con tale principio, la sentenza impugnata motiva espressamente l’utilizzo del criterio equitativo per la liquidazione del danno, peraltro nei limitati termini esposti (che fanno esclusivo riferimento a una percentuale dell’importo ammesso al passivo per crediti erariali), indicando: a) le circostanze del caso concreto che rendono logicamente plausibile il ricorso a tale criterio (omessa tenuta della contabilità e omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali); b) il nesso causale tra l’inadempimento dell’amministratore e il danno così quantificato (evidenziando del tutto ragionevolmente che almeno le sanzioni fiscali irrogate per l’omesso versamento dei tributi e dei contributi previdenziali sono un danno causalmente ricollegabile alla condotta di T. in modo immediato e diretto), risultando in tal modo anche giustificata, a confutazione della meramente oppositiva doglianza espressa sul punto con i motivi in esame, la parametrazione del danno nella percentuale del __% (e non in altra) del maggiore importo del credito erariale ammesso al passivo, in quanto corrispondente al maggiore importo che mediamente e notoriamente deriva a carico dell’imprenditore per l’omissione degli adempimenti tributari contributivi.

Può anzi ancor prima osservarsi che, a ben vedere, proprio tale ultima parametrazione esclude che la liquidazione sia stata operata attraverso un riferimento, sia pure equitativo-presuntivo, allo sbilancio tra passivo e attivo fallimentare, avendo i giudici di merito in realtà fatto riferimento a una ben precisa posta passiva del conto economico (la sanzioni per le omissioni fiscali e contributive), direttamente e immediatamente imputabile ad omissioni dell’amministratore (la cui computabilità ad oggetto dell’obbligo risarcitorio in sede di giudizio di responsabilità L.F., ex art. 146 è in motivazione espressamente affermata come presumibile dalla stessa Cass. Sez. U. n. 9100 del 2015, cit.: in motivazione, pagg. 1314).

Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere in definitiva dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento, nei confronti del controricorrente, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

Le conclamate e manifeste ragioni di inammissibilità del ricorso giustificano la condanna del ricorrente ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, al pagamento di una somma equitativamente determinata (come da dispositivo), in funzione sanzionatoria dell’abuso del processo (v. Cass. Sez. U. 05/07/2017, n. 16601).

Non può a tal fine non attribuirsi rilievo alla prospettazione -peraltro attraverso una pletorica articolazione di motivi – di tesi censorie generiche ripetitive e non pertinenti, avulse da un reale confronto critico con la sentenza impugnata, tese in sostanza a sollecitare una nuova valutazione di merito.

Tutto ciò segna l’iniziativa processuale, nel suo complesso, quale frutto di colpa grave, così valutabile – come è stato detto – in coerenza con il progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia della Suprema Corte, nonché con il mutato quadro ordinamentale, quale desumibile dai principi di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), di illiceità dell’abuso del processo e di necessità di una interpretazione delle norme processuali che non comporti spreco di energie giurisdizionali (v. Cass. 14/10/2016, n. 20732; Cass. 21/07/2016, n. 15017; Cass. 22/02/2016, n. 3376; Cass. 7/10/2013, n. 22812).

Ricorrono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro __ per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 %, agli esborsi liquidati in Euro __ ed agli accessori di legge.

Condanna altresì il ricorrente al pagamento della somma di Euro __ ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 11 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2019

Cass_civ_Sez_III_29_10_2019_n_27610




Fallimento e in contratti di leasing

Fallimento e i contratti di leasing

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 27545 del 28/10/2019

Con ordinanza del 28 ottobre 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in tema di recupero crediti, ha stabilito che in seguito alla legge n. 124 del 2017 il leasing finanziario ha assunto una fisionomia unitaria, dovendo ritenersi definitivamente superata la distinzione tra leasing c.d. “di godimento” e “leasing traslativo” ed il ricorso in via analogica, per tale seconda figura, alla disciplina dettata dall’art. 1526 c.c., con la conseguenza che gli effetti della risoluzione del contratto di leasing, verificatasi anteriormente alla dichiarazione di fallimento, dovranno dunque essere regolati sulla base di quanto previsto dall’art. 72 quater della L.F. che ha carattere inderogabile e prevale su eventuali difformi pattuizioni delle parti.


Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 27545 del 28/10/2019

Fallimento e i contratti di leasing

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. __ R.G. proposto da:

M. S.p.A. – ricorrente –

contro

FALLIMENTO (OMISSIS) S.r.l.  – controricorrente –

avverso il decreto del Tribunale di Cassino, depositato in data __;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del __ dal Consigliere Dott. __.

Svolgimento del processo

che:

  1. Con il decreto impugnato il Tribunale di Cassino – decidendo sull’opposizione allo stato passivo avanzata da M. S.p.A. nei confronti del Fallimento (OMISSIS) S.r.l., in relazione al diniego affermato dal G.D. alla domanda di rivendica e restituzione di beni immobili oggetto di un contratto di leasing intercorso tra le parti – ha rigettato l’opposizione, confermando, pertanto, il provvedimento emesso dal G.D. in sede di verifica dello stato passivo.

Il tribunale ha ricordato, in ordine alla ricostruzione fattuale della vicenda, che: 1) con contratto di lease-back, M. si era obbligata ad acquistare e a concedere, in locazione finanziaria, a P. S.p.A, dietro pagamento di un canone periodico, il compendio immobiliare sito nel Comune di (OMISSIS), meglio indicato in atti; 2) successivamente, con scrittura privata, la società utilizzatrice aveva concluso con la (OMISSIS) S.r.l. un contratto di cessione del ramo d’azienda, nell’ambito del quale era ricompreso anche il suddetto contratto di lease-back; 3) con successiva sentenza, il Tribunale di Cassino aveva dichiarato il fallimento della (OMISSIS) S.r.l.; 4) M. S.p.A. aveva presentato due istanze tardive, l’una volta ad ottenere la restituzione dell’immobile oggetto del contratto di locazione finanziaria e, l’altra, finalizzata all’ammissione al passivo, in via chirografaria, del complessivo credito pari ad Euro __; 5) il credito vantato da M. S.p.A. era stato ammesso al passivo del Fallimento (OMISSIS), come richiesto, in via chirografaria, mentre la domanda di rivendica del bene oggetto di locazione finanziaria era stata rigettata dal G.D., in quanto l’immobile rivendicato era stato sottoposto a sequestro penale.

Il tribunale ha dunque ritenuto che: a) la L.F., art. 72 quater, non possa trovare applicazione in relazione a contratti risolti prima della dichiarazione di fallimento, non potendosi aderire alla tesi secondo cui la norma in esame possa ritenersi espressiva della volontà del legislatore di abbandonare la tradizionale distinzione, elaborata dalla giurisprudenza, tra leasing traslativo e di godimento e dovendosi pertanto negare che la previsione normativa in esame abbia una portata sostanziale; b) con riferimento ai contratti risolti prima del fallimento, occorre pertanto richiamarsi al consolidato orientamento che distingue tra leasing traslativo e di godimento e che dalla differente funzione del contratto discendono conseguenze diverse in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore; c) la figura del leasing di godimento ricorre allorquando il contratto ha ad oggetto un bene a rapida obsolescenza, dovendosi, dunque, assimilare tale contratto ad una locazione cosicché, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, si ritiene applicabile in via analogica l’art. 1458 c.c., comma 1; d) viceversa nel leasing traslativo il bene oggetto del contratto conserva, alla data della cessazione del contratto, una sua rilevante utilità e un valore economico superiore all’importo convenuto per l’opzione, cosicché i canoni svolgono la funzione di scontare anche una quota del prezzo in previsione del successivo esercizio del diritto di opzione ovvero di riscatto del bene, dovendosi ritenere applicabile in tal caso il disposto normativo di cui all’art. 1526 c.c.; e) nel caso di specie, non risultava invocabile la L.F., art. 72 quater, stante la risoluzione del contratto in esame, a causa dell’inadempimento dell’utilizzatore, in data anteriore rispetto all’intervenuto fallimento della società (OMISSIS) Ss.r.l.; f) il contratto era riconducibile allo schema del leasing traslativo, applicandosi, pertanto, in via analogica l’art. 1526 c.c., con la conseguenza che al concedente spettava, oltre alla restituzione del bene, solo il diritto all’equo indennizzo, ma non il diritto di credito ai canoni maturati fino alla dichiarazione di fallimento; g) il reclamato diritto di M. S.p.A. alla restituzione del bene oggetto del contratto di leasing non poteva essere riconosciuto, anche perché la detta società aveva trattenuto la somma anticipata all’atto della conclusione del contratto, i canoni in precedenza incassati ed, inoltre, era stata ammessa al passivo del fallimento per l’importo pari agli ulteriori canoni scaduti e maturati fino alla dichiarazione di fallimento; h) il bene immobile oggetto di rivendica era stato comunque sottoposto a sequestro penale, risultando tale circostanza insuperabile ed ostativa all’accoglimento della domanda di restituzione, e ciò in ragione del vincolo di indisponibilità gravante sul bene e della preminenza delle esigenze processuali sottese al provvedimento di sequestro rispetto a quelle della procedura concorsuale.

  1. Il decreto, pubblicato il 21.4.2015, è stato impugnato da M. S.p.A. con ricorso per cassazione, affidato a due motivi, cui il Fallimento (OMISSIS) S.r.l. ha resistito con controricorso, con il quale ha proposto anche ricorso incidentale.
  2. S.p.A. ha resistito, con controricorso, al ricorso incidentale.

La curatela fallimentare ha depositato, da ultimo, memoria.

Motivi della decisione

che:

  1. Con il primo motivo la parte ricorrente – lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione art. 1526 c.c. – si duole della mancata restituzione del bene immobile già oggetto del contratto di leasing e comunque della mancata applicazione della L.F., art. 72 quater. Osserva la parte ricorrente che la motivazione impugnata era incorsa in un primo errore laddove, pur riconoscendo in linea di principio che, a seguito della risoluzione del contratto di leasing, competeva senz’altro alla concedente il diritto alla restituzione dell’immobile, aveva, poi, inopinatamente contraddetto tale conclusione, affermando l’insussistenza di tale diritto in capo alla società istante M., e ciò in palese violazione non solo dei principi generali dell’ordinamento che regolano gli effetti restitutori discendenti dalla risoluzione del contratto, ma anche della stessa norma codicistica che si vorrebbe applicata al caso di specie. Si denuncia, come secondo errore, l’affermazione secondo cui, per effetto dell’applicazione dell’art. 1526 c.c., competeva al concedente solo il diritto all’equo indennizzo, ma non il diritto di credito ai canoni maturati fino alla dichiarazione di fallimento, trascurando la decisiva circostanza che, in caso di risoluzione anticipata del contratto, la suddetta norma riconosce espressamente al venditore con riservato dominio il diritto di ottenere non solo un equo compenso per l’uso della cosa, ma anche il risarcimento del danno. Si osserva, ancora, come risulti documentalmente provato (e la circostanza era stata anche accertata dal Tribunale nell’impugnato decreto), che il contratto di leasing si era risolto di diritto, ai sensi della clausola risolutiva espressa e in conformità al disposto dell’art. 1456 c.c., per effetto della raccomandata inviata da M. in data __, e dunque prima che venisse dichiarato il fallimento della (OMISSIS), intervenuto, in realtà, con la successiva sentenza resa in data __. Si denuncia, inoltre, come ulteriore errore in diritto, l’affermata applicazione del disposto normativo di cui dell’art. 1526 c.c., comma 1, anziché, anche a tutto voler concedere, il comma 2, dovendosi anche precisare che, comunque, la questione controversa non avrebbe potuto risolversi nella mera restituzione dei canoni, quanto piuttosto attraverso la riduzione della penale pattuita nel contratto. Si invoca, infine, l’applicazione della L.F., art. 72 quater.
  2. Con il secondo mezzo si denuncia, sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 253 c.p.p., in tema di sequestro probatorio, in punto di mancata restituzione del bene immobile già oggetto del contratto di leasing. 3. Con ricorso incidentale si denuncia, invece, la violazione dell’art. 1526 c.c., comma 1, in relazione alla circostanza secondo cui il decreto impugnato aveva di fatto legittimato M. S.p.A. a trattenere la somma anticipata all’atto della conclusione del contratto, nonché i canoni in precedenza incassati fino alla data della risoluzione, precludendo alla procedura concorsuale, subentrata nella posizione dell’utilizzatore in bonis per effetto del fallimento, di reclamare alla massa la restituzione di quanto pagato dall’utilizzatore poi fallito.
  3. Il ricorso principale è fondato nei termini qui di seguito precisati e ciò determina anche il rigetto del ricorso incidentale, il cui esame può essere congiunto al primo motivo proposto della società ricorrente.

4.1.1 In ordine alle questioni dedotte con il primo motivo e con il ricorso incidentale, occorre ricordare come la giurisprudenza di questa Corte abbia recentemente affermato (cfr. Cass. n. 8980/2019) che – a seguito della L. n. 124 del 2017 (art. 1, commi 136-140) – il leasing finanziario ha assunto una fisionomia unitaria, dovendo ritenersi definitivamente superata la distinzione, di matrice giurisprudenziale, tra leasing c.d. “di godimento” e “leasing traslativo” ed il ricorso in via analogica, per tale seconda figura, alla disciplina dettata dall’art. 1526 c.c., con la conseguenza che gli effetti della risoluzione del contratto di leasing, verificatasi anteriormente alla dichiarazione di fallimento, dovranno dunque essere regolati sulla base di quanto previsto dalla L.F., art. 72 quater, che ha carattere inderogabile e prevale su eventuali difformi pattuizioni delle parti.

Ne consegue che, in caso di fallimento dell’utilizzatore, il concedente avrà diritto alla restituzione del bene e dovrà insinuarsi al passivo fallimentare per poter vendere o allocare il bene e trattenere, in tutto o in parte, l’importo incassato. Sulla base del valore di mercato del bene, come stabilito dai valori di stima, sarà determinato l’eventuale credito della curatela nei confronti del concedente o il credito, in moneta fallimentare, di quest’ultimo, corrispondente alla differenza tra il valore del bene ed il suo credito residuo, pari ai canoni scaduti e non pagati ante-fallimento ed ai canoni a scadere, in linea capitale, oltre al prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione (cfr. sempre Cass. 8980/2019, cit. supra; si legga anche: Cass. 12552/2019).

4.1.2 Occorre ricordare che, fino all’emanazione della L. n. 124 del 2017, art. 1, commi 136-140, non esisteva nel nostro ordinamento una disciplina organica del contratto di leasing o locazione finanziaria, benché esso fosse oggetto di numerose disposizioni legislative settoriali, a partire dalla L. n. 183 del 1976, art. 17 (relativa all’intervento straordinario nel Mezzogiorno per il quinquennio 1976-1980).

Da ciò la conclusione che, fino alla recente novella, il leasing dovesse qualificarsi come contratto atipico o innominato.

In assenza di una disciplina organica del leasing, com’ è noto, a partire dalle sentenze della Cassazione n. 5570, 5572 e 5573 del 13 dicembre 1989, confermate con la sentenza delle Sez. Un. 65/1993, si è affermato in giurisprudenza un orientamento fondato sulla distinzione tra “leasing di godimento” e “leasing traslativo”, quest’ultimo relativo a beni atti a conservare alla scadenza un valore residuo superiore all’importo convenuto per l’opzione, ed i cui canoni scontano anche una quota del prezzo in previsione del successivo acquisto (rispetto a cui la concessione in godimento assume funzione strumentale).

Si è inoltre consolidato l’indirizzo interpretativo secondo cui, nel leasing traslativo la disciplina dettata dall’art. 1526 c.c., in materia di risoluzione del contratto ha carattere inderogabile, trattandosi di norma imperativa, con valore di principio generale di tutela di interessi omogenei e strumento di controllo dell’autonomia negoziale delle parti (Cass. 19732/2011).

Va aggiunto che anche a seguito dell’introduzione nell’ordinamento (tramite il D.Lgs. n. 5 del 2006, art. 59) della L.F., art. 72 quater, che ha dettato un’unica disciplina per la locazione finanziaria, valevole sia per il leasing di godimento che per quello traslativo (Cass. 1.3.2010 n. 4862), questa Corte ha ritenuto che non potesse ritenersi superata la tradizionale distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo e le differenti conseguenze che da essa derivano nell’ipotesi di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore (Cass. n. 8687/2015; 2538/2016), affermando che la disposizione dell’art. 72 quater, si applicava ad una situazione particolare (scelta del curatore di sciogliersi dal contratto pendente alla data di fallimento) e la sua disciplina non aveva incidenza al di fuori della materia fallimentare e dei rapporti giuridici pendenti (per la ricostruzione dell’istituto, cfr. sempre: Cass. 8980/2019, cit. supra).

La disciplina della L.F., art. 72 quater, tuttavia, ha una particolare rilevanza sul piano sistematico, in quanto, nonostante sia stata emanata successivamente all’affermarsi dell’indirizzo giurisprudenziale fondato sulla bipartizione del leasing finanziario in due fattispecie negoziali distinte e riconducibili a due diversi tipi contrattuali, ricompone ad unità tale contratto. Il leasing viene specificamente distinto dalla vendita con riserva di proprietà (il cui scioglimento è disciplinato dal successivo art. 73, mediante rinvio alla disciplina dell’art. 1526 c.c.), valorizzandone la causa di finanziamento, peraltro già desumibile dalla previsione degli artt. 1 e 106 del TUB, i quali riservano alle banche ed agli altri intermediari finanziari la posizione di concedente nelle operazioni di locazione finanziaria (così, Cass. 8980/2019, cit. supra).

Successivamente, la L. n. 208 del 2015 (legge di stabilità del 2016) ha introdotto nell’ordinamento la figura del leasing immobiliare abitativo (che contempla una serie di agevolazioni fiscali e di garanzie dirette a favorire l’utilizzo del leasing per l’acquisizione dell’abitazione principale) prevedendo anche in tal caso un’unica figura negoziale, caratterizzata dalla finalità di finanziamento.

Anche in questo caso, peraltro, si tratta di una figura particolare, che ha specifici presupposti ed un particolare ambito applicativo.

Da ultimo, però, come sopra evidenziato, la Legge per il mercato e la concorrenza n. 124/2017, all’art. 1, ha introdotto una definizione del leasing finanziario ed ha dettato una compiuta disciplina relativa a presupposti, effetti e conseguenze della risoluzione per inadempimento, oltre a norme di coordinamento con altre disposizioni che richiamano tale fattispecie contrattuale (cfr. sempre Cass. 8980/2019, cit. supra).

4.1.3 La nuova normativa ha, dunque, tipizzato la locazione finanziaria quale fattispecie negoziale autonoma, distinta dalla vendita con riserva di proprietà, in conformità a tutti i più recenti interventi legislativi in materia ed in particolare alla disciplina prevista dalla L.F., art. 72 quater.

Il legislatore ha optato per la ricostruzione unitaria del contratto di leasing ed ha dunque disatteso il tradizionale indirizzo giurisprudenziale di questa Corte, escludendo la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo e facendo così venir meno una bipartizione che non è fondata su alcuna norma di legge.

In tale prospettiva, la nuova normativa si pone in linea di diretta continuità con la previsione della L.F., art. 72 quater e con la particolare disciplina dello scioglimento del contratto di leasing, che, come evidenziato, è ivi delineata secondo un paradigma unitario.

Da ciò consegue l’applicabilità alla fattispecie in esame, della disciplina dettata dalla L.F., art. 72 quater, in conformità ad un indirizzo interpretativo che, pur disatteso da questa Corte, era stato affermato da larga parte della giurisprudenza di merito.

4.1.4 La norma da ultimo citata, pur dettata in relazione all’ipotesi in cui lo scioglimento del contratto di leasing derivi da una scelta del curatore e non dall’inadempimento dell’utilizzatore, è del tutto coerente con la fisionomia di tale tipo negoziale e con la particolare disciplina della risoluzione dettata dalla nuova normativa, dovendo ritenersi definitivamente superato il ricorso in via analogica alla disciplina recata dall’art. 1526 c.c. (cfr. sempre Cass. 8980/2019, cit. supra).

Non si tratta dunque di attribuire carattere retroattivo (in assenza di norme di diritto transitorio) alla nuova disciplina portata dalla L. n. 124 del 2017, ma di fare concreta applicazione della c.d. interpretazione storico-evolutiva, secondo cui una determinata fattispecie negoziale, per quegli aspetti che non abbiano esaurito i loro effetti, in quanto non siano stati ancora accertati e definiti con statuizione passata in giudicato, non può che essere valutata sulla base dell’ordinamento vigente, posto che l’attività ermeneutica non può dispiegarsi “ora per allora”, ma all’attualità. E ciò, a maggior ragione quando, come nel caso di specie, l’ordinamento abbia organicamente disciplinato, dando così luogo ad un nuovo “tipo” negoziale, un contratto che, pur diffuso nella pratica, non poteva qualificarsi come contratto tipico e la cui disciplina veniva dunque desunta, in via analogica, da altri contratti tipici (nel nostro caso locazione o vendita con riserva di proprietà), in virtù di una scelta ermeneutica che, pur riconducibile ad un consolidato indirizzo di questa Corte, non può che operare su un piano meramente interpretativo, quale è quello proprio del formante giurisprudenziale.

Tale indirizzo è dunque destinato a cedere il passo davanti ad una precisa presa di posizione del legislatore, che, in quanto introduce una disciplina che integra una obiettiva (ed evidentemente consapevole) soluzione di continuità rispetto ad esso, non può non riverberarsi sulla valutazione ed interpretazione delle situazioni pregresse non ancora definite.

4.1.5 Gli effetti della risoluzione del contratto di leasing, verificatasi anteriormente alla dichiarazione di fallimento, dovranno dunque essere regolati sulla base di quanto previsto dalla L.F., art. 72 quater, che, peraltro, ha anche carattere inderogabile e prevale su eventuali difformi pattuizioni delle parti (cfr. sempre Cass. 8980/2019, cit. supra).

La disciplina della L. n. 124 del 2017, ed il procedimento di realizzazione sul bene ivi regolato consente di superare i dubbi interpretativi sorti in ordine al trattamento, in ambito concorsuale, del credito del concedente all’esito della risoluzione negoziale per inadempimento dell’utilizzatore.

Come già rilevato nella pronuncia n. 15701 del 23.5.2011 di questa Corte, l’applicazione della disciplina della L.F., art. 72 quater, anche al caso di risoluzione del contratto verificatasi prima della dichiarazione di fallimento implica che, anche in questo caso, il concedente dovrà evidentemente insinuarsi al passivo fallimentare per poter allocare il bene e trattenere, in tutto o in parte, l’importo incassato. Alla stregua di quanto previsto per i crediti pignoratizi e per quelli garantiti da privilegio speciale L.F., ex art. 53, la vendita avverrà a cura dello stesso concedente, previa stima del valore di mercato del bene, disposta dal giudice delegato in sede di accertamento del passivo. Sulla base del valore di mercato del bene sarà determinato l’eventuale credito della curatela nei confronti del concedente o il credito, in moneta fallimentare, di quest’ultimo, pari alla differenza tra il valore del bene ed il suo credito residuo, corrispondente all’ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data di fallimento e dei canoni a scadere, solo in linea capitale (in coerenza con la previsione della L.F., art. 55), oltre al prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione; eventuali rettifiche, sulla base di quanto effettivamente realizzato dalla vendita del bene, potranno farsi valere in sede di riparto.

Alla luce della chiara indicazione della novella, del tutto coerente con l’indirizzo già sostenuto dalla citata pronuncia n. 15701 del 23.5.2011 di questa Corte, va dunque esclusa, in quanto del tutto superflua, l’insinuazione in via tardiva della differenza fra il credito vantato alla data del fallimento e la minore somma ricavata, pure affermato da un precedente arresto di questa Corte (Cass. 21213 del 2017) o l’ammissione di detto credito con riserva.

4.1.6 Peraltro, anche il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, (D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, pubblicato nella G.U. del 14 febbraio 2019) all’art. 177 detta una disciplina della locazione finanziaria pienamente coerente con la disciplina della L.F., art. 72 quater e della L. n. 124 del 2017, prevedendo che nella liquidazione giudiziale del patrimonio dell’utilizzatore, in caso di scioglimento del contatto, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a versare alla curatela fallimentare l’eventuale differenza tra la maggiore somma ricavata dalla vendita a valori di mercato, dedotta una somma pari all’ammontare di eventuali canoni scaduti e non pagati fino alla data dello scioglimento e dei canoni a scadere, solo in linea capitale, oltre al prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto. La medesima disposizione, al comma 2, prevede che il concedente ha diritto di insinuarsi allo stato passivo per la differenza tra il credito vantato alla data di apertura della liquidazione giudiziale e quanto ricavabile dalla nuova allocazione del bene secondo la stima disposta dal giudice delegato. Viene dunque espressamente prevista la stima del giudice delegato quale necessario presidio per determinare il valore di mercato del bene, già desumibile dall’attuale sistema della legge fallimentare, seppure non esplicitata nella disposizione della L.F., art. 72 quater.

Dunque, anche la nuova regolazione della crisi d’impresa, che nonostante la (ampia) vacatio legis, fa ormai parte dell’ordinamento vigente, conferma la scelta del legislatore, che ha trovato costante espressione in tutti i più recenti interventi in materia, univocamente ispirati alla configurazione unitaria del leasing finanziario e della previsione di una disciplina sostanzialmente omogenea della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore e dello scioglimento (per scelta del curatore) di quello che è ormai, a tutti gli effetti, un contratto tipico (cfr. sempre Cass. 8980/2019, cit. supra).

Deve, dunque, anche in questa ulteriore sede decisoria, riaffermarsi il principio secondo cui gli effetti della risoluzione del contratto di leasing per inadempimento dell’utilizzatore sono regolati dalla disciplina della L.F., art. 72 quater, applicabile anche al caso di risoluzione del contratto avvenuta prima della dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore.

4.2 Il secondo motivo è fondato nei termini qui di seguito precisati.

Deve ritenersi ammissibile e fondata la domanda di restituzione del bene immobile oggetto di sequestro penale avanzata da parte del creditore M. S.p.A. (il cui titolo negoziale di proprietà non è stato, in realtà, neanche contestato da parte della curatela fallimentare), atteso che, pur essendo indiscutibile, da un lato, il vincolo di indisponibilità determinato dal provvedimento di sequestro probatorio disposto dall’autorità giudiziaria penale (che rende non materialmente eseguibile la restituzione del bene gravato dal predetto vincolo e del quale la curatela fallimentare è stata nominata custode sempre dalla medesima autorità sopra indicata) è altrettanto vero, dall’altro, che, una volta dimostrato da parte dell’istante il suo titolo di proprietà sul bene (come tale legittimante la richiesta di restituzione di quest’ultimo), il diritto alla restituzione, così giudizialmente accertato, può ben essere tutelato attraverso un riconoscimento “condizionato” del diritto stesso, ai sensi della L.F., art. 96, comma 2, n. 1, ove l’evento sotteso alla condizione è rappresentato dal venir meno del vincolo di indisponibilità giuridica sopra descritto e dalla materiale restituzione del bene, così prima vincolato, da parte dell’autorità giudiziaria penale alla curatela fallimentare che, in quel momento, ne potrà disporre in favore dell’istante.

  1. Il ricorso va dunque accolto nei limiti sopra precisati ed il decreto impugnato va cassato, con rinvio della causa al Tribunale di Cassino, che si conformerà ai principi di diritto sopra enunciati. Il giudice del rinvio provvederà anche alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale; cassa il provvedimento impugnato e rinvia al Tribunale di Cassino, in diversa composizione, anche per la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2019

Cass_civ_Sez_I_Ord_28_10_2019_n_27545




La rinuncia alla domanda di concordato preventivo con riserva

La rinuncia alla domanda di concordato preventivo con riserva

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 27200 del 23/10/2019

Con ordinanza del 23 ottobre 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in tema di recupero crediti, ha stabilito che la rinuncia alla domanda di concordato preventivo con riserva, formulata dal debitore nel corso della fase di ammissione al procedimento, non impedisce al P.M., prima che il tribunale dichiari l’inammissibilità della detta domanda, di avanzare una richiesta di fallimento dell’imprenditore, in ragione della ritenuta sua insolvenza di cui sia venuto a conoscenza a seguito della comunicazione ex art. 161, comma cinque, L.F.


Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 27200 del 23/10/2019

La rinuncia alla domanda di concordato preventivo con riserva

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. __ proposto da:

D. – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – controricorrente –

A.., M., N., L., C.., O., G., I., P., F., Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma, Procuratore Generale presso la Corte Suprema di Cassazione, Pubblico Ministero – Procura della Repubblica presso il Tribunale di Latina, U., S., T. e B. – intimati –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Cons. Dott. __;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per il rigetto;

uditi, per il ricorrente, gli Avvocati __ e __ che si riportano;

udito, per il contro ricorrente, l’Avvocato __ che ha chiesto il rigetto.

Svolgimento del processo

1.1 Il Tribunale di Latina, con sentenza n. __ del __, dichiarava il fallimento di (OMISSIS) S.r.l. su istanza del P.M. presentata (all’udienza del __) in sede di convocazione della debitrice L.F., ex art. 162, comma 2; la constatazione dell’insolvenza faceva seguito alla declaratoria di non luogo a provvedere sulla domanda di concordato in bianco proposta dalla compagine debitrice, stante la rinuncia depositata prima dell’udienza fissata (in data __).

1.2 La dichiarazione di fallimento veniva revocata, con sentenza n. __, dalla Corte d’appello di Roma, la quale disponeva la remissione degli atti al primo giudice, in ragione della ritenuta violazione del diritto di difesa della società debitrice, dato che alla stessa non era stato concesso il termine richiesto per contraddire rispetto all’istanza di fallimento avanzata dal P.M. in udienza.

1.3 Il Tribunale di Latina, con sentenza n. __, dichiarava nuovamente il fallimento di (OMISSIS) S.r.l.

La statuizione veniva revocata dalla Corte d’appello di Roma, con sentenza n. __, poiché era stata avviata una nuova istruttoria fallimentare in difetto di un necessario atto riassuntivo su impulso di parte.

1.4 Il Tribunale di Latina, con sentenza n. __ del __, dichiarava ancora una volta il fallimento di (OMISSIS) S.r.l., su istanza del P.M. e di alcuni lavoratori subordinati.

  1. A seguito del reclamo presentato da D., in proprio e quale legale rappresentante di (OMISSIS) S.r.l., la Corte d’appello di Roma: i) riteneva che non vi fosse alcun giudicato interno ostativo all’iniziativa assunta dal P.M., in quanto la prima sentenza della corte distrettuale non conteneva alcun passaggio che affermasse che la mancanza di una pronuncia di inammissibilità sul concordato preventivo comportava il venir meno della legittimazione del magistrato requirente; ii) osservava che il P.M. nell’ambito del concordato preventivo, ove avesse rilevato la sussistenza di uno stato di insolvenza a seguito della sua necessaria partecipazione, ben poteva sollecitare la dichiarazione di fallimento, a prescindere dalle vicende concordatarie; iii) reputava che alla data in cui la dichiarazione di fallimento era stata deliberata e pubblicata il fallimento pronunciato con la seconda sentenza del Tribunale di Latina fosse oramai definitivamente chiuso; iv) qualificava le doglianze presentate rispetto alla legittimazione dei creditori istanti come ininfluenti, tenuto conto della riconosciuta legittimazione del P.M. a sollecitare la dichiarazione di fallimento; v) rilevava, sulla base della documentazione acquisita, l’esistenza di una situazione di insolvenza sin dalla data di presentazione della prima dichiarazione di fallimento; vi) constatava che la pronuncia di fallimento da ultimo intervenuta aveva fatto seguito a un ricorso del P.M. ampiamente motivato; vii) ravvisava l’esistenza di una situazione di insolvenza, tenuto conto della situazione di notevole sbilancio patrimoniale della società e della incapacità della stessa di adempiere con regolarità alle proprie obbligazioni.

Sulla base di queste considerazioni la Corte d’appello, con sentenza in data __, rigettava il reclamo proposto.

  1. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso D., in proprio e quale legale rappresentante di (OMISSIS) S.r.l., prospettando otto motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso il fallimento di (OMISSIS) S.r.l.

Gli intimati P., N., L., S., G., A., T., B., F., C., Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Latina e Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Roma non hanno svolto alcuna difesa.

Entrambe le parti costituite hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

7.1 Il primo motivo di ricorso di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c., in quanto la Corte d’appello non avrebbe tenuto conto della sussistenza di un precedente giudicato inter partes in ordine alla illegittimità della declaratoria di fallimento in mancanza di una precedente pronuncia di inammissibilità della domanda di concordato, mancanza da cui conseguirebbe il difetto di legittimazione del P.M.

7.2 Il secondo mezzo lamenta, ex art. 360 c.p.c., la violazione di norme di diritto in relazione alla L.F., art. 162, comma 2, in quanto la Corte d’appello non avrebbe ritenuto illegittima la sentenza di fallimento a causa dell’improcedibilità dell’istanza del P.M. per difetto di legittimazione, in assenza di una previa pronuncia di inammissibilità della domanda di concordato; la corte distrettuale invece avrebbe dovuto constatare che il disposto della L.F., art. 162, comma 2, individua la previa dichiarazione di inammissibilità della domanda di concordato quale presupposto logico/giuridico/procedimentale per dare corso alla declaratoria di fallimento e, correlativamente, disconoscere la legittimazione del P.M.

7.3 Con il terzo motivo la sentenza impugnata è censurata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per falsa applicazione della L.F., artt. 7 e 162, in quanto la Corte d’appello, laddove aveva ritenuto che ai fini della legittimazione della parte pubblica rilevasse la notitia decoctionis qualificata acquisita dal P.M. all’esito della presentazione della domanda di concordato, avrebbe ravvisato la legittimazione del P.M. anche ai sensi della L.F., art. 7, malgrado trovasse applicazione al caso di specie soltanto la L.F., art. 162.

7.4 I motivi, da esaminarsi congiuntamente perché tutti rivolti a contestare la legittimazione del P.M. a sollecitare la dichiarazione di fallimento, sono infondati.

7.4.1 La giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di stabilire che in pendenza di un procedimento di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, ai sensi della L.F., art. 161, comma 6, il fallimento dell’imprenditore, su istanza di un creditore o su richiesta del P.M., può essere dichiarato soltanto quando ricorrono gli eventi previsti dalla L.F., artt. 162, 173, 179 e 180 e cioè, rispettivamente, quando la domanda di concordato sia stata dichiarata inammissibile, quando sia stata revocata l’ammissione alla procedura, quando la proposta di concordato non sia stata approvata e quando, all’esito del giudizio di omologazione, sia stato respinto il concordato; la dichiarazione di fallimento non è invece esclusa durante le eventuali fasi di impugnazione dell’esito negativo del concordato preventivo, non sussistendo un rapporto di pregiudizialità tecnico-giuridica tra le procedure (Cass., Sez. U., 9935/2015).

Il che significa, nella sostanza, che la pendenza di una procedura di concordato preventivo è di temporaneo ostacolo alla pronuncia di fallimento ad opera del Tribunale, sicché, una volta venuta meno la procedura concorsuale minore, per qualsiasi ragione, viene meno il motivo ostativo alla declaratoria di insolvenza.

Ponendosi in questa prospettiva interpretativa, al disposto della L.F., art. 162, comma 2 (laddove la norma prevede che il Tribunale, nel caso in cui verifichi che non ricorrono i presupposti di cui alla L.F., art. 160, commi 1 e 2 e art. 161, dichiara inammissibile la proposta di concordato, aggiungendo subito dopo che in tali casi il giudice di merito, su istanza del creditore o su richiesta del P.M., dichiara il fallimento in presenza dei presupposti previsti alla L.F., artt. 1 e 5), non può essere attribuito il significato voluto dall’odierno ricorrente, che intende individuare nella declaratoria di inammissibilità la condizione imprescindibile perché possa essere presentata richiesta di fallimento da parte del P.M..

Al contrario – come già questa Corte ha avuto modo di chiarire (cfr. Cass. 6649/2018) – la dichiarazione d’improcedibilità del concordato per rinunzia alla proposta concordataria si colloca, attesa l’assimilabilità degli effetti processuali, consistenti nella chiusura del procedimento concordatario in difetto dell’omologazione, sul medesimo piano della dichiarazione di inammissibilità di cui alla L.F., art. 162, comma 2, con conseguente potere del P.M. di richiedere il fallimento prima che l’improcedibilità sia dichiarata.

La norma quindi intende individuare, in senso sostanziale e non formale, nell’intervenuta pronuncia in rito rispetto alla procedura concordataria – sia essa, indifferentemente, di inammissibilità o di improcedibilità – il presupposto utile e idoneo a rimuovere l’ostacolo, costituito dalla pendenza di tale procedimento, per prendere in esame le istanze di fallimento in precedenza presentate.

Deve perciò essere ribadito il principio secondo cui il disposto della L.F., art. 162, comma 2, va inteso nel senso che nell’ambito della procedura concordataria il P.M., ove a seguito della sua partecipazione necessaria rilevi la sussistenza di uno stato d’insolvenza del debitore istante, può legittimamente richiedere al Tribunale il fallimento del proponente senza che rilevino le scansioni e le vicende del procedimento concordatario, come la rinuncia alla proposta concordataria, anche in difetto di convergenti istanze volte alla dichiarazione dell’insolvenza del debitore da parte del ceto creditorio (Cass. 14156/2017).

Ne discende l’infondatezza del secondo motivo di ricorso, in quanto la legittimazione del P.M. a sollecitare la dichiarazione di fallimento non è condizionata dall’esito formale della procedura concordataria né è subordinata alla preventiva pronuncia di inammissibilità della domanda concordataria, in quanto è il venir meno di tale procedura – qualsiasi esso sia ed a prescindere dal tenore della pronuncia che ha posto termine al procedimento – a consentire al Tribunale la dichiarazione di fallimento.

7.4.2 Ne è possibile dubitare della legittimazione del P.M. a sollecitare la dichiarazione di fallimento in presenza di un simile esito della procedura concordataria.

A questo proposito giova ricordare la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. 6649/2018 e Cass. 12010/2018) secondo cui: i) il P.M. partecipa a pieno titolo al procedimento concordatario – nel cui ambito riceve comunicazione, ai sensi della L.F., art. 161, comma 5, della domanda di concordato unitamente ai documenti depositati dal debitore e, in seguito, della relazione del commissario giudiziale di cui all’art. 172 – e, dunque, può comparire in udienza e interloquire nei termini ritenuti opportuni, rassegnando conclusioni e, in particolare, richiedendo nei casi previsti la dichiarazione di fallimento; ii) il potere di richiedere il fallimento da parte del P.M. non è condizionato a una qualche segnalazione del Tribunale, ma è direttamente ed espressamente contemplato dalla legge, ogni qual volta il procedimento non sortisca il suo esito fisiologico, con l’omologazione; iii) la rinunzia alla proposta concordataria formulata dal debitore nel corso del procedimento di revoca del concordato medesimo, pur conducendo alla dichiarazione di improcedibilità, non comporta che il procedimento di concordato preventivo cessi automaticamente, così da collocare la richiesta di fallimento da parte del P.M. al di fuori di esso, occorrendo invece che detto procedimento si concluda con la relativa dichiarazione di improcedibilità; iv) il P.M. che, a seguito della comunicazione L.F., ex art. 173, partecipa ordinariamente al procedimento, nel rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa delle altre parti, ben può rassegnare le proprie conclusioni che comprendono, oltre alla valutazione negativa della proposta concordataria, anche l’eventuale richiesta di fallimento in ragione della ritenuta insolvenza dell’imprenditore di cui sia venuto a conoscenza a seguito di tale partecipazione; v) il potere del P.M. di richiedere il fallimento permane fino a quando l’improcedibilità non sia stata dichiarata, rimanendo successivamente impregiudicato il suo diritto di chiedere il fallimento in presenza dei presupposti di cui all’art. 7.

Pertanto le norme che conferiscono al P.M. il potere di chiedere il fallimento nell’ambito del procedimento concordatario, pur ispirandosi alla stessa ratio sottesa alla L.F., art. 7 (costituita dalla volontà di ampliare la legittimazione del pubblico ministero alla presentazione della richiesta per dichiarazione di fallimento in tutti i casi nei quali l’organo abbia istituzionalmente appreso la notitia decoctionis; Cass. 19797/2015), comportano una forma aggiuntiva di legittimazione che rimane acquisita a seguito della partecipazione necessaria del magistrato requirente alla procedura di concordato.

Questa particolare legittimazione si fonda sulla percezione della notitia decoctionis avuta direttamente in tale ambito processuale e permane, fino alla dichiarazione di improcedibilità, a prescindere dall’esito che al concordato vada assegnato in conseguenza della condotta del debitore, il quale quindi non ha modo di bloccare l’iniziativa del P.M. tramite la mera presentazione di una rinuncia alla domanda anticipatoria presentata.

Se ne ricava l’infondatezza del terzo motivo di ricorso, avendo il giudice di merito correttamente evidenziato – rispetto a una richiesta del P.M. presentata dopo la rinuncia alla domanda di concordato ma prima della relativa declaratoria di improcedibilità all’esito dell’udienza fissata L.F., ex art. 162, comma 2 – che la legittimazione della parte pubblica discendeva dalla notitia decoctionis qualificata acquisita nell’ambito concordatario.

7.4.3 Non è possibile neppure ritenere che nel caso di specie sussistesse un giudicato interno che imponesse l’adozione di una pronuncia di inammissibilità della procedura concordataria prima del vaglio dell’istanza di fallimento.

In vero, ove si abbia riguardo al contenuto della sentenza n. 709/2016 della Corte d’appello di Roma, sarà facile rilevare che la decisione si limita solo a ricordare, in linea generale, il principio affermato da questa Corte con la sentenza n. 9935/2015 (principio che, peraltro, nel caso di specie risultava irrilevante, dato che nessun concordato pendeva al momento della decisione, avendovi il debitore rinunciato), ma non adotta alcuna statuizione in merito alla mancata declaratoria di inammissibilità del concordato, né in particolare afferma la necessità di una specifica dichiarazione in rito al fine di ammettere la legittimazione del P.M. a presentare richiesta di fallimento.

8.1 Il settimo motivo di ricorso assume, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione della L.F., artt. 5, 6 e 7, artt. 99 e 112 c.p.c., artt. 24 e 111 Cost., in quanto la Corte d’appello non avrebbe ravvisato l’inesistenza della richiesta di fallimento presentata dal Pubblico Ministero, benché la stessa fosse del tutto priva di motivazione in ordine allo stato di insolvenza, e si sarebbe limitata a rammentare la struttura deformalizzata di tale domanda.

8.2 Il motivo riporta integralmente la motivazione offerta dalla corte distrettuale sulla questione della mancata motivazione dell’istanza di fallimento, ma non ne tiene affatto conto.

I giudici del merito infatti, lungi dal limitarsi a sottolineare il carattere deformalizzato della richiesta di fallimento, hanno in primo luogo evidenziato come l’originaria istanza fosse stata ampiamente integrata dal P.M. al momento della riassunzione, aggiungendo poi che nell’ambito dello specifico giudizio prefallimentare l’iniziativa del magistrato requirente andava apprezzata nel suo complesso e non rispetto al suo iniziale atteggiarsi.

A fronte di questi argomenti l’odierno ricorrente non critica la principale ratio decidendi e, continuando a orientare le proprie censure sulla sola originaria richiesta, sviluppa una critica che reitera le proprie precedenti doglianze piuttosto che correlarsi con il contenuto della decisione impugnata.

Il che comporta l’inammissibilità del mezzo.

Il motivo di ricorso per cassazione infatti deve necessariamente avere i caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata (Cass. 6587/2017, Cass. 13066/2007); ne discende che la proposizione di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), con la conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio (Cass. 20910/2017).

Nel ricorso per cassazione la parte non può perciò limitarsi alla mera riproposizione delle tesi difensive svolte nelle fasi di merito e motivatamente disattese dal giudice dell’appello, operando così una mera contrapposizione del suo giudizio e della sua valutazione a quella espressa dalla sentenza impugnata senza considerare le ragioni offerte da quest’ultima (Cass. 11098/2000).

  1. Il riconoscimento della legittimazione del P.M. e della ritualità della sua richiesta comporta l’inammissibilità del quinto motivo di doglianza, con cui il ricorrente assume, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione degli artt. 100 e 112 c.p.c., L.F., art. 15, artt. 24 e 111 Cost., in quanto la Corte d’appello avrebbe omesso di statuire in ordine all’eccezione di improcedibilità delle istanze di fallimento dei lavoratori, pur in presenza di un interesse a una simile pronuncia.

Il ricorrente infatti non ha alcun interesse all’esame di questo mezzo, in quanto il suo eventuale accoglimento non potrebbe comunque condurre, a seguito del definitivo accertamento della legittimità dell’iniziativa assunta dal P.M., alla cassazione della decisione impugnata.

10.1 Il quarto motivo di ricorso assume, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione della L.F., artt. 26 e 119, art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c., in quanto la Corte d’appello non avrebbe ritenuto illegittima la sentenza di fallimento pronunciata dal Tribunale di Latina prima della definitiva esecutività del decreto di chiusura del precedente fallimento.

In tesi di parte ricorrente la Corte d’appello, nel verificare l’avvenuta notificazione del decreto di chiusura, da un lato avrebbe erroneamente valorizzato il contenuto della certificazione redatta dalla propria cancelleria all’esito della verifica dell’esistenza di eventuali impugnazioni, dall’altro avrebbe a torto ritenuto che l’unico termine rilevante ai fini della proposizione del reclamo fosse quello breve, senza considerare che la mancata notifica al comitato dei creditori imponeva di tenere conto del maggior termine previsto dalla L.F., art. 26, comma 4; ne conseguirebbe l’illegittimità della declaratoria di fallimento, pronunziata quando ancora il decreto di chiusura del fallimento non poteva dirsi definitivo.

10.2 La doglianza è inammissibile sotto entrambi i profili dedotti.

10.2.1 La corte territoriale ha inteso la certificazione della propria cancelleria prodotta dalla curatela come documento attestante la mancata impugnazione, da parte di qualsiasi legittimato, del decreto di chiusura.

Una simile interpretazione rientrava nei compiti istituzionalmente demandati al giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento e di controllarne l’attendibilità e la concludenza; la stessa non può quindi essere posta in contestazione avanti a questa Corte, alla quale compete soltanto il controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito.

10.2.2 Il secondo profilo di critica poi, pur prendendo le mosse dall’esatta considerazione che la verifica dell’avvenuta pronunzia del decreto di chiusura del fallimento revocato costituisce il presupposto per poter esaminare nel merito il ricorrere degli elementi costitutivi di una nuova pronuncia di fallimento (Cass. 2673/2015), investe le valutazioni a cui è giunta la corte territoriale laddove la stessa ha ritenuto di ricollegare la definitività del decreto di chiusura al decorso del termine previsto dalla L.F., art. 26, comma 3, piuttosto che a quello previsto dal successivo capoverso, in ragione della mancata notifica al comitato dei creditori, così assumendo l’esistenza di un simile organo.

La sentenza impugnata tuttavia non fa il minimo cenno a una simile circostanza, che dalla lettura decisione non risulta fosse stata posta dal reclamante; né dalla narrativa del ricorso per cassazione, come pure dallo svolgimento dei motivi, risulta che il reclamante, nel corso del giudizio di merito, avesse allegato che la mancata definitività del decreto di chiusura discendesse dall’omessa notifica al comitato dei creditori.

Sicché trova applicazione il principio secondo cui, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni comportanti accertamenti in fatto di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 6089/2018, Cass. 23675/2013).

11.1 Il sesto motivo di ricorso deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione della L.F., artt. 5 e 6, artt. 24 e 111 Cost., in quanto la Corte d’appello avrebbe valutato la sussistenza dello stato di insolvenza sulla base di atti non pertinenti e non utilizzabili a fini probatori e per fatti diversi, con violazione dei diritti costituzionali di difesa e a un giusto processo; in particolare la Corte d’appello, pur dovendo accertare lo stato di insolvenza al momento della proposizione della originaria istanza di fallimento da parte del P.M., dato che i successivi procedimenti erano stati introdotti in prosecuzione del primo, avrebbe fatto riferimento a debiti non ancora scaduti o a documentazione non esistente alla data di presentazione della prima richiesta di fallimento.

11.2 L’ottavo motivo di ricorso prospetta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione della L.F., art. 5, art. 112 c.p.c., artt. 24 e 111 Cost.: il convincimento espresso dalla corte territoriale in merito alla sussistenza dello stato di insolvenza non sarebbe sorretto da una motivazione esauriente e corretta, perché la stessa si baserebbe su fatti e atti successivi alla data di proposizione dell’istanza di fallimento, anche provenienti dalle procedure di fallimento revocate, e non terrebbe conto della liquidità disponibile.

11.3 I motivi, da esaminarsi congiuntamente in ragione del coincidente vizio prospettico che li accomuna, sono il primo infondato, il secondo in parte infondato, in parte inammissibile.

11.3.1 Entrambe le doglianze muovono dal presupposto che la constatazione dello stato di insolvenza che legittima la dichiarazione di fallimento debba essere effettuata con riferimento alla situazione esistente al momento della presentazione della domanda di fallimento. Con la conseguenza che, in caso di revoca della dichiarazione di fallimento in sede di reclamo e rinvio al primo giudice per il riesame della domanda, la valutazione andrebbe retrodatata alle condizioni esistenti al momento dell’assunzione dell’iniziativa da parte del soggetto legittimato.

Un simile assunto non può essere condiviso.

L’accertamento dello stato di insolvenza va infatti compiuto con riferimento alla situazione esistente alla data della sentenza dichiarativa di fallimento e non già a quella di presentazione del relativo ricorso (Cass. 19790/2015, Cass. 11393/2004), di modo che il giudice chiamato alla verifica dell’effettiva esistenza della condizione di insolvenza denunciata ben può prendere in considerazione la situazione evolutasi (sotto il profilo dei debiti giunti a scadenza o della documentazione venuta ad esistenza) fino al momento della decisione.

La data a cui, quindi, la corte distrettuale doveva avere riguardo nei suoi accertamenti era quella del __, momento rispetto al quale la coeva sentenza di fallimento aveva accertato la situazione di insolvenza.

Tale data fissava il limite temporale che le parti, nel libero esercizio della disponibilità delle prove loro riconosciuto dall’art. 115 c.p.c., dovevano tenere in conto onde allegare e provare – anche tramite la produzione della relazione L.F., ex art. 33, redatta nella stessa o nelle precedenti procedure fallimentari o dello stato passivo nel frattempo predisposto (Cass. 10170/2016, Cass. 10952/2015) – ogni circostanza che ritenessero utile al fine di dimostrare le rispettive tesi difensive.

11.3.2 Risulta infine inammissibile ogni critica concernente l’erroneo apprezzamento delle disponibilità liquide della società debitrice, dato che il convincimento espresso dal giudice di merito circa la sussistenza di un irreversibile stato di insolvenza costituisce un apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione, ove sorretto da motivazione esauriente e giuridicamente corretta (Cass. 4455/2001).

  1. In forza dei motivi sopra illustrati il ricorso va pertanto respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro __, di cui Euro__ per esborsi, oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 10 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2019

 

Cass_civ_Sez_I_Ord_23_10_2019_n_27200




Ammissione al passivo fallimentare: insinuazione del credito

Ammissione al passivo fallimentare: insinuazione del credito derivante da saldo negativo di conto corrente

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 27201 del 23/10/2019

Con ordinanza del 23 ottobre 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in tema di ammissione al passivo fallimentare, ha stabilito che nell’insinuare il credito derivante da saldo negativo di conto corrente, la banca ha l’onere di dare conto dell’intera evoluzione del rapporto tramite il deposito degli estratti conto integrali; il curatore, eseguite le verifiche di sua competenza, ha l’onere di sollevare specifiche contestazioni in relazione a determinate poste, in presenza delle quali la banca ha, a sua volta, l’onere ulteriore di integrare la documentazione, o comunque la prova, del credito avuto riguardo alle contestazioni in parola; il giudice delegato o, in sede di opposizione, il tribunale, in mancanza di contestazioni del curatore, è tenuto a prendere atto dell’evoluzione storica del rapporto come rappresentata negli estratti conto, pur conservando il potere di rilevare d’ufficio ogni eccezione non rimessa alle sole parti che si fondi sui fatti in tal modo acquisiti al giudizio.


Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 27201 del 23/10/2019

Ammissione al passivo fallimentare: insinuazione del credito derivante da saldo negativo di conto corrente

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. __ proposto da:

B. S.p.A. – ricorrente –

contro

Curatela Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – intimata –

avverso il decreto del TRIBUNALE di NAPOLI, depositato __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal cons. Dott. __.

Svolgimento del processo

  1. Il Giudice delegato al fallimento di (OMISSIS) s.r.l. ammetteva al passivo della procedura il credito vantato da B. S.p.A., nella misura di Euro __ in relazione al conto corrente n. (OMISSIS), rigettando invece l’istanza di ammissione in relazione al conto corrente anticipi n. (OMISSIS) per carenza di documentazione giustificativa.
  2. A seguito dell’opposizione proposta da C. S.p.A., quale conferitaria di tutte le attività e passività della già B. S.p.A., il Tribunale di Napoli: i) riteneva che al collegio dell’opposizione non fosse attribuito il potere di acquisire d’ufficio, ovvero su sollecitazione di parte, il fascicolo fallimentare, neppure rispetto ai documenti allegati dall’istante, dovendosi di conseguenza giudicare inammissibile la richiesta istruttoria di acquisizione del fascicolo contenente la domanda di ammissione al passivo e la relativa documentazione prodotta dal ricorrente; ii) rilevava l’intempestività della produzione (in data __) del medesimo fascicolo, avvenuta in epoca successiva al deposito (in data __) del ricorso in opposizione L. Fall., ex art. 99; iii) osservava, per completezza, che non poteva condividersi la tesi dell’opponente concernente l’estensione automatica della disciplina prevista dal contratto di conto corrente n. (OMISSIS) del __ anche al diverso rapporto di anticipazione n. (OMISSIS); iv) reputava che gli estratti integrali di conto corrente non fossero idonei a dimostrare l’esistenza del credito della banca nei confronti del fallito ai fini dell’ammissione al passivo.

Sulla base di simili valutazioni il Tribunale di Napoli, con decreto depositato in data __, rigettava l’opposizione proposta da C. S.p.A.

  1. Per la cassazione di tale decreto ha proposto ricorso B. S.p.A., prospettando sette motivi di doglianza.

L’intimato fallimento (OMISSIS) non ha svolto alcuna difesa.

Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.

Motivi della decisione

4.1 Il quarto motivo di ricorso – da prendere in esame in via prioritaria, in applicazione del principio della ragione più liquida denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 99 e art. 116 c.p.c. nonché, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in quanto il Tribunale avrebbe erroneamente interpretato la L. Fall., art. 99 laddove aveva ritenuto che i documenti a suffragio dell’opposizione dovevano essere depositati unitamente al ricorso, quando la norma, al contrario, imponeva la mera indicazione dei medesimi.

4.2 Il motivo è fondato rispetto alla violazione di legge denunciata.

Questa Corte (Cass. 25513/2017) ha già avuto modo di osservare che un rilievo non trascurabile deve esser assegnato al risultato esegetico che agevolmente si ricava dall’inciso contenuto nella L. Fall., art. 99, comma 2, n. 4, il quale, nel delineare il concreto perimetro dell’effetto decadenziale, opera un preciso riferimento all’indicazione specifica, ad opera del creditore, dei documenti prodotti; la norma, dunque, lungi dal prevedere un onere per il ricorrente di produrre i documenti unitamente al deposito del ricorso, fa semplicemente riferimento alla necessità di elencare, nell’atto introduttivo, i documenti già dimessi e versati agli atti del processo, per cui se un effetto preclusivo può ricavarsi dall’esame del dato normativo, esso va riferito non tanto alla necessità di ridepositare il materiale precostituito e già prodotto ma, semmai, all’impossibilità per il creditore di avvalersi, successivamente al deposito del ricorso, di documenti nuovi, differenti sia da quelli utilizzati in sede di verifica innanzi al giudice delegato sia da quelli prodotti per la prima volta al momento dell’opposizione.

L’intero dettato della L. Fall., art. 99, comma 2, n. 4, depone inoltre nel senso che le esigenze di concentrazione processuale, che il legislatore vuole perseguire anche nel giudizio di opposizione, impongono al creditore di indicare, in via ultimativa ed al momento del ricorso, tutti i mezzi di prova ed i documenti di cui intende avvalersi innanzi al Tribunale, sicché è solo quel materiale che ha titolo per restare nel processo, escludendosi, nel corso del giudizio, la possibilità di avvalersi di mezzi di prova nuovi o di documenti differenti da quelli già prodotti ed indicati nell’atto introduttivo.

Se questa è la ragione che giustifica la previsione della decadenza, non vi è ragione di estenderne la portata fino a provocare un effetto ulteriore e non voluto dal legislatore (attraverso l’imposizione dell’onere a carico del creditore di produrre nuovamente innanzi al Tribunale documenti già depositati), anche in considerazione del fatto che le norme in tema di decadenza, per loro natura, sono di stretta interpretazione (Cass. 4351/2016); al contrario l’evidenza che si ricava dall’utilizzo letterale del participio congiunto (in funzione aggettivale) prodotti, riferito ai documenti da indicare specificamente, depone soltanto nel senso che il ricorrente debba limitarsi a valorizzare specificamente, nel quadro del ricorso introduttivo, quelli che, tra i documenti già prodotti, appaiono maggiormente idonei a sostenere la propria prospettazione (perché trascurati o non adeguatamente apprezzati dal giudice delegato).

Oltre a ciò si deve osservare che, soddisfatta dall’opponente la condizione prescritta dalla norma circa la specifica indicazione dei documenti prodotti, il Tribunale in sede di opposizione è tenuto ad acquisire i documenti in questione, seppur non prodotti nuovamente in fase di opposizione, in quanto tali documenti, una volta allegati all’originaria istanza di ammissione al passivo, rimangono nella sfera di cognizione dell’ufficio giudiziario, inteso nel suo complesso, anche in tale fase.

In questa direzione merita di essere richiamata, sul piano sistematico, la ricostruzione operata dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. U., 14475/2015) secondo cui “i principi costituzionali del giusto processo e della sua ragionevole durata implicano, come si è sottolineato nella sentenza 23 dicembre 2005, n. 28498, che le prove acquisite al processo lo siano in via definitiva. Tali prove non devono essere disperse. Ciò vale anche per i documenti: una volta prodotti ed acquisiti ritualmente al processo devono essere conservati alla cognizione del giudice”, secondo il principio “che può essere definito di non dispersione della prova una volta che questa sia stata acquisita al processo”.

Occorre pertanto dare continuità all’orientamento secondo cui nel giudizio di opposizione a stato passivo l’opponente è tenuto, a pena di decadenza, solo a indicare specificamente in seno al ricorso i documenti già prodotti nel corso della verifica dello stato passivo innanzi al giudice delegato; sicché, in difetto di produzione del documento indicato specificamente in ricorso, il Tribunale deve disporne l’acquisizione dal fascicolo della procedura fallimentare ove esso è custodito (Cass. 12549/2017, Cass. 13888/2017, Cass. 5094/2018).

Dunque il Tribunale ha illegittimamente ritenuto che l’opponente fosse obbligato, al fine di soddisfare l’onere probatorio posto a suo carico, a depositare insieme al fascicolo dell’opposizione anche il fascicolo di parte relativo alla fase di verifica dello stato passivo, quando al contrario doveva limitarsi a controllare se l’opponente avesse specificamente indicato i documenti già prodotti nel corso della verifica dello stato passivo all’interno del ricorso in opposizione, in ottemperanza alla prescrizione contenuta all’interno della L. Fall., art. 99, comma 2, n. 4).

  1. L’accoglimento della doglianza comporta l’assorbimento dei primi tre motivi di ricorso, con cui l’odierna ricorrente ha inteso censurare, sotto vari profili, le osservazioni del collegio dell’opposizione in merito alla discrasia temporale fra il deposito del ricorso e il deposito del relativo fascicolo documenti, oltre che del quinto motivo di ricorso, tramite il quale B. S.p.A. ha lamentato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione e falsa applicazione degli artt. 101, 112 e 115 c.p.c. e 2697 c.c. nonché, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un atto processuale, costituito dal decreto del presidente della sezione fallimentare che mandava alla cancelleria di allegare agli atti del procedimento la domanda di ammissione depositata dal ricorrente, contenente i documenti di parte.

6.1 Con il sesto motivo di ricorso la banca ricorrente assume, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dei principi generali in materia di prova in merito alla sussistenza di contratti di apertura di conto corrente, la violazione degli artt. 1362, 1366, 1369 e 1342 c.c., avendo il Tribunale omesso di interpretare e verificare le clausole contrattuali, la violazione della L. n. 154 del 1992, art. 3, comma 3, e art. 117 T.U.B. nonché, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa motivazione in ordine all’interpretazione delle prove acquisite su punti decisivi della controversia, in quanto il Tribunale, pur a seguito della produzione della lettera contratto del 21 aprile 2006 relativa al conto ordinario n. (OMISSIS), avrebbe erroneamente ritenuto che la stessa, a dispetto della sua natura di contratto normativo disciplinante tutte le operazioni che il correntista sarebbe andato a compiere con la banca, non fosse utile a suffragare la domanda di ammissione al passivo, non ricomprendendo tra i servizi accessori al rapporto di conto corrente le aperture di credito.

6.2 Il motivo è in parte infondato, in parte inammissibile.

6.2.1 Secondo la più recente disciplina di questa Corte il contratto di apertura di credito, qualora risulti già previsto e disciplinato da un contratto di conto corrente stipulato per iscritto, non deve a sua volta, in forza della delibera del C.I.C.R. del 4 marzo 2003, essere stipulato per iscritto a pena di nullità, dato che il D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 117, comma 2, stabilisce che il C.I.C.R., mediante apposite norme di rango secondario, possa prevedere che particolari contratti bancari, per motivate ragioni tecniche, siano stipulati in forma diversa da quella scritta (Cass. 7763/2017).

Ciò nonostante la possibilità per le autorità abilitate dalla L. n. 154 del 1992, art. 3, comma 3, e D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 117, comma 2, di stabilire la non necessità della forma scritta per particolari contratti, in esecuzione di previsioni contenute in contratti redatti per iscritto, va intesa nel senso che l’agevolazione di particolari modalità della contrattazione non comporta una radicale soppressione della forma scritta, ma solo una relativa attenuazione della stessa che salvaguardi l’indicazione nel “contratto madre” delle condizioni economiche cui andrà assoggettato il contratto figlio (Cass. 27836/2017).

6.2.2 Di questi principi ha fatto corretta applicazione il collegio di merito laddove ha constatato che dal contratto scritto regolante il rapporto di conto corrente non derivava in maniera automatica la disciplina del contratto di apertura di credito, dal momento che occorreva, perché il primo rapporto assumesse natura di contratto normativo rispetto al secondo, che fossero stabilite la forma necessaria e sufficiente per la genesi di tale ulteriore contratto e la disciplina che avrebbe regolato il medesimo.

La critica si rivela poi inammissibile laddove sostiene che una puntuale valutazione del documento contrattuale prodotto avrebbe consentito di verificare che il contratto di conto corrente disciplinava non soltanto i servizi accessori al medesimo ma anche aperture di credito e sovvenzioni.

Il risultato interpretativo che esclude la regolazione all’interno del contratto di conto corrente anche del diverso rapporto di apertura di credito appartiene infatti all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito e non può essere sindacato in questa sede, dove è possibile soltanto verificare il rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, mentre risulta inammissibile ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (Cass. 2465/2015).

7.1 Il settimo motivo di ricorso deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1832, 1857 e 2697 c.c. nonché l’omesso esame di un documento esibito ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riferimento alla parte del decreto impugnato ove si afferma che i crediti derivanti da scoperti di conto corrente dovevano essere provati mediante la produzione di tutti i documenti giustificativi delle singole operazioni: il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto insufficiente la produzione della scheda di conto integrale recante l’indicazione di tutte le operazioni svolte nel corso del rapporto, pur in mancanza di una contestazione seria e specifica del contenuto della stessa da parte della curatela.

7.2 Il motivo è fondato.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte la banca, ove prospetti una sua ragione di credito verso il fallito derivante da un rapporto obbligatorio regolato in conto corrente e ne chieda l’ammissione allo stato passivo, ha l’onere, nel giudizio di opposizione allo stato passivo, di dare piena prova del suo credito, assolvendo il relativo onere secondo il disposto della norma generale dell’art. 2697 c.c. attraverso la documentazione relativa allo svolgimento del conto, senza poter pretendere di opporre al curatore, stante la sua posizione di terzo, gli effetti che, ai sensi dell’art. 1832 c.c., derivano, ma soltanto tra le parti del contratto, dall’approvazione anche tacita del conto da parte del correntista, poi fallito, e dalla di lui decadenza dalle impugnazioni (Cass. 6465/2001, Cass. 1543/2006).

Tale principio trova fondamento nella posizione di terzietà assunta dal curatore.

Ciò tuttavia non significa che in ambito di insinuazione al passivo l’estratto conto debba essere considerato in via generalizzata come privo di qualsiasi valore probatorio.

Al contrario il credito della banca deve essere provato con l’integrale ricostruzione del dare e dell’avere, che comporta l’indicazione di tutte le operazioni, a partire dalla prima sino alla chiusura, mentre è insufficiente il riferimento al saldo registrato alla data di chiusura del conto e alla documentazione relativa all’ultimo periodo del rapporto, dato che quest’ultima non consente di verificare gli importi addebitati nei periodi precedenti per operazioni passive e quelli relativi agli interessi, la cui iscrizione nel conto ha condotto alla determinazione dell’importo che costituisce la base di computo per il periodo successivo (cfr. Cass. 21597/2013, Cass. 23974/2010 e 10692/2007).

Al fine di assolvere a questo onere probatorio la banca, nell’insinuare al passivo fallimentare il credito derivante da saldo negativo di conto corrente, ha l’onere di dare conto dell’intera evoluzione del rapporto tramite il deposito degli estratti conto integrali.

Il curatore, eseguite le verifiche di sua competenza, ha l’onere di sollevare specifiche contestazioni in relazione a determinate poste, in presenza delle quali la banca ha, a sua volta, l’onere ulteriore di integrare la documentazione, o comunque la prova, del credito avuto riguardo alle contestazioni in parola.

Il giudice delegato o, in sede di opposizione, il Tribunale, in mancanza di contestazioni del curatore, sono tenuti a prendere atto dell’evoluzione storica del rapporto come rappresentata negli estratti conto, pur conservando il potere di rilevare d’ufficio ogni eccezione non rimessa alle sole parti che si fondi sui fatti in tal modo acquisiti al giudizio (Cass. 22208/2018, Cass. 6985/2019).

Il collegio di merito doveva quindi valorizzare il contenuto degli estratti conto prodotti in funzione della loro idoneità a giustificare lo sviluppo dell’intero rapporto contrattuale fino all’apertura del concorso e alla luce del contegno processuale assunto dal curatore.

  1. Il provvedimento impugnato andrà dunque cassato rispetto ai motivi accolti, con rinvio al Tribunale di Napoli, il quale, nel procedere a nuovo esame della causa, si atterrà ai principi sopra illustrati, avendo cura anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quarto e il settimo motivo di ricorso, rigetta il sesto, dichiara assorbiti gli altri, cassa il decreto impugnato in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa al Tribunale di Napoli in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 10 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2019

Cass_civ_Sez_I_Ord_23_10_2019_n_27201




Il terzo che si oppone all’esecuzione

Il terzo che si oppone all’esecuzione: autoveicolo pignorato presso l’azienda del debitore 

Corte di Cassazione Civile, Sezione III, Ordinanza n. 26327 del 17/10/2019

Con ordinanza del 17 ottobre 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione III, in tema di recupero crediti, ha stabilito che il terzo che si oppone all’esecuzione su un autoveicolo pignorato presso l’azienda del debitore ha l’onere di provare non soltanto di aver acquistato il bene ma anche che il debitore esecutato ne abbia conseguito il possesso per un titolo diverso dal trasferimento di proprietà, assumendo a tal fine le risultanze del P.R.A. valore meramente indiziario, liberamente apprezzabile dal giudice di merito in uno ad ogni altro elemento di prova.


Corte di Cassazione Civile, Sezione III, Ordinanza n. 26327 del 17/10/2019

Il terzo che si oppone all’esecuzione: autoveicolo pignorato presso l’azienda del debitore 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. __ R.G. proposto da:

L. – ricorrente –

contro

C. – controricorrente –

contro

A. S.r.l. in liquidazione – intimata –

avverso la sentenza n. __ della Corte d’appello di Venezia depositata il __.

Udita la relazione svolta in camera di consiglio dal Consigliere D’Arrigo Cosimo;

letta la sentenza impugnata;

letti il ricorso, il controricorso e le memorie depositate ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c.

Svolgimento del processo

Ad istanza di C., l’ufficiale giudiziario si recava presso l’autosalone A. S.r.l. e procedeva al pignoramento di un’autovettura Porsche usata.

L. proponeva opposizione ex art. 619 c.p.c., deducendo che egli aveva acquistato quella vettura alcuni mesi prima e che, avendo successivamente cambiato idea, l’aveva lasciata presso l’autosalone in conto vendita. Aggiungeva che, nelle more di trovare un acquirente, la A. S.r.l. gli aveva concesso in uso, quale auto di cortesia, un’Alfa Romeo.

L’opposizione veniva rigettata dal Tribunale di Verona. La Corte d’appello di Venezia respingeva il gravame proposto da L. e quest’ultimo, avverso tale sentenza, ha proposto ricorso per cassazione articolato in sei motivi. C. ha resistito con controricorso. A. S.r.l. non ha svolto attività difensiva.

Entrambe le parti costituite hanno depositato memorie difensive.

Motivi della decisione

In considerazione dei motivi dedotti e delle ragioni della decisione, la motivazione del presente provvedimento può essere redatta in forma semplificata, conformemente alle indicazioni contenute nelle note del Primo Presidente di questa Corte del 14 settembre 2016 e del 22 marzo 2011.

I motivi, largamente sovrapponibili, possono essere esaminati congiuntamente. In sostanza, L. sostiene che la Porsche era rimasta di sua proprietà e che, pertanto, illegittimamente era stata pignorata da C. per un credito nei confronti di A. S.r.l. Contesta che egli avesse permutato la Porsche con l’Alfaromeo – il cui valore era sensibilmente inferiore a quello della Porsche – e si duole del fatto che non vi era alcuna prova di un eventuale passaggio di proprietà da lui ad A. S.r.l.

Il ricorso è manifestamente infondato.

Anzitutto va ribadita la perdurante attualità del principio secondo cui la trascrizione dell’atto di vendita dell’autoveicolo nel pubblico registro automobilistico (PRA) non è requisito di validità e di efficacia del trasferimento del diritto di proprietà, non avendo essa valore costitutivo e configurando, invece, un mero strumento legale di pubblicità e di tutela inteso a dirimere i conflitti tra persone aventi causa dal medesimo venditore che vantino diritti sullo stesso bene; pertanto, gli autoveicoli ben possono essere validamente alienati con la semplice forma verbale consensuale, di cui può essere data dimostrazione con ogni mezzo di prova (Sez. 3, Sentenza n. 7070 del 29/11/1986, Rv. 449150 – 01).

Da ciò deriva che, allorquando un veicolo è rinvenuto dall’ufficiale giudiziario nella disponibilità del debitore esecutato, vale – al pari dei beni mobili non registrati – il principio “possesso vale titolo”. Il terzo che assume di essere proprietario del veicolo deve dimostrare non solo di averlo acquistato, ma anche che il debitore ne ha conseguito il possesso per un titolo diverso dal trasferimento della proprietà mediante traditio.

Nell’assolvere tale onere, il terzo opponente non può limitarsi ad invocare le risultanze del PRA, in quanto queste sono dimostrative del fatto che egli acquistò il veicolo, ma non anche del titolo – diverso da un ulteriore, successivo, trasferimento della proprietà – per il quale lo stesso è stato rinvenuto nel possesso del debitore esecutato. In relazione a tale secondo, diverso, profilo, la trascrizione dell’atto di vendita in favore dell’opponente ha un valore meramente indiziario, che può essere liberamente apprezzato dal giudice di merito insieme ad ogni altro elemento di prova.

Ciò posto, nel caso in esame la Corte d’appello ha correttamente proceduto ad una valutazione complessiva di tutto il materiale probatorio, alla luce del quale – con giudizio di fatto non sindacabile in questa sede – ha ritenuto che le risultanze del PRA non avessero valore decisivo.

In conclusione, il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, nella misura indicata nel dispositivo.

Ricorrono altresì i presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, sicché va disposto il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da lui proposta, senza spazio per valutazioni discrezionali (Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014, Rv. 630550).

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro __ per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro __ e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 13 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2019.

 

Cass_civ_Sez_III_Ord_17_10_2019_n_26327




Esecuzione forzata: accertamento dell’obbligo del terzo

Esecuzione forzata: accertamento dell’obbligo del terzo 

Corte di Cassazione Civile, Sezione III, Ordinanza n. 26329 del 17/10/2019

Con ordinanza del 17 ottobre 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione III, in tema di fallimento, ha stabilito che nell’accertamento dell’obbligo del terzo, come disciplinato a seguito delle modifiche apportate agli artt. 548 e 549 c.p.c., il debitore esecutato è litisconsorte necessario, in quanto interessato all’accertamento del rapporto di credito oggetto di pignoramento, ancorché la pronuncia non faccia stato nei suoi confronti.


Corte di Cassazione Civile, Sezione III, Ordinanza n. 26329 del 17/10/2019

Esecuzione forzata: accertamento dell’obbligo del terzo 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. __ R.G. proposto da:

C, G. e D. – ricorrenti –

contro

I. S.p.A. – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ del Tribunale di Palermo depositata il __;

Udita la relazione svolta in camera di consiglio dal Consigliere Dott. __;

letta la sentenza impugnata;

letti il ricorso e il controricorso.

Svolgimento del processo

C., G. e D. sottoponevano a pignoramento tutte le somme a qualsiasi titolo depositate presso I. S.p.A., terzo pignorato. I. ometteva di rendere la dichiarazione di cui all’art. 547 c.p.c. e i creditori, previa notificazione dell’ordinanza di rinvio prevista dall’art. 548 c.p.c., ottenevano un’ordinanza di assegnazione per Euro ___ in base alla presunzione di non contestazione.

Contro tale ordinanza la banca proponeva opposizione, ex art. 617 c.p.c., chiedendone preliminarmente la sospensione. Il giudice dell’esecuzione respingeva l’istanza, disponendo per la prosecuzione del giudizio nel merito.

La banca introduceva l’opposizione agli atti esecutivi nella fase di merito. Nel frattempo, il collegio, adito ai sensi dell’art. 669-terdecies c.p.c., riformava l’ordinanza che aveva rigettato l’istanza di sospensione, sospendendo il processo esecutivo.

Infine, il Tribunale di Palermo, decidendo nel merito, accoglieva l’opposizione proposta da I. e annullava l’ordinanza di assegnazione resa in favore di C., G. e D.

Costoro hanno proposto ricorso straordinario, ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, basato su due motivi. I. ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

In considerazione dei motivi dedotti e delle ragioni della decisione, la motivazione del presente provvedimento può essere redatta in forma semplificata, conformemente alle indicazioni contenute nelle note del Primo Presidente di questa Corte del 14 settembre 2016 e del 22 marzo 2011.

Il ricorso è inammissibile in quanto l’esposizione dei fatti, richiesta dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, è insufficiente.

In particolare, risulta decisiva la circostanza che i ricorrenti abbiano omesso di indicare adeguatamente il nominativo del debitore esecutato, il quale è litisconsorte necessario nel giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo pignorato (Sez. 3, Sentenza n. 217 del 09/01/2007, Rv. 594666 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 10/05/2000, Rv. 536349 – 01).

Tale principio deve essere mantenuto fermo anche dopo le modifiche apportate agli artt. 548 e 549 c.p.c., che hanno trasformato tale giudizio in un accertamento incidentale con rito camerale devoluto alla cognizione funzionale diretta del giudice dell’esecuzione. Infatti, il giudizio è pur sempre rivolto all’accertamento dell’esistenza di un rapporto di dare/avere intercorrente fra il terzo pignorato e il debitore esecutato e quindi interessa anche quest’ultimo, sebbene la pronuncia non faccia stato nei suoi confronti. Tuttavia, l’esigenza di tutelare l’integrità del contraddittorio si avverte solamente nel caso in cui il terzo pignorato proponga opposizione agli atti esecutivi, nei casi previsti dall’art. 548 c.p.c., u.c. e dall’art. 549 c.p.c., giacché nella fase sommaria innanzi al giudice dell’esecuzione il debitore esecutato già partecipa al processo di espropriazione.

Tanto premesso, si deve rilevare che l’omessa indicazione, in ricorso, del nominativo del debitore esecutato impedisce a questa Corte di esercitare il potere-dovere di ordinare l’integrazione del contraddittorio. Si tratta, quindi, di una carenza espositiva decisiva, che determina l’inammissibilità del ricorso.

L’esposizione dei fatti è carente anche sotto altro profilo. Considerata la deduzione del vizio di ultrapetizione (primo motivo), i ricorrenti avrebbero dovuto quantomeno riportare espressamente le ragioni dell’opposizione proposta dalla banca, della quale invece si dice solamente, in modo molto generico, che era stata proposta solamente per dedurre un vizio di notifica.

In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico dei ricorrenti in solido, nella misura indicata nel dispositivo.

Ricorrono altresì i presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, sicché va disposto il versamento, da parte degli impugnanti soccombenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da loro proposta, senza spazio per valutazioni discrezionali (Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014, Rv. 630550).

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, il 13 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2019.

Cass_civ_Sez_III_Ord_17_10_2019_n_26329




Il credito sorto in funzione di una procedura concorsuale 

Il credito sorto in funzione di una procedura concorsuale 

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 27538 del 28/10/2019

Con ordinanza del 28 ottobre 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in tema di fallimento, il disposto dell’art. 111, comma 2 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267 deve essere inteso, tenuto conto della ratio della riforma volta a incentivare gli strumenti di composizione della crisi e a favorire la conservazione dei valori aziendali, nel senso che il credito sorto in funzione di una procedura concorsuale è senza dubbio anche quello sorto per ottenere la prestazione di servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali ex art. 67, comma 1, lett. g) del R.D. 16 marzo 1942 n. 267, quale l’attività prestata in favore dell’imprenditore poi dichiarato fallito, in funzione dell’ammissione del medesimo alla procedura di concordato preventivo, non rilevando la natura concorsuale del credito stesso, per essere sorto in periodo anteriore ai fallimento; prova ne sia che l’art. 182 quater, comma 2 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267 individua come crediti prededucibili anche i crediti sorti prima dell’apertura della procedura in funzione della presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo, rimanendo così confermato il significato dell’enunciato in funzione, che richiama il concetto di servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali utilizzato dall’art. 67, comma 1, lett. g) del R.D. 16 marzo 1942 n. 267 e della possibilità di intendere l’enunciato “strumentale a” come sinonimo di “funzionale”.


Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 27538 del 28/10/2019

Il credito sorto in funzione di una procedura concorsuale 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. __ proposto da:

Studio Legale Associato F. – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di AREZZO, depositato il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal cons. __;

lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso nei limiti indicati.

Svolgimento del processo

  1. Il Giudice delegato al fallimento di (OMISSIS) s.r.l. in liquidazione ammetteva al passivo della procedura il credito vantato dallo studio legale associato F. in misura ridotta (per Euro __ in privilegio e Euro __ in chirografo) rispetto alla somma richiesta e con collocazione differente rispetto alla prededuzione reclamata.

La riclassificazione e parziale esclusione del credito erano giustificate dal fatto che era emerso, in base agli accertamenti svolti dai Commissari giudiziali, un quadro del tutto inidoneo alla realizzazione del piano presentato dalla compagine debitrice con l’assistenza dello studio legale istante, tanto che la procedura concordataria, dapprima ammessa dal Tribunale, era stata in seguito revocata e la società proponente era stata dichiarata fallita.

  1. Il Tribunale di Arezzo, nel rigettare l’opposizione presentata dallo studio legale associato F.: i) osservava che la verifica circa la collocazione in prededuzione di un credito comportava in linea generale un’indagine di fatto, da operare ex ante e senza alcun automatismo, volta a verificare il ricorrere delle più generali categorie della funzionalità; ii) riteneva che, laddove il concordato fosse stato caducato a seguito dell’ammissione della procedura a causa della sua impossibilità giuridica, potesse presumersi l’inesistenza di un nesso di funzionalità, con la conseguente esclusione della prededuzione; iii) rilevava che nel caso di specie il Tribunale, nel revocare il concordato e pronunciare il fallimento, aveva accertato che il piano di risanamento non era sostenibile per mancanza di garanzie, i beni oggetti di contratto di affitto di azienda appartenevano a soggetti terzi e i valori di attivo e passivo andavano rideterminati in senso peggiorativo; iv) reputava di conseguenza che l’opera prestata dall’advisor legale non fosse funzionale alla procedura concorsuale, perché la domanda concordataria mancava ab origine dei requisiti di ammissibilità, nel senso accertato in maniera oramai intangibile nella sentenza di fallimento.
  2. Per la cassazione di tale decreto ha proposto ricorso lo studio legale associato F. prospettando due motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso il fallimento di (OMISSIS) s.r.l. in liquidazione.

Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte, ex art. 380 bis.1 c.p.c., sollecitando l’accoglimento del primo motivo di ricorso con assorbimento del secondo.

Parte controricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c.

Motivi della decisione

3.1 Il primo motivo di ricorso denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 111, comma 2, art. 67, comma 3, lett. g), L. Fall., artt. 161, 162, 163, 169 e 173 e art. 2697 c.c.: in tesi di parte ricorrente il Tribunale avrebbe erroneamente escluso la prededucibilità del suo credito nel successivo fallimento ritenendo che la revoca dell’ammissione alla procedura di concordato preventivo per difetto di fattibilità giuridica escludesse il rapporto di strumentalità e/o funzionalità rispetto alla procedura concorsuale e facesse così venir meno i presupposti previsti dalla L. Fall., art. 111 per il riconoscimento della prededucibilità del credito. Al contrario una simile collocazione doveva essere riconosciuta de plano ed indipendentemente dalla fattibilità del piano e dal conseguente giudizio di ammissibilità e omologa del concordato presentato, non essendo consentito al giudice di merito di valutare ex post e/o in concreto la funzionalità e la strumentalità di tali prestazioni.

3.2 Il motivo è fondato.

3.2.1 La giurisprudenza di questa Corte ha oramai da tempo intrapreso un percorso evolutivo volto ad affrancare la categoria dei crediti prededucibili in ragione del loro carattere funzionale dal presupposto di un controllo giudiziale sulla loro utilità.

In questa prospettiva interpretativa è stato dapprima sottolineato (Cass. n. 5098/2014) che anche ai crediti sorti anteriormente all’inizio della procedura di concordato preventivo, non occasionati dallo svolgimento della medesima procedura, può riconoscersi la prededucibilità ove sia applicabile il secondo criterio richiamato dalla L. Fall., art. 111, comma 2, quello cioè della funzionalità, o strumentalità, delle attività professionali da cui i crediti hanno origine rispetto alla procedura concorsuale; ciò in ragione della evidente ratio della norma, individuabile nell’intento di favorire il ricorso al concordato preventivo, nel quadro della riforma di tale procedura, diretta a predisporre un possibile strumento di composizione della crisi idoneo a favorire la conservazione dei valori aziendali.

Atteso che la medesima ratio sta alla base del disposto della L. Fall., art. 67, lett. g), (norma che sottrae alla revocatoria fallimentare i pagamenti dei debiti liquidi ed esigibili eseguiti dall’imprenditore per ottenere la prestazione di servizi strumentali all’accesso alla procedura di concordato preventivo), si è di conseguenza ritenuto che il nesso funzionale che, in caso di mancato pagamento, giustifica la prededucibilità dei crediti derivanti dalle prestazioni stesse, pur se sorti prima dell’inizio della procedura, sia ravvisabile nella strumentalità di queste prestazioni rispetto all’accesso alla procedura concorsuale minore.

È stato in seguito precisato (Cass. n. 6031/2014) che il disposto della L. Fall., art. 111, comma 2, deve essere inteso, tenuto conto della ratio della riforma volta a incentivare gli strumenti di composizione della crisi e a favorire la conservazione dei valori aziendali, nel senso che il credito sorto in funzione di una procedura concorsuale è senza dubbio anche quello sorto per ottenere la prestazione di servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali, L. Fall., ex art. 67, lett. g), quale l’attività prestata in favore dell’imprenditore poi dichiarato fallito in funzione dell’ammissione del medesimo alla procedura di concordato preventivo, non rilevando la natura concorsuale del credito stesso, per essere sorto in periodo anteriore al fallimento; prova ne sia che la L. Fall., art. 182-quater, comma 2, individua come crediti prededucibili anche i crediti sorti prima dell’apertura della procedura in funzione della presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo, rimanendo così confermato il significato dell’enunciato in funzione, che richiama il concetto di servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali utilizzato dalla L. Fall., art. 67, lett. g), e della possibilità di intendere l’enunciato “strumentale a” come sinonimo di “funzionale” (valutazione condivisa da Cass. n. 19013/2014).

Dunque secondo l’orientamento sopra riassunto i crediti sorti a seguito delle prestazioni rese in favore dell’imprenditore per la redazione della domanda di concordato preventivo e per la relativa assistenza rientrano fra quelli da soddisfarsi in prededuzione ai sensi della L. Fall., art. 111, comma 2, poiché questa norma individua un precetto di carattere generale, privo di restrizioni, che, per favorire il ricorso a forme di soluzione concordata della crisi d’impresa, introduce un’eccezione al principio della par condicio creditorum, estendendo in caso di fallimento la preducibilità a tutti i crediti sorti in funzione di precedenti procedure concorsuali (Cass. n. 1765/2015).

In altri termini la verifica del nesso di funzionalità/strumentalità deve essere compiuta controllando se l’attività professionale prestata possa essere ricondotta nell’alveo della procedura concorsuale minore e delle finalità dalla stessa perseguite secondo un giudizio ex ante, non potendo l’evoluzione fallimentare della vicenda concorsuale, di per sé sola e pena la frustrazione dell’obiettivo della norma, escludere il ricorso all’istituto.

Pertanto – secondo l’esemplificazione fatta da Cass. n. 280/2017 – la funzionalità è ravvisabile quando le prestazioni compiute dal terzo, per il momento ed il modo con cui sono state assunte in un rapporto obbligatorio con il debitore, confluiscano nel disegno di risanamento da quest’ultimo predisposto in modo da rientrare in una complessiva causa economico-organizzativa almeno preparatoria di una procedura concorsuale, a meno che non ne risulti dimostrato il carattere sovrabbondante o superfluo rispetto all’iniziativa assunta.

Nessuna verifica deve invece essere compiuta, ove alla procedura minore consegua il fallimento, in ordine al conseguimento di un’utilità in concreto per la massa dei creditori, concetto che non può essere confuso o sovrapposto a quello di funzionalità.

La collocazione in prededuzione prevista dalla L. Fall., art. 111, comma 2, costituisce infatti, come detto, un’eccezione al principio della par condicio che intende favorire il ricorso a forme di soluzione concordata della crisi d’impresa e rimane soggetta alla verifica delle sole condizioni previste dalla norma in parola.

L’utilità concreta per la massa dei creditori – a prescindere dal fatto che l’accesso alla procedura di concordato preventivo costituisce di per sé un vantaggio per i creditori ove si tenga conto degli effetti della consecuzione delle procedure, tra cui la cristallizzazione della massa e la retrodatazione del periodo sospetto ai fini dell’esperimento della revocatoria fallimentare, come ha ricordato Cass. n. 6031/2014 – non rientra invece nei requisiti richiesti e nelle finalità perseguite dalla norma in questione e non deve perciò essere in alcun modo indagata (Cass. n. 1182/2018).

Non vi è dubbio quindi che il credito del professionista che abbia funto da advisor legale nella predisposizione della domanda di concordato rientri tra i crediti sorti “in funzione” di quest’ultima procedura e, come tale, a norma della L. Fall., art. 111, comma 2, vada soddisfatto in prededuzione nel successivo fallimento, senza che, ai fini di tale collocazione, debba essere accertato, con valutazione ex post, che la prestazione resa sia stata concretamente utile per la massa in ragione dei risultati raggiunti.

3.2.2 Il collegio di merito, pur rivendicando il compito di valutare in fatto la funzionalità della prestazione professionale secondo un giudizio ex ante, ha applicato in maniera non corretta i principi poco prima affermati, spingendosi a teorizzare, in linea generale, che laddove il concordato preventivo, in precedenza ammesso, sia caducato per la sua impossibilità giuridica possa presumersi che il nesso di funzionalità non esista e che la prededuzione debba essere esclusa.

In realtà la valutazione del rapporto di funzionalità/strumentalità fra prestazione e procedura deve essere compiuta controllando – come detto – se l’attività professionale prestata potesse essere ricondotta nell’alveo della procedura concorsuale minore e delle finalità dalla stessa perseguite secondo un giudizio ex ante.

Il giudice di merito, nel compiere questa verifica in un’ottica di riconducibilità della prestazione alla struttura della procedura, deve invece astenersi dalla valutazione dei vizi che hanno minato l’iniziativa di risanamento e dell’ascrivibilità degli stessi alla prestazione del creditore istante (quale causa originaria o per aver condiviso errori altrui), poiché questo profilo di indagine riguarda invece, in una prospettiva giocoforza posteriore allo svolgimento dell’incarico, l’esattezza dell’adempimento (e la conseguente utilità in concreto che la prestazione era in grado di procurare) e intercetta un piano diverso rispetto a quello della mera funzionalità, concernente l’esistenza e la consistenza del credito.

E l’indagine su questo piano nel caso di specie non assumeva rilievo, dato che, con l’avvenuta parziale ammissione del credito in privilegio – non impugnata né dal curatore, né dalla parte -, si era formato il giudicato interno sul credito del professionista, limitatamente alla somma ammessa, rimanendo così da stabilire soltanto se la stessa dovesse essere collocata in prededuzione.

Pertanto, quando il collegio dell’opposizione all’interno del provvedimento, pur riconoscendo l’esistenza di un collegamento funzionale (nella parte in cui osserva che il fatto generatore è collegato a un’istanza di concordato), ha escluso la collocazione del credito in prededuzione in ragione della sua originaria inutilità (nel punto ove ritiene che “un concordato…. che sia in seguito dichiarato inammissibile perché il Tribunale ne accerti la carenza dei presupposti ovvero ne verifichi la inidoneità giuridica è da considerarsi ab origine inutile”), ha confuso – muovendosi in una prospettiva distonica rispetto ai principi sopra illustrati – il rapporto di funzionalità/strumentalità con l’esattezza dell’adempimento e la conseguente utilità conseguibile da parte dei creditori.

Così facendo il Tribunale ha negato la collocazione in prededuzione richiesta preoccupandosi di verificare in concreto la sussistenza di un beneficio per la procedura concorsuale (tramite la constatazione ex post che la prestazione professionale non era stata di alcuna utilità, dato che la stessa era convogliata in una procedura viziata per la sua impossibilità giuridica) senza tenere conto del collegamento, pur riconosciuto, fra prestazione professionale e procedura concordataria e valorizzare il medesimo in termini di funzionalità.

L’indagine, svolta sul piano dell’utilità conseguibile in concreto piuttosto che sotto il profilo della funzionalità dell’attività professionale prestata alle esigenze di risanamento proprie della procedura minore, si pone al di fuori dei parametri di valutazione da cui la L. Fall., art. 111, comma 2, fa discendere la collocazione in prededuzione e deve giocoforza essere rivista secondo la prospettiva di valutazione più corretta.

  1. L’accoglimento del primo motivo comporta l’assorbimento del secondo mezzo, con cui il ricorrente ha inteso lamentare, sempre ai fini della mancata ammissione in prededuzione del suo credito, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (costituito dalla qualità delle prestazioni svolte dall’advisor legale) e delle prove documentali nonché l’omesso accertamento fattuale dell’utilità per la massa delle prestazioni rese.
  2. In conclusione il provvedimento impugnato andrà dunque cassato, con rinvio al Tribunale di Arezzo, il quale, nel procedere a nuovo esame della causa, si atterrà ai principi sopra illustrati, avendo cura anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo, cassa il decreto impugnato in relazione al motivo accolto e rinvia la causa al Tribunale di Arezzo in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 26 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2019

 

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L’anteriorità del credito nell’applicabilità dell’istituto della compensazione fallimentare

L’anteriorità del credito nell’applicabilità dell’istituto della compensazione fallimentare

Tribunale Ordinario di Marsala, Sezione Civile, Sentenza del 02/10/2019

Con sentenza del 2 ottobre 2019, il Tribunale Ordinario di Marsala, Sezione Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che l’applicabilità dell’istituto della compensazione fallimentare prevede quale requisito essenziale l’anteriorità del credito rispetto alla procedura concorsuale, intesa nel senso dell’anteriorità del fatto genetico dell’obbligazione, quand’anche il credito sia divenuto liquido od esigibile dopo il fallimento. Di talché è sufficiente che i requisiti dell’art. 1243 c.c. ricorrano da ambedue i lati e sussistano al momento della pronuncia.


Tribunale Ordinario di Marsala, Sezione Civile, Sentenza del 02/10/2019

L’anteriorità del credito nell’applicabilità dell’istituto della compensazione fallimentare

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE ORDINARIO DI MARSALA

SEZIONE CIVILE

in composizione monocratica, nella persona del Dr. __, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di primo grado iscritta al n. __ R.G. vertente

TRA

P., A., S., T., L. e G.  – opponenti

E

C. Società Cooperativa in liquidazione coatta amministrativa – opposta

Oggetto: opposizione a precetto

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con atto di citazione notificato alla controparte il __ gli attori indicati in epigrafe hanno convenuto in giudizio la C.S.C. Società Cooperativa in liquidazione coatta amministrativa proponendo opposizione al precetto, loro notificato in data __ ad istanza di C. opposta, per l’importo complessivo di Euro __, da pagarsi in solido tra tutti gli opponenti, debito scaturente dalla sentenza n. __ della Sezione V del Tribunale di Palermo (sezione specializzata in materia di impresa) che, rigettata la domanda di annullamento della delibera di esclusione adottata dalla cooperativa, li aveva condannati in solido alla refusione, in favore di quest’ultima, delle spese legali, liquidate in Euro __ per il giudizio di reclamo ed Euro __ per quello di merito; hanno, in particolare eccepito la compensazione di tali debiti con i crediti, loro spettanti verso la società convenuta, in virtù di specifici titoli giudiziali, precisamente:

– la sentenza n. __ del Tribunale di Palermo del __ che aveva condannato C. al pagamento delle spese legali in favore, tra gli altri, di P., A., G., S., T. e L., oltre ad altri sette soci, liquidandole in complessivi Euro __ oltre IVA e CPA;

– la sentenza n. __ del Tribunale di Marsala che, riformando la sentenza n. __ del Giudice di Pace di Castelvetrano, aveva condannato C. a rifondere a S. le spese del doppio grado del processo, liquidate in Euro __, oltre accessori;

– la sentenza n. __ del Tribunale di Palermo sez. V che aveva condannato la medesima C. al pagamento in favore di G. delle spese legali di quel giudizio, liquidate in Euro __ oltre rimborso forfettario, IVA e CPA.

Hanno aggiunto che, in disparte tali titoli giudiziali, essi erano creditori di C. del valore di liquidazione della quota, non ancora loro corrisposto a seguito della delibera di esclusione, quota da rapportarsi, in relazione all’epoca dell’esclusione, all’esercizio sociale chiuso il __.

Hanno, inoltre contestato il titolo giudiziale posto in esecuzione da controparte quanto alla sussistenza della solidarietà passiva tra gli opponenti, chiedendo, infine, dichiararsi la responsabilità aggravata di C. ex art. 96 c.p.c., con conseguente condanna al risarcimento dei danni, per aver agito in executivis in base alla ridetta sentenza, pur nella consapevolezza della sussistenza di opposti crediti a favore degli odierni opponenti.

Costituitasi in giudizio, C. in l.c.a. ha contestato l’opposizione eccependo, innanzitutto, il difetto di legittimazione di G. e A., nei confronti dei quali non era stata intrapresa né minacciata alcuna azione esecutiva e, nel merito, l’inoperatività della chiesta compensazione sia per la pendenza della procedura concorsuale di liquidazione coatta, al cui ambito è rimesso in via esclusiva l’accertamento di crediti verso la cooperativa in l.c.a., sia per competere la materia della liquidazione della quota alla competenza funzionale del Tribunale delle Imprese.

La causa, dopo la formulazione di una proposta conciliativa ex art. 185 bis c.p.c., cui gli opponenti non hanno ritenuto di aderire, è stata istruita unicamente con la documentazione prodotta dalle parti, indi posta in decisione all’udienza del __ con concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c.

L’opposizione è infondata.

Va, in primo luogo dichiarato il difetto di legittimazione attiva di A. e G., ai quali non è stato notificato alcuno dei precetti oggetto del presente giudizio, che, dunque, non avevano titolo per opporre; e ciò al di là del rischio, pur sussistente, di una futura azione di rivalsa da parte dei coobbligati esecutati, dovendo comunque l’interesse ad agire, per sostenere e giustificare l’azione, essere concreto e attuale, caratteristiche, queste, che difettano nella situazione appena evidenziata.

Venendo al merito dell’opposizione, il suo nucleo fondamentale è costituito dall’eccezione di compensazione sollevata dagli opponenti, declinata in profili diversi, a seconda della natura e fonte del credito opposto.

In via del tutto preliminare, e prima di entrare in medias res, appare necessario esaminare la questione, sollevata dall’opposta, di improponibilità dell’eccezione di compensazione, secondo la quale l’accertamento dei crediti opposti in compensazione sarebbe precluso in questa sede, in quanto rimesso all’esclusiva sede amministrativa della procedura di liquidazione coatta amministrativa, cui è soggetta la società opposta, giusto decreto del __ dell’Assessorato delle Attività Produttive della Regione Siciliana.

A tal proposito è necessario ricordare che l’istituto della compensazione fallimentare (applicabile anche alla liquidazione coatta amministrativa per effetto del richiamo di cui all’art. 201 L.F.) è disciplinato all’art. 56 della Legge Fallimentare, ai sensi del quale “I creditori hanno diritto di compensare coi loro debiti verso il fallito i crediti che essi vantano verso lo stesso, ancorché non scaduti prima della dichiarazione di fallimento …” (In termini del tutto analoghi si esprime oggi l’art. 155 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza – D.Lgs. n. 14 del 2019 norma comunque non applicabile ratione temporis al caso di specie, che recita: “I creditori possono opporre in compensazione dei loro debiti verso il debitore il cui patrimonio è sottoposto alla liquidazione giudiziale i propri crediti verso quest’ultimo, ancorché non scaduti prima dell’apertura della procedura concorsuale”).

Secondo l’interpretazione del tutto unanime della norma citata, requisito essenziale affinché sia applicabile la compensazione fallimentare è l’anteriorità del credito rispetto alla procedura concorsuale, intesa nel senso dell’anteriorità del fatto genetico dell’obbligazione, quand’anche il credito sia divenuto liquido od esigibile dopo il fallimento, con la conseguenza che è sufficiente che i requisiti dell’art. 1243 c.c. ricorrano da ambedue i lati e sussistano al momento della pronuncia (cfr. Cass. Civ., Sez. I, 31.8.2010, n. 18915).

Inoltre va qui prestata condivisione all’orientamento giurisprudenziale consolidato secondo il quale “Nel giudizio proposto dagli organi della liquidazione coatta amministrativa per ottenere la condanna al pagamento di un debito di un terzo nei confronti della debitrice sottoposta alla procedura concorsuale, l’eccepibilità in compensazione di un credito dello stesso terzo verso la debitrice non è condizionata alla preventiva verificazione di tale credito, purché sia stata fatta valere come eccezione riconvenzionale; con quest’ultima, infatti, sono introdotte richieste che, restando nell’ambito della difesa, ampliano il tema della controversia, ma al solo fine di conseguire la reiezione della domanda, dato che al diritto fatto valere dall’attore viene opposto un diritto idoneo a paralizzarlo, mentre con la vera e propria domanda riconvenzionale il convenuto, traendo occasione da quella avanzata nei suoi confronti, chiede un provvedimento giudiziale a sé favorevole, che gli attribuisca beni determinati in contrapposizione a quelli richiesti con la domanda principale. Ne consegue che solamente con riferimento all’eventuale eccedenza del credito del terzo verso il debitore non può essere pronunciata sentenza di condanna nei confronti della procedura, dovendo per essa essere proposta un’autonoma istanza di insinuazione al passivo” (ex multis Cass. n. 64 del 10/01/2012; Tribunale Prato, 03/11/2016; Cass n. 19218 del 28/09/2016; Cass. Ordinanza n. 30298 del 18/12/2017).

Ne consegue che la mera eccezione di compensazione, nei termini in cui è stata proposta dagli opponenti, appare proponibile nel presente giudizio, in quanto diretta esclusivamente a paralizzare l’azione esecutiva promossa da C. convenuta.

Sempre in punto di proponibilità dell’eccezione in parola, può ancora aggiungersi in via generale che la compensazione, quale fatto estintivo dell’obbligazione, può essere dedotta come motivo di opposizione all’esecuzione forzata, fondata su titolo esecutivo giudiziale coperto dalla cosa giudicata, soltanto qualora il credito fatto valere in compensazione, rispetto a quello per cui si procede, sia sorto successivamente alla formazione di quel titolo, mentre in caso contrario resta preclusa dalla cosa giudicata, che impedisce la proposizione di fatti estintivi od impeditivi ad essa contrari.

Ebbene, va subito precisato che tale principio generale non può trovare applicazione nel nostro caso; ciò in quanto, pur essendo il titolo esecutivo rappresentato da una sentenza (la cui definitività non è stata oggetto di contestazione tra le parti), il credito precettato è rappresentato dalla condanna alle spese legali di quel processo; pertanto, non essendo venuto in considerazione, in quel giudizio, l’accertamento di un credito di C. verso i soci (l’oggetto del giudizio era l’impugnazione della delibera assembleare di esclusione degli odierni opponenti), e non prestandosi, dunque, quel thema decidendum alla prospettazione di un’eccezione di compensazione, deve sostenersi la sua ammissibilità in questa sede, quand’anche i crediti di fonte giudiziale trovino titolo in sentenze anteriori a quella posta qui in esecuzione, non essendovi altro mezzo, per gli odierni opponenti, di fare valer tale forma di estinzione del credito.

Pur apparendo proponibile, dunque, l’eccezione in parola è tuttavia infondata.

Infatti, sia il credito nascente dalla sentenza del Tribunale di Palermo del __ (pubblicata il __) che quello nascente dalla sentenza del Tribunale di Marsala del __ sono sorti dopo l’apertura della procedura di liquidazione coatta, disposta con decreto del __, trovando titolo esclusivamente nel provvedimento di liquidazione delle spese di lite, adottato con le citate sentenze, venute ad esistenza giuridica con la loro pubblicazione, avvenuta in data successiva al decreto assessoriale citato.

Per tale verso, la compensazione invocata non può avere luogo con riferimento a tali crediti, non rispondendo al requisito fondamentale sancito dall’art. 56 L.F., ossia l’anteriorità del credito rispetto all’inizio della procedura.

Né può rilevare, a tal fine, il credito portato dalla sentenza n__, peraltro vantato dal solo A. privo, come si è detto, di legittimazione al presente giudizio.

Venendo ai crediti che gli opponenti vantano con riferimento al loro diritto di liquidazione della quota sociale, occorre ricordare il principio di recente chiarito dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, a seguito in un contrasto registratosi presso la terza sezione della Corte medesima, principio che merita senz’altro condivisione, secondo il quale: “L’art. 1243 c.c. stabilisce i presupposti sostanziali ed oggettivi del credito opposto in compensazione, ossia la liquidità, inclusiva del requisito della certezza, e l’esigibilità. Nella loro ricorrenza, il giudice dichiara l’estinzione del credito principale per compensazione legale, a decorrere dalla sua coesistenza con il controcredito e, accogliendo la relativa eccezione, rigetta la domanda, mentre, se il credito opposto è certo ma non liquido, perché indeterminato nel suo ammontare, in tutto o in parte, egli può provvedere alla relativa liquidazione, se facile e pronta, e quindi può dichiarare estinto il credito principale per compensazione giudiziale sino alla concorrenza con la parte di controcredito liquido, oppure può sospendere cautelativamente la condanna del debitore fino alla liquidazione del controcredito eccepito in compensazione”. (Cass. SS. UU., Sentenza n. 23225 del 15/11/2016).

Peraltro, in quell’occasione, la Suprema Corte ha avuto altresì modo di precisare che “La disciplina contenuta nell’ art. 1243 secondo comma c.c. consiste nell’inoperatività dell’eccezione di compensazione, sia legale che giudiziale, se è controverso l’an del controcredito, analogamente al caso in cui il credito opposto in compensazione non è di pronta e facile liquidazione (Cass. 10352/1993, cit.). Il giudice del credito principale ha o la possibilità di dichiarare la compensazione per la parte di controcredito già liquida, o di sospendere, eccezionalmente, la condanna del credito principale fino alla liquidazione di tutto il credito opposto in compensazione, ma non di ritardare la decisione sul credito principale fino all’ accertamento, da parte di egli stesso o di altro giudice, dell’ esistenza certa di quello opposto in compensazione; altrimenti sarebbe pleonastico il sintagma di pronta e facile liquidazione richiesto dalla norma”. Ha, inoltre, aggiunto: “Non solo la disciplina speciale contenuta nell’art. 1243 c.c. consente la sospensione cautelativa della decisione sul credito principale soltanto se il credito opposto in compensazione è di facile e pronta liquidazione, ma sia il conferimento di questo potere al giudice del credito principale, sia la finalità con esso perseguita, postulano che il giudizio prosegua dinanzi al giudice del credito principale per consentirgli di effettuare la valutazione e la liquidazione del controcredito prevista dalla norma. E quindi, come nel caso in cui l’accertamento del credito opposto in compensazione non sia facile e pronto il giudice del credito principale, per espressa previsione normativa, non ha il potere di sospendere la decisione su quest’ ultimo, ma deve immediatamente decidere su di esso, così a maggior ragione non può sospenderne la decisione a norma degli artt. 295 o 337 secondo comma c.p.c. che certamente gli precludono qualsiasi valutazione di pronta o facile liquidazione del controcredito in quanto spettante al giudice competente”.

Calati i suesposti principi al caso di specie, non si può fare a meno di osservare che il controcredito consistente nel valore di liquidazione della quota, spettante agli opponenti, non è certamene un credito di pronta o facile liquidazione, richiedendo, come ammesso dagli stessi opponenti, un’indagine tecnica affidabile ad un CTU, data la complessità degli accertamenti contabili ad essa funzionali; a ciò si aggiunga che tale accertamento (quand’anche sottratto alla sede concorsuale, nei limiti di efficacia della mera eccezione) non sfugge alla competenza della Sezione Specializzata in materia di Imprese, presso il Tribunale di Palermo, ex art. 3 comma 2 lett. B) e comma 3 D.Lgs. n. 168 del 2003, rientrando nell’ambito delle controversie relative ai diritti inerenti alle partecipazioni sociali nelle società di cui al libro V, titolo V e VI del codice civile, ivi comprese, a norma del comma 3 del citato art. 3 anche le cause e i procedimenti che presentano ragioni di connessione con quelli di cui ai commi 1 e 2, costituendo tale ultima disposizione una speciale applicazione dei criteri di spostamento di competenza per connessione regolati dagli artt. 39 e ss. c.p.c.

La sussistenza di queste due circostanze, in adesione all’insegnamento della Suprema Corte, non può che indurre a rigettare l’eccezione di compensazione, anche con riferimento al credito, ancora non liquido, relativo alla liquidazione delle quote sociali, la cui determinazione compete ad altro giudice.

L’opposizione va pertanto rigettata.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo, anche in considerazione dell’ingiustificato rifiuto della proposta conciliativa avanzata dal giudice.

P.Q.M.

Il Tribunale di Marsala, Sezione civile, nella composizione in epigrafe, definitivamente pronunciando, rigettata e/o assorbita ogni ulteriore domanda e/o eccezione, così provvede:

rigetta l’opposizione proposta avverso l’atto di precetto notificato agli opponenti il __ ad istanza della C. Società Cooperativa in l.c.a.;

condanna gli opponenti in solido tra loro a rifondere all’opposta le spese di lite che liquida in complessivi Euro __ per compensi professionali, oltre al rimborso forfettario spese generali del 15% ed accessori di legge (IVA e CPA).

Così deciso nella camera di consiglio del Tribunale di Marsala in data 1° ottobre 2019.

Depositata in Cancelleria il 2 ottobre 2019.

 

Tribunale_Marsala_Sent_02_10_2019




Recupero crediti e reciproche concessioni

Recupero crediti e reciproche concessioni

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 26528 del 17/10/2019

Con ordinanza dell’11 ottobre 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione VI, Sottosezione 1, in tema di recupero crediti, ha stabilito che le reciproche concessioni alle quali fa riferimento l’art. 1965, comma 1, c.c., possono riguardare anche liti future non ancora instaurate ed eventuali danni non ancora manifestatisi, purché questi ultimi siano ragionevolmente prevedibili; il relativo accertamento è riservato all’apprezzamento del giudice del merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione logica e completa.


Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 26528 del 17/10/2019

Recupero crediti e reciproche concessioni

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – rel. Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso proposto da:

A. – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – controricorrente –

per la cassazione della sentenza App. Firenze del __, n. __, R.G. n. __, Rep. n. __;

udita la relazione della causa svolta dal Consigliere relatore Dott. __ alla camera di consiglio del __;

Il Collegio autorizza la redazione del provvedimento in forma semplificata, giusto decreto __, n. __ del Primo Presidente.

Svolgimento del processo

Rilevato che:

  1. A. impugna la sentenza App, Firenze del __, n. __, R.G. n. __, Rep. n. __ che, in accoglimento dell’appello promosso dal Fallimento (OMISSIS) S.r.l. avverso la sentenza Tribunale di Firenze __, ha dichiarato non procedibili le domande di condanna già rivolte verso il Fallimento e dirette a ottenere in favore dell’attore A. (e B.), la restituzione di somme e l’inefficacia della rinuncia ad un credito professionale; era così anche rigettata l’opposizione a precetto proposta da A. (e B.) e ogni altra domanda contro il Fallimento, con revoca della sospensione giudiziale dei titoli esecutivi, nonché delle pronunce stesse e condanna alle spese;
  2. all’esito del primo giudizio, era stata dichiarata invalida (con richiamo all’art. 1973 c.c.) la transazione, conclusa tra A. e il fallimento nel __, con cui, a seguito della sentenza di primo grado affermativa della responsabilità penale del primo, recante altresì condanna a provvisionale per __ Euro, le parti pervenivano ad un complessivo accordo con pagamento alla procedura di __ Euro, rinuncia al credito professionale già ammesso al passivo per __ Euro, impegno titolato al pagamento di ulteriori __ Euro in tre rate con garanzia ipotecaria rilasciata da B.; la pronuncia di nullità della transazione derivava, per il tribunale, dall’assoluzione in sede penale d’appello dell’avvocato A., con ogni revoca delle pronunce di condanna civile e così si giustificava anche l’ordine di restituzione dei __ Euro nel frattempo già versati, l’inefficacia e invalidità della rinuncia al credito concorsuale, la cancellazione dell’ipoteca; la transazione sarebbe stata invero determinata da un errore sulla prima pronuncia di condanna, inducente le parti a transigere sulla sbagliata previsione di una mancata riforma in appello;
  3. la corte d’appello, con una prima statuizione, ha ritenuto improcedibili davanti al giudice fiorentino, adito con l’opposizione a precetto, la domanda di restituzione della tranche pagata al fallimento di __ Euro e parimenti la declaratoria d’inefficacia del a rinuncia al credito professionale insinuato, trattandosi di crediti sorti dopo la dichiarazione di fallimento resa nei confronti di (OMISSIS), vantati verso la massa e prededucibili e la cui sorte andava decisa dal tribunale concorsuale, i sensi della L. F., artt. 52 e 111 bis; era invece appartenente alla cognizione del giudice ordinario e senza riferimento alla L. F., art. 24, la stessa causa di opposizione ex art. 615 c.p.c., ove diretta alla pronuncia d’invalidità della transazione sottostante il riconoscimento di debito con autorizzazione all’iscrizione d’ipoteca che, come titolo esecutivo, fondava l’azione esecutiva preannunciata con il precetto opposto, ma che non risultava ancora iniziata e si correlava ad un’iniziativa del curatore, in mera occasionalità con il fallimento e dunque correttamente radicata ex artt. 26 e 27 c.p.c.;
  4. ha ritenuto la corte insussistente l’invalidità della transazione, cioè del rapporto fondamentale sottostante il più ampio obbligo assunto da A., poiché con l’accordo del __ le parti intendevano risolvere definitivamente ogni contenzioso in essere, articolato nel giudizio di opposizione allo stato passivo (con A. soccombente e condannato alle spese), nella provvisionale per __ Euro decisa in primo grado dal tribunale penale di Brescia con la condanna, nella costituzione di parte civile del fallimento e comunque prevenire l’insorgenza di ulteriori contenziosi, senza definire qua e sussistente la stessa responsabilità di A. e perciò risultando irrilevante la citata successiva assoluzione; ha aggiunto la corte che la res dubia era complessivamente data dall’insieme delle cause fra le parti, cioè le questioni risarcitorie collegate al procedimento penale e le posizioni soggettive nascenti dall’attività professionale, entrambe oggetto di contestazione; proprio a seguito della stipulata transazione, la curatela faceva venire meno il proprio contributo accusatorio nel processo penale, in coerenza con il tenore dell’accordo ciò ne voleva l’irrilevanza; di qui l’erroneità dei richiami tanto all’art. 1974 c.c. (sul giudicato penale ignorato) che all’art. 1973 c.c. (sulla scoperta tardiva della falsità documentale);
  5. il ricorso è su cinque motivi, ad esso resiste il fallimento con controricorso.

Motivi della decisione

Considerato che:

  1. con il primo motivo si contesta la violazione degli artt. 26 e 27 c.p.c. e L.F., artt. 52 e 111 bis, avendo errato la corte nel ritenere l’improcedibilità avanti al giudice ordinario (dell’opposizione esecutiva) delle domande di restituzione dei __ Euro versati e di inefficacia della rinuncia all’ammissione al passivo del credito professionale, essendo esse solo collegate alla richiesta di declaratoria di nullità della transazione;
  2. con il secondo motivo viene contestata la violazione del giudicato formatosi sulla sentenza della corte d’appello penale, in relazione agli artt. 1974, 2908 e 2909 c.c., posto che tale decisione ha altresì revocato le statuizioni civili in favore, tra gli altri, del fallimento in esame ed è divenuta definitiva, così determinando il venire meno del presupposto che costituiva l’unica ragione della transazione;
  3. il terzo motivo enuncia il vizio di motivazione, invocando, sotto altro profilo, l’omesso esame della sentenza penale assolutoria, principale argomento di discussione tra le parti;
  4. il quarto motivo, avanzato in via subordinata, deduce la violazione degli artt. 1362, 1366 e 1965 c.c., ove il tribunale ha omesso di apprezzare la nullità/annullabilità della transazione avendo riguardo alla presupposizione, dato che la responsabilità penale del ricorrente aveva assunto ruolo preponderante nel determinarsi le pari all’accordo;
  5. con il quinto motivo, ancora in subordine, è censurata la violazione degli artt. 1969 e 1972 c.c., risultando non considerato sia l’errore sulla responsabilità penale (esclusa per il ricorrente e con negazione della stessa legittimazione ad agire del curatore, in altri processi penali) sia la nullità del titolo (tale essendo la sentenza di condanna penale, travolta dalla pronuncia di grado successivo);
  6. il Collegio premette che l’eccezione di inammissibilità del ricorso, per tardività, non è fondata; secondo il tenore della sentenza impugnata, le domande di condanna a carico del fallimento a restituire Euro __ e a subire la dichiarazione d’inefficacia della rinuncia al credito professionale di A. erano da considerarsi, già davanti al tribunale ordinario, improcedibili, ostando alla prosecuzione dei giudizi così instaurati la prevalenza del cd. foro fallimentare L.F., ex art. 52, e la competenza funzionale del giudice delegato per ogni credito fatto valere verso la massa, L.F., ex art. 111 bis; tali iniziative processuali, sulla base del principio di affidamento nella qualificazione giudiziale da esse ricevute e dell’apparenza (Cass. 171/2012), sono diverse dalla ordinaria opposizione al precetto, per quella parte in cui – in via altresì autonoma – è stata investita la validità della transazione fra le parti; ne consegue che la sospensione feriale dei termini, non operando solo per il giudizio instaurato ex art. 615 c.p.c. e avuto riguardo alle decisioni di merito ivi assunte in sede di appello, non determina un identico trattamento delle citate domande restitutorie e di nullità della rinuncia al credito, sostanzialmente fatte valere pur con il medesimo strumento ma, nella considerazione del giudice d’appello, del tutto autonome, con conseguente assoggettamento al regime ordinario di tutte le impugnazioni cumulativamente introdotte e mai separate; nella specie risulta così rispettato, con l’unico ricorso, il principio per cui “qualora si trovino cumulate fra loro, per ragioni di connessione, due o più controversie, soltanto una delle quali sia soggetta al regime della sospensione feriale dei termini, la decisione che intervenga su di esse senza sciogliere tale connessione è soggetta all’applicazione della menzionata sospensione, non essendo concepibile l’operare di due regimi distinti, né l’inoperatività della sospensione per tutta la controversia, potendo ‘impugnazione coinvolgere la decisione con riferimento ad entrambe le domande connesse” (Cass. 7824/2017, 8113/2013);
  7. il primo motivo è inammissibile, poiché esso mira ad infirmare la competenza funzionale del giudice delegato del fallimento (OMISSIS) S.r.l., opposta dal relativo organo avverso la pretesa, avanzata avanti al giudice ordinario ai sensi degli artt. 26 e 27 c.p.c., con cui il ricorrente ha svolto specifica istanza di pagamento sia della somma di __ Euro, in un primo tempo versata alla procedura in sede di stipala della transazione, sia del credito professionale, ammesso al passivo: privilegiato e poi rinunciato, ancora per effetto della citata transazione; osserva il Collegio che sia la domanda di restituzione che quella di pagamento subiscono, poiché rivolte alla curatela fallimentare, una immediata reiscrizione nell’area della concorsualità, palesando il primo credito natura prededucibile e il secondo, ove reimmesso nello stato passivo dopo esservi stato espunto per rinunzia del creditore insinuato, una altrettanto certa qualità (da privilegiato) di portata concorsuale; ne deriva che si tratta di domande che, ai sensi della L.F., artt. 52 e 111 bis, debbono essere trattate con le modalità del Capo V del Titolo II della L.F. (Cass.,. 118/2016, 9623/2010), non sussistendo nemmeno – in virtù della pacifica contestazione emersa – i requisiti per un riconoscimento diretto da parte del giudice delegato;
  8. i restanti motivi, da esaminare congiuntamente perché connessi, sono inammissibili; la Corte fiorentina, secondo un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, ha ricostruito la res dubia alla base della transazione tra le parti quale involgente la complessiva posizione di debito – credito tra il fallimento e il professionista; per essa, rilevata la specifica inammissibilità del terzo motivo (Cass. SS.UU. 8053/2014), va ribadito che “in tema di transazione, le reciproche concessioni alle quali fa riferimento l’art. 1965 c.c., comma 1, possono riguardare anche liti future non ancora instaurate ed eventuali danni non ancora manifestatisi, purché questi ultimi siano ragionevolmente prevedibili; il relativo accertamento è riservato all’apprezzamento del giudice del merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione logica e completa” (Cass. 12320/2005, 2633/1982);
  9. quanto al rapporto con la vicenda penale e a responsabilità del ricorrente, è pacifico che il presupposto della res dubia, che caratterizza la transazione, “è integrato non dalla incertezza obiettiva circa lo stato di fatto o di diritto, ma dalla sussistenza di discordanti valutazioni in ordine alle correlative situazioni giudiziali ed ai rispettivi diritti ed obblighi delle parti… nessuna incidenza sulla validità e sulla efficacia del negozio può attribuirsi all’accertamento ex post della assoluta infondatezza di una delle contrapposte pretese” (Cass. 4448/1996, 6861/2003); e ciò proprio perché “la prevenzione della lite, o il suo superamento e non quindi un astratto accertamento del contenuto esatto ed effettivo della res dubia – costituiscono quel che è causa/scopo funzionale che muove le parti a transigere” (Cass. 2784/2019); nella vicenda è pacifico che la transazione conclusa fra le parti ha definito ogni tipo di eventuale responsabilità di A. verso la massa dei creditori, coinvolgendo altresì le sue stesse posizioni di creditore concorsuale (ivi incluso l’obbligo alle spese de l’opposizione allo stato passivo) e così deducendo nelle reciproche concessioni una forfettizzazione di ogni possibile pregiudizio alla massa dei creditori e altrettanto possibile esposizione debitoria del ricorrente; tant’è che la stessa ricognizione di debito assistita da garanzia ipotecaria di terzo era parte del più ampio accordo connotativo di una transazione generale e novativa di ogni controversia pendente e potenziale fra le parti;
  10. proprio la mancanza allora di un riconoscimento di responsabilità da parte dell’avvocato A. (ben diversa dalla citata ricognizione di debito raccolta dal notaio e conseguente alla transazione) toglie ragione alle doglianze manifestate in punto di pretesa invalidità della transazione per venuta meno della responsabilità penale del ricorrente, circostanza che non ne costituiva né il presupposto espresso né quel implicito (questione peraltro apparentemente nuova e, già come tale, di per sé inammissibile); ne deriva la totale inconferenza anche dei richiami agli istituti ci cui agli artt. 1969 e 1972 c.c., non potendosi ovviamente discorrere della sentenza penale di primo grado (per come riformata in appello) quale titolo nullo e, ancor meno ed ex art. 1973 c.c., di pretesa falsità ci essa come documento, nozione altrettanto inappropriata; né svolge alcuna utilità il passaggio in giudicato della sentenza penale assolutoria, posto che la curatela, dopo la transazione, non aveva proseguito alcun giudizio ed invero, coerentemente alle intese, aveva revocato la costituzione di parte civile in quella sede, perdendo ogni legittimazione in tema;
  11. il ricorso va dunque dichiarato inammissibile; ne consegue la condanna del ricorrente alle spese secondo la regola della soccombenza e liquidazione come meglio da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento di legittimità, liquidate in Euro __ (di cui Euro __ per esborsi), oltre al 15% a forfait sui compensi e agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 9 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2019

 

Cass_civ_Sez__Ord_17_10_2019_n_26528




Le sanzioni pecuniarie per la violazione di leggi tributarie costituiscono un credito

Le sanzioni pecuniarie per la violazione di leggi tributarie costituiscono un credito

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 25854 del 14/10/2019

Con ordinanza del 14 ottobre 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in tema di recupero crediti, ha stabilito che le sanzioni pecuniarie per la violazione di leggi tributarie, commesse in data antecedente al fallimento del contribuente, costituiscono un credito che soggiace all’applicazione di tutte le regole civilistiche, sia che si verta in una fase fisiologica del rapporto obbligatorio, sia che si verta nell’ambito di una procedura concorsuale, dovendo l’Amministrazione soddisfarsi secondo le regole del concorso, nei modi stabiliti dalla legge. Pertanto, è infondata l’eccezione per la quale, in costanza di fallimento, l’esigibilità delle sanzioni tributarie dovrebbe essere congelata, potendo l’Amministrazione finanziaria farle valere esclusivamente una volta che il fallito sia tornato in bonis, sia perché il fallimento non equivale alla morte dell’imprenditore, tanto che con esso il contribuente non viene privato della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario, sia perché la postergazione del pagamento dei crediti derivanti dalle sanzioni pecuniarie violerebbe la disciplina imperativa di cui all’art. 2752 c.c. e diverrebbe un modo per sfuggire al pagamento delle sanzioni amministrative in danno dell’erario.


Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 25854 del 14/10/2019

Le sanzioni pecuniarie per la violazione di leggi tributarie costituiscono un credito

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

Fallimento (OMISSIS) S.a.s. – ricorrente –

contro

E. S.p.A. – controricorrente –

avverso l’ordinanza del TRIBUNALE di FIRENZE, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal Cons., Dott. __.

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Firenze, con ordinanza n. __ pubblicata il __, ha rigettato l’impugnazione proposta dalla curatela fallimentare avverso l’ammissione in via privilegiata di E. al passivo del fallimento della (OMISSIS) S.a.s., relativamente all’importo di __ Euro, a titolo di sanzioni tributarie.

La Corte territoriale in particolare rilevava che secondo lo steso tenore letterale dell’art. 2752 c.c. le sanzioni dovute in materia Iva erano assistite da privilegio generale e che l’eccezione di illegittimità costituzionale di tale disposizione doveva ritenersi manifestamente infondata, nonostante l’indubbio carattere afflittivo della stessa: la sanzione infatti non colpisce un soggetto terzo, non potendo attribuirsi tale qualifica al fallimento, che integra una procedura concorsuale di gestione dell’insolvenza, posto che dalla dichiarazione di fallimento non deriva la successione del fallimento alla debitrice, ma il mero spossessamento della medesima.

Avverso detto decreto propone ricorso, con due motivi, la curatela del fallimento (OMISSIS) S.a.s.

E. resiste con controricorso.

Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso denuncia violazione di legge, censurando la statuizione della sentenza impugnata con la quale è stata respinta l’eccezione della curatela fallimentare, sul rilievo che la natura afflittiva del credito sanzionatorio non varrebbe a sottrarre detto credito all’ammissione allo stato passivo fallimentare.

La ricorrente deduce che dall’afflittività che caratterizza il sistema delle sanzioni tributarie discenderebbe il carattere strettamente personale delle stesse, che impedirebbe di trasferirne il peso su un soggetto diverso dall’autore dell’illecito.

Ad avviso della ricorrente tali argomenti non sarebbero contraddetti dalla disposizione dell’art. 2752 c.c. (nella formulazione successiva alle modifiche apportate dal D.L. n. 98 del 2011), che opererebbe su un piano distinto da quello concernente la formazione dello stato passivo fallimentare, in quanto essa opererebbe nell’ambito delle sole procedure esecutive di carattere non concorsuale, nelle quali non si dà luogo alla liquidazione dell’intero patrimonio del debitore.

Il motivo è inammissibile, in quanto non attinge la ratio della statuizione impugnata.

La Corte territoriale ha rilevato che il carattere afflittivo della sanzione non è incompatibile con l’operatività del privilegio generale, espressamente sancita dall’art. 2752 c.c.

L’assoggettamento del debitore a procedura concorsuale non implica successione nella titolarità delle relative situazioni giuridiche ma mero spossessamento del debitore, onde non è ravvisabile alcuna modifica o traslazione del soggetto passivo del tributo, attuandosi unicamente il concorso del credito per sanzioni, secondo i principi generali, con gli altri crediti nei confronti della debitrice.

Tale statuizione è conforme a diritto.

Come questa Corte ha già rilevato, le sanzioni pecuniarie per la violazione di leggi tributarie commesse in data antecedente al fallimento del contribuente, costituiscono un credito che soggiace all’applicazione di tutte le regole civilistiche, sia che si verta in una fase fisiologica del rapporto obbligatorio, sia che si verta nell’ambito di una procedura concorsuale, dovendo l’Amministrazione soddisfarsi secondo le regole del concorso, nei modi stabiliti dalla legge. Pertanto, è infondata l’eccezione per la quale, in costanza di fallimento, l’esigibilità delle sanzioni tributarie dovrebbe essere congelata, potendo l’amministrazione finanziaria farle valere esclusivamente una volta che il fallito sia tornato in bonis, sia perché il fallimento non equivale alla morte dell’imprenditore, tanto che con esso il contribuente non viene privato della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario, sia perché la postergazione del pagamento dei crediti derivanti dalle sanzioni pecuniarie violerebbe la disciplina imperativa di cui all’art. 2752 c.c. e diverrebbe un modo per sfuggire al pagamento delle sanzioni amministrative in danno dell’erario (Cass. 23322/2018).

Va altresì rilevata la manifesta infondatezza dell’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 2752 c.c., che prevede espressamente il privilegio generale del credito per sanzioni derivanti da violazioni iva, attesa la discrezionalità del legislatore nell’attribuzione di qualifica privilegiata in ragione della particolare causa del credito, cui non osta, evidentemente, il carattere afflittivo della sanzione.

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., in relazione alla statuizione della sentenza impugnata che ha condannato la curatela fallimentare alla refusione delle spese di lite, pur a fronte della novità della questione.

Il motivo è infondato, dovendo farsi applicazione del consolidato indirizzo di questa Corte secondo cui in tema di spese processuali, la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione, con una espressa motivazione, del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (Cass. 11329/2019).

Nel caso di specie, peraltro, il Tribunale ha specificamente rilevato che la condanna alle spese derivava dalla soccombenza integrale della curatela e dal fatto che l’orientamento adottato era già stato affermato da precedente pronuncia del medesimo Tribunale.

Il ricorso va dunque respinto e le spese, regolate secondo soccombenza, si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente alla refusione delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi __ Euro, di cui __ Euro per esborsi, oltre al rimborso forfettario spese generali in misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 10 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2019

 

Cass_civ_Sez_I_Ord_14_10_2019_n_25854




Revocatoria fallimentare: nozione di mezzo anormale di pagamento

Revocatoria fallimentare: nozione di mezzo anormale di pagamento

Corte di Cassazione Civile, Sezione VI, Sottosezione 1, Ordinanza n. 25725 del 11/10/2019

Con ordinanza dell’11 ottobre 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione VI, Sottosezione 1, in tema di revocatoria fallimentare, ha stabilito che la nozione di mezzo (a)normale di pagamento, di cui all’art. 67, comma 1, n. 2 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267 si polarizza sul parametro dei mezzi comunemente accettati nella comune pratica commerciale, considerata rispetto a un dato periodo temporale e rispetto a una data zona di mercato.


Corte di Cassazione Civile, Sezione VI, Sottosezione 1, Ordinanza n. 25725 del 11/10/2019

Revocatoria fallimentare: nozione di mezzo anormale di pagamento

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

Fallimento (OMISSIS) S.r.l.  – ricorrente –

contro

S. DI S. & C. S.n.c. – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della Corte d’Appello di Venezia, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del __ dal Consigliere Relatore Dott. __.

Svolgimento del processo

1.- Nel novembre del __, il Fallimento della S.r.l. (OMISSIS) ha promosso avanti al Tribunale di Vicenza azione revocatoria fallimentare L.F., ex art. 67, comma 1, n. 2 nei confronti di S. S.n.c. L’azione ha riguardato il pagamento, da parte della società poi fallita, di debiti sussistenti nei confronti del convenuto in revocatoria, avvenuto per il mezzo di girata apposta su cambiale tratta dal debitore all’ordine proprio, non accettata dal trattario (R. S.r.l.) e peraltro da quest’ultimo poi onorata alla scadenza.

Con sentenza depositata in data __, il Tribunale ha accolto la richiesta del Fallimento, rilevando nella fattispecie la effettiva ricorrenza di un mezzo anormale di pagamento e la mancata prova, da parte del convenuto, della inscientia decoctionis.

2.- S. S.n.c. ha impugnato la pronuncia avanti alla Corte di Appello di Venezia. Che ha accolto l’appello e quindi ha rigettato la domanda del Fallimento, con sentenza depositata il __.

Ha rilevato in particolare la Corte territoriale che, “secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, sono considerati come eseguiti con mezzi non normali tutti quei pagamenti che non siano stati effettuati con danaro o con titoli di credito considerati equivalenti al danaro tanto dalla legge, quanto dalla pratica commerciale, come gli assegni circolari e bancari, le cambiali, i vaglia cambiari”. Per poi aggiungere (richiamando in specie la decisione di Cass., 2 giugno 1978, n. 2761) che, nel caso della tratta, la valutazione di normalità del mezzo di pagamento si arresta di fronte all’ipotesi di girata che produca gli effetti di una mera cessione di credito: eventualità, quest’ultima, neppure invocata dalla Curatela.

3.- Avverso la pronuncia della Corte veneziana presenta ora ricorso il Fallimento, affidandosi a due motivi di cassazione. Resiste, con controricorso, S. S.n.c.

Entrambe le parti hanno pure depositato memorie.

Motivi della decisione

4.- I motivi di ricorso denunziano i vizi che qui di seguito vengono richiamati.

Primo motivo: “errata o falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., n. 3 del principio di diritto secondo cui la cambiale tratta non accettata, ancorché originariamente all’ordine proprio, rappresenti un mezzo anomalo di pagamento suscettibile di revocatoria L.F., ex art. 67 comma 1, n. 2, visti gli artt. 1, 3, 15 e 33 Legge cambiaria”. Nella sostanza, il motivo viene a affermare che in caso di mancata accettazione della cambiale tratta, il rapporto si risolve in una delegazione di pagamento ex art. 1269 c.c. e che la delegazione di pagamento è da considerare mezzo anormale per gli effetti di cui alla L.F., art. 67, comma 1, n. 2.

Secondo motivo: “omesso esame di un fatto decisivo della controversia oggetto di contraddittorio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”; l’anomalia del pagamento sussiste anche avuto riguardo alla modalità di pagamento diverse (cambiale tratta non accettata pagata un anno dopo la scadenza del debito) rispetto a quelle concordate contrattualmente (ricevuta bancaria a 60 giorni).

5.- Attesi i contenuti del ricorso, che è stato proposto, appare opportuno prima di tutto ricordare che, secondo il tradizionale orientamento di questa Corte, la nozione di mezzo (a)nomale di pagamento, di cui alla L.F., art. 67, comma 1, n. 2, si polarizza sul parametro dei mezzi comunemente accettati nella comune pratica commerciale, considerata rispetto a un dato periodo temporale e rispetto a una data zona di mercato (cfr., tra le altre, Cass., 15 luglio 2011, n. 15691; Cass., 7 dicembre 2016, n. 25162, che ne trae conforto per una diversa lettura dei pagamenti nei termini d’uso, di cui alla L.F., art. 67, comma 3, lett. a; Cass., 2 novembre 2017, n. 26063).

Posta una impostazione di questo tipo, appare chiaro che, per sé, non esistono figure di pagamento intrinsecamente normali (fuori che il denaro per l’adempimento delle obbligazioni pecuniarie, ex art. 1277 c.c., ed eventualmente l’assegno circolare; per il rilievo che un mezzo anormale tale rimane anche se previsto ab imo come modo di esatta esecuzione dell’obbligazione v. Cass., 22 maggio 2007) o, per contro, intrinsecamente anormali. Che la qualifica di (a)normale di un mezzo di pagamento viene essenzialmente a dipendere dalla dimensione e dal tipo dell’utilizzo che ne fa l’operatività (di un dato segmento temporale e con riferimento a un dato settore di mercato).

6.- Ciò non toglie, pure questo è naturale, che esistano figure giuridiche che, in ragione dei tratti caratteristici della loro struttura, si prestino facilmente ad assumere i panni del mezzo anormale di pagamento; comunque, più facilmente di certe altre figure. È quanto avviene in modo sintomatico, ad esempio, per la figura della datio in solutum (cfr. ad esempio, Cass., 14 febbraio 2018, n. 3673; Cass., 9 giugno 2011, n. 12644) e per quella della cessione dei crediti pro solvendo (Cass., 31 ottobre 2014, n. 23261).

Non diversamente accade sull’opposto versante della normalità del mezzo di pagamento. Strutture ideate per aumentare i modi e i mezzi di pagamento possono facilmente incontrare il successo nella prassi degli affari. Secondo quanto accaduto come ricorda appunto la sentenza impugnata (anche con nutrite citazioni della giurisprudenza di questa Corte), in particolare per gli assegni bancari e per le cambiali, tratta e pagherò.

È importante notare, però, che si tratta sempre di valutazioni non già assolute (come, del resto, non manca di segnalare la sentenza impugnata, là dove richiama il caso della cessione della cambiale con effetti della cessione di credito), bensì relative: da misurare, dunque, con le caratteristiche proprie delle fattispecie volta a volta esaminate e secondo un processo di progressivo accostamento alla concretezza delle fattispecie medesime.

7.- Non risulta apportare deviazioni significative rispetto allo schema appena tracciato (di normalità della tratta rispetto alla valutazione prescritta dalla L.., art. 67, comma 1, n. 2) il richiamo fatto dal ricorrente alla figura della delegazione di pagamento.

È in effetti da rilevare, al riguardo, che ogni tratta contiene in sé un ordine di pagamento delegatorio e che non è per nulla detto che a ciò segua l’assunzione dell’obbligo da parte del delegato trattario (con conseguente transito della delegazione da solvendi a promittendi): il traente ben può vietare l’accettazione dell’ordine (art. 27 comma 2 legge cambiaria);

né il trattario è tenuto ad accettarlo (art. 1269 c.c., comma 2). In ogni caso, quand’anche non accettato, il pagamento fatto dal trattario (secondo quanto per l’appunto accaduto nel caso concreto) ha pur sempre natura delegatoria (realizzando, in specie, il fenomeno della c.d. celeritas coniungendarum inter se actionum, per cui un unico pagamento viene a estinguere due distinte obbligazioni).

D’altro canto, anche il bonifico integra gli estremi della delegazione di pagamento (cfr. Cass., 8 febbraio 2018, n. 3086). Non per questo, tuttavia, sarebbe corretto considerarlo – visto il comune, frequentissimo utilizzo che se ne fa in pratica – come un mezzo anormale di pagamento.

Consegue a tutto ciò che il primo motivo di ricorso è infondato e non merita di essere accolto.

8.- Merita invece di essere accolto il secondo motivo di ricorso, che è stato presentato dal Fallimento nella prospettiva del vizio di omesso esame di fatto decisivo per il giudizio.

La sentenza della Corte veneziana trascura di prendere in considerazione le caratteristiche concrete della vicenda in questione, come rappresentate dal fatto che la tratta non accettata (bensì onorata dal trattario) è intervenuta a tacitazione di debiti scaduti ormai da un considerevole lasso di tempo e per i quali le parti avevano originariamente previsto un sistema di pagamento (ricevuta bancaria a 60 giorni) non poco diverso da quello poi attuato.

In realtà, la sentenza si limita, nel descrivere la fattispecie concreta da prendere in considerazione, a riferire (in modo peraltro parziale) che la stessa riguarda una “tratta non accettata, emessa all’ordine proprio…, con scadenza 31.1.2010 a titolo di pagamento delle fatture nn. (OMISSIS): senza in alcun modo procedere poi a valutare tale aspetto.

Né si può dubitare che la misura della distanza temporale dalla scadenza del debito e la rilevante diversità del sistema di pagamento adottato rispetto a quello originariamente stabilito siano fattori potenzialmente in grado di rendere anormale il pagamento così intervenuto.

9.- In conclusione, va accolto il secondo motivo di ricorso, respinto il primo. Di conseguenza, la sentenza va cassata per quanto di ragione e la controversia rinviata alla Corte di Appello di Venezia che, in diversa composizione, provvederà anche alle determinazioni relative alle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, respinto il primo motivo. Cassa per quanto di ragione la sentenza impugnata e rinvia la controversia alla Corte di Appello di Venezia che, in diversa composizione, provvederà anche alle determinazioni relative alle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sesta Sezione Civile, il 14 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2019

 

Cass_civ_Sez_VI_1_Ord_11_10_2019_n_25725




Carattere prededucibile del credito maturato dal professionista

Carattere prededucibile del credito maturato dal professionista

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 25471 del 10/10/2019

Con sentenza del 10 ottobre 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in tema di recupero crediti, ha stabilito che ha carattere prededucibile il credito maturato dal professionista che, pendente il termine assegnato dal Tribunale, giusta l’art. 161, comma 6, L.F. (R.D. n. 267 del 1942), al debitore che abbia depositato domanda di concordato cosiddetto in bianco o con riserva, sia stato incaricato da quest’ultimo di redigere l’attestazione di cui all’art. 161, comma 3, L.F., laddove, una volta dichiarata inammissibile, ex art. 162 L.F., la domanda concordataria, senza, quindi, l’apertura della relativa procedura ex art. 163 L.F., sia stato pronunciato il fallimento del debitore medesimo. (Nella specie il decreto impugnato non si pone in linea con l’enunciato principio, di talché va in parte qua cassato.)


Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 25471 del 10/10/2019

Carattere prededucibile del credito maturato dal professionista

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. __ R.G. proposto da:

T. – ricorrente –

contro

FALLIMENTO (OMISSIS) S.r.l.  – controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di BERGAMO depositato in data __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere Dott. __;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale __, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito, per il ricorrente, l’Avv. __, che ha chiesto accogliersi il proprio ricorso;

udito, per il controricorrente, l’Avv. __, per delega dell’Avv. __, che ha chiesto rigettarsi l’avverso ricorso.

Svolgimento del processo

  1. Con decreto del __, il Tribunale di Bergamo accolse solo parzialmente l’opposizione L.F., ex art. 98 L.F. di T., quale associato allo Studio __, nei confronti del Fallimento (OMISSIS) S.r.l.

1.1. In particolare: i) confermò l’ammissione al passivo di quel fallimento, in privilegio ex art. 2751-bis c.c., n. 2, del suo credito di Euro __ (derivante dalla attività professionale, da lui svolta per la menzionata società in bonis, pendente il termine a quest’ultima concesso L.F., ex art. 161, comma 6, e consistita nella redazione dell’attestazione di cui alla L.F., art. 161, comma 3), rigettandone la richiesta di collocazione in prededuzione, L.F., ex art. 111, perché la redazione della relazione L.F., ex art. 161 da parte del professionista opponente, nel caso di specie, non solo non ha rivestito alcuna utilità nella procedura di fallimento, dichiarato dal tribunale in assenza dei presupposti per l’ammissibilità del concordato, ma, avendo attestato la non fattibilità del piano, neppure avrebbe dovuto essere prodotta insieme alla proposta ed al piano di concordato depositati dalla (OMISSIS) S.r.l., in quanto del tutto inutile; ammise, invece, il suo ulteriore credito per gli interessi legali fino al deposito del piano di riparto e per le somme relative all’IVA, in via chirografaria, ed alla Cassa Previdenza, in privilegio L. n. 21 del 1986, ex art. 11, da calcolarsi su quanto effettivamente ripartito.

  1. T., nella indicata qualità, ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico, complesso motivo. Ha resistito, con controricorso, la curatela fallimentare. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c.

Motivi della decisione

  1. La formulata doglianza, rubricata “Violazione e falsa applicazione del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 111, comma 2, e art. 161, comma 7, ultima parte, L.F.- Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi – Impugnazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 – Cassazione della sentenza impugnata con decisione della causa nel merito ovvero, in subordine, con rinvio ai sensi dell’art. 383 c.p.c., lamenta, in tutti i profili in cui è articolata, l’erroneità del decreto impugnato esclusivamente nella parte in cui non ha riconosciuto la collocazione in prededuzione al suddetto credito di Euro __, già ammesso in via privilegiata.
  2. Sotto il profilo della denunciata omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi, il descritto motivo è inammissibile, in quanto riferito ad una nozione di vizio motivazionale non riconducibile ad alcuna delle ipotesi previste dal codice di rito, ed in particolare non sussumibile in quello oggi contemplato dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (applicabile ratione temporis, risultando impugnato un decreto decisorio pubblicato il __), atteso che tale mezzo di impugnazione può concernere esclusivamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, in ordine al quale, peraltro, il ricorrente è pure tenuto a specifici oneri di allegazione (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014) qui rimasti affatto inadempiuti.
  3. È, invece, fondata, alla stregua delle considerazioni di cui appresso, la prospettata doglianza di violazione di legge.

3.1. Giova immediatamente rimarcare che è assolutamente incontroverso tra le parti che: i) il __, la (OMISSIS) S.r.l. in bonis depositò, presso il Tribunale di Bergamo, innanzi al quale già era incardinato un procedimento prefallimentare a suo carico, una domanda di concordato preventivo cd. in bianco o con riserva, L.F., ex art. 161, comma 6, ottenendo l’assegnazione del termine (originariamente di 60 giorni, poi prorogato fino al __) previsto dalla medesima norma per la presentazione della proposta, del piano e della documentazione indicata dalla L.F., art. 161, commi 2 e 3; ii) pendente quel termine, la menzionata società, con scrittura in data 13 dicembre 2012, incaricò il T. di redigere l’attestazione di cui alla L.F., art. 161, comma 3; iii) l’odierno ricorrente espresse un giudizio di non fattibilità del piano; iv) all’esito di tale valutazione negativa, il predetto tribunale dichiarò inammissibile, L.F., ex art. 162, la proposta di concordato preventivo della (OMISSIS) S.r.l. e, su istanza di alcuni creditori, ne pronunciò il fallimento dopo averne accertato lo stato di insolvenza.

3.2. Fermo quanto precede, il motivo in esame impone di stabilire (in tali sensi dovendosi delimitare, per quanto di specifico interesse nella fattispecie de qua, la questione, di carattere più generale, evidenziata dall’ordinanza interlocutoria resa da Cass. n. 15517 del 2019), se il credito maturato dal professionista che – pendente il termine assegnato dal tribunale, L.F., ex art. 161, comma 6, al debitore che abbia depositato domanda di concordato cd. in bianco o con riserva – sia stato incaricato da quest’ultimo di redigere l’attestazione di cui alla L.F., art. 161, comma 3, possa, o meno, beneficiare del carattere della prededucibilità laddove, una volta dichiarata inammissibile, L.F., ex art. 162, la domanda concordataria (senza, quindi, alcuna apertura della relativa procedura L.F., ex art. 163), sia stato dichiarato il fallimento del debitore medesimo.

3.3. È, allora, opportuno premettere che l’istituto della prededuzione viene nella L.F. considerato, innanzi tutto, nella norma generale dell’art. 111, in tema di ordine di distribuzione delle somme, il quale prevede, all’ultimo comma, che sono considerati crediti prededucibili quelli così qualificati da una specifica disposizione di legge, e quelli sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge.

3.3.1. Non è necessario, naturalmente, ripercorrere l’evoluzione della giurisprudenza della Corte a proposito dell’istituto in generale.

3.3.2. È qui sufficiente rammentarne l’approdo, mercé la considerazione che la norma, nell’affermare la prededucibilità dei crediti sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali, individua questi ultimi sulla base di un duplice criterio, cronologico e teleologico, in termini di alternatività (cfr., ex aliis, Cass. n. 25589 del 2015, Cass. n. 24791 del 2016, Cass. n. 18488 del 2018, tutte richiamate, in motivazione, dalla più recente Cass. n. 14713 del 2019).

3.3.3. Stante l’utilizzo, nel medesimo comma dell’art. 111, della proposizione congiuntiva e, quanto al raccordo tra i due predetti criteri e quello, pure esplicitamente stabilito, della qualificazione del credito come prededucibile in base a specifica disposizione, deve convenirsi sul fatto che l’art. 111 postula tre tipologie di crediti caratterizzati da prededuzione: (a) quelli così classificati da una espressa previsione, (b) quelli sorti in occasione di una procedura concorsuale, (c) quelli sorti in funzione di essa.

3.4. Va rilevato, poi, che giusta la L.F., art. 161, l’imprenditore può depositare il ricorso contenente la domanda di concordato (unitamente ai bilanci relativi agli ultimi tre esercizi ed all’elenco nominativo dei creditori con l’indicazione dei rispettivi crediti) riservandosi di presentare la proposta, il piano e la documentazione di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 161 entro un termine fissato dal giudice (secondo le alternative previste dal comma 6). Indi, il citato art. 161 (comma 7) stabilisce in sequenza che (i) dopo il deposito del ricorso e fino al decreto di cui all’art. 163 il debitore può compiere gli atti urgenti di straordinaria amministrazione previa autorizzazione del tribunale, il quale può assumere sommarie informazioni e deve acquisire il parere del commissario giudiziale, se nominato; (ii) nello stesso periodo e a decorrere dallo stesso termine il debitore può altresì compiere gli atti di ordinaria amministrazione; (iii) i crediti di terzi eventualmente sorti per effetto degli atti legalmente compiuti dal debitore sono prededucibili ai sensi dell’art. 111.

3.4.1. Il regime da riservare ai crediti in tal modo scaturenti è dunque quello della prededucibilità fondata su specifica disposizione di legge (art. 111, u.c.), senza che abbia rilievo la circostanza che il debitore abbia poi effettivamente formulato un piano concordatario, ovvero che, come nel caso di specie, la domanda concordataria abbia poi effettivamente generato l’apertura della corrispondente procedura L.F., ex art. 163. Ciò, ben vero, non solo in base al testo del comma 7 dell’art. 161, ma anche considerandosi che è ben presto naufragato il tentativo del legislatore di fornire di tale norma un’interpretazione autentica di diverso segno. Il D.L. n. 145 del 2013, art. 11, comma 3-quater, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 9 del 2014 – che aveva reso l’interpretazione autentica all’art. 111, comma 2, rilevando che i crediti sorti, in occasione o in funzione della procedura di concordato preventivo aperta ai sensi dell’art. 161, comma 6, si sarebbero dovuti considerare prededucibili alla (sola) condizione che la proposta, il piano e la documentazione di cui ai commi 2 e 3 del citato art. 161 fossero stati presentati entro il termine, eventualmente prorogato, fissato dal giudice e che la procedura fosse stata aperta ai sensi dell’art. 163 – è stato (infine) subito abrogato (dal D.L. n. 91 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 116 del 2014).

3.5. La collocabilità in prededuzione di crediti caratterizzati secondo la tripartizione della L.F., art. 111, e dunque, per quanto qui interessa, secondo l’art. 161, comma 7, che nell’alveo della tripartizione si inserisce alla stregua di specifica disposizione di legge, postula, peraltro, un accertamento di consecutività tra il concordato e la procedura successiva, a tal fine rilevando il profilo attinente al suo presupposto, nel senso che la consecutività può escludersi solo allorché si registri una discontinuità nell’insolvenza, per essere cioè il fallimento conseguente ad una condizione di insolvenza non riconducibile alla situazione di crisi originaria. Ove, invece, il fallimento abbia causa – come innegabilmente accaduto nella fattispecie de qua – nella medesima originaria situazione di insolvenza, deve escludersi che la consecutio venga meno anche laddove la procedura concordataria non sia aperta (come concretamente verificatosi nella specie).

3.6. È utile precisare, poi, che la riconduzione della prededuzione direttamente alla L.F., art. 161, comma 7, solo entro certi limiti consente di parlare di automatismo, tanto rivelandosi possibile unicamente in termini effettuali.

3.6.1. La prededuzione ai sensi della disposizione predetta è, cioè, un effetto automatico ove i crediti derivino da atti legalmente compiuti dall’imprenditore che abbia chiesto di essere ammesso al concordato (ed a tale specifico fine, il significato della locuzione non può disgiungersi dalla distinzione operata nel medesimo contesto dell’art. 161, comma 7, tra atti di ordinaria amministrazione ed atti di straordinaria amministrazione, solo i primi liberamente suscettibili di essere compiuti dal debitore, giacché i secondi implicano di essere previamente autorizzati dal tribunale, e peraltro solo se urgenti).

3.6.2. Ebbene, il credito, per essere prededucibile, deve derivare da atti così legalmente compiuti, e non pare seriamente discutibile che la citata ulteriore espressione sia stata impiegata in senso rafforzativo della piena rispondenza dell’atto alla finalità gestoria coerente con la situazione patrimoniale. Ciò richiede al giudice pur sempre di verificare che il debitore non abbia abusato del concordato preventivo, aumentando la sfera della prededuzione e, quindi, anche alterando la par condicio creditorum, poiché è assolutamente ovvio il danno che i creditori anteriori possono subire per effetto del depauperamento dell’attivo (e della correlata riduzione della garanzia patrimoniale) che deriva da una gestione preconcordataria produttiva di debiti prededucibili.

3.7. Già alla stregua dei principi fin qui esposti, dunque, emerge chiaramente come non possa negarsi la prededuzione ad una pretesa creditoria come quella dell’odierno ricorrente laddove, una volta dichiarata inammissibile, L.F., ex art. 162, la domanda concordataria (senza, quindi, alcuna apertura della relativa procedura L.F., ex art. 163), sia stato dichiarato il fallimento del debitore che l’aveva formulata. Si tratta, infatti, pacificamente, di un credito maturato dal professionista che, pendente il termine assegnato dal tribunale, L.F., ex art. 161, comma 6, al proponente (la (OMISSIS) S.r.l.), abbia depositato la domanda di concordato cd. in bianco o con riserva, sia stato incaricato da quest’ultimo di redigere l’attestazione di cui alla L.F., art. 161, comma 3: si è, quindi, innegabilmente, al cospetto di una pretesa creditoria nascente da un atto legalmente compiuto dall’imprenditore perché è proprio la legge che impone a quest’ultimo di corredare la sua domanda concordataria (anche) con l’attestazione predetta.

3.7.1. Né può condividersi l’assunto del fallimento controricorrente circa l’inammissibilità, in questa sede, – perché implicante una questione giuridica nuova non affrontata dal tribunale bergamasco – del riferimento effettuato da T. alla L. Fall., art. 161, comma 7, atteso che, da un lato, i motivi di ricorso non possono riguardare nuove questioni di diritto se esse diversamente da quanto caratterizza l’odierna vicenda processuale – postulano indagini e accertamenti in fatto non compiuti dal giudice del merito ed esorbitanti dai limiti funzionali del giudizio di legittimità (cfr. Cass. n. 2038 del 2019; Cass. n. 16742 del 2005; Cass. n. 22154 del 2004; Cass. n. 2967 del 2001); dall’altro, perché, come è noto, il giudizio di cassazione ha ad oggetto non l’operato del giudice di merito, ma la conformità della decisione adottata all’ordinamento giuridico (cfr. Cass., SU, n. 21691 del 2016).

3.8. In ogni caso, si impone anche un’altra considerazione: quella per cui la domanda di concordato cd. con riserva o in bianco condivide la medesima natura giuridica della domanda di concordato ordinaria. Invero, la stessa formulazione letterale della L.F., art. 161, comma 6, secondo cui l’imprenditore può depositare il ricorso contenente la domanda di concordato, riservandosi di presentare la proposta, il piano e la documentazione di cui ai commi 2 e 3 entro un termine fissato dal giudice, implica che l’imprenditore presenta, finanche ai sensi del citato comma, proprio ed esattamente il ricorso contenente la domanda di concordato preventivo, e non già un ricorso di portata diversa e più circoscritta, per esempio destinato a concludersi col (e finalizzato ad ottenere semplicemente il) termine previsto dalla legge, a cui eventualmente far seguire un nuovo atto d’impulso. Cosicché, alfine, il procedimento innescato dalla domanda con riserva non è un primo procedimento distinto (e antecedente) rispetto a quello, ordinario, che si apre solo con la presentazione della proposta, del piano e della documentazione, ma costituisce un segmento dell’unico procedimento che rileva, semplicemente articolato in due fasi per così dire interne (cfr. Cass. n. 14713 del 2019, in motivazione).

3.8.1. Muovendo da una siffatta premessa allora, non vi è chi non veda come al descritto credito dell’odierno ricorrente ben potrebbe riconoscersi la natura di credito sorto in occasione di una procedura concorsuale (appunto quella concordataria), trovando così giustificazione la sua collocazione in prededuzione, nel successivo fallimento della (OMISSIS) S.r.l., anche alla stregua della corrispondente, diversa ipotesi di cui alla L.F., art. 111, u.c. Ciò non senza sottacersi il profilo di utilità, per tutti i creditori di quella società, della attestazione da lui redatta (benché negativa) quanto meno per non aver inutilmente ritardato l’apertura della menzionata procedura fallimentare.

3.9. Può, pertanto, conclusivamente affermarsi il seguente principio di diritto: “Ha carattere prededucibile il credito maturato dal professionista che, pendente il termine assegnato dal tribunale, giusta la L.F., art. 161, comma 6, al debitore che abbia depositato domanda di concordato cd. in bianco o con riserva, sia stato incaricato da quest’ultimo di redigere l’attestazione di cui alla L.F., art. 161, comma 3, laddove, una volta dichiarata inammissibile, L.F., ex art. 162, la domanda concordataria (senza, quindi, l’apertura della relativa procedura L.F., ex art. 163), sia stato pronunciato il fallimento del debitore medesimo”.

3.10 L’impugnato decreto, non in linea con il principio testé enunciato, va, per conseguenza, cassato in parte qua.

3.11. Inoltre, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, né essendo stata specificamente impugnata dal ricorrente l’insinuazione già riconosciutagli dal tribunale bergamasco per interessi legali, IVA e Cassa Previdenza, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, così definitivamente disponendosi l’ammissione di T., quale associato allo Studio __, al passivo del fallimento della (OMISSIS) S.r.l.: a) in prededuzione, e con il privilegio ex art. 2751-bis c.c., n. 2, relativamente all’importo di Euro __; b) in chirografo quanto agli interessi legali dovutigli, sulla somma predetta, fino al deposito del piano di riparto, e per IVA; c) in privilegio, L. n. 21 del 1986, ex art. 11, da calcolarsi su quanto effettivamente ripartito, in relazione al dovutogli a titolo di Cassa Previdenza.

  1. Le spese di tutto il processo possono interamente compensarsi tra le parti, atteso che il tema oggetto di causa ha trovato sistemazione ed approfondimento, in sede di legittimità, solo successivamente al deposito dell’odierno ricorso.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, così definitivamente dispone l’ammissione di T., quale associato allo Studio __, al passivo del fallimento della (OMISSIS) S.r.l.: a) in prededuzione, e con il privilegio ex art. 2751-bis c.c., n. 2, relativamente all’importo di Euro __; b) in chirografo quanto agli interessi legali dovutigli, sulla somma predetta, fino al deposito del piano di riparto, e per IVA; c) in privilegio, L. n. 21 del 1986, ex art. 11, da calcolarsi su quanto effettivamente ripartito, in relazione al dovutogli a titolo di Cassa Previdenza.

Compensa interamente tra le parti le spese di tutto il processo.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 11 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2019

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L’insolvenza prospettica è legata ad un orizzonte temporale molto contenuto

L’insolvenza prospettica è legata ad un orizzonte temporale molto contenuto

Tribunale Ordinario di Milano, Sezione Fallimentare, Decreto del 09/10/2019

Con decreto del 5 settembre 2019, il Tribunale Ordinario di Milano, Sezione Fallimentare, in tema di recupero crediti, ha stabilito che l’insolvenza cd. prospettica, creazione tutta dottrinale e giurisprudenziale, è necessariamente legata ad un orizzonte temporale molto contenuto, perché quanto più la prognosi è lontana nel tempo, tanto più si possono inserire nel meccanismo imprenditoriale fattori nuovi ed imprevedibili. Essa, con un orizzonte temporale semestrale, è utilizzata come situazione di pericolo che giustifica la segnalazione interna affidata all’organo di controllo, o giustifica la segnalazione esterna affidata ai grandi creditori istituzionali. Ciò avviene infatti nell’ambito delle misure di allerta, ovvero di misure di prevenzione dell’insolvenza e non per consentire una declaratoria di fallimento indiscriminata di tutti coloro che, in prospettiva anche abbastanza prossima (sei mesi), potrebbero non essere in grado di far fronte alle scadenze dei propri debiti programmati.


Tribunale Ordinario di Milano, Sezione Fallimentare, Decreto del 09/10/2019

L’insolvenza prospettica è legata ad un orizzonte temporale molto contenuto

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Tribunale di Milano

Sezione Fallimentare Ufficio di Milano

riunita in camera di consiglio nelle persone dei signori

Dott. __ – Presidente relatore

Dott. __ – Giudice

Dott. __ – Giudice

ha pronunciato la seguente

DECRETO

nel procedimento per dichiarazione di fallimento promosso su istanza depositata in data__da

I.

Nei confronti di

M. S.p.A.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

rilevato che in data __ parte creditrice istante ha depositato istanza per la declaratoria di fallimento;

Constatato che il Presidente del Tribunale fallimentare ha fissato l’udienza di comparizione onerando il creditore di procedere alla notifica allo scopo di costituire l’indispensabile contraddittorio;

rilevato che dopo la emissione del decreto di convocazione è stata presentata dalla società richiesta di provvedimento cautelare endoprocedurale, nell’attesa che l’istruttoria venisse svolta, mirante principalmente alla sostituzione o inertizzazione degli amministratori della società per quanto riguarda le scelte imprenditoriali in genere e segnatamente le attività di esecuzione della compravendita di navi ed utilizzo dei ricavi promananti dalla stessa;

La data di comparizione per l’istruttoria relativa è stata fissata nella stessa data di comparizione decisa ai sensi dell’art. 15 per la disamina dell’istanza di fallimento, in quanto molto prossima, non ravvisando il collegio la sussistenza dei requisiti per la emissione del provvedimento inaudita altera parte, anche in considerazione della sua natura, dei dubbi legittimamente esistenti sulla legittimazione dei ricorrenti e sull’esistenza dei requisiti di utilizzazione dell’art. 6 L.F.

Stante la mole delle memorie e dei documenti prodotti dalla convenuta all’udienza del __ le parti chiedevano un rinvio che portava alla produzione e deposito di una memoria per parte, con altri documenti ed alla celebrazione di altra udienza il __.

All’esito della stessa, si possono dire superati i dubbi formali sulla legittimazione dei ricorrenti alla richiesta di fallimento, in quanto essi risultano certamente titolari di oltre un milione di euro di prestito obbligazionario ed hanno provato la loro titolarità attraverso l’esibizione a notaio, che lo ha attestato, dei c.d. statement of holding rilasciati dalle singole banche depositarie le quali, a loro volta, hanno ottenuto analoga certificazione da E. (ossia il gestore del sistema di trasferimento dei titoli), come da documentazione integrativa che è stata allegata alla memoria difensiva cfr. (doc. n. 3 della memoria dei ricorrenti ).

La questione della esistenza di un trustee nell’indenture che lega le parti, è certamente superabile, ciò perché il trustee non è il titolare del credito dei bond Holders ma ha una funzione di semplificazione del funzionamento dei rapporti tra la società emittente e gli stessi ed unificazione delle iniziative attinenti all’esecuzione del contratto stesso (tanto è vero che non procede nemmeno alla riscossione degli interessi e delle relative cedole che maturano). Quanto alla portata della no action clause che sussiste nell’accordo (cfr. clausola __ dell’indenture doc. 40 convenuta ), rammentando come fa la difesa della convenuta che si tratta di contratto soggetto alla legge di New York, si deve considerare che secondo la Highest Court di New York lo scopo di tali clausole quando inserite nei Trust indenture è quello di fungere da deterrente per i proprietari di minoranza di valori mobiliari , nel caso i bondholders, dal perseguire claim non economici, duplicativi di iniziative già assunte, privi di contenuto serio a spese della maggioranza , serve ad incanalare poi le iniziative e richieste di qualunque tipo attinenti il contratto attraverso il trustee . La corte in una nota pronuncia del giugno 2014 (Q.S.P. Co. v. V.) ha chiarito che la no action clause impedisce ai security holders solo le iniziative attinenti al contratto esistente con la emittente, mentre non impedisce di rivolgersi alla legge ordinaria e di utilizzare iniziative legali relative ai propri strumenti di investimento. Ora nel caso in esame è evidente che le parti attrici non esercitano direttamente facoltà nascenti dall’indenture, di fronte ad un inadempimento che pacificamente non c’è, ma cercano di tutelare dalla insolvenza futura, asseritamente probabile e prospettica l’intero investimento dei bond holders e la società, come pure l’interesse pubblico. Lo fanno attraverso un’azione che il Collegio reputa in sostanza atipica, perché tipica è l’iniziativa per la declaratoria di fallimento, ma atipica è la fattispecie in cui è utilizzata. Si ritiene pertanto che si sia al di fuori del claim contrattuale e degli events of default di cui alla clausola 6.01.

Si deve ora però esaminare la legittimità del ricorso all’art. 6 L.F. nel caso in esame.

Come ha con chiarezza cristallina osservato la Procura, dimostrando sia sensibilità per la fattispecie che equilibrio, la società convenuta, che fa parte di un gruppo con circa __ dipendenti, e ne ha di propri superiori alle mille unità, non ha alcuna esposizione tributaria o previdenziale, avendo alcuni anni fa vinto un contenzioso tributario di rilievo ed ottenuto lo sgravio totale, non risulta incapace, allo stato, di far fronte alle obbligazioni scadute, essendo recentemente rientrata nei confronti delle banche, facendo fronte alla rata annuale del prestito contratto nel 2016. Funziona regolarmente per quello che è la realtà che emerge dalla osservazione, non è oggetto di iniziative esecutive, o monitorie, è in grado di fornire i servizi che vende, non è inadempiente nei confronti dei ricorrenti che hanno un credito che scadrà definitivamente nel 2023, quindi tra circa quattro anni ed hanno sino ad ora incassato regolarmente le cedole.

Per questo motivo, la stessa parte ricorrente introduce, ove il tribunale non ritenesse l’insolvenza attuale come invece, sulla base della perizia di parte A. la stessa opina, la considerazione di una insolvenza prospettica, cioè imminente, in uno spazio temporale inferiore all’anno. Sul punto va detto che la insolvenza è tradizionalmente connessa allo stato di irreversibilità della situazione di grave crisi in cui l’impresa versa, il che fa emergere un profilo del suo accertamento e della natura del presupposto oggettivo del fallimento che si esprime nella formulazione di un giudizio prognostico. Poiché poi le procedure vanno intese non come semplici rimedi ex post a situazioni dannose, al pari delle revocatorie ad esempio, ma, soprattutto nella loro evoluzione necessitata dall’orientamento delle direttive europee, come strumento di emersione tempestiva della crisi per ridurre al minimo l’impatto della stessa ed il pregiudizio delle ragioni creditorie, è chiaro che si possa e debba ricorrere ad una procedura che presuppone l’insolvenza non solamente in caso di insolvenza conclamata e risalente, ma anche quando essa si sta per manifestare all’esterno in tutta la sua gravità. La irreversibilità della crisi si sostanzia in una previsione negativa sulla possibilità che i crediti dell’impresa possano trovare integrale soddisfazione. Sussiste, però una zona grigia, un momento in cui la crisi è solo intrinseca, e come fatto esterno non si manifesta ancora con inadempimenti o altri fatti esteriori. Allora diviene importante capire quando si è di fronte a c.d. insolvenza prospettica e, invece, quando si è di fronte a sola crisi di varia entità. L’insolvenza prospettica, creazione tutta dottrinale e giurisprudenziale, è necessariamente legata ad un orizzonte temporale molto contenuto, perché quanto più la prognosi è lontana nel tempo, tanto più si possono inserire nel meccanismo imprenditoriale fattori nuovi ed imprevedibili. Essa è stata sdoganata integralmente come concetto previsionale dalla futura riforma che entrerà in vigore nell’agosto 2020, con un orizzonte temporale semestrale, ma è utilizzata come situazione di pericolo che giustifica la segnalazione interna affidata all’organo di controllo, o giustifica la segnalazione esterna affidata ai grandi creditori istituzionali. Ciò avviene infatti nell’ambito delle misure di allerta, ovvero di misure di prevenzione della insolvenza e non per consentire una declaratoria di fallimento indiscriminata di tutti coloro che, in prospettiva anche abbastanza prossima (sei mesi appunto), potrebbero non essere in grado di far fronte alle scadenze dei propri debiti programmati.

Il collegio reputa allora che il concetto di insolvenza prospettica debba essere coniugato nella fattispecie con prudenza ma con attenzione priva di infingimenti, trovandosi in presenza di una realtà imprenditoriale complessa, che involge come gruppo migliaia di posti di lavoro; in attesa fra otto mesi di vedere se la convenzione con lo stato Italiano sarà rinnovata, identica, diversa, o non lo sarà per nulla (elemento fondamentale ed incerto); in attesa della decisione della commissione Europea che potrebbe condannarla alla restituzione degli affermati aiuti di stato oppure no, e che ha un obbligo di pagamento differito del parziale corrispettivo dell’acquisto di T., indeterminato allo stato nell’entità, dipendendo dalla quantificazione della condanna summenzionata. Allo stato non vi sono manifestazioni esteriori e nell’immediato futuro vi sono molteplici elementi imprenditoriali incerti, per poter ritenere sicuramente la società prospetticamente insolvente a breve.

È evidente però che il gruppo, e non solo M., avrebbe necessità di monitoraggio e di ricorrere a strumenti di superamento di una crisi che in prospettiva ha caratteristiche importanti e che potrebbero divenire molto gravi. I margini operativi nascenti dal core business della società tendono a ridursi costantemente e non potendo alzare di più le tariffe, la società sino ad ora ha provveduto a vendere alcuni tra i migliori natanti, per contrastare la carenza di liquidità conseguente e far fronte alle rate del prestito bancario del __. Nel trattare con le banche per giungere a tale obiettivo ha per altro dimostrato di godere ancora di credito, infatti se da un lato i bond holders possono dolersi dei due reset dei covenants occorsi nel __ colle banche in riferimento al prestito senior, perché non previsti, ma per vero nemmeno inibiti dalle condizioni della emissione del prestito obbligazionario ( che è sostanzialmente junior rispetto all’altro), dall’altro è evidente che le banche hanno ancora fiducia nella capacità della società di ripianare i debiti, non necessariamente tutti colla continuità aziendale, o con comportamenti con essa coerenti e non hanno perciò denunciato gli accordi e determinato il decadere dal beneficio del termine, ma hanno consentito di essere soddisfatte anche col ricavato della liquidazione di due navi di pregio della flotta M. ( che rappresentano nel piano M. oltre il __% del valore delle navi della flotta ), a patto di assorbire il __ % del ricavato. Per il futuro, la panacea nei confronti della crisi appare nel piano __ sempre la dismissione di navi proprie o della controllata C. (alla fine in caso di non rinnovo della convenzione collo Stato Italiano finirebbe per dimetterne __), strategia che non mostra particolare attenzione alla continuità aziendale e nemmeno immaginazione, oltre a sostenere concettualmente i timori dei bondholders che, per quando i loro crediti scadranno nel __, nulla più li garantirà né consentirà l’adempimento.

Quanto sin qui illustrato induce a ritenere che i ricorrenti in definitiva, impossibilitati ad attivare lo strumento del 2409 c.c. perché non sono soci ed all’utilizzo ed introduzione dell’azione di responsabilità dei creditori, perché il patrimonio sociale non è venuto meno, con il presente ricorso invece che il fallimento o meglio l’amministrazione straordinaria, che come obbligazionisti sarebbe certamente un vantaggio incomprensibile, vogliano proprio incentivare l’apertura di una procedura minore, che con la sua disclosure e sottoposizione a controllo dell’attività amministrativa, ovviamente indurrebbe la fiducia degli investitori e li rassicurerebbe sulla sorte dell’attività sociale. Come è noto però ancora nella configurazione attuale, come in quella futura, il legislatore non ha avuto la volontà, pur avendolo valutato e discusso, di creare procedure minori obbligatorie per il debitore, essendo tutte di iniziativa dello stesso, se si esclude proprio la misura di allerta precitata.

La difesa della convenuta, con dovizia di particolari ha descritto i propri assetti organizzativi eccellenti, indicando organigrammi e funzioni, aree di interesse al fine di dimostrare la rispondenza della propria organizzazione alla riforma. Il collegio osserva però che l’entrata in vigore degli artt. 375,377,378 L.F. e del relativo art. 2086 e 2257 c.c. impone anche di attivarsi senza indugio per l’adozione o l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi ed il recupero della continuità aziendale e che la dizione dell’articolo appare coerente colla situazione esistente nella M. e nel suo gruppo. Ciò induce a credere che il collegio sindacale sarà sensibile alle responsabilità cui andrebbe incontro se non supportasse il dovuto comportamento degli amministratori o non lo sollecitasse, come lo saranno gli amministratori, soprattutto ora che le condotte denunciate, di evidente conflitto di interessi in cui opera l’amministratore, di operazioni con società correlate, prive di serie garanzie di restituzione dei finanziamenti, sono state portate alla luce.

Da ultimo il collegio in merito alla insussistenza, allo stato, della condizione di dichiarazione di fallimento, rappresentata da 30.000 euro di debiti scaduti al termine della istruttoria, osserva che la volontà del legislatore della riforma del 2006 era quella di deflazionare il numero di istanze prefallimentari da sottoporre al vaglio del Tribunale e le conseguenti dichiarazioni, ciò esclude che essendo una condizione della dichiarazione, possa venire meno o essere omessa in presenza di grandi asseriti dissesti. Recentemente la Suprema Corte ha chiarito che ogni eventuale incertezza in merito al ricorrere di tale condizione non nuoce al convenuto, ma impedisce la declaratoria di fallimento (Cfr. Cass 25.06.2018 n. 16683). Per questa ragione in ogni caso allo stato la declaratoria non sarebbe pronunciabile.

Quanto alle spese ed alla responsabilità per lite temeraria, il collegio osserva che la materia esaminata è del tutto nuova, la situazione di crisi è altresì evidente, il sussumerla nella fattispecie della insolvenza prospettica non era ragionamento privo di qualunque logica, né dimostra quella colpa che di regola giustifica la condanna per lite temeraria. Con riguardo alla condanna al risarcimento del danno ai sensi dell’articolo 96 c.p.c., infatti, i relativi presupposti sono, oltre alla totale soccombenza della parte, il danno della controparte e quel particolare stato soggettivo integrato dal dolo o almeno dalla colpa grave, che, concretizzandosi nel mancato doveroso impiego di quella diligenza che consenta di avvertire agevolmente l’ingiustizia della propria domanda, deve ritenersi sussistente tutte le volte in cui si proponga una domanda assolutamente priva di fondamento.

Per quanto riguarda la condanna alle spese di soccombenza, esse devono essere poste a carico dei ricorrenti e vengono liquidate in Euro __ oltre IVA C.P.A.

P.Q.M.

Tutto ciò premesso respinge la istanza di fallimento RG n.1357 per carenza della condizione di fallibilità e per carenza di insolvenza attuale;

Condanna i ricorrenti a rifondere le spese della convenuta liquidate in Euro 6__ oltre IVA e CPA.

Così deciso in Milano, nella camera di consiglio della Seconda Sezione Civile, in data 3 ottobre 2019.

Depositata in Cancelleria il 9 ottobre 2019.

 

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Ai fini della qualificazione della domanda di ammissione al passivo va privilegiata la volontà del creditore

Ai fini della qualificazione della domanda di ammissione al passivo va privilegiata la volontà del creditore

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 25391 del 09/10/2019

Con ordinanza del 9 ottobre 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in tema di  formazione dello stato passivo, ai fini della qualificazione della domanda di ammissione al passivo va privilegiata, rispetto al dato testuale della domanda, la volontà del creditore desumibile dalla complessiva prospettazione della propria pretesa creditoria nei confronti del fallimento e, pertanto, nell’ipotesi di un creditore che intenda ottenere l’insinuazione in collocazione privilegiata, tale volontà può comunque desumersi, qualora manchi un’espressa istanza di riconoscimento della prelazione, dalla chiara esposizione della causa del credito in relazione alla quale essa è richiesta, dovendosi determinare l’oggetto della domanda giudiziale alla stregua delle complessive indicazioni contenute in quest’ultima e dei documenti alla stessa allegati.


Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 25391 del 09/10/2019

Ai fini della qualificazione della domanda di ammissione al passivo va privilegiata la volontà del creditore

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

S. – ricorrente –

nei confronti di:

Fallimento (OMISSIS) in liquidazione – controricorrente –

avverso il decreto del Tribunale di Monza emesso il __ e depositato il __, n. R.G. __;

sentita la relazione in camera di consiglio del Cons. __.

Svolgimento del processo

che:

  1. S. ha chiesto l’ammissione in prededuzione al passivo del fallimento (OMISSIS) in liquidazione deducendo di aver stipulato e adempiuto un contratto di assistenza professionale in pendenza della procedura di concordato preventivo della società successivamente fallita che prevedeva un compenso forfettario di Euro __ in suo favore.
  2. Il credito non è stato ammesso al passivo dal G.D. in quanto l’attività prestata non è stata ritenuta funzionale all’ammissione alla procedura di concordato.
  3. Ha proposto opposizione allo stato passivo S. insistendo per l’ammissione del credito.
  4. Il Fallimento ha eccepito l’inammissibilità della domanda svolta dalla stessa in sede di opposizione in quanto diversa da quella svolta in sede di insinuazione allo stato passivo e nel merito ha contestato il credito sia in relazione al difetto di indipendenza dell’istante nei confronti della società fallita sia in relazione al non esatto adempimento della prestazione professionale pattuita. Il curatore tuttavia ha dichiarato di riconoscere il lavoro svolto dalla S., segnatamente la parte relativa alla ricostruzione della posizione debitoria della società nei confronti di Equitalia, rilevando che tale attività è stata utilizzata anche ai fini della corretta formazione dello stato passivo, e ha valutato a titolo di stima personale l’apporto fornito da S. in una cifra compresa fra __ e __ Euro.
  5. Con il decreto impugnato del __, il Tribunale di Monza ha dichiarato inammissibile l’opposizione proposta da S. contro il Fallimento della società (OMISSIS) in liquidazione ritenendo fondata l’eccezione di inammissibilità della domanda, avendo la stessa proposto in sede di opposizione una domanda nuova rispetto a quella originariamente svolta in sede di ammissione. Nel caso di specie, ha rilevato il Tribunale, S., dopo aver chiesto l’ammissione in prededuzione del credito in sede di insinuazione al passivo, ne ha richiesto l’ammissione al privilegio con la domanda di opposizione e, stante la radicale diversità dei presupposti tra il riconoscimento della prededuzione e del privilegio, va ritenuta la novità della domanda introdotta con il ricorso in opposizione che deve, pertanto, essere dichiarata inammissibile, con conseguente conferma del provvedimento impugnato. Inoltre, ha rilevato il Tribunale monzese, non vi è stata, in primo grado, alcuna valutazione dei presupposti per il riconoscimento del privilegio e quindi al giudice dell’opposizione tale valutazione, relativa ad elementi del tutto nuovi, è semplicemente preclusa. Né, secondo il Tribunale, può ritenersi idonea a sanare il vizio di immutazione della domanda, la successiva rettifica, circa la persistente richiesta di ammissione del credito in prededuzione, perché formulata dall’opponente tardivamente, né parimenti può attribuirsi valore di riconoscimento del credito alle dichiarazioni del curatore che non ha prestato il proprio consenso neanche a una definizione transattiva della controversia.
  6. Ricorre per cassazione S. che deduce la violazione e falsa applicazione di norme (artt. 113 e 115 c.p.c. e L.F., art. 111). Con l’unico motivo di ricorso la ricorrente afferma che il tribunale erra nel qualificare la domanda formulata dall’opponente in sede di opposizione, come domanda di ammissione in via privilegiata, e nel ritenere non ammissibile in quanto nuova la domanda formulata in appello, così come ha errato il tribunale nel ritenere preclusa una specificazione del contenuto della domanda nel corso del giudizio di appello. Rileva la ricorrente che la istanza di ammissione aveva chiaramente ad oggetto la insinuazione del credito al passivo in prededuzione e se, per un verso, anche con riferimento alla motivazione della mancata ammissione, non vi era ragione per modificare la richiesta, interamente riproposta nel merito, rinunciando alla prededuzione. Per altro verso una volontà della opponente nel senso ritenuto dal Tribunale non emerge ed anzi è smentita dal contenuto dell’impugnazione. A fronte della eccezione della curatela fallimentare la opponente ha inoltre tempestivamente chiarito il contenuto della propria impugnazione.
  7. Si difende con controricorso e deposita memoria difensiva il Fallimento che eccepisce preliminarmente: la nullità della procura perché priva della sottoscrizione sia di S. che del di lei difensore; l’improcedibilità del ricorso ex art. 369 c.p.c., per la mancata produzione, nel termine di venti giorni dalla notifica del ricorso, della copia autentica del provvedimento impugnato con la relativa notifica; l’inammissibilità del ricorso ex art. 360 bis c.p.c., per essere lo stesso in evidente contrasto con la giurisprudenza consolidata di legittimità e sostanzialmente inteso a una revisione nel merito della decisione impugnata. Rileva in particolare il fallimento che S. ha prodotto un documento rubricato sotto la dicitura decreto di inammissibilità, senza alcuna specificazione in merito all’autenticità della copia né alla relativa relata di notifica. In assenza della quale, peraltro, non è possibile verificare la tempestività della notifica del ricorso per cassazione. Nel merito il fallimento ritiene la infondatezza del ricorso rilevando che a nulla può rilevare il fatto che, nel ricorso L.F., ex art. 98, S. abbia fatto riferimento, peraltro in maniera del tutto generica e non contestualizzata, alla giurisprudenza in materia di prededuzione e abbia chiesto l’ammissione al passivo dell’intero credito dato che le espressioni adoperate nella parte espositiva del ricorso in opposizione allo stato passivo, non possono far pensare né implicitamente né indirettamente, ad una volontà diversa da quella di cui alla conclusioni e pertanto correttamente il Tribunale di Monza ha ritenuto la sussistenza di una mutatio libelli. Il tribunale inoltre a giudizio del Fallimento ha rettamente evidenziato che la precisazione formulata da S. non poteva sanare, tardivamente, il vizio dell’opposizione allo stato passivo. In subordine il Fallimento chiede il rigetto del ricorso non avendo la ricorrente adempiuto con diligenza all’incarico conferitole e non avendo l’attività svolta apportato alcuna utilità ai creditori. Infine il Fallimento richiede la condanna ex art. 96 c.p.c., della ricorrente per essere stato il ricorso proposto nonostante la sua chiara infondatezza.

Motivi della decisione

che:

  1. È infondata la eccezione di nullità della procura risultando notificata in via telematica la riproduzione del ricorso e specificamente della prima pagina contenente la procura a margine sottoscritta dalla ricorrente e dal suo difensore senza che l’autenticità di tali sottoscrizioni sia stata contestata dal controricorrente fallimento.
  2. Quanto alla eccezione di improcedibilità del ricorso ex art. 369 c.p.c., va ribadito quanto affermato dalla sentenza n. 8312 del 25 marzo 2019 delle Sezioni Unite secondo cui “il deposito in cancelleria, nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione, di copia analogica della decisione impugnata – redatta in formato elettronico e sottoscritta digitalmente, e necessariamente inserita nel fascicolo informatico -, priva di attestazione di conformità del difensore del D.L. n. 179 del 2012, ex art. 16 bis, comma 9 bis, convertito dalla L. n. 221 del 2012, oppure con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non determina l’improcedibilità del ricorso per cassazione laddove il controricorrente (o uno dei controricorrenti), nel costituirsi (anche tardivamente), depositi a sua volta copia analogica della decisione ritualmente autenticata, ovvero non disconosca la conformità della copia informale all’originale; nell’ipotesi in cui, invece, la controparte (o una delle controparti) sia rimasta soltanto intimata, ovvero abbia effettuato il suddetto disconoscimento, per evitare di incorrere nella dichiarazione di improcedibilità il ricorrente ha l’onere di depositare l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica, entro l’udienza di discussione o l’adunanza in camera di consiglio”. S. nel caso in esame ha provveduto a quest’ultimo incombente depositando entro la data dell’adunanza in camera di consiglio la predetta asseverazione di conformità. La tempestività dell’impugnazione rende superflua la verifica circa la prova della notifica del provvedimento impugnato.
  3. Nel merito il ricorso è fondato e non si oppone a una pacifica applicazione della giurisprudenza di legittimità per cui va respinta preliminarmente l’ulteriore eccezione di inammissibilità ex art. 360 bis c.p.c. Al contrario la ricorrente contesta l’utilizzazione di canoni interpretativi meramente testuali da parte del Tribunale nella qualificazione della domanda come nuova domanda, in quanto non più diretta alla ammissione in prededuzione ma alla ammissione in via privilegiata del proprio credito. Va rilevato che, ai sensi della L.F., art. 111 bis, comma 2, la ammissione in prededuzione non esclude la verifica dei privilegi e la graduazione tra crediti prededucibili. In generale poi, in tema di formazione dello stato passivo, questa Corte ha affermato che ai fini della qualificazione della domanda di ammissione al passivo va privilegiata, rispetto al dato testuale della domanda, la volontà del creditore desumibile dalla complessiva prospettazione della propria pretesa creditoria nei confronti del fallimento e, pertanto, nell’ipotesi di un creditore che intenda ottenere l’insinuazione in collocazione privilegiata tale volontà può comunque desumersi, qualora manchi un’espressa istanza di riconoscimento della prelazione, dalla chiara esposizione della causa del credito in relazione alla quale essa è richiesta, dovendosi determinare l’oggetto della domanda giudiziale alla stregua delle complessive indicazioni contenute in quest’ultima e dei documenti alla stessa allegati (Cass. civ. sez. 6 – 1, ordinanza n. 8636 del 9 aprile 2018). Nel caso in esame il Tribunale avrebbe dovuto verificare e tenere conto delle argomentazioni difensive secondo cui: a) la mera (e non decisiva) dizione ammissione in privilegio nelle conclusioni non coincideva logicamente con il contenuto dell’atto di opposizione in cui si argomentava, invocando la giurisprudenza di legittimità, sulla prededucibilità dei crediti sorti, prima della dichiarazione di fallimento, in occasione o in funzione delle procedure concorsuali che lo hanno preceduto; b) una rinuncia alla richiesta di prededuzione non aveva una giustificazione logica a fronte della riproposizione delle stesse deduzioni relative alla fondatezza del credito nella sua interezza già proposte in sede di richiesta di ammissione al passivo. Un corretto esercizio del compito interpretativo richiedeva quindi la valutazione complessiva dell’atto per espungere eventuali dubbi interpretativi e giustificava il chiarimento reso nel corso del giudizio dalla opponente che non può essere considerato come una ulteriore e inammissibile immutazione della domanda ma come una necessaria chiarificazione conseguente alla eccezione sollevata dalla curatela fallimentare.
  4. Il ricorso va pertanto accolto con conseguente cassazione del decreto impugnato e rinvio al Tribunale di Monza che deciderà, in diversa composizione, anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia al Tribunale di Monza che, in diversa composizione, deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 18 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2019

 

Cass_civ_Sez_I_Ord_09_10_2019_n_25391




Società in liquidazione: la valutazione giudiziale

Società in liquidazione: la valutazione giudiziale deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 24948 del 07/10/2019

Con ordinanza del 7 ottobre 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione III, in tema di  recupero crediti, in relazione alla società in liquidazione, ai fini dell’applicazione dell’art. 5, L.F. (R.D. n. 267 del 1942), la valutazione giudiziale deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali e non può non tener conto anche delle concrete possibilità di realizzo e della relativa tempistica, non essendo questione secondaria il ritardo spropositato nella realizzazione del proprio credito, da valutarsi a cura del giudice, con giudizio che – quando sia espressamente motivato – si sottrae al controllo in sede di legittimità.


Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 24948 del 07/10/2019

Società in liquidazione: la valutazione giudiziale deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

(OMISSIS) S.r.l. – ricorrente –

contro

C. – controricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – intimato –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del __ dal Pres. Dott. __.

Svolgimento del processo

La Corte d’appello di Milano ha respinto il reclamo proposto, ai sensi della L.F., art. 18, avverso la sentenza dichiarativa del fallimento della (OMISSIS) srl (poi (OMISSIS), dalla detta società nel contraddittorio con la Curatela del Fallimento e con il creditore procedente (C.).

La Corte territoriale ha affermato che, l’appello della società ricorrente non poteva trovare accoglimento in relazione a nessuno dei tre motivi di appello: a) il primo, costituente una mera esposizione difensiva, privo di censure alla motivazione, perché dal reclamo non era dato comprendere quale differenza di trattamento sarebbe scaturita per la società dalla fase di liquidazione sostanziale (così definita dal Tribunale), atteso che non era utile a tal proposito né l’avvenuta costruzione dell’immobile e né il finanziamento bancario, che si trovava ancora nella fase della istruttoria (per essere emersa soltanto una disponibilità della Banca a effettuare una nuova perizia sul cantiere, senza che ci fosse la certezza della percezione della somma richiesta in prestito); b) il secondo, perché articolato in una lunga esposizione della diversa lettura dei dati del bilancio della società relativo all’anno __, atteso che ove anche fondato nelle sue osservazioni, esso lasciava inalterato il dato incontrovertibile della non monetizzabilità degli attivi di bilancio con effetti non satisfattori sia per il creditore procedente e sia per la convenienza dell’eventuale sottoscrizione di una transazione. Infatti, il patrimonio immobiliare non era suscettibile di una liquidazione celere e, soprattutto, garantita nei tempi di un prevedibile pagamento dilazionato, anche a seguito di un accordo transattivo con i creditori; c) il terzo, poiché la reazione all’affermazione del Tribunale circa la mancanza o la garanzia di fondi utili alla proposta transattiva del creditore procedente è stata quella di una seconda ed ulteriore proposta inviata solo dopo la dichiarazione di fallimento.

Contro tale decisione la società (ora (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, illustrati anche con memoria.

Il Creditore procedente (C.) ha resistito con controricorso.

La Curatela fallimentare non ha svolto difese.

Motivi della decisione

Con il primo mezzo (Erronea applicazione delle norme di cui alla L.F., art. 18 e art. 118 disp. att. c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3), la ricorrente si duole della reiezione del reclamo senza l’indicazione della norma applicata, in violazione dell’art. 118 disp. att. c.p.c., nell’ipotesi che la Corte avesse applicato i principi sull’appello di cui all’art. 342 c.p.c., comma 1, sicuramente inapplicabili al reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, così come disciplinata dalla L.F., art. 18.

Secondo la ricorrente, infatti, ove avesse rigettato il reclamo ritenendolo inammissibile, la Corte avrebbe violato la L.F., art. 18, che attribuisce al reclamo effetto pienamente devolutivo, con esclusione del doveroso controllo sullo stato di liquidazione di Palco (peraltro, accertato in fatto dal Tribunale), verificando la capienza patrimoniale e la disponibilità dei mezzi per perfezionare la transazione con l’unico creditore istante, revocando la dichiarazione di fallimento del debitore.

Con il secondo (Erronea applicazione della L.F., art. 5 (art. 360 c.p.c., n. 3), la ricorrente si duole della violazione dei principi relativi all’accertamento dello stato d’insolvenza delle società in liquidazione, che esigerebbero unicamente la verifica in ordine alla valutazione degli elementi attivi e alla loro possibilità di un integrale soddisfacimento dei creditori sociali.

Affermando l’irrilevanza dell’accertamento in ordine alla sussistenza dello stato di liquidazione della società, la Corte territoriale avrebbe violato i quattro principi enunciati dalla Cassazione: a) la necessaria distinzione tra l’insolvenza dell’impresa operativa e di quella dell’impresa in liquidazione; b) tale distinzione sarebbe applicabile anche alle imprese che di fatto si trovino in stato di liquidazione (per quanto non formalizzato); c) per tutte le imprese in liquidazione (comprese quelle non formalizzate come tali) si applicherebbe l’unico criterio costituito dalla valutazione della consistenza delle attività, poste in raffronto con quella delle passività; d) a tali imprese non si applicherebbero le regole valevoli per quelle operative, compresi il rilievo della disponibilità del credito, delle risorse liquide e della facile e tempestiva monetizzabilità dei cespiti.

Il ricorso si compone di due mezzi di doglianza attinenti, in ordine successivo: a) il primo, all’ipotizzata surrettizia applicazione delle regole dell’appello a quelle dei reclami, con particolare riferimento al reclamo previsto e disciplinato dalla L.F., art. 18, con la sottintesa enunciazione del principio di specificità e causalità del mezzo di doglianza, che nella specie sarebbe stato implicitamente escluso dalla Corte territoriale, con violazione delle richiamate norme codicistiche; b) il secondo, in caso di superamento della prima censura, alla denuncia di un quadruplice errore commesso dal giudice del reclamo che, anziché verificare il certo stato di liquidazione della società debitrice, avrebbe omesso tale necessario passaggio (ritenendolo irrilevante, anche per le società in liquidazione di fatto) e avrebbe così applicato i contrari principi valevoli solo per le società operative che non versino in stato di liquidazione.

Il primo motivo, in disparte il carattere ipotetico della sua formulazione (che porterebbe alla sua dichiarazione di inammissibilità) è in realtà infondato, in quanto (al di là della utilizzazione non sorvegliata del termine appello in luogo di reclamo, in questo o quel passo della motivazione contenuta nel provvedimento impugnato) la Corte territoriale ha compiuto un esame pieno della doglianza, avendo ribadito – alla fine della propria argomentazione in ordine al carattere non specifico del motivo di reclamo – che non era utile, ai fini dell’accoglimento del mezzo, né l’avvenuta costruzione dell’immobile e né il finanziamento bancario, che si trovava ancora nella fase della istruttoria (con la disponibilità della Banca a effettuare una nuova perizia sul cantiere relativo alla costruzione), senza che ci fosse la certezza della percezione della somma richiesta in prestito.

In sostanza, la pur asserita non conducenza del primo motivo del reclamo, ha costituito solo una modalità dialettica di esame delle censure che, tuttavia, non si è fermata solo alla forma della sua esposizione e alla sua profilazione formale, ma ha anche esaminato quanto oggetto di doglianza, affermando – con accertamento fattuale – l’inesistenza di fonti utili ad una pronta liquidazione né in considerazione del mero fatto della costruzione immobiliare e né dell’istruttoria del finanziamento bancario, in corso.

Quanto al secondo mezzo, con il quale si deduce la mancata verifica dell’effettivo stato di liquidazione della società debitrice (ritenendolo irrilevante, per le società in liquidazione di fatto), causativa dell’applicazione dei contrari principi valevoli solo per le società operative che non versino in stato di liquidazione, va premesso che questa Corte non si è mai occupata della verificazione dello stato d’insolvenza delle società che versino in uno stato di liquidazione di fatto (secondo dei quattro principi che si assumono violati dalla Corte territoriale), tantomeno per assimilare tale tipo di imprese a quelle che si trovino in un deliberato stato di liquidazione (primo principio, che pure si assume violato).

Anche di recente la Corte (Sez. 1, Ordinanza n. 19414 del 2017), ha ribadito che “Quando la società è in liquidazione, la valutazione del giudice, ai fini dell’applicazione della L.F., art. 5, deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali, e ciò in quanto – non proponendosi l’impresa in liquidazione di restare sul mercato, ma avendo come esclusivo obiettivo quello di provvedere al soddisfacimento dei creditori previa realizzazione delle attività, ed alla distribuzione dell’eventuale residuo tra i soci – non è più richiesto che essa disponga, come invece la società in piena attività, di credito e di risorse, e quindi di liquidità, necessari per soddisfare le obbligazioni contratte”.

Ora è ben vero che tale principio è stato più volte ribadito da questa Corte e, tuttavia, in disparte la questione dell’assimilabilità della società che si trovi in stato di liquidazione de facto, rispetto a quelle che tale stato abbiano specificamente deliberato (questione che non sembra aver formato oggetto di reclamo davanti alla Corte territoriale, la quale non ha al riguardo espresso alcuna ratio decidendi), resta comunque la necessità di precisare che, la valutazione del giudice, ai fini dell’applicazione della L.F., art. 5, deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali anche tenendo conto, come – con apprezzamento di fatto insindacabile in questa sede mostra di aver fatto la Corte d’appello – delle concrete possibilità di realizzo e della relativa tempistica, non essendo questione secondaria il ritardo spropositato nella realizzazione del proprio credito.

Significativamente questa Corte, con un recentissimo arresto (Cass. Sez. 1 -, Sentenza n. 18137 del 2018), ha affermato il principio secondo cui “Ai fini della valutazione dello stato di insolvenza, l’accertamento degli elementi attivi del patrimonio sociale, idonei a consentire l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali, non può prescindere dalla valutazione della concretezza ed attualità di tali elementi, sicché non possono assumere rilievo le attribuzioni patrimoniali in favore della società condizionate all’ammissione di questa alla procedura di liquidazione coatta amministrativa, essendo tali attribuzioni non ancora efficaci al momento della valutazione dell’insolvenza, né potendo questa, quale presupposto fattuale di carattere storico (oltre che giuridico) dell’apertura della procedura, essere valutata come esistente al fine di determinare l’efficacia dell’attribuzione e, nel contempo, non più esistente a causa del meccanismo della retroattività della condizione, che è mera fictio inidonea a cancellare quel presupposto fattuale”.

In sostanza, ai fini dell’applicazione della L.F., art. 5, la valutazione del giudice che – quando la società è in liquidazione deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali – non può non tener conto anche delle concrete possibilità di realizzo e della relativa tempistica, non essendo questione secondaria il ritardo spropositato nella realizzazione del proprio credito, da valutarsi a cura del giudice, con giudizio che – quando sia espressamente motivato – si sottrae al controllo in questa sede.

Il ricorso, pertanto, va respinto con le conseguenze in ordine a: a) le spese processuali, a carico dei ricorrenti e liquidate come in dispositivo; b) il raddoppio del contributo unificato già assolto.

P.Q.M.

Respinge il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali che liquida in complessivi Euro __, di cui Euro __ per esborsi, oltre alle spese generali forfettarie ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara che sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 18 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2019

 

Cass_civ_Sez_I_Ord_07_10_2019_n_24948




Fallimento: in tema di gruppi di società rileva il principio di effettività

Fallimento: in tema di gruppi di società rileva il principio di effettività

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 24943 del 07/10/2019

Con sentenza del 7 ottobre 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in tema di recupero crediti, ha stabilito che le formalità attinenti alla costituzione delle società e la stessa iscrizione come disciplinata dall’art. 2497 bis c.c. non hanno efficacia costitutiva del gruppo, né la pubblicità in sé determina l’inizio dell’attività di direzione e coordinamento, poiché su tutto prevale, in tema di gruppi, il principio di effettività, con riferimento all’inizio, allo svolgimento e alla cessazione dell’attività considerata dalla legge. Ne deriva che resta rilevante la situazione di fatto, al di là degli indici formali.


Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 24943 del 07/10/2019

Fallimento: in tema di gruppi di società rileva il principio di effettività

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

Fallimento della (OMISSIS) S.r.l. – ricorrente –

contro

Curatela Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – intimato –

avverso il decreto n. __ del TRIBUNALE di PALERMO, depositato il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal cons. Dott. __;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

La curatela del fallimento di (OMISSIS) S.r.l., società costituita il __ e fallita __, proponeva istanza di ammissione al passivo del fallimento di (OMISSIS) S.r.l., a sua volta dichiarato il __, in relazione a un credito risarcitorio per l’avvenuta sottrazione di merci e di denaro, per l’indebito incasso di crediti verso terzi e per la perdita di avviamento e clientela.

La pretesa trovava base nell’assunto che la (OMISSIS) S.r.l. era stata costituita il __ in sostanziale prosecuzione dell’attività della (OMISSIS), nel contesto di unico gruppo direzionale facente capo alla famiglia C. Nei fatti, secondo il Fallimento (OMISSIS), era esistito un unico gruppo imprenditoriale fra le tre società, all’interno del quale era stata preordinata un’operazione diretta a determinare la decozione della (OMISSIS) con trasferimento alla (OMISSIS) dei beni materiali e immateriali di quella.

La domanda di ammissione al passivo veniva respinta dal giudice delegato sul rilievo che non era stato alfine prodotto alcun titolo opponibile alla massa, mentre il presunto credito, di natura risarcitoria, non avrebbe potuto per ragioni di speditezza e sommarietà essere accertato in quella sede.

L’opposizione del Fallimento (OMISSIS) è stata respinta dal tribunale di Palermo in base alla distinta considerazione dell’insostenibilità dell’ipotesi del gruppo di imprese. Ciò in quanto la (OMISSIS) era stata costituita successivamente al fallimento della (OMISSIS) e poco prima che la (OMISSIS) S.a.s. avesse cessato la propria attività. Da tanto il tribunale reputava che fosse impossibile sostenere l’esistenza di un gruppo di imprese operanti sotto la stessa direzione e controllo, poiché le tre società in questione avevano infine sostanzialmente operato in tempi diversi.

Del pari era a giudizio del tribunale impossibile configurare un trasferimento d’azienda a favore della società (OMISSIS), al momento non ancora costituita. Donde l’infondatezza dell’insinuazione basata sul diritto al risarcimento del danno per sottrazione di merce, poiché non vi era prova della distrazione, né tanto meno vi erano elementi per affermare che le merci fossero state conferite alla (OMISSIS), costituita tre mesi dopo il fallimento della (OMISSIS).

La curatela fallimentare di (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione sorretto da tre motivi, illustrati da memoria.

Il Fallimento di (OMISSIS) S.r.l. non ha svolto difese.

Motivi della decisione

Col primo mezzo (violazione e falsa applicazione di norme di diritto in materia di gruppi di imprese, artt. 2497 c.c. e seg.) la ricorrente censura la decisione per avere escluso l’esistenza del gruppo solamente per la questione temporale, insita nell’avere alcune delle menzionate società operato in tempi diversi. In tal modo il tribunale avrebbe mancato di analizzare tutti gli altri indici che pur determinano l’esistenza di un gruppo, giacché l’art. 2497 c.c. non prescrive che le società debbano tutte coesistere, ma semplicemente stabilisce che, nelle condizioni date, risponde dei danni anche il beneficiario finale delle operazioni illecitamente realizzate nel contesto di gruppo.

Col secondo mezzo (violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c. e omesso esame di un fatto decisivo), la ricorrente censura la decisione, da un lato, per aver giudicato estrapolando una semplice frase dal più articolato contesto della relazione tecnica richiamata in motivazione e, dall’altro, per non aver considerato che, oltre alla domanda risarcitoria per distrazione di merce, era stato chiesto il risarcimento dei danni anche (e comunque) in relazione alla distrazione dell’avviamento, sulla scorta della medesima relazione tecnica non dubitativa sul punto.

Col terzo mezzo è infine denunziata la nullità del provvedimento per omessa pronuncia (violazione dell’art. 112 c.p.c.), in quanto il tribunale non avrebbe preso in considerazione le istanze istruttorie (ordine di esibizione ed eventuale C.T.U.) all’uopo dedotte.

Il terzo motivo, da esaminare prioritariamente poiché teso a denunciare la nullità del decreto, è inammissibile.

Di nessun rilievo è il principio richiamato dalla ricorrente, giacché codesto postula che sia censurabile in sede di legittimità il mancato esercizio del potere (discrezionale) del giudice di disporre l’esibizione di un documento o di ammettere una C.T.U., qualora il giudice abbia omesso del tutto di motivare sull’istanza proposta dalla parte che versi nell’impossibilità di provare altrimenti il suo assunto e che tuttavia abbia offerto elementi presuntivi a conforto del medesimo.

Quel principio suppone che la censura sia però coerentemente veicolata secondo il paradigma dell’art. 360 c.p.c., mentre così non è nella specie, visto che la ricorrente si è infine risolta a censurare il provvedimento per omessa pronuncia.

È pacifico che un simile vizio può rilevare solo in rapporto alla domanda di merito, mai alle istanze istruttorie.

Il vizio di omessa pronuncia, che determina la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., si configura, cioè, esclusivamente con riferimento a domande, eccezioni o assunti che richiedano una statuizione di accoglimento o di rigetto; non quindi in relazione a istanze istruttorie (tra le tante Cass. n. 3357-09, Cass. n. 6715-13, Cass. n. 13716-16), per le quali l’omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione, nei limiti peraltro in cui tale vizio è attualmente deducibile in cassazione, e dunque nei limiti del solo eventuale omesso esame dei sottostanti fatti storici (Cass. Sez. U n. 8053-14).

I primi due motivi, suscettibili di unitario esame perché tra loro connessi, sono invece fondati nel senso che segue.

Fatti salvi i cd. vantaggi compensativi, l’art. 2497 c.c. prevede che le società o gli enti che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società, agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime, siano responsabili per il pregiudizio arrecato alla redditività e al valore della partecipazione sociale, nonché nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all’integrità del patrimonio della società.

Questa Corte ha chiarito che di tanto può esser chiamato a rispondere colui – società (finanche occulta v. Cass. n. 15346-16) o ente o anche semplice persona fisica (v. Cass. n. 5520-17) – che sia a capo di più società (di capitali o di persone) in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie, e che svolga in modo stabile l’indirizzo, il controllo e il coordinamento delle società medesime.

Risponde peraltro in solido anche chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo (Cass. n. 26765-16) e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio (art. 2497 c.c., comma 2).

Invero gli artt. 2497 c.c. e seg. sono norme ispirate al principio di effettività, nel senso che disciplinano la dinamica di un fatto, e precisamente il fatto dell’abuso di attività di direzione e coordinamento ottenuto mediante esercizio effettivo della corrispondente influenza sulle società assoggettate.

Nel caso concreto era stata postulata la responsabilità per lesione all’integrità del patrimonio della società (OMISSIS), in vantaggio della (OMISSIS), in quanto entrambe soggette a un centro di direzione e coordinamento unitario facente capo alla famiglia C.

Il punto qualificante supponeva la prova di tali elementi della fattispecie, e a questo proposito va ribadito che è ben possibile affermare l’esistenza come impresa commerciale di una società di fatto holding per il solo fatto di essere stata costituita tra i soci per l’effettivo esercizio dell’attività di direzione e coordinamento di altre società, a prescindere dalla sua esteriorizzazione mediante spendita del nome (Cass. n. 15346-16).

Tanto era stato prospettato dal Fallimento (OMISSIS), il quale aveva proposto la domanda di insinuazione in ragione della premessa che fra le tre società della famiglia C. era stato istituito un unico gruppo imprenditoriale all’interno del quale era stata dai componenti della famiglia Co. preordinata un’operazione tesa a far fallire la (OMISSIS) e a trasferire i beni di questa (materiali e immateriali) alla (OMISSIS) S.r.l. A dire dell’istante, l’unicità del soggetto direttivo si sarebbe dovuta desumere da ciò: (a) che la (OMISSIS) era stata costituita (i) con capitale suddiviso tra R. (coniugata con D. (OMISSIS)) e da G., (ii) con sede in uno dei punti vendita della (OMISSIS) S.a.s. (OMISSIS), posta in liquidazione il __ e ammessa al concordato preventivo il __, e (iii) con identico oggetto sociale di questa; (b) che G. era il fratello di F. e D. ne era il figlio; (c) che la (OMISSIS) era stata costituita con capitale suddiviso tra D. e R., figli di F. e T. (soci della originaria (OMISSIS) S.a.s.); (d) che dunque tutte le società erano state in definitiva gestite dagli stessi vertici e assoggettate a un unico centro di interesse, facente capo interamente alla famiglia C.

In tal guisa l’unicità della struttura organizzativa e produttiva sarebbe stata decifrata dall’identità delle sedi sociali e dei punti vendita, oltre che dalla promiscuità del relativo utilizzo (ivi compreso il numero telefonico) da parte di tutte le società in questione.

Poiché infine le merci, il denaro e l’avviamento di (OMISSIS) erano stati distratti in favore della (OMISSIS) S.r.l., costituita nel contesto del medesimo gruppo familiare, il danno si sarebbe dovuto considerare conseguente alla violazione dei precetti legali di corretta gestione di una delle controllate; e del danno avrebbe dovuto rispondere anche la società (OMISSIS), che, nei limiti del vantaggio conseguito, aveva consapevolmente tratto beneficio dall’operazione nel suo complesso.

A tale postulazione il tribunale ha opposto che l’esistenza di un gruppo di imprese sotto la stessa direzione e controllo era inficiata dall’avere le tre società in questione operato in tempi diversi, e che non poteva configurarsi un anomalo trasferimento d’azienda a favore della società (OMISSIS), poiché questa al momento del fallimento di (OMISSIS) non era stata ancora costituita.

Dopodiché il tribunale ha anche ritenuto non provata la distrazione delle merci.

Nessuna di tali affermazioni è perspicua.

La prima, oltre a trovare spunto in un istituto (il trasferimento d’azienda) mai neppure prospettato in causa, non coglie la specificità dell’art. 2497 c.c., che è norma ispirata – come detto – al principio di effettività.

L’apprezzamento di esistenza di un gruppo implica certamente l’esistenza di più società, ma non che la costituzione delle medesime o dell’ente di controllo debba esser desunta da atti formali; men che meno è legato alla simultaneità operativa delle società unitariamente controllate. Ciò è dimostrato dalla considerazione che neppure l’art. 2497-bis c.c., comma 1, – che prescrive alla società controllata di indicare la società o l’ente alla cui attività di direzione e coordinamento è soggetta negli atti e nella corrispondenza e mediante iscrizione presso la afferente speciale sezione del registro delle imprese – ha efficacia costitutiva del gruppo, ma una mera funzione di pubblicità-notizia.

In sostanza le formalità attinenti alla costituzione delle società e la stessa iscrizione come disciplinata dall’art. 2497-bis c.c. non hanno efficacia costitutiva del gruppo, né la pubblicità in sé determina l’inizio dell’attività di direzione e coordinamento, poiché su tutto prevale, in tema di gruppi, il principio di effettività, con riferimento all’inizio, allo svolgimento e alla cessazione dell’attività considerata dalla legge; donde rilevante resta la situazione di fatto, al di là degli indici formali.

Nel caso concreto emerge dalla stessa sentenza che la (OMISSIS) era stata costituita nel __, in un momento in cui già sicuramente esisteva la (OMISSIS) S.a.s., che era la società originaria della famiglia C. e che nel ricorso si evidenzia costituita nel __.

Questa società – si dice tuttavia in sentenza – era stata posta in liquidazione nel __.

In base alle considerazioni già svolte, ciò non assume alcuna rilevanza ai fini della cessazione del gruppo.

L’impugnata sentenza ha poi insistito sul fatto che invece la (OMISSIS) era stata dichiarata fallita nell'(OMISSIS), prima cioè della costituzione della (OMISSIS) S.r.l. (dicembre __).

Pure questo dato – anche a voler prescindere dalla constatazione che comunque, per quanto detto, più società erano già anteriormente riscontrabili come esistenti e facenti capo, secondo la postulazione, a un centro direzionale (familiare) unitario – è assolutamente irrilevante, poiché il fallimento di una delle società di un gruppo non ottiene che si possa ritenere inesistente il gruppo in quanto tale.

Per converso, la postulazione supponeva la prova (a onere dell’attore) degli elementi della fattispecie desunta dall’art. 2497 c.c., e dunque del fatto che, dinanzi al gruppo di società, fosse stata posta in essere un’attività di direzione e coordinamento nel cui contesto si fosse realizzata la condotta lesiva, da parte della società (anche di fatto e occulta) o dell’ente capogruppo, ed eventualmente degli altri soggetti compartecipi o, nei limiti del vantaggio conseguito, della stessa beneficiaria; condotta integrata dalla violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale, determinativa della lesione dell’integrità del patrimonio della controllata.

La seconda affermazione, che pure ha sorretto la motivazione del tribunale di Palermo, è apodittica ed è parziale.

Essa non solo si incentra, come esattamente osservato dal Fallimento ricorrente, sull’unico addebito attinente alla distrazione di merci, senza considerazione degli altri pur posti a fondamento della domanda, ma, ed è risolutivo, resta integrata da un rilievo di significato incomprensibile anche sul piano sintattico: testualmente, nella relazione del C.T.U. posta a fondamento e riportata per brani nella le merci sono fuoriuscite dal patrimonio aziendale. Non è chiaramente possibile escludere che già in esercizi precedenti il dato contabile divergesse da quello reale, e che è possibile ipotizzare che la (OMISSIS) S.r.l. abbia omesso di contabilizzare i ricavi provenienti dalla vendita delle merci.

Non si comprende cosa con ciò il tribunale abbia inteso dire.

Interessa invece osservare che la relazione tecnica allusa (una relazione di parte, visto che non risulta esser stata ammessa alcuna C.T.U.) era stata prodotta a corredo dell’opposizione (il che si evince dall’odierno ricorso); sicché il tribunale mai avrebbe potuto limitarsi a considerarla nei limiti dei brani isolatamente estrapolati e riportati nell’atto di opposizione.

L’avere il giudice a quo mantenuto la motivazione nei limiti della frase appena detta non soddisfa il minimo costituzionale del ragionamento giustificativo, finendo col sostanziare un’affermazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, nell’esatto senso affermato dalle Sezioni unite di questa Corte ai fini del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. Sez. U n. 8053-14).

Merita aggiungere che la relazione di parte posta a base dell’insinuazione, per quanto ancora testualmente ne emerge dal ricorso per cassazione, era stata caratterizzata dalla puntuale descrizione dei collegamenti contabilmente riscontrati tra gli atti gestori delle società implicate e dall’indicazione del dato riguardante le merci rinvenute al momento del fallimento, con relative tabellazioni. Era stata invero caratterizzata – per quanto è dato evincere dalla trascrizione operata dalla ricorrente – anche da una dettagliata valutazione circa la congruità delle rimanenze appostate contabilmente. All’esito la relazione aveva concluso nel senso di avere la (OMISSIS) (id est, l’organo gestorio a capo del gruppo di controllo di (OMISSIS)) preordinatamente provocato la propria decozione a mezzo di distrazioni di merce in dispregio del ceto creditorio, e innestato tutti i prodromi necessari a far gemmare una fruttifera condizione economica in favore della (OMISSIS) S.r.l.

È agevole osservare che le riferite circostanze, potenzialmente rilevanti in rapporto agli elementi della fattispecie evocata, non sono state esaminate affatto dal giudice del merito. Il che chiaramente implica che la decisione debba essere cassata.

In conclusione il decreto va cassato.

Segue il rinvio al medesimo tribunale di Palermo che, in diversa composizione, uniformandosi ai principi di diritto esposti al superiore punto VI, rinnoverà l’esame dell’opposizione e provvederà anche sulle spese del giudizio svoltosi in questa sede di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie i primi due motivi di ricorso e dichiara inammissibile il terzo; cassa il decreto in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, al tribunale di Palermo.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 11 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2019

Cass_civ_Sez_I_07_10_2019_n_24943




Opposizione di terzo e fallimento

Opposizione di terzo: qualora, nel corso del giudizio, il debitore esecutato sia dichiarato fallito, il processo deve essere interrotto e la pretesa dell’opponente va accertata in sede fallimentare.

Corte di Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza n. 22166 del 05/09/2019

Con sentenza del 5 settembre 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione III, in tema di opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c., ha stabilito che qualora, nel corso del giudizio, il debitore esecutato sia dichiarato fallito, il processo deve essere interrotto, ai sensi dell’art. 43, comma 3, L.F., e la pretesa dell’opponente va accertata in sede fallimentare. L’eventuale riassunzione del processo nei confronti della curatela potrà condurre alla pronuncia di una sentenza meramente dichiarativa e non di condanna, inopponibile al fallimento ed idonea esclusivamente a costituire un titolo da fare valere verso il fallito ove dovesse tornare “in bonis” o se il bene oggetto del contendere dovesse restare invenduto alla chiusura della procedura concorsuale. (Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto inammissibile per carenza di interesse il ricorso proposto dal creditore nei riguardi della curatela, poiché la sentenza di secondo grado che aveva accolto l’originaria opposizione non era opponibile al fallimento).


Corte di Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza n. 22166 del 05/09/2019

Opposizione di terzo: qualora, nel corso del giudizio, il debitore esecutato sia dichiarato fallito, il processo deve essere interrotto e la pretesa dell’opponente va accertata in sede fallimentare.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

I. S.R.L. – ricorrente –

contro

M., B., P., FALLIMENTO (OMISSIS) S.A.S., A. S.P.A., R., G. – intimati –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere Dott. __;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __ che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso in subordine l’accoglimento del 2 motivo del ricorso;

udito l’Avvocato __.

Svolgimento del processo

  1. M. S.p.A., creditrice della società (OMISSIS) s.a.s. di M., nel __ iniziò la procedura di espropriazione forzata su un immobile della società debitrice.

Nelle more della procedura il credito azionato pervenne a I. S.r.l. odierna ricorrente.

  1. Nel __ i coniugi M. e B. proposero opposizione di terzo all’esecuzione, ex art. 619 c.p.c., esponendo che:

– l’immobile pignorato apparteneva in passato, in parti uguali e pro indiviso, a L. e T., genitori dell’opponente M.;

– deceduta T. il (OMISSIS), la quota di lei (pari ad 1/2) si trasferì in parti uguali ai tre unici eredi: e dunque per 1/6 al coniuge L., per 1/6 al figlio M., e per 1/6 alla figlia P.;

– il __ L., con atto ricevuto dal cancelliere della Pretura di Latina, dichiarò di rinunciare alla sua quota di eredità in favore dei figli M. e P.;

– tale rinuncia era tuttavia inefficace, perché al momento dell’apertura della successione di T., L. si trovava già nel possesso dell’immobile, ove esercitava l’attività di, impresa alberghiera, e la rinuncia era avvenuta oltre il termine per il compimento di essa, imposto all’art. 485 c.c. nel caso in cui l’erede si trovi nel possesso dei beni ereditari;

– il __ P., L. e M. con scrittura privata autenticata conferirono nella costituenda società (OMISSIS) S.a.s. le rispettive quote di proprietà dell’immobile;

– i conferenti, reputando erroneamente che la rinuncia all’eredità da parte di L. fosse valida ed efficace, nell’atto di conferimento dichiararono che L. era comproprietario dell’immobile per 1/2, e che tale quota egli intendeva conferire nel capitale sociale della costituenda società; dichiararono altresì che P. e M. erano comproprietari dell’immobile ciascuno per 1/4, e che tale quota essi intendevano conferire nel capitale sociale della costituenda società;

– tuttavia, per effetto della inefficacia della dichiarazione di rinuncia all’eredità da parte di L.:

(a) questi aveva conferito nella società la sola quota dichiarata nell’atto (1/2), e non la maggior quota di cui era effettivamente titolare (4/6);

(b) i due figli avevano potuto conferire nella società la sola quota di cui erano effettivamente titolari (1/6 ciascuno), e non la maggior quota dichiarata nell’atto di conferimento (1/4 ciascuno);

– L. era rimasto, perciò, proprietario dell’immobile pignorato per la residua quota di un sesto, che non aveva mai ceduto ad altri; ed alla sua morte (avvenuta il (OMISSIS)) tale diritto si era trasferito jure successionis ad M. (oltre che, in pari misura, a P.), nella misura di un dodicesimo.

Conclusero pertanto gli opponenti chiedendo:

– l’accertamento della titolarità in capo a M. della suddetta quota di comproprietà dell’immobile;

– la dichiarazione di nullità dell’esecuzione;

– la dichiarazione di inefficacia dell’atto di conferimento delle suddette quote di proprietà immobiliari nel capitale sociale della (OMISSIS) S.a.s.

  1. Nel giudizio intervenne l’altra figlia di L., P., allegando i medesimi fatti appena esposti, e formulando domande coincidenti con quelle proposte da M.
  2. Nelle more del giudizio la società (OMISSIS), per effetto del trasferimento delle quote, mutò ragione sociale in H. di C. S.a.s.
  3. Con sentenza __ n. __ il Tribunale di Latina rigettò l’opposizione.

Ritenne il Tribunale che:

– l’art. 485 c.c. non s’applica quando il chiamato all’eredità sia nel possesso dei beni non a titolo successorio, ma per altro e diverso titolo, come era avvenuto nel caso di specie, in cui L. già prima della morte della moglie possedeva l’immobile in quanto gestore dell’impresa alberghiera ivi esercitata;

– di conseguenza la rinuncia all’eredità compiuta da L. era valida ed efficace.

  1. La sentenza venne appellata da M. e B. in via principale e da P. in via incidentale adesiva.

Nelle more del giudizio d’appello la (OMISSIS) S.a.s. venne dichiarata fallita.

  1. La Corte d’appello di Roma con sentenza __ n. __ accolse parzialmente il gravame.

La Corte d’appello ritenne che:

– l’eccezione con cui la SIP aveva invocato il principio della salvezza dell’acquisto compiuto dall’erede apparente (art. 534 c.c.) era inammissibile perché tardiva (in quanto sollevata nella comparsa conclusionale depositata in primo grado, e non rilevabile d’ufficio);

– la decadenza dal diritto di rinunciare all’eredità prevista dall’art. 485 c.c. s’applica in ogni caso, quale che sia il titolo in base al quale il chiamato all’eredità si trovi nel possesso dei beni caduti in successione;

– L., pertanto, non aveva mai rinunciato all’eredità pervenutagli dalla moglie;

– di conseguenza, quando venne costituita la (OMISSIS) S.a.s., egli conferì in essa una quota di proprietà immobiliare minore di quella di cui era effettivamente titolare; i suoi due figli, per contro, conferirono nel capitale sociale una quota superiore a quella di cui erano effettivamente titolari.

Sulla base di questi argomenti la Corte d’appello:

– dichiarò integralmente nulla la procedura esecutiva;

– dichiarò di rigettare la domanda formulata dagli opponenti di dichiarazione di inefficacia, limitatamente alla quota di 1/6, dell’atto con cui P. e M. conferirono nella (OMISSIS) S.a.s. le quote di loro proprietà dell’immobile, sul presupposto che essi non avevano interesse all’accoglimento di tale domanda, avendo gli stessi opponenti dato causa alla costituzione di (OMISSIS) S.a.s. ed al conferimento alla stessa delle quote del complesso immobiliare.

  1. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da I. S.r.l., con ricorso fondato su due motivi ed illustrato da memoria.

Nessuno degli intimati si è difeso.

Motivi della decisione

  1. I motivi di ricorso.

1.1. Col primo motivo la società ricorrente lamenta la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., n. 4, per contraddittorietà insanabile.

Osserva che la Corte d’appello da un lato ha dichiarato nulla la procedura esecutiva, perché avente ad oggetto l’espropriazione d’un bene che era in parte di proprietà dell’opponente, terzo estraneo; dall’altro, però, ha rigettato la domanda di dichiarazione di inefficacia dell’atto con cui M. e P. avevano previamente conferito nella (OMISSIS) S.a.s. le rispettive quote di comproprietà dell’immobile.

Deduce la ricorrente che le due affermazioni sono tra loro inconciliabili, poiché se l’atto di conferimento era valido ed efficace, il conferimento aveva prodotto i suoi effetti e la società esecutata era dunque proprietaria esclusiva dell’immobile pignorato.

La dichiarazione di inefficacia dell’atto era dunque il logico presupposto per l’accoglimento dell’opposizione, sicché, mancando quella, non poteva pronunciarsi questa.

1.2. Col secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione delle regole sull’interpretazione dei contratti.

Il motivo formula una censura così riassumibile:

– quando M. e P. conferirono nella (OMISSIS) S.a.s. le rispettive quote di comproprietà dell’immobile, il loro intento era quello di attribuire alla società l’intera proprietà dell’immobile;

– questo intento è stato accertato dalla stessa Corte d’appello;

– la Corte, pertanto, ha interpretato l’atto di conferimento dell’immobile nel capitale sociale senza tenere conto della effettiva volontà delle parti, né della causa concreta del negozio.

  1. Inammissibilità dell’opposizione proposta da B.

2.1. Risulta dalla sentenza impugnata che l’opposizione di terzo all’esecuzione, ex art. 619 c.p.c., è stata proposta anche da B., coniuge di M.

  1. si afferma, in tesi, comproprietario dell’immobile oggetto dell’espropriazione, ed è incontroverso che tale quota gli sia pervenuta a titolo successorio.

Tuttavia i beni acquisiti da uno dei coniugi a titolo successorio dopo il matrimonio non cadono in comunione, ai sensi dell’art. 179 c.c., comma 1, lett. (b). Ove, poi, quel bene fosse stato acquistato da M. prima del matrimonio, esso sarebbe ugualmente sottratto alla comunione legale, ai sensi dell’art. 179 c.c., comma 1, lett. (a).

Questa Corte deve di conseguenza rilevare d’ufficio l’inammissibilità dell’opposizione esecutiva proposta da B., per difetto di interesse ai sensi dell’art. 100 c.p.c. e, di conseguenza, cassare senza rinvio in parte qua la sentenza impugnata, giacché quella opposizione non poteva essere proposta.

  1. Inammissibilità del ricorso nei confronti del fallimento.

3.1. Il __, nel corso del giudizio di appello, la società esecutata (OMISSIS) S.a.s. è stata dichiarata fallita.

La società qui ricorrente non ha tuttavia indicato se il processo di esecuzione sia stato dichiarato improcedibile, né se e quali istanze abbia, in quel processo, rivolto il curatore al giudice dell’esecuzione, ed in particolare se abbia formulato istanza di subentro nella posizione del debitore esecutato, oppure di improcedibilità, ai sensi dell’art. 107 L.F., nel testo applicabile ratione temporis.

  1. S.r.l., nondimeno, ha allegato al proprio ricorso copia di un rapporto sullo stato della procedura, inviato dal curatore fallimentare della (OMISSIS) S.a.s. al giudice delegato al fallimento, dal quale risulta che:

(a) M. e P. hanno formulato domanda di rivendica in sede fallimentare, ai sensi (deve ritenersi) dell’art. 93, comma 1, L.F.;

(b) su tali domande il Giudice Delegato ha deliberato di accogliere la domanda di rivendica subordinatamente all’esito del giudizio in corso.

Il giudizio in corso cui fa riferimento il suddetto rapporto non può che essere il presente.

La società qui ricorrente, I. S.r.l., sulla base di tale provvedimento del Giudice Delegato al fallimento ha dedotto (p. _, primo capoverso, del ricorso) di avere, per effetto di esso, interesse alla coltivazione del presente giudizio, dal momento che dall’esito di questo dipenderà la sorte della domanda di rivendica proposta dagli odierni intimati in sede fallimentare.

3.2. Per stabilire se persista un interesse di I. S.r.l. alla coltivazione del presente giudizio, nonostante il debitore esecutato sia stato dichiarato fallito ed i terzi opponenti abbiano proposto domanda di rivendica in sede fallimentare, fondata sugli stessi fatti posti a fondamento dell’opposizione esecutiva, occorre brevemente ricordare, ai limitati fini che qui rilevano, quali interrelazioni vengano a costituirsi tra la procedura concorsuale e il processo civile di opposizione all’esecuzione, quando l’opponente sia un terzo che rivendichi la proprietà d’una parte del bene pignorato.

3.3. Chi rivendica la proprietà d’un bene immobile acquisito dal curatore all’attivo fallimentare ha l’onere di proporre la domanda di rivendicazione in sede fallimentare, con ricorso al giudice delegato, ex art. 93, comma 1, L.F.

Su tale domanda deciderà il giudice delegato con decreto, ai sensi dell’art. 96 L.F., avverso il quale il rivendicante potrà proporre opposizione al Tribunale, ai sensi dell’art. 98, comma 2 e art. 99, L.F.

3.4. Il giudizio di opposizione di terzo all’esecuzione ex art. 619 c.p.c., proposto da chi intenda vantare la proprietà, la comproprietà od altro diritto reale sul bene pignorato, non ha invece ad oggetto l’accertamento della proprietà di quel bene, e non è assimilabile ad una azione di rivendica.

L’opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c., infatti, ha lo scopo non già di fare stabilire con efficacia di giudicato a chi appartenga il bene pignorato, ma quello di sottrarre all’esecuzione uno dei beni che ne era stato colpito, mediante un accertamento solo incidentale, e non idoneo al giudicato, della sussistenza del diritto reale del terzo opponente sul bene stesso (ex permultis, Sez. 3, Sentenza n. 19761 del 13/11/2012, Rv. 624413; Sez. 3, Sentenza n. 694 del 29/01/1981, Rv. 411161 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 6497 del 15/12/1980, Rv. 410268 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 2639 del 25/05/1978, Rv. 392000 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 3277 del 05/12/1962, Rv. 254819 – 01).

L’oggetto del giudizio introdotto dall’opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. è dunque costituito non già dall’accertamento della proprietà, ma dall’accertamento dell’illegittimità dell’esecuzione. Ne discende che esso non può che celebrarsi nei confronti del debitore esecutato: una medesima esecuzione, infatti, non potrebbe mai ritenersi legittima nei confronti del debitore, ed illegittima nei confronti del terzo opponente.

Pertanto, se nel corso del giudizio di opposizione il debitore esecutato venga dichiarato fallito, il processo dovrà essere dichiarato interrotto, secondo la regola generale di cui all’art. 43, comma 3, L.F.; la pretesa del terzo opponente dovrà essere accertata nel concorso degli altri creditori e quindi trasferirsi in sede fallimentare; l’eventuale riassunzione del processo nei confronti della curatela, compiuta da qualunque parte vi avesse interesse, potrà mettere capo ad una sentenza meramente dichiarativa e non di condanna, inopponibile al fallimento, ed il cui unico scopo potrebbe essere soltanto quello di costituire un titolo da far valere, da parte del terzo opponente o del creditore procedente, nei confronti del fallito se questi dovesse tornare in bonis, oppure se il bene oggetto dell’opposizione dovesse restare invenduto all’esito della chiusura del fallimento.

3.5. È alla luce di questi principi che deve giudicarsi la vicenda processuale che oggi ci occupa.

Dall’applicazione di essi discende che il giudice delegato, quando ha ritenuto di accogliere la domanda di rivendica proposta dagli eredi M. e P. subordinatamente all’esito del giudizio in corso, ha pronunciato in sostanza un provvedimento analogo all’ammissione con riserva dei crediti al passivo fallimentare, secondo la previsione di cui all’art. 96, comma 3, n. 3, L.F., evidentemente apparentando la domanda di rivendicazione, sulla quale vi era già stata una pronuncia in sede di opposizione all’esecuzione, a quella di insinuazione al passivo di crediti accertati con sentenza non passata in giudicato, pronunziata prima della dichiarazione di fallimento.

3.5.1. Vero è che la domanda di rivendicazione proposta in sede fallimentare può essere dal giudice delegato accolta tout court o rigettata, ma non può essere ammessa con riserva, poiché l’ammissione con riserva è consentita nei soli casi tassativamente previsti dalla legge (art. 96, comma 2, L.F.), e tra questi non rientra l’ipotesi in cui il Giudice Delegato dubiti della proprietà del bene rivendicato (così Sez. 1 -, Sentenza n. 20191 del 18/08/2017, Rv. 645395 – 01; per l’affermazione dello stesso principio, Sez. 1, Sentenza n. 7297 del 10/04/2015, Rv. 635250 – 01).

Tuttavia non risulta che la suddetta decisione del giudice delegato abbia formato oggetto di opposizione ai sensi dell’art. 98 L.F., né l. S.r.l., la quale ne aveva il relativo onere, ex art. 366 c.p.c., nn. 3 e 6, ha mai dedotto che una simile opposizione sia stata da essa proposta.

In mancanza di quell’opposizione, pertanto, non può in questa sede sindacarsi la correttezza della suddetta scelta del giudice delegato, ovvero quella di ammettere con riserva una domanda di rivendicazione. Diversamente opinando, si perverrebbe al non consentito esito di trasformare questo giudizio di opposizione in un riesame della decisione adottata dal Giudice delegato.

3.6. Occorre ora chiedersi se la sentenza impugnata dinanzi a questa Corte, conclusiva del giudizio di opposizione di terzo all’esecuzione, nuoccia alla posizione della SIP, e se di conseguenza questa abbia un interesse giuridico, ex art. 100 c.p.c., alla sua rimozione.

A tale ultimo quesito deve darsi risposta negativa.

Del giudizio di opposizione all’esecuzione, anche dopo il fallimento della (OMISSIS), la Corte d’appello non rilevò l’avvenuta interruzione ope legis, ai sensi dell’art. 43, comma 3, L.F.

Né I. S.r.l. risulta mai avere provveduto, anche di sua iniziativa, a notificare alla curatela un atto di riassunzione o di denuntiatio litis.

Il grado di appello del giudizio di opposizione, in definitiva, si è celebrato e si è concluso in assenza della curatela della (OMISSIS) S.a.s.: al fallimento, pertanto, la sentenza d’appello che ha accolto l’opposizione degli eredi M. non potrebbe mai essere opposta.

Orbene, se il giudizio di opposizione ex art. 619 c.p.c. si è concluso con una sentenza inopponibile al fallimento, ciò vuol dire che la pretesa del terzo opponente nei confronti della curatela non ha trovato conferma giudiziale; che di conseguenza la condizione posta dal giudice delegato all’accoglimento della domanda di rivendica proposta dagli eredi M. e P. in sede fallimentare non si è avverata; e che pertanto la sentenza impugnata per cassazione non nuoce alla posizione di I. S.r.l., ma anzi le giova, perché comporterà in sede fallimentare il rigetto della pretesa dei terzi.

Sarebbe stato onere dei terzi opponenti (ovvero i germani M. e P., per il già visto difetto di legittimazione della sua coniuge B.), semmai, impugnare per cassazione una sentenza d’appello che, non essendo stata pronunciata nei confronti della giusta parte (il fallimento), precludeva loro di far valere il relativo accertamento in sede fallimentare, secondo la riserva apposta dal giudice delegato all’accoglimento della domanda di rivendica.

3.7. In conclusione, il ricorso proposto di I. S.r.l. è inammissibile per carenza di interesse, in quanto:

(a) la mancata riassunzione del processo d’appello nei confronti della curatela fallimentare ha fatto sì che la sentenza d’appello fosse a questa inopponibile;

(b) l’inopponibilità della sentenza d’appello alla curatela fallimentare comporta ex se il mancato avveramento della condizione apposta dal giudice delegato all’accoglimento della domanda di rivendica proposta dai germani M. e P. (condizione della cui apposizione nessuna delle parti risulta essersi tempestivamente doluta nelle sedi e con le forme appropriate);

(c) il mancato avveramento della suddetta condizione comporterà il rigetto della domanda di rivendica in sede fallimentare, e priva I. S.r.l. di interesse ad impugnare una sentenza che, lungi dal nuocerle, le giova.

  1. Il residuo (ed eventuale) interesse di I. S.r.l.

4.1. S’è già detto (supra, p. 3.4 della motivazione) come l’esito del presente giudizio di opposizione di terzo, inopponibile al fallimento che non vi ha preso parte, avrebbe potuto conservare una astratta rilevanza per il creditore procedente I. S.r.l., nell’eventualità in cui la società fallita dovesse tornare in bonis, oppure il fallimento dovesse chiudersi senza che il bene oggetto dell’esecuzione forzata sia stato venduto.

La sussistenza di tale residuo interesse impedisce di dichiarare sic et simpliciter inammissibile il ricorso proposto da I. S.r.l. ed impone di esaminarne il merito, beninteso al limitato fine e per la sola eventualità di cui si è appena detto.

4.2. Nei circoscritti limiti di cui si è detto, ambedue i motivi di ricorso sono fondati.

Fondato è, innanzitutto, il motivo col quale la società ricorrente lamenta la nullità della sentenza per insanabile contraddittorietà della motivazione.

La Corte d’appello, infatti, investita (anche) d’una domanda di dichiarazione di inefficacia dell’atto con cui i congiunti M. e P. conferirono nel capitale sociale della (OMISSIS) S.a.s. l’immobile oggetto del contendere, da un lato ha ritenuto che l’atto di conferimento ebbe un oggetto diverso da quanto in esso dichiarato e sulla base di questo rilievo ha accolto l’opposizione; dall’altro però ha ritenuto che gli opponenti non avessero interesse ad una sentenza di inefficacia di quell’atto.

Così giudicando, però, la Corte d’appello ha in definitiva sancito l’inefficacia parziale dell’atto di conferimento compiuto dai tre signori M., P. e L. (reputando che L. avesse conferito meno di quanto dichiarato ed i suoi figli avessero conferito più di quanto dichiarato) e nello stesso tempo ha rigettato la domanda di accertamento dell’inefficacia del suddetto atto.

La Corte d’appello ha perciò compiuto due affermazioni oggettivamente contraddittorie, da un lato accertando l’inefficacia parziale d’un atto e dall’altro reputando inammissibile per difetto di interesse la domanda di accertamento della suddetta inefficacia.

4.3. Fondato, altresì, è il secondo motivo di ricorso.

È noto che i contratti ed i negozi giuridici unilaterali debbano essere interpretati non solo in base alla lettera, ma anche, e principalmente, indagando la volontà delle parti che li hanno posti in essere (art. 1362 c.c., comma 1); e che tale volontà debba desumersi dalla condotta complessiva delle parti, anche posteriore alla stipula (art. 1362 c.c., comma 2).

Nel caso di specie, la Corte d’appello doveva stabilire quali fossero gli effetti di un atto di conferimento di un immobile nel capitale sociale d’una società di persone.

L’atto venne compiuto dai tre comproprietari dell’immobile, ciascuno dei quali dichiarò di voler conferire per intero la quota di cui riteneva di essere titolare.

Evidente era dunque l’intento dei tre soggetti conferenti di attribuire alla società l’intera proprietà del complesso immobiliare.

Dunque il conferimento, da parte dei due germani M., di una quota nominale di proprietà superiore a quella effettivamente posseduta, costituiva per la società un acquisto a non domino, e per i conferenti un atto dispositivo avente ad oggetto una cosa altrui.

Ma poiché il reale dominus della quota ceduta da chi non ne aveva la legittimazione (L.) era presente all’atto, non solo nulla osservò, ma anzi diede volontariamente esecuzione al negozio, manifestò in tal modo ha facta concludentia la volontà di ratificare il conferimento in società dell’intera sua quota, sebbene compiuto in parte non da lui, ma dai suoi figli.

4.4. Dai fatti sopra evidenziati discende, quale conseguenza giuridica, una duplice violazione dell’art. 1362 c.c., comma 2, da parte della Corte d’appello.

Questa, infatti, in primo luogo ha ritenuto che una quota dell’immobile conferito in società fosse rimasta in proprietà del conferente L., nonostante la evidente volontà delle parti di conferire nel capitale sociale della (OMISSIS) S.a.s. tutte le quote di cui erano titolari nella convinzione che la loro somma corrispondesse appunto alla totalità delle quote, e quindi di rendere la costituenda società proprietaria dell’intero immobile.

In secondo luogo, ed in ogni caso, la Corte d’appello ha violato l’art. 1362 c.c., comma 2, per non avere tenuto conto che L., quand’anche per ipotesi avesse davvero conferito nel capitale sociale una quota di proprietà dell’immobile inferiore a quella di cui era effettivamente titolare, in ogni caso nulla oppose al conferimento in società della sua quota restante di proprietà immobiliare da parte dei suoi figli, in tal modo manifestando la volontà di accettarne l’operato e ratificarlo, volontà di per sé idonea a rendere valido e produttivo di effetti il negozio dispositivo compiuto da parte di un soggetto diverso da quello avente la proprietà della cosa che ne costituisce l’oggetto (così già Sez. 3, Sentenza n. 1838 del 19/03/1980, Rv. 405457 – 01, sia pure in fattispecie in parte diversa da quella qui in esame).

4.5. La ritenuta erroneità della sentenza impugnata non ne impone la cassazione con rinvio.

Infatti, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, rigettando l’opposizione proposta da M.E. con l’originario ricorso e da M.M.P. con atto di intervento.

  1. Le spese.

5.1. Nei rapporti tra I. S.r.l. da un lato, ed i tre opponenti dall’altro, le spese seguono la soccombenza.

La decisione nel merito impone a questa Corte di provvedere anche sulle spese dei gradi di merito, che saranno liquidate nel dispositivo.

5.2. Nei rapporti tra I. S.r.l. e le altre parti non è luogo a provvedere sulle spese, attesa la indefensio degli intimati in questa sede.

P.Q.M.

la Corte di cassazione:

– cassa senza rinvio la sentenza impugnata nella parte in cui ha provveduto sull’opposizione per come proposta da B., perché la domanda non poteva essere proposta;

– dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti della curatela del fallimento della (OMISSIS) S.a.s.;

– cassa la sentenza impugnata nei confronti di M. e P. e, decidendo nel merito, rigetta l’opposizione da quest’ultimi proposta, nei limiti e per gli effetti di cui in motivazione;

– condanna M., P. e B., in solido, alla rifusione in favore di I. S.r.l. delle spese del primo grado di giudizio, che si liquidano nella somma di Euro __, di cui __ per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2;

– condanna M., P. e B., in solido, alla rifusione in favore di I. S.r.l. delle spese del giudizio di appello, che si liquidano nella somma di Euro __, di cui __per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2;

– condanna M., P. e B., in solido, alla rifusione in favore di I. S.r.l. delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro __, di cui __ per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di cassazione, il 23 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2019

 

Cass_civ_Sez_III_Sent_05_09_2019_n_22166




Espropriazione presso terzi: obbligatorio deposito delle riserve minime degli enti creditizi

Espropriazione presso terzi: obbligatorio deposito delle riserve minime degli enti creditizi

Corte di Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza n. 21970 del 03/09/2019

Con sentenza del 03 settembre 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione III, in tema di  espropriazione di crediti presso terzi, ha stabilito che dall’obbligatorio deposito delle riserve minime degli enti creditizi presso la banca centrale (o presso un intermediario autorizzato), in forza del Regolamento (CE) della Banca centrale europea n. 1745 del 2003, non deriva un rapporto che implica la restituzione del “tantundem”, bensì un’obbligazione di custodia di liquidità destinata alla funzione pubblica di tutela del risparmio, sicché, essendo intangibili le somme depositate, è corretta la dichiarazione negativa del depositario resa ex art. 547 c.p.c., difettando la sua qualità di “debitor debitoris”.


Corte di Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza n. 21970 del 03/09/2019

Espropriazione presso terzi: obbligatorio deposito delle riserve minime degli enti creditizi

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

M. – ricorrente –

contro

B.S.C. e B.I. – controricorrenti –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere Dott. __;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato __;

udito l’Avvocato __ per delega orale.

Svolgimento del processo

  1. Con ricorso notificato il __ la ricorrente M. ricorre per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Milano numero __, pubblicata il __, con la quale, a conferma della sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Milano, è stata rigettata la domanda volta ad accertare che B.I., contrariamente a quanto dichiarato nel rendere la dichiarazione ex art. 547 c.p.c., sia creditrice di B.S.C., e ciò in relazione alla L. n. 483 del 1993 e ai collegati regolamenti di matrice comunitaria intervenuti successivamente, in particolare il Regolamento CE numero 17452003, che impongono alle banche, per la tutela degli investitori, di costituire riserve obbligatorie minime da depositare presso la Banca Centrale Nazionale (art. 6) o presso un intermediario in ciò autorizzato (art. 10). La ricorrente assume che la Banca d’Italia, contrariamente a quanto dichiarato in sede di pignoramento presso terzi, sia depositaria delle riserve dovute dalle banche anche qualora si avvalga di istituti intermediari per il deposito delle medesime, conservando tutti gli obblighi relativi al deposito.
  2. La ricorrente impugna la sentenza per la parte in cui ha ritenuto che B.I. non sia da considerarsi depositaria delle riserve obbligatorie delle banche affidate all’intermediario in base al Regolamento Europeo n. 17452003, deducendo che tale interpretazione si scontra con la mancata contestazione di tale circostanza da parte di B.I. e con la corretta interpretazione delle norme; inoltre impugna la sentenza per la parte relativa alla liquidazione delle spese di lite poste a carico dell’attrice a favore di B.I., e per la disposta compensazione delle spese tra lei e la litisconsorte B.S.C.
  3. Il ricorso è affidato a 5 motivi cui resistono con controricorso le due parti intimate (B.I. e B.S.C.). B.S.C. ha prodotto memoria. Il P.M. ha concluso come in atti.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5 parte ricorrente deduce violazione degli artt. 112, 115 e 342 c.p.c., in relazione alle violazioni della L. n. 483 del 1993, art. 10 e dei relativi regolamenti attuativi in particolare degli artt. 6 e 10 del Regolamento della Comunità Europea numero 2818-98, poi sostituito dal Regolamento della Comunità Europea numero 1745-2003, con riferimento all’obbligo di costituire una riserva minima presso la banca d’Italia per gli istituti che operano nel mercato del credito. Denuncia in particolare che la Corte di merito non ha dato rilievo al fatto che la B.I. abbia dichiarato, a pag. _ della propria comparsa costitutiva, di essere depositaria dei fondi detenuti a titolo di riserva. Quanto al secondo punto della censura contesta l’interpretazione data al termine “intermediario” come depositario delle riserve, che rinvierebbe al concetto che la banca intermediaria non sia che un tramite del soggetto (banca centrale) tenuto al deposito delle riserve obbligatorie. In sintesi ritiene che la Corte d’appello abbia posto a fondamento del proprio convincimento fatti non affermati da nessuna parte e contrari alle disposizioni normative che regolano la materia delle riserve obbligatorie.

1.1. Il motivo è inammissibile.

1.2. Il vizio processuale dedotto non si confronta con la ratio decidendi, là ove la Corte di merito dimostra di avere solo giuridicamente interpretato le norme da applicare, tenendo conto del fatto che B.I. non è la materiale detentrice o depositaria delle somme in relazione alle quali ha reso la propria dichiarazione di terzo nel procedimento di pignoramento presso terzi. In virtù del principio iura novit curia di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, il giudice ha il potere-dovere di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in giudizio, nonché all’azione esercitata in causa, potendo porre a fondamento della sua decisione disposizioni e principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti, purché i fatti necessari al perfezionamento della fattispecie ritenuta applicabile coincidano con quelli della fattispecie concreta sottoposta al suo esame, essendo allo stesso vietato, in forza del principio di cui all’art. 112 c.p.c., porre a base della decisione fatti che, ancorché rinvenibili all’esito di una ricerca condotta sui documenti prodotti, non siano stati oggetto di puntuale allegazione o contestazione negli scritti difensivi delle parti. (Cass. Sez. 3 -Ordinanza n. 30607 del 27/11/2018).

  1. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia ex art. 360 c.p.c., n. 4 e ex art. 360 c.p.c., n. 3 la violazione degli artt. 6 e 10 Regolamento CE 1745-2003 e infine degli artt. 1, 4 e 12 preleggi in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4.

2.1. La prima parte del motivo è inammissibile per quanto detto sopra al punto 1 in relazione alla deduzione di vizi processuali in un contesto attinente all’interpretazione di norme di diritto da applicare alla fattispecie in esame.

2.2. Per quanto riguarda la deduzione di violazione di norme di diritto sostanziale che regolano la materia delle riserve minime obbligatorie delle banche il motivo si rivela infondato per una ragione affatto diversa da quella affermata dalla sentenza impugnata. Difatti la questione deve essere risolta alla luce dei principi che regolano la materia de qua.

2.3. In base al Reg. CE 1745-2003, nell’esigenza di tutelare coloro che hanno effettuato depositi presso le banche, per gli istituti di credito è previsto l’obbligo di costituzione e di deposito presso la Banca Centrale di riserve minime obbligatorie. Le banche dell’area dell’Euro devono detenere un certo ammontare di fondi nei loro conti correnti presso la Banca Centrale, a titolo di riserve obbligatorie minime. Per ogni banca la riserva obbligatoria minima è stabilita per un periodo denominato “periodo di mantenimento”. Il livello delle riserve è calcolato sulla base dei dati di bilancio della banca prima dell’inizio del periodo di mantenimento e la banca depositaria gestisce e controlla detti conti.

2.4. La lettura testuale della regolamentazione Europea conduce a un significato univoco della natura di tale obbligo, in quanto le riserve costituiscono un patrimonio monetario destinato a costituire la garanzia per l’esercizio dell’attività creditizia, pari a una percentuale k delle passività di una banca, e va depositata presso la Banca Centrale. L’art. 6 Reg. CE 1745-2003 che prevede l’istituzione di riserve obbligatorie minime da parte delle banche presso la Banca Centrale, ammette che l’attività di acquisizione e gestione temporale delle quote di riserva sia svolta da un intermediario autorizzato dalla Banca Centrale. In base all’art. 10 del Regolamento CE 1745-2003 in esame “ogni istituzione può richiedere l’autorizzazione a detenere le proprie riserve obbligatorie minime indirettamente per il tramite di un intermediario residente nello stesso Stato membro”; l’intermediario deve essere un’istituzione soggetta all’obbligo di riserva che generalmente si occupa, “oltre che della detenzione delle riserve obbligatorie minime, anche di parte dell’amministrazione”; l’ultimo paragrafo dell’art. 10 inoltre prevede che “l’intermediario stesso, oltre alle istituzioni per conto delle quali agisce, è responsabile del rispetto dell’obbligo di riserva di tali istituzioni. In caso di inadempienza, la Banca Centrale Europea può irrogare sanzioni all’intermediario, all’istituzione per cui funge da intermediario o a entrambi, a seconda della responsabilità connessa all’inadempienza”.

2.5. Qualora le due funzioni di sorveglianza e custodia delle riserve minime obbligatorie delle banche si scindano ex art. 10 Reg. CE 1745-2003, l’istituto designato come intermediario dalla Banca Centrale per svolgere, in via indiretta, le funzioni di depositario in luogo della Banca Centrale Nazionale, ha quindi una responsabilità correlata all’obbligo di custodia e di gestione, mentre la Banca Centrale Nazionale (B.I.) svolge funzioni di vigilanza unitamente alla Banca Centrale Europea. Pertanto, la ripartizione delle funzioni di custodia e di gestione delle riserve minime obbligatorie tra Banca Centrale, indicata nel regolamento come originaria destinataria dell’obbligo di riceverle, e gli istituti intermediari, determina una responsabilità funzionale e multilivello degli istituti preposti che non è comunque in grado di ingenerare alcun esonero dalla responsabilità nei confronti della BCE, preposta alla politica monetaria Europea o anche solo di trasformare la natura di tale obbligo.

2.6. Il rapporto fiduciario che si instaura tra Banca Centrale Nazionale e banca Intermediaria, in ogni caso, non è valutabile in termini di rapporto contrattuale, perché gli obblighi connessi alla costituzione di riserve minime discendono dalla legge Europea e hanno fonte e natura pubbliche. Detto obbligo è difatti funzionale al perseguimento di obiettivi di politica monetaria dell’Unione Europea e, pertanto, nel sistema risulta irrilevante o indifferente dove siano depositate le somme costituite in riserva, volte a garantire un’attività di pubblico interesse, quale è la raccolta del risparmio. Ne consegue che il rapporto che ne deriva non implica un’obbligazione di custodia e di restituzione del tantundem, come accade invece in un normale contratto di conto corrente bancario o di deposito irregolare.

2.7. La presenza delle riserve minime obbligatorie nel patrimonio delle banche depositarie, pertanto, non va ad incidere sul contenuto della dichiarazione della banca terza pignorata, la quale non si porge agli occhi del creditore pignorante quale debitor debitoris ai sensi dell’art. 547 c.p.c., ma quale custode di conti destinati a una funzione pubblica, come tale intangibili. Lo stesso discorso vale per gli intermediari autorizzati a gestire e detenere dette riserve che siano eventualmente chiamati a rendere tale dichiarazione. Risulta quindi del tutto corretta, in tali casi, la dichiarazione negativa del terzo resa ex art. 547 c.p.c. al creditore pignorante, mancando la qualità di debitor debitoris in capo al soggetto depositario di tale liquidità.

  1. Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione degli artt. 91 e 92 ex art. 360 c.p.c., n. 4 per contestare il provvedimento sulla liquidazione delle spese a favore di B.I. La ricorrente sostiene che B.I. nel primo grado si sia limitata a dedurre di non essere depositaria delle riserve senza far menzione del rapporto con la banca intermediaria se non nella fase di appello, dando pertanto causa alla prosecuzione del procedimento di accertamento del rapporto di credito/debito con la Banca Centrale Nazionale.

3.1. Il motivo è infondato per quanto sopra detto.

3.2. Si osserva, inoltre, che in relazione al contenuto della dichiarazione del terzo, nel sistema non si sovvengono oneri di collaborazione del terzo al di là di quelli previsti dalla legge processuale. In tema di espropriazione presso terzi, il terzo pignorato, nel rendere la dichiarazione ex art. 547 c.p.c., deve fornire indicazioni complete e dettagliate dal punto di vista oggettivo, in modo da consentire l’identificazione dell’oggetto della prestazione dovuta al debitore esecutato, compresi il titolo ed il quantum del credito pignorato; invece, dal punto di vista soggettivo, è necessario e sufficiente che dichiari quali siano i rapporti intrattenuti soltanto col soggetto che nell’atto di pignoramento è indicato come debitore sottoposto ad esecuzione, atteso che l’ambito soggettivo della dichiarazione del terzo è delimitato dall’ampiezza della direzione soggettiva dell’atto di pignoramento, rivolto sia nei confronti del terzo pignorato che del debitore esecutato, in base al titolo esecutivo azionato (Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 5037 del 28/02/2017).

3.3. Per quanto riguarda la censura di mancata compensazione delle liti, il motivo è inammissibile, poiché la valutazione spetta al giudice del merito e tale motivazione non può essere censurata neanche sotto il profilo della mancata motivazione (Cass. SU n. 14989/2005; Cass. 8701/2015; Cass. 7146/2017; Cass. 9115/2017).

  1. Con il quarto motivo la ricorrente deduce violazione degli artt. 5 e 11 del DM 140/2012 ex art. 360 c.p.c., n. 3 e degli artt. 112 e 10 c.p.c. in relazione all’art. 17, non avendo la Corte di merito considerato la censura in ordine al superamento dello scaglione di valore superiore a quello del valore della lite, dichiarato sino ad Euro __ e non oltre.

4.1. Il motivo è inammissibile.

4.2. Il giudice, in presenza di una nota spese specifica prodotta dalla parte vittoriosa, non può limitarsi ad una globale determinazione dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato in misura inferiore a quelli esposti ma ha l’onere di dare adeguata motivazione dell’eliminazione e della riduzione di voci da lui operata, allo scopo di consentire, attraverso il sindacato di legittimità, l’accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti ed alle tariffe, in relazione all’inderogabilità dei relativi minimi, a norma della L. n. 794 del 1942, art. 24 (Sez. 3, Sentenza n. 20604 del 14/10/2015). La Corte di merito ha respinto la censura indicando che il complessivo importo liquidato dal giudice di primo grado, nella misura di Euro __, era addirittura inferiore a quanto indicato nella nota spese dall’appellante qui ricorrente, fornendo quindi adeguata motivazione sulla congruità della parcella anche in relazione allo scaglione di riferimento indicato. Il motivo, dunque, intende indurre questa Corte a svolgere una inammissibile rivalutazione del compenso dovuto al professionista in base alla nota spese depositata, già pienamente considerata dal giudice di secondo grado come conforme alle tariffe e al valore della lite.

  1. Con il quinto motivo la ricorrente deduce violazione degli artt. 91 e 93 c.p.c. nella parte in cui la Corte di merito ha confermato la compensazione delle spese di lite tra la ricorrente e la debitrice principale in ragione della neutralità dimostrata nella vicenda processuale tra ricorrente e la Banca d’Italia, pronunciandosi in tal senso anche per il giudizio di appello. Tale valutazione, in fatto, non intacca alcun principio di diritto in tema di – regolamentazione delle spese processuali.
  2. Conclusivamente il ricorso viene rigettato, con ogni conseguenza in ordine alle spese, che si liquidano in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014 a favore delle parti separatamente resistenti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese, liquidate in Euro __, oltre Euro __ per spese, spese forfettarie al 15% e oneri di legge a favore delle parti intimate qui resistenti.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 27 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 settembre 2019

 

Cass_civ_Sez_III_Sent_ 03_09_2019_n_21970

 




Nel giudizio di opposizione all’esecuzione il creditore procedente ha la posizione del convenuto e può contrastare le deduzioni dell’opponente

Nel giudizio di opposizione all’esecuzione il creditore procedente ha la posizione del convenuto e può contrastare le deduzioni dell’opponente

Tribunale Ordinario di Catania, Sezione IV Civile, Sentenza del 30/08/2019

Con sentenza del 30 agosto 2019, il Tribunale Ordinario di Catania, Sezione IV Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che in seno al giudizio di opposizione all’esecuzione, l’opposto (vale a dire il creditore procedente), ha la posizione del convenuto e può contrastare le deduzioni dell’opponente, sia avvalendosi di eccezioni in senso tecnico (peraltro poco frequenti in un giudizio oppositivo quale è quello de quo), sia mediante mere difese, volte a contestare l’esistenza dei fatti che l’opponente assume a fondamento dell’opposizione ovvero le conseguenze che da tali fatti l’opponente vuole trarre.


Tribunale Ordinario di Catania, Sezione IV Civile, Sentenza del 30/08/2019

Nel giudizio di opposizione all’esecuzione il creditore procedente ha la posizione del convenuto e può contrastare le deduzioni dell’opponente

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI CATANIA

QUARTA SEZIONE CIVILE

Il Tribunale, nella persona del GOT dott. __

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta al n. R.G. __ promossa da:

M. – Attore –

CONTRO

L. – Convenuto –

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il __ M. proponeva opposizione ex art.615, 1 c. c.p.c. avverso il precetto notificatogli su iniziativa di L., con cui gli si intimava il pagamento di Euro __, oltre interessi e spese successive, in esecuzione dell’assegno bancario n.(…) tratto su B., Filiale di __.

A motivo della propria opposizione l’attore sosteneva che il convenuto non aveva diritto di procedere ad esecuzione forzata, stante che l’assegno posto a base dell’atto di precetto era stato rilasciato a garanzia dell’obbligazione di pagamento della somma di Euro __ da corrispondersi mediante pagamento di sessanta rate di Euro __ ciascuna, decorrenti dal __ al __ e ciò in adempimento della scrittura privata del __.

Assumeva ancora che l’attore aveva rilasciato in favore del convenuto ben _ assegni dell’importo di Euro __ ciascuno per un importo complessivo di Euro __che avrebbe dovuto essere scomputato dal credito e che L. non poteva comunque procedere ad esecuzione per l’intero credito senza scomputare i pagamenti parziali intervenuti: chiedeva quindi la sospensione dell’efficacia esecutiva del precetto notificato e, nel merito che fosse accertato e dichiarato che l’opposto non aveva diritto a procedere ad esecuzione forzata: sostegno della propria opposizione produceva l’atto di precetto notificatogli, la scrittura privata del __ e scrittura privata del __.

Resisteva all’opposizione L. che, costituendosi in giudizio, contestava in ogni sua parte l’avversa opposizione, forniva la causale del rapporto sottostante l’emissione del titolo azionato, chiedendo il rigetto tanto della domanda di sospensione dell’efficacia del titolo e del precetto notificati; chiedeva inoltre che fosse dichiarato il suo diritto a procedere ad esecuzione forzata per l’importo indicato in precetto ed in ogni caso che fosse accertata la sussistenza del diritto di credito di L. nei confronti di M. per un importo pari ad Euro __ oltre interessi con condanna di quest’ultimo al pagamento del superiore importo o in subordine della minor somma che fosse stata accertata in corso di causa.

Alla prima udienza il convenuto chiedeva che il giudice disponesse ai sensi dell’art. 107 c.p.c. l’integrazione del contradditorio nei confronti di N., fideiussore di M. in virtù della scrittura privata del __, mentre l’attore reiterava la propria richiesta di sospensione dell’efficacia del titolo esecutivo azionato.

Con ordinanza riservata del __ il precedente giudice assegnatario della causa, Dott. S., rigettava la chiesta integrazione del contraddittorio, rigettava la chiesta sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo e, infine, assegnava alle parti i termini di cui all’art.183, 6 comma c.p.c.

All’esito del deposito delle dette memorie, con ordinanza del __ venivano rigettate tutte le richieste istruttorie e rinviata la causa per la precisazione delle conclusioni.

Dopo vari rinvii, all’udienza del __ la causa veniva trattenuta in decisione con assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c.

Usufruendo dei termini assegnati, le parti hanno depositato le proprie comparse conclusionali.

Motivi della decisione

L’opposizione è parzialmente fondata nei limiti di seguito esplicitati.

Risulta dalla scrittura privata del __ che i sottoscrittori della stessa confermavano l’obbligazione assunta da M., con riferimento al prezzo convenuto nella scrittura privata del __ e che convenivano espressamente che l’odierno attore opponente si obbligasse “a versare ai Sigg. G. e L. la somma di euro __ mediante pagamento di sessanta rate mensili di Euro __ ciascuna a decorrere dal __ al __: a garanzia del puntuale adempimento, M. consegna ai coniugi G. e L. una assegno bancario dell’importo di __ che potrà essere incassato per l’intero importo in caso di inadempimento totale, ovvero per la differenza ovvero sostituito con altro titolo di credito di importo corrispondente al debito esistente”.

Orbene, poiché la scrittura privata è datata __, mentre l’assegno posto a base del precetto reca la data del __, e poiché nella detta scrittura privata è dato atto della consegna dell’assegno, non v’è dubbio che esso fosse all’atto della sua emissione e consegna, postdatato ed assolvesse come riconosciuto nella detta scrittura privata all’obbligazione di garanzia ivi contratta.

Secondo costante giurisprudenza gli assegni in bianco o postdatati, cui spesso si fa ricorso per realizzare il fine di garanzia , seppure nulli, in quanto contrari a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume, conservino natura di promessa di pagamento ai sensi dell’art. 1988 c.c., con la conseguente inversione dell’onere della prova a carico del debitore sull’inesistenza della relativa obbligazione (Corte di cassazione Sez. 1, Sentenza n. 10710 del 24/05/2016: “l’emissione di un assegno in bianco o postdatato, cui di regola si fa ricorso per realizzare il fine di garanzia – nel senso che esso è consegnato a garanzia di un debito e deve essere restituito al debitore qualora questi adempia regolarmente alla scadenza della propria obbligazione, rimanendo nel frattempo nelle mani del creditore come titolo esecutivo da far valere in caso di inadempimento -, è contrario alle norme imperative contenute negli artt. 1 e 2 del R.D. n. 1736 del 1933 e dà luogo ad un giudizio negativo sulla meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, alla luce del criterio della conformità a norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume, enunciato dall’art. 1343 c.c., sicché, non viola il principio dell’autonomia contrattuale sancito dall’art. 1322 c.c. il giudice che, in relazione a tale assegno, dichiari nullo il patto di garanzia e sussistente la promessa di pagamento di cui all’art. 1988 c.c.”).

Applicato al caso di specie, l’enunciato principio di diritto deve estendersi la nullità del titolo all’accordo sottostante per contrarietà a norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume, enunciato dall’art. 1343 c.c.; esso comunque vale quale promessa di pagamento ex art.1988 c.c.

Ciò precisato, parte opposta ha chiesto in ogni caso accertarsi il suo diritto di credito dell’importo di Euro __ e la conseguente condanna dell’attore opponente al pagamento della relativa somma: occorre, a questo punto verificare se tale domanda è ammissibile e, in caso positivo, se essa è fondata.

Ritiene questo giudice che la stessa deve ritenersi ammissibile.

Invero, con il giudizio di opposizione a precetto si apre un giudizio di cognizione di accertamento negativo con cui, se da una parte il debitore eccepisce l’inesistenza del credito, dall’altra il creditore può legittimamente proporre ogni eccezione per ottenere la realizzazione del proprio credito, e finanche proporre domanda riconvenzionale al fine di ottenere la condanna del debitore al pagamento della somma dovuta, conseguendo una pronuncia, allo stesso favorevole, che costituisca nuovo titolo esecutivo, da far valere in aggiunta o in sostituzione di quello originariamente fatto valere.

Tale principio di diritto è stato affermato più volte dalla Suprema Corte, la quale, in particolare con sentenza Cass. civ., sez. III, 20 marzo 2012 n. 4380, ha enunciato che, nei giudizi di opposizione all’esecuzione, “L’opposto (vale a dire il creditore procedente) ha la posizione del convenuto (cfr. Cass. n. 14554/2000 ed altre) e può contrastare le deduzioni dell’opponente, sia avvalendosi di eccezioni in senso tecnico (peraltro poco frequenti in un giudizio oppositivo quale è quello de quo), sia mediante mere difese, volte a contestare l’esistenza dei fatti che l’opponente assume a fondamento dell’opposizione ovvero le conseguenze che da tali fatti l’opponente vuole trarre. Soltanto nel caso in cui l’opposto intenda munirsi di un titolo esecutivo che si aggiunga o si sostituisca a quello oggetto di opposizione ha facoltà di proporre domanda riconvenzionale, nel rispetto delle preclusioni previste per la relativa proposizione (cfr. già Cass. n. 3849/88 e n. 11097/96, nonché Cass. n. 7225/06 e n. 9494/07).”, v. anche Cass. n. 14554/2000; n. 8399/2003.

Posta dunque l’ammissibilità della domanda riconvenzionale, e la validità dell’assegno quale promessa di pagamento ex art.1988 c.c. con inversione dell’onere probatorio, occorre verificare se, in effetti parte opponente ha fornito la prova in tutto o in parte dell’estinzione della propria obbligazione.

In merito, si rileva che M. non ha provato di avere estinto il proprio debito né di avere corrisposto mediante gli asseriti quattordici assegni, ciascuno dell’importo di Euro __, la somma di Euro __: sul punto si rileva che la produzione degli assegni effettuata dall’attore solo con la terza memoria ex art. 183 c.p.c., deve ritenersi tardiva, stante che con la detta memoria avrebbe potuto articolare prove contrarie e produrre documenti che si fossero resi necessari in seguito al deposito della seconda memoria istruttoria di parte convenuta; ma la produzione dei detti assegni riguardava un assunto già espresso in sede di opposizione e, pertanto, doveva essere provato mediante prova diretta al più tardi mediante la loro produzione con la seconda memoria ex 183, 6 comma c.p.c.

Solo per completezza si osserva che la produzione dei detti assegni non prova nulla, stante che essi sono emessi all’ordine di terzi soggetti diversi dall’odierno convenuto.

Né può essere presa in alcuna considerazione la domanda di compensazione avanzata dall’opponente per la prima volta con la memoria 183, 6 comma n.1 c.p.c., stante la tardività della relativa domanda e la sua genericità.

Ed invero, con la detta memoria è possibile solo precisare le domande già spiegate, nei limiti consentiti di una emendatio libelli, ma non ampliare il thema decidendum mediante l’introduzione di domande nuove che costituiscono eccezioni nuove, mai sollevate prima e che comportano dunque una vera e propria mutatio libelli; fermo restando che la chiesta compensazione è del tutto generica e non supportata da alcuna idonea prova, visto che parte attrice non ha articolato nessun mezzo di prova atta a documentare quanto percepito dal convenuto opposto da parte dell’A. dalla data indicata nel contratto ad oggi, e considerato che la produzione dell’allegato __ alla terza memoria 183 c.p.c. è da considerarsi tardiva per le medesime ragioni sopra spiegate (al più il detto documento avrebbe dovuto essere prodotto con la seconda memoria 183 c.p.c.): in ogni caso si riferisce a soggetto diverso dal convenuto.

Ne consegue che non avendo parte attrice provato in giudizio l’estinzione della propria obbligazione in tutto o in parte, la stessa andrà condannata al pagamento in favore dell’opposto della somma di Euro __; ogni altra questione rimane assorbita.

Stante l’esito della controversia, si ritiene giusto compensare interamente tra le parti le spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, così dispone:

Accoglie l’opposizione formulata da M. e per l’effetto dichiara che L. non ha diritto a procedere ad esecuzione forzata in virtù dell’assegno n.(…) tratto su B., Filiale di __ e rilasciato a garanzia dell’obbligazione assunta con scrittura privata del __ e pertanto dichiara privo di efficacia l’atto di precetto opposto notificato il __.

Accoglie la domanda riconvenzionale proposta da L. e, conseguentemente, condanna l’attore a pagare al convenuto la somma di Euro __ con gli interessi legali dalla data della domanda giudiziale al soddisfo.

Rigetta ogni altra domanda.

Compensa tra le parti interamente le spese di lite.

Così deciso in Catania, il 18 agosto 2019.

Depositata in Cancelleria il 30 agosto 2019.

 

Tribunale_Catania_Sez_IV_Sent_30_08_2019

 

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Nell’ambito del giudizio di opposizione all’esecuzione, si può contestare solo la regolarità formale o l’esistenza del titolo esecutivo giudiziale

Nell’ambito del giudizio di opposizione all’esecuzione, si può contestare solo la regolarità formale o l’esistenza del titolo esecutivo giudiziale

Tribunale Ordinario di Treviso, Sezione II Civile, Sentenza del 29/08/2019

Con sentenza del 29 agosto 2019, il Tribunale Ordinario di Treviso, Sezione II Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che nell’ambito del giudizio di opposizione all’esecuzione, si può contestare solo la regolarità formale o l’esistenza del titolo esecutivo giudiziale, ma non il suo contenuto decisorio.


Tribunale Ordinario di Treviso, Sezione II Civile, Sentenza del 29/08/2019

Nell’ambito del giudizio di opposizione all’esecuzione, si può contestare solo la regolarità formale o l’esistenza del titolo esecutivo giudiziale

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI TREVISO

SEZIONE SECONDA CIVILE

Il Giudice, dott.ssa __, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Nella causa civile di primo grado iscritta al numero __ del ruolo generale affari contenziosi, assunta in decisione all’udienza di discussione del __

TRA

W. S.r.l., S., – N., J. e R. – attori –

CONTRO

I. S.p.A. (già U. S.p.A.) – convenuta –

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con atto di precetto notificato in data __ (doc. 1 attoreo) U. S.p.A., ora I. S.p.A., ha intimato a W. S.r.l., quale debitrice principale, e al sig. S., quale garante, il pagamento della somma di Euro __ in forza del decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo n. __ del Tribunale di Treviso.

La creditrice, premesso che S. e la moglie N., con atto notarile del __, avevano costituito un trust, segregandovi i beni immobili indicati in atto di precetto, con riserva a proprio favore del diritto di abitazione, disponendo che alla propria morte il trust trasferisca la proprietà dei beni ai figli J. e R., notificava il precetto ex art. 2929 bis c.c. anche ai sigg. N., J., R. e W., quest’ultima quale legale rappresentante del trustee la società G. S.r.l. (doc. 7 attoreo).

Con atto di citazione portato alla notifica il __ e ricevuto il __ gli attori W. s.r.l. e S., premesso che la Banca nel ricorso per decreto ingiuntivo aveva indicato quale causale del credito la presenza di insoluti nelle seguenti posizioni:

1) Euro __ in linea capitale, oltre interessi legali maturati dalla data di estinzione per classificazione a sofferenze, oltre Euro __ al titolo di saldo debitore nel rapporto di conto corrente (…),

2) euro __ in linea capitale oltre interessi legali maturati sino al __, oltre euro __per capitale residuo di ammortamento di rate scadute rimaste imparate e interessi di mora; del rapporto di mutuo chirografario numero (…) dell’importo di Euro __ concesso in data __;

3) euro __ in linea capitale, oltre interessi legali maturati sino al __ pari a Euro __ per capitale residuo in ammortamento, rate impagate maturate prima della risoluzione per inadempimento;

4) euro __ capitale quale residuo ammortamento di rate scadute e rimaste impagate; del rapporto di mutuo chirografari o numero (…) dell’importo originario di Euro __ concesso derogato in data __.

– Nel rapporto la banca dichiarava di aver diritto al recupero delle somme presso il suo garante e fideiussore S. in virtù delle seguenti garanzie prestate:

a) fideiussione bancaria specifica in data __ rilasciata a garanzia del mutuo chirografari numero (…), dell’importo originario di Euro __;

b) fideiussione bancaria omnibus in data __ dell’importo massimo di Euro __;

c) fideiussione bancaria omnibus in data __ dell’importo massimo garantito di Euro __;

d) fideiussione bancaria specifica in data __ rilasciata a garanzia del mutuo chirografari o numero (…) dell’importo originario di Euro __;

proponevano opposizione al precetto contestando:

– la nullità dei contratti di mutuo in quanto stipulati per estinguere debiti pregressi;

– la nullità dei contratti di mutuo ex artt. 1325, 1343, 1345, 1346, e 1348 c.c.;

– la natura fondiaria del contratto di mutuo, essendo le somme state erogate per estinguere debiti pregressi;

– la nullità del precetto per essere le somme intimate errate, incerte e, comunque, non dovute alla luce dei conteggi effettuati dal consulente tecnico in relazione ai singoli contratti di mutuo.

Il Giudice osserva sin d’ora che i conteggi sono stati eseguiti sul presupposto della fondatezza delle contestazioni in merito alla validità dei contratti e/o delle singole clausole che le relazioni, non sottoscritte, recano entrambe la data __ quale data analisi (v. doc. 3 e 4 attorei).

– l’invalidità dei contratti di finanziamento e delle fideiussioni per violazione degli articoli 1418, 1175 e 1373 c.c. e dell’art. 119 T.U.B.;

– la pattuizione di interessi usurari, essendo il tasso degli interessi corrispettivi sommato a quello degli interessi moratori superiore al tasso soglia;

– la ricorrenza della usura soggettiva, con conseguente danno patrimoniale della società debitrice;

– la nullità della clausola relativa agli interessi per mancanza del piano di ammortamento;

– l’effetto anatocistico conseguente alla adozione di un piano di ammortamento alla francese, previsto in contratto;

– la nullità di contratti di fideiussione per difetto della sottoscrizione da parte della Banca; perché sottoscritte in bianco dal garante e poi riempite successivamente ad arbitrariamente dalla Banca; ex art. 1956 c.c.

La società ed il garante, infine, contestavano la illegittimità della segnalazione alla centrale dei rischi con conseguente richiesta di risarcimento del danno quantificato in via equitativa in Euro __.

Infine, i sigg. N. proponevano opposizione al precetto contestando il diritto della Banca ad agire esecutivamente sui beni costituiti in trust, tenuto anche conto che il garante S. era proprietario di altri beni e che il valore dei beni costituiti in trust superava di molto quello del credito intimato.

Costituendosi la convenuta, premesso che:

a) i debitori ingiunti non avevano proposto opposizione al decreto ingiuntivo n. __ del Tribunale di Treviso che, pertanto, era divenuto definitivo (docc. 5 e 6 convenuta);

b) che in data __ era scaduto il termine annuale ex art. 2929 bis, co. 1, per la trascrizione del pignoramento c.d. revocatorio senza che tale trascrizione fosse intervenuta, sì che veniva meno l’interesse della Banca creditrice ad instaurare l’azione esecutiva annunciata con l’atto di precetto oggetto della presente opposizione; mentre l’atto di citazione era stato portato alla notifica il __ (v. doc. 3 convenuta);

chiedeva dichiararsi:

– l’inammissibilità della opposizione in quanto fondata su ragioni di merito che avrebbero dovuto essere fatte valere in sede di opposizione al decreto ingiuntivo, non avendo gli attori allegato alcun fatto modificativo o estintivo successivo al deposito del ricorso per decreto ingiuntivo;

– il difetto di legittimazione attiva di N., J., R. essendo legittimato passivo il trustee G. S.r.l. in quanto terzo esecutato non debitore.

Con ordinanza del __ resa a scioglimento della prima udienza di prima comparizione delle parti e trattazione il precedente Giudice ritenuto che non sussistano gravi motivi che giustifichino la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo esecutivo (in particolare, non è apprezzabile il probabile fondamento dell’opposizione, riguardante fatti anteriori alla formazione del titolo);

ritenuto, altresì, che la concessione dei termini di cui all’art. 183, sesto comma, c.p.c., rientri nel potere direzionale sancito dall’art. 127 c.p.c. del Giudice il quale deve salvaguardare la ragionevole durata del processo laddove non sussistano esigenze difensive o istruttorie utili ai fini della decisione (al riguardo, Cass. 4767/16 ha riconosciuto che “In forza del combinato disposto dell’art. 187, comma 1, c.p.c. e dell’art. 80-bis disp. att. c.p.c., in sede di udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione della causa ex art. 183 c.p.c., la richiesta della parte di concessione di termine ai sensi del comma 6 di detto articolo non preclude al giudice di esercitare il potere di invitare le parti a precisare le conclusioni ed assegnare la causa in decisione, atteso che, ogni diversa interpretazione delle norme suddette, comportando il rischio di richieste puramente strumentali, si porrebbe in contrasto con il principio costituzionale della durata ragionevole del processo, oltre che con il favor legislativo per una decisione immediata della causa desumibile dall’art. 189 c.p.c.”), rigettava ogni diversa istanza e fissava per la precisazione delle conclusioni l’udienza del __, all’esito della quale il Giudice tratteneva la causa in decisione previa assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c..

Deve preliminarmente confermarsi l’ordinanza del __ sopra riportata anche alla luce della successiva pronuncia della Corte di Cassazione per la quale “Qualora venga dedotto il vizio della sentenza di primo grado per avere il tribunale deciso la causa con riferimento ad una questione preliminare di merito senza aver prima assegnato i termini di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, l’appellante che faccia valere tale nullità – una volta escluso che la medesima comporti la rimessione della causa al primo giudice – non può limitarsi a dedurre tale violazione, ma deve specificare quale sarebbe stato il fatto rilevante sul quale il giudice di primo grado si sarebbe dovuto pronunciare ove fosse stata consentita la richiesta appendice di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, e quali prove sarebbero state dedotte, poiché in questo caso il giudice d’appello è tenuto soltanto a rimettere le parti in termini per l’esercizio delle attività istruttorie non potute svolgere in primo grado” (così Cass. Cassazione civile sez. I, 02/02/2018, (ud. 25/10/2017, dep. 02/02/2018), n.2626).

Parti attrici sia nella istanza depositata il 22.02.2019 che nella comparsa conclusionale si sono limitate a riproporre le medesime istanze istruttorie già indicate in atto di citazione:

– l’ammissione di C.T.U. contabile, già chiesta a pagina 45 e s. laddove di legge:

1) “Determini il CTU il TEG medio applicato al contratto di mutuo ai sensi della L. n. 108 del 1996: … omissis … Per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito”; 2) Determini inoltre il CTU il TEG medio trimestrale applicato a detti conti e posizioni sopracitate se previsto; 3) A seguito del risultato ottenuto, il CTU esegua il ricalcolo del DELLE SOMME applicando le seguenti condizioni: a) se il TEG supera la soglia usura, applichi gli interessi attivi secondo gli art. 116 e 117 del TUB e gli interessi passivi ai sensi del secondo comma dell’art. 1815 del c.c.:  … omissis … Se sono convenuti interessi usurari la clausola è nulla e non sono dovuti interessi; b) se il TEG non supera la soglia usura, applichi gli interessi attivi secondo gli art. 116 e 117 del TUB e gli interessi passivi al tasso legale; c) nessuna capitalizzazione degli interessi per evitare l’anatocismo; d) decorrenza degli interessi per data operazione; e) esclusione dai calcoli della commissione massimo scoperto; f) esclusione dai calcoli di ogni spesa non esplicitamente concordata ed accettata per iscritto dal correntista; g) esclusione dai calcoli di ogni addebito non direttamente collegato ai conti correnti indicati quali commissioni relative a rapporti di sconto effetti, anticipi fatture\ o altri documenti, ogni eventuale altro costo comunque di non stretta competenza del conto in esame. Con riserva di più analiticamente indicare i quesiti tecnici di specie”.

Istanza riproposta esattamente negli stessi termini a pagina __ della comparsa conclusionale.

– l’istanza di esibizione ex art. 210 c.p.c. “di tutta la rendicontazione riferita al rapporto in contestazione (dettagli dei piani di ammortamento e conti scalari, a far data dall’inizio dei rapporti stessi e quant’altro fosse stato aperto) presso la banca convenuta, oltre ad ogni documento contabile e contrattuale riferito anche alle fideiussioni vantate ed escusse nel presente giudizio come da documenti prodotti” (pag. _ atto di citazione).

Istanza riproposta esattamente negli stessi termini a pagina _ della comparsa conclusionale.

– la richiesta di disporre “l’interrogatorio formale del direttore della Banca convenuta in persona del suo legale rappresentante e prova per testi (con particolare riferimento all’accertamento e alla quantificazione del danno morale ed esistenziale, ove contestato), con riserva di indicare i testi e i capitoli di prova nei termini e nei modi di cui all’art. 183 commi VI CPC” (pag. _ atto di citazione).

Istanza riproposta sostanzialmente negli stessi termini a pagina _ della comparsa conclusionale, laddove si legge “ammettere prova per testi e l’interrogatorio formale del direttore della filiale della Banca interessata ovvero di colui che ha rappresentato la banca nella fase di sottoscrizione del contratto di mutuo oggetto di causa”.

Nel merito le domande attoree sono inammissibili e devono essere rigettate.

Con l’atto di citazione in opposizione parti attrici hanno dedotto che le somme oggetto del precetto impugnato non sono dovute sollevando eccezioni inerenti fatti anteriori alla formazione del titolo giudiziale e, pertanto, deducibili esclusivamente nel relativo procedimento giudiziale o con i mezzi ordinari di impugnazione (v. Cass. Civ. III n. 8928/2006).

Infatti, “nel giudizio di opposizione all’esecuzione è possibile contestare solo la regolarità formale o l’esistenza del titolo esecutivo giudiziale, ma non il suo contenuto decisorio” (Cass. nn. 08/22402, 08/24752).

L’inammissibilità delle domande aventi ad oggetto l’esistenza dei crediti e correlativi insoluti della debitrice principale e del garante, crediti definitivamente accertati con il decreto ingiuntivo n. __ del Tribunale di Treviso, comporta l’infondatezza della domanda avente ad oggetto la dedotta illegittimità della segnalazione alla centrale dei rischi.

Infine, deve dichiararsi il difetto di legittimazione attiva degli attori N., J. e R., che hanno agito rispettivamente quale disponente e quali beneficiari dei beni costituiti in trust, rispetto ai quali era stata preannunciata l’esecuzione ex art. 2929 bis c.c., essendo unico legittimato passivo il Trustee (v. Cass. civ. sez. III n. 19376/2017 e Cass. Civ. Sez. I n. 25800/2015).

Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo secondo lo scaglione medio delle cause di valore indeterminato a complessità media, esclusa la fase di istruttoria.

P.Q.M.

Il Tribunale definitivamente pronunciando, ogni diversa domanda o eccezione respinta:

1) rigetta l’opposizione;

2) condanna W. S.r.l., S., N., J., R., in solido fra loro, a pagare a favore di I. S.p.A. le spese di lite che liquida in Euro __ per compensi, oltre 15% spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge.

Così deciso in Treviso, il 27 agosto 2019.

Depositata in Cancelleria il 29 agosto 2019.

 

Tribunale_Treviso_Sez_II_Sent_29_08_2019

 

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