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Fallimento crediti privilegiati e ripartizione dell’attivo

Fallimento crediti privilegiati e ripartizione dell’attivo

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 9027 del 15/05/2020

Con ordinanza del 15 maggio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che:

  • il credito del professionista che abbia predisposto la documentazione necessaria per l’ammissione al concordato preventivo non è prededucibile nel successivo fallimento ove l’ammissione alla procedura minore sia stata revocata per atti di frode dei quali il professionista stesso fosse a conoscenza;
  • la collocazione del credito in prededuzione richiede un’indagine in merito al ricorrere dei presupposti perché il credito, ove riconosciuto esistente, possa essere soddisfatto con la precedenza processuale riconosciuta dall’art. 111-bisF. (R.D. n. 267 del 1942).

 

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 9027 del 15/05/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. __ proposto da:

T. – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – controricorrente –

avverso il decreto n. __ del Tribunale di Pescara del __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal cons. Dott. ___.

Svolgimento del processo

  1. Il Giudice delegato al fallimento di (OMISSIS) S.r.l. ammetteva al passivo della procedura il credito vantato da T. – in ragione dell’attività di consulenza e assistenza svolta in favore della società in bonis nel corso dell’intera procedura concordataria che aveva preceduto la dichiarazione di fallimento – per Euro __, oltre accessori, con collocazione in privilegio ex art. 2751-bis c.c., n. 2 piuttosto che con la prededuzione richiesta.

Il diniego della prededuzione trovava giustificazione nella mancanza di utilità dell’opera professionale prestata per la massa dei creditori.

  1. Il Tribunale di Pescara, a seguito dell’opposizione presentata da T., osservava che la presunzione di funzionalità delle prestazioni professionali che avevano condotto all’ammissione della procedura concorsuale poteva essere superata, in caso di successivo fallimento, dalla dimostrazione di una manifesta inutilità, se non addirittura di una dannosità, del concordato per i creditori.

Nel caso di specie la procedura di concordato, inizialmente aperta, era stata poi revocata ai sensi della L.F., art. 173 a seguito della scoperta di circostanze comportanti il venir meno della fattibilità anche giuridica del concordato (costituite dall’esistenza di un provvedimento di sequestro penale gravante sull’immobile aziendale per omesso versamento dell’IVA e dall’escussione da parte del creditore B. del pegno su titoli annoverati all’attivo della procedura).

Queste circostanze, benché note ai professionisti che avevano assistito la società già in epoca precedente alla predisposizione della versione emendata della proposta presentata in data __, non erano mai state evidenziate nelle modifiche ed integrazioni apportate all’originaria domanda concordataria e avevano compromesso la correttezza delle informazioni fornite al ceto creditorio in funzione del voto.

Il giudizio di adeguatezza funzionale dell’attività professionale non poteva quindi che essere negativo – a giudizio del collegio dell’opposizione – a motivo della sopraggiunta revoca L.F., ex art. 173 “proprio in virtù della violazione da parte del professionista di quegli obblighi che se assolti diligentemente avrebbero al contrario portato all’omologa”.

In virtù di tali argomenti il Tribunale rigettava l’opposizione proposta da T., con decreto del __.

  1. Per la cassazione di tale decreto ha proposto ricorso lo stesso T. prospettando due motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso il fallimento di (OMISSIS) S.r.l..

Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

Motivi della decisione

4.1 Il primo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L.F., art. 111, in quanto il Tribunale avrebbe aderito a un’interpretazione della norma secondo cui la prededuzione deve essere riconosciuta in tutti i casi in cui la prestazione professionale si presenti in un rapporto di strumentalità rispetto alle finalità perseguite dalla procedura e, dunque, a condizione che da essa sia derivato un vantaggio concreto per la massa dei creditori.

Una simile interpretazione tuttavia – in tesi di parte ricorrente – non sarebbe coerente con la più recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui il credito del professionista derivante dall’attività di consulenza e assistenza prestata al debitore, ammesso al concordato preventivo, per la redazione e la presentazione della relativa domanda è prededucibile senza che sia necessario verificare il risultato delle prestazioni svolte oppure la loro utilità per la massa.

L’interpretazione attribuita dal Tribunale all’art. 111 Cost. sarebbe inoltre in contrasto con la ratio della norma, che intende prevedere un’agevolazione e incentivazione al ricorso a forme di soluzione concordata della crisi, riconoscendo la prededuzione ai crediti in rapporto di strumentalità rispetto alle finalità perseguite dalla procedura concorsuale.

4.2 Il motivo è infondato, nei termini che si vanno a illustrare.

4.2.1 La giurisprudenza di questa Corte ha oramai da tempo intrapreso un percorso evolutivo volto ad affrancare la categoria dei crediti prededucibili in ragione del loro carattere funzionale dal presupposto di un controllo giudiziale sulla loro utilità.

In questa prospettiva interpretativa è stato dapprima sottolineato (Cass. 5098/2014) che anche ai crediti sorti anteriormente all’inizio della procedura di concordato preventivo, non occasionati dallo svolgimento della medesima procedura, può riconoscersi la prededucibilità ove sia applicabile il secondo criterio richiamato dalla L.F., art. 111, comma 2, quello cioè della funzionalità, o strumentalità, delle attività professionali da cui i crediti hanno origine rispetto alla procedura concorsuale; ciò in ragione dell’evidente ratio della norma, individuabile nell’intento di favorire il ricorso al concordato preventivo, nel quadro della riforma di tale procedura, diretta a predisporre un possibile strumento di composizione della crisi idoneo a favorire la conservazione dei valori aziendali.

Atteso che la medesima ratio sta alla base del disposto della L.F., art. 67, lett. g), (norma che sottrae alla revocatoria fallimentare i pagamenti dei debiti liquidi ed esigibili eseguiti dall’imprenditore per ottenere la prestazione di servizi strumentali all’accesso alla procedura di concordato preventivo), si è di conseguenza ritenuto che il nesso funzionale che, in caso di mancato pagamento, giustifica la prededucibilità dei crediti derivanti dalle prestazioni stesse, pur se sorti prima dell’inizio della procedura, sia ravvisabile nella strumentalità di queste prestazioni rispetto all’accesso alla procedura concorsuale minore.

È stato in seguito precisato (Cass. 6031/2014) che il disposto della L.F., art. 111, comma 2, deve essere inteso, tenuto conto della ratio della riforma volta a incentivare gli strumenti di composizione della crisi e a favorire la conservazione dei valori aziendali, nel senso che il credito sorto in funzione di una procedura concorsuale è senza dubbio anche quello sorto “per ottenere la prestazione di servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali” L.F., ex art. 67, lett. g), quale l’attività prestata in favore dell’imprenditore poi dichiarato fallito in funzione dell’ammissione del medesimo alla procedura di concordato preventivo, non rilevando la natura concorsuale del credito stesso, per essere sorto in periodo anteriore al fallimento; prova ne sia che la L.F., art. 182-quater, comma 2, individua come crediti prededucibili anche i crediti sorti prima dell’apertura della procedura “in funzione della presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo”, rimanendo così confermato il significato dell’enunciato “in funzione”, che richiama il concetto di “servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali” utilizzato dalla L.F., art. 67, lett. g), e della possibilità di intendere l’enunciato “strumentale a” come sinonimo di “funzionale” (valutazione condivisa da Cass. 19013/2014).

Dunque secondo l’orientamento sopra riassunto i crediti sorti a seguito delle prestazioni rese in favore dell’imprenditore per la redazione della domanda di concordato preventivo e per la relativa assistenza rientrano fra quelli da soddisfarsi in prededuzione ai sensi della L.F., art. 111, comma 2, poiché questa norma individua un precetto di carattere generale, privo di restrizioni, che, per favorire il ricorso a forme di soluzione concordata della crisi d’impresa, introduce un’eccezione al principio della par condicio creditorum, estendendo in caso di fallimento la prededucibilità a tutti i crediti sorti in funzione di precedenti procedure concorsuali (Cass. 1765/2015).

In altri termini la verifica del nesso di funzionalità/strumentalità deve essere compiuta controllando se l’attività professionale prestata possa essere ricondotta nell’alveo della procedura concorsuale minore e delle finalità dalla stessa perseguite secondo un giudizio ex ante, non potendo l’evoluzione fallimentare della vicenda concorsuale, di per sé sola e pena la frustrazione dell’obiettivo della norma, escludere il ricorso all’istituto.

Nessuna verifica deve invece essere compiuta, ove alla procedura minore consegua il fallimento, in ordine al conseguimento di un’utilità in concreto per la massa dei creditori, concetto che non può essere confuso o sovrapposto a quello di funzionalità.

La collocazione in prededuzione prevista dalla L.F., art. 111, comma 2, costituisce infatti, come detto, un’eccezione al principio della par condicio che intende favorire il ricorso a forme di soluzione concordata della crisi d’impresa e rimane soggetta alla verifica delle sole condizioni previste dalla norma in parola.

L’utilità concreta per la massa dei creditori – a prescindere dal fatto che l’accesso alla procedura di concordato preventivo costituisce di per sé un vantaggio per i creditori ove si tenga conto degli effetti della consecuzione delle procedure, tra cui la cristallizzazione della massa e la retrodatazione del periodo sospetto ai fini dell’esperimento della revocatoria fallimentare, come ha ricordato Cass. 6031/2014 – non rientra invece nei requisiti richiesti e nelle finalità perseguite dalla norma in questione e non deve perciò essere in alcun modo indagata (Cass. 1182/2018).

Non vi è dubbio quindi in linea generale che il credito del professionista che abbia funto da advisor nella predisposizione della domanda di concordato rientri tra i crediti sorti “in funzione” di quest’ultima procedura e, come tale, a norma della L.F., art. 111, comma 2, vada soddisfatto in prededuzione nel successivo fallimento, senza che, ai fini di tale collocazione, debba essere accertato, con valutazione ex post, che la prestazione resa sia stata concretamente utile per la massa in ragione dei risultati raggiunti.

4.2.2 Occorre tuttavia considerare come nel caso di specie il Tribunale abbia accertato che la procedura concordataria, nonostante il voto favorevole espresso dai creditori, fosse stata revocata ai sensi della L.F., art. 173, su segnalazione dei commissari giudiziali, a causa della scoperta di atti di frode imputabili anche al professionista, consistiti nell’omessa indicazione all’interno della versione modificata della proposta di circostanze emerse dopo l’avvio della procedura ed idonee a trarre in inganno i creditori sulle loro effettive prospettive di soddisfacimento.

Un simile accertamento è ostativo all’applicazione dei principi appena richiamati.

A questo proposito questa Corte ha già ritenuto che il credito del professionista che abbia predisposto la documentazione necessaria per l’ammissione al concordato preventivo non è prededucibile nel successivo fallimento ove l’ammissione alla procedura minore sia stata revocata per atti di frode dei quali il professionista stesso fosse a conoscenza (Cass. 3218/2017).

Ciò non solo e non tanto perché la prestazione professionale svolta non è stata di alcuna utilità per la procedura, ma piuttosto perché un’attività che si caratterizzi per la condivisione da parte del professionista dell’atto di frode commesso dall’imprenditore rimane estranea alle forme di soluzione concordata della crisi di impresa che la L.F., art. 111, comma 2, intende favorire, poiché una simile agevolazione deve intendersi riservata alle prestazioni che si propongano di perseguire un disegno di risanamento secondo lecite modalità di sviluppo della procedura e nel rispetto dell’interesse del ceto creditorio.

In altri termini è evidente che una prestazione che si caratterizzi per il fatto che il professionista fosse a conoscenza dell’incompleta disclosure compiuta dall’imprenditore a discapito dell’interesse dei creditori non può essere in alcun modo ricondotta nell’alveo della procedura concorsuale minore e delle finalità risanatorie dalla stessa perseguite, dato che la procedura concordataria è capace di perseguire la composizione della crisi unicamente se e in quanto il suo svolgimento sia rispettoso delle indicazioni del legislatore.

L’atto funzionale alla procedura concordataria non può quindi che essere quello ispirato a criteri legali.

5.1 Il secondo mezzo lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione degli artt. 1176 e 2236 c.c. e, nel contempo, si duole dell’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio: il provvedimento impugnato avrebbe rigettato l’opposizione, confermando l’ammissione del credito in via privilegiata, con un’evidente incongruenza e illogicità della motivazione nel nesso tra la motivazione e il decisum, in quanto – a dire del ricorrente apparirebbe fuor di luogo ogni argomento in merito al preteso, mai dimostrato, inadempimento del professionista in presenza di un’ammissione del credito al passivo, la quale faceva sì che non potesse esservi alcuna discussione sui contenuti dell’operato professionale.

Peraltro il Tribunale, nell’affermare la responsabilità del professionista per inadempimento, avrebbe trascurato di considerare che questi invece aveva provveduto a informare compiutamente gli organi della procedura in merito alle vicende che avevano interessato l’immobile della società proponente e l’escussione dei titoli da parte di B., le quali erano state poi portate all’attenzione dei creditori in data antecedente all’adunanza per l’esercizio del diritto di voto.

Infine il collegio dell’opposizione non si sarebbe premurato di pronunciarsi sulla disparità di trattamento intercorsa tra il credito vantato dal professionista asseveratore del piano, ammesso in prededuzione, e il credito di chi invece aveva predisposto il medesimo.

5.2 Il motivo risulta in parte infondato, in parte inammissibile.

5.2.1 In linea generale l’ammissione del credito al passivo della procedura involge un’indagine sull’esistenza del credito dell’istante nei confronti del fallito, da compiersi secondo i generali criteri civilistici (indagine che nel caso di specie rimaneva preclusa al collegio dell’opposizione, in assenza di impugnazione sul punto; Cass. 9928/2018).

La collocazione del credito in prededuzione richiede invece un’indagine in merito al ricorrere dei presupposti perché il credito, ove riconosciuto esistente, possa essere soddisfatto con la precedenza processuale riconosciuta dalla L.F., art. 111-bis (Cass. 15724/2019).

La prospettiva di indagine dei due diversi profili contenuti nella domanda di ammissione al passivo in prededuzione involge quindi due piani – l’uno sostanzialistico, l’altro procedurale – diversi e autonomi fra loro.

Il motivo in esame confonde i due piani, creando un’indebita promiscuità fra loro e ritenendo che la soluzione positiva assegnata a un profilo della domanda di ammissione al passivo (in merito all’ammissione del credito) comporti un’automatica e analoga soluzione anche rispetto all’altra richiesta presentata (al fine della collocazione in prededuzione), quando invece la verifica della esistenza e consistenza del credito non comporta affatto che al credito ammesso debba essere riconosciuta in via consequenziale la prededuzione richiesta.

Al contrario la valutazione compiuta ai fini dell’ammissione del credito non investe il profilo della strumentalità della prestazione professionale alle finalità perseguite dalla procedura concordataria, che deve essere verificata controllando – come detto – se l’attività professionale prestata potesse essere ricondotta nell’alveo della procedura concorsuale minore e delle finalità dalla stessa perseguite secondo un giudizio ex ante.

Non si presta a censure quindi la valutazione del Tribunale nella parte in cui, pur registrando l’avvenuta ammissione al passivo del credito del professionista, ne ha escluso la collocazione in prededuzione in ragione dell’assenza dei presupposti che legittimavano una simile pretesa.

5.2.2 Parte ricorrente assume che il Tribunale, nel compiere le valutazioni che lo hanno condotto al diniego della prededuzione richiesta, abbia omesso l’esame della documentazione prodotta (e segnatamente dei verbali di convocazione del __ e del __) dal cui esame sarebbe stato possibile evincere che in realtà il professionista aveva informato tempestivamente gli organi della procedura delle circostanze che avevano determinato il venir meno della fattibilità del piano concordatario.

La doglianza si limita però a individuare i documenti il cui esame avrebbe offerto la prova di circostanze di portata tale da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che avevano determinato il convincimento del giudice di merito, ma non indica né se gli stessi fossero stati oggetto di rituale e tempestiva produzione in sede di opposizione, ai sensi della L.F., art. 99, comma 2, n. 4, né come tali documenti fossero stati oggetto di discussione processuale, altrettanto tempestiva, tra le parti nell’ambito di tale giudizio.

Il motivo, così formulato, risulta perciò inammissibile per difetto di autosufficienza, non soddisfacendo l’obbligo previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di indicare specificamente gli atti processuali su cui lo stesso è fondato.

5.2.3 Infine l’omessa pronuncia in merito alla denunciata disparità di trattamento riservata, nell’ambito della verifica del passivo, fra il credito dell’attestatore, ammesso in prededuzione, e il credito dell’advisor, a cui la medesima collocazione è stata negata, risulta di nessuna decisività.

Ciò da un lato perché la statuizione assunta rispetto alla collocazione del credito di un professionista non imponeva in via automatica l’adozione di un analogo provvedimento nei confronti dell’altro professionista, dall’altro perché il credito dell’attestatore è stato ammesso – come registra lo stesso motivo di ricorso – all’esito di una valutazione di funzionalità compiuta con riferimento alla data di predisposizione della sua attestazione, mentre il Tribunale ha giustificato il diverso provvedimento assunto nei confronti di T. sulla base condotte omissive commesse dopo la data di iniziale presentazione del piano e della relativa documentazione e con riferimento a circostanze emerse a seguito dell’ammissione della procedura.

  1. In forza dei motivi sopra illustrati il ricorso va pertanto respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro __, di cui Euro __ per esborsi, oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 5 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2020.

Cass. civ. Sez. I Ord. 15_05_2020 n. 9027




Le norme del codice civile che stabiliscono i privilegi

Le norme del codice civile che stabiliscono i privilegi in favore di determinati crediti possono essere oggetto di interpretazione estensiva

Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Ordinanza n. 8882 del 13/05/2020

Con ordinanza del 13 maggio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che le norme del codice civile che stabiliscono i privilegi in favore di determinati crediti possono essere oggetto di interpretazione estensiva, la quale costituisce il risultato di un’operazione logica diretta ad individuare il reale significato e la portata effettiva della norma, che permette di determinare il suo esatto ambito di operatività anche oltre il limite apparentemente segnato dalla sua formulazione testuale e di identificare l’effettivo valore semantico della disposizione, tenendo conto dell’intenzione del legislatore e soprattutto della causa del credito. Infatti, secondo il principio rinvenibile nell’art. 2745 c.c., il privilegio trova comunque fonte nella legge in ragione della peculiare causa che lo giustifica, ossia per il fatto che l’ordinamento ritiene una data ragione di credito come portatrice di interessi meritevoli di tutela.

 


Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Ordinanza n. 8882 del 13/05/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

S. S.p.A. – ricorrente –

contro

V. S.p.A. In liquidazione in concordato preventivo già I. S.p.A. – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della Corte d’Appello di Bologna, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del __ dal Consigliere Dott. __.

Svolgimento del processo

che:

  1. Con ricorso notificato per mezzo del servizio postale il __, avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bologna n. __ notificata in data __, S. S.p.A. propone gravame innanzi a questa Corte affidandolo a quattro motivi. Con controricorso notificato via PEC il __, resistono la società V. S.p.A. in liquidazione in concordato preventivo, il Dott. C. – Commissario Giudiziale e l’avv. R. – Liquidatore.
  2. Per quanto qui d’interesse, il D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 11-quinquies(“Decreto competitività”) ha autorizzato S. S.p.A. a rilasciare garanzie per il rischio di mancato rimborso di finanziamenti a supporto del processo di internazionalizzazione di imprese italiane che siano in possesso dei requisiti di cui al comma 3 del medesimo articolo. Ai sensi del comma 4, inoltre, tali garanzie beneficiano della contro-garanzia dello Stato italiano. In attuazione della predetta disciplina, S. ha stipulato con la Cassa di Risparmio di __ una convenzione concernente, inter alia, un programma di mutui da erogarsi a piccole e medie imprese italiane per sostenere tali progetti di internazionalizzazione. Nel __, l’allora I. I. S.p.A. (divenuta I. e ora V. S.p.A.) ha richiesto a S. il rilascio di una garanzia inerente a un mutuo rientrante nell’ambito di applicazione della Convenzione. S. ha emesso la richiesta garanzia in favore della Banca mutuante, a supporto del progetto di internazionalizzazione dell’Impresa Beneficiaria, e la Cassa di Risparmio di __, di conseguenza, ha stipulato con l’Impresa Beneficiaria il mutuo di importo pari ad Euro __, oltre interessi, assistito da sostegno pubblico in forza della garanzia prestata.
  3. In data __, Impronta è stata ammessa alla procedura di concordato preventivo. Il __, in ragione dell’omesso pagamento di una serie di rate scadute, la Cassa di Risparmio ha escusso la garanzia S. cosicché – nel __ – quest’ultima pagava quanto ancora dovuto dall’Impronta, ossia l’importo di Euro __. Intanto, la Società garante aveva revocato il proprio intervento di sostegno con lettera del __ e, nel __, aveva notificato al Commissario Giudiziale di I., Dott. C., in via di surroga, il credito privilegiato D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 123, ex art. 9, comma 5. Tuttavia, il Commissario Giudiziale aveva comunicato che – sulla base degli accertamenti eseguiti nel corso della procedura – il credito in via di surroga doveva ritenersi chirografario, e non assistito da privilegio. S. si era costituito nel giudizio di omologazione dinanzi al Tribunale di Modena che, in data __, ha omologato il concordato preventivo proposto da Impronta, ritenendo l’opposizione della Società garante infondata non essendo l’omologazione la sede di accertamento della natura del credito controverso. Conseguentemente, S. ha instaurato un giudizio dinanzi al Tribunale di Modena affinché venisse accertata e dichiarata la natura privilegiata del proprio credito D.Lgs. n. 123 del 1998, ex art. 9, comma 5. Con ordinanza pubblicata il __, il Tribunale ha rigettato la domanda statuendo che il credito dovesse trovare collocazione chirografaria nel passivo del concordato preventivo di Impronta, non sussistendo le condizioni per il riconoscimento del privilegio previsto dall’art. 9.
  4. Contro la suddetta ordinanza ha proposto gravame S. dinanzi alla Corte d’Appello di Bologna. Con la sentenza qui impugnata, il giudice di secondo grado ha rigettato l’appello, escludendo che il credito vantato da S. potesse ritenersi privilegiato. La Corte ha rilevato, in primo luogo, che in forza del principio di tassatività dei privilegi, il riferimento contenuto nell’art. 9, comma 5, ai “finanziamenti erogati ai sensi del presente D.Lgs.” deve intendersi in senso stretto e letterale e, cioè, circoscritto alle sole ipotesi di erogazioni dirette in denaro: in secondo luogo, che il privilegio invocato da S. sarebbe, in ogni caso, sorto successivamente all’apertura della procedura concordataria e, come tale, inopponibile alla stessa in forza della L.F., art. 168, comma 3.

Motivi della decisione

che:

  1. Con il primo motivo si denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione del D.Lgs. n. 123 del 1998, artt. 1, 7 e art. 9, comma 5. Secondo la ricorrente, la Corte d’Appello avrebbe negato la natura privilegiata del credito maturato da S. sulla base di una non condivisibile interpretazione dell’art. 9, comma 5, del menzionato decreto. Per converso, un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della norma de qua avrebbe condotto il giudice di secondo grado a risultati opposti. In relazione alla necessità di una interpretazione sistematica della normativa del ’98. La Corte di merito avrebbe errato nel non passare in rassegna i suoi artt. 1 e 7. Il D.Lgs., in tesi, sarebbe preposto a disciplinare, in via generale, gli interventi pubblici a sostegno delle imprese e ricomprenderebbe nella nozione di “intervento di sostegno” – ai sensi del suo art. 1 – gli incentivi, i contributi, le agevolazioni, le sovvenzioni e i benefici di qualsiasi genere concessi da amministrazioni pubbliche anche attraverso soggetti terzi. Per quanto riguarda l’art. 7, invece, rileva che la disposizione stabilisce, espressamente, che gli interventi anzidetti siano attribuiti in una delle seguenti forme: “credito di imposta, bonus fiscale (…), concessioni di garanzia (…)”. Dalle norme testé riportate, la ricorrente ritiene che non possa revocarsi in dubbio che la concessione di garanzia rilasciata da S. rientri nell’ambito applicativo del D.Lgs. n. 123 del 1998. E, di conseguenza, doveva ritenersi applicabile anche a tale tipologia di intervento il privilegio ex art. 9, comma 5, in base al quale “per le restituzioni di cui al comma 4 i crediti nascenti dai finanziamenti erogati ai sensi del presente D.Lgs. sono preferiti a ogni altro titolo di prelazione da qualsiasi causa derivante, ad eccezione del privilegio per spese di giustizia (…)”. Dunque, dal punto di vista sistematico, non vi sarebbe motivo di attribuire il privilegio anzidetto alle sole “erogazioni dirette in denaro”, e non anche alle “garanzie di firma” costituendo, sia le prime che le seconde, forme di contributi pubblici, ambedue volte a sostenere lo sviluppo delle attività delle imprese nazionali ed ambedue rientranti nell’ambito applicativo del D.Lgs. n. 123 del 1998. In relazione, invece, alla necessità di una interpretazione costituzionalmente orientata, la ricorrente ritiene che sarebbe del tutto illogico, al punto da esporre la norma in esame a profili di illegittimità costituzionale difficilmente superabili, ritenere che il legislatore abbia inteso discriminare la concessione di un “credito di firma” (concessione in garanzia) da quella di un “credito per cassa” (finanziamento in contanti), trattandosi di interventi aventi la medesima ratio di sostegno alle imprese, seppure in forme diverse. Peraltro, secondo la ricorrente, le argomentazioni addotte nel primo motivo avrebbero trovato recente avallo nell’ordinanza interlocutoria n. 11878/18 di questa Corte (Cass., Sez. 6-1, ordinanza n. 11878 del 15/5/2018).
  2. Con il secondo motivo si censura – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 12 preleggi e D.Lgs. n. 123 del 1998, artt. 1, 7, art. 9, comma 5; nonché del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 1, comma 2, lett. f, n. 2) e art. 106, comma 3 (T.U.B.). Secondo la ricorrente, la garanzia rilasciata da S. deve ritenersi privilegiata D.Lgs. n. 123 del 1998, ex art. 9, comma 5, non solo in ragione dell’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata del privilegio (prospettata nel primo motivo di gravame). ma anche in base alla stessa interpretazione letterale – seppure in senso estensivo – del dato normativo. La Corte d’Appello avrebbe, per converso, erroneamente applicato l’art. 12 preleggi, ove ha limitato l’espressione “finanziamenti” alle sole “erogazioni dirette in denaro”.

Diversamente, dovendosi intendere, il termine utilizzato nell’art. 9, comma 5, in senso ampio e, dunque, ricomprendente tutte le tipologie di intervento di cui al decreto, compresa la garanzia di firma prestata da S.. A sostegno della propria tesi, la ricorrente rileva che la nozione di finanziamento non può essere interpretata nel senso restrittivo fatto arbitrariamente proprio dal giudice di secondo grado in quanto a ciò osterebbe, in primo luogo, l’assenza all’interno del D.Lgs. n. 123 del 1998 di una distinzione tra “finanziamenti diretti” e “finanziamenti indiretti”, tant’è che entrambe le tipologie di finanziamento sarebbero soggette alla medesima disciplina. In secondo luogo, rileva che la nozione di finanziamento desumibile dall’ordinamento nel suo complesso sarebbe ben più estesa rispetto a quella fatta propria dalla Corte d’Appello e, come tale, atta a ricomprendere forme di sovvenzionamento diverse ed eterogenee rispetto alla dazione diretta di denaro. A tal proposito, evidenzia il contrasto tra l’interpretazione fornita dalla sentenza impugnata e la vigente legislazione bancaria, sia primaria (T.U.B.) che come integrata dalla regolamentazione secondaria di settore (D.M. Economia e Finanze n. 53 del 2015).

  1. Con il terzo motivo si deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione ed errata interpretazione del combinato disposto dell’art. 2745 c.c. e D.Lgs. n. 123 del 1998, art. 9, comma 5. La ricorrente ritiene erronea l’applicazione dell’art. 2745 c.c., operata dalla Corte d’Appello che avrebbe escluso l’applicazione del privilegio sul presupposto che la disposizione in parola, introducendo nell’ordinamento il principio di tipicità e tassatività dei privilegi, impedisca di estendere analogicamente il D.Lgs. n. 123, art. 9, comma 5, agli interventi, quali le garanzie, non rientranti nel suo ambito applicativo. Tuttavia, secondo la ricorrente, accordare al credito maturato natura privilegiata, non comporterebbe la violazione dell’art. 2745 c.c., in quanto non si tratta di applicare analogicamente l’art. 9, comma 5, ad una fattispecie – quale la garanzia in concreto prestata – non rientrante nella portata della norma (dunque, in violazione della norma codicistica) ma, piuttosto, di interpretare estensivamente la norma de qua.
  2. I primi tre motivi del ricorso vanno esaminati in modo congiunto, in ragione della loro complementarietà.

4.1. Essi si dimostrano fondati. Invero, questa Corte (Cass., Sez. L. sentenza n. 2664 del 30/1/2019). in un caso analogo ha di recente statuito che il privilegio previsto dal D.Lgs. n. 123 del 1998, art. 9, comma 5, sia riferito a tutti i benefici di cui all’art. 7 del decreto medesimo e, in particolare, anche ai crediti derivanti dalle concessioni di garanzia previsti da tale norma, e non esclusivamente ai soli casi di erogazione diretta di denaro.

4.2. Preliminarmente, occorre precisare che non può revocarsi in dubbio il consolidato principio secondo cui le norme che disciplinano i privilegi hanno carattere eccezionale e, in quanto tali, non sono suscettibili di interpretazione analogica (ex plurimis, Cass. Sez. 1, sentenza n. 5297 del 5/3/2009: Cass. n. 1946 del 10 febbraio 2003; Cass., Sez. 1, sentenza n. 9763 del 15/9/1995). D’altro canto, la previsione di qualsiasi privilegio ha diretti riflessi sul principio generale della par conditio creditorum (cfr., in specie, l’art. 2741 c.c.). da ciò conseguendo la necessità di una interpretazione restrittiva delle norme che regolano la materia. Tuttavia, le Sezioni Unite di questa Corte hanno da tempo affermato che: “Le norme del codice civile che stabiliscono i privilegi in favore di determinati crediti possono essere oggetto di interpretazione estensiva, la quale costituisce il risultato di un’operazione logica diretta ad individuare il reale significato e la portata effettiva della norma, che permette di determinare il suo esatto ambito di operatività, anche oltre il limite apparentemente segnato dalla sua formulazione testuale e di identificare l’effettivo valore semantico della disposizione, tenendo conto dell’intenzione del legislatore e, soprattutto, della causa del credito” (Cass., Sez. U., sentenza n. 11930 del 17/5/2010; in senso conforme, Cass., Sez. 1, sentenza n. 17087 del 12/8/2016; Cass., Sez. 1, sentenza n. 8869 del 16/4/2014: Cass., Sez. L, sentenza n. 17202 dell’11/8/2011. Peraltro, già in precedenza, l’assunto aveva trovato il supporto della Corte costituzionale, nelle pronunce n. 1/1998 e n. 84/1992). Infatti, secondo il principio rinvenibile ex art. 2745 c.c., il privilegio trova comunque fonte nella legge, in ragione della peculiare – causa che lo giustifica, ossia per il fatto che l’ordinamento – in conformità ai valori espressi dalla Costituzione – ritiene una data ragione di credito come portatrice di interessi meritevoli di tutela. Sulla base di tali premesse, la recente sentenza di questa Corte (id est: Cass. sez. 1, n. 2664 del 2019, cit.) ha ritenuto di annoverare, tra gli interventi coperti dal privilegio D.Lgs. n. 123 del 1998, ex art. 9, comma 5, anche la concessione di garanzia da parte di S. in particolare per due ordini di ragioni che vanno condivisi.

4.3. In primo luogo. il D.Lgs. n. 123 del 1998, non detta una definizione del termine finanziamento. E, in aggiunta, nel quadro complessivo del nostro ordinamento l’espressione non assume un significato costante tale da potersi legittimamente ritenere che con essa si faccia esclusivo riferimento all’erogazione diretta in denaro. Al riguardo, in linea con quanto rilevato nel precedente di questa Corte, si individuano alcune disposizioni sintomatiche. Tra di esse, l’art. 47 del T.U.B. (rubricata “Finanziamenti agevolati e gestione di fondi pubblici”) dispone che “tutte le banche possono erogare finanziamenti o prestare servizi previsti dalle vigenti leggi di agevolazione, purché essi siano regolati da contratto con l’amministrazione pubblica competente e rientrino tra le attività che le banche possono svolgere in via ordinaria”. A fianco di quella data dalle operazioni di prestit” (e a fianco pure di una ulteriore e nutrita serie di attività, di diversa tipologia e struttura), tra queste attività ordinarie di finanziamento compare anche quella costituita dal rilascio di garanzie e di impegni di firma (art. 1, comma 2, lett. f) del Testo Unico): o, ancora, il finanziamento destinato a uno specifico affare di cui all’art. 2447 decies c.c., nel cui alveo la dottrina pacificamente ricomprende, oltre ai contratti di credito, le strutture negoziali di stampo partecipativo (dal cd. mutuo parziario all’associazione in partecipazione alla cointeressenza) e pure le operazioni di finanza strutturata (quali quelle di cartolarizzazione e quelle di leveraged). A tal fine rileva altresì l’art. 106, comma 1, T.U.B.: nel lungo elenco di operazioni, con cui la normativa secondaria dà corpo al lemma finanziamento di cui alla legge, tra le altre compaiono le operazioni di rilascio di garanzie, di acquisto di crediti a titolo oneroso, di apertura di credito documentaria, di avallo e girata (cfr. D.M. n. 53 del 2015, art. 2). Anche il finanziamento richiamato dall’art. 2467 c.c. (sui finanziamenti dei soci nelle S.r.l.), d’altra parte, è comunemente ritenuto termine idoneo a ricomprendere – tra le altre agevolazioni finanziarie – pure le prestazioni di garanzia. Non diversamente avviene, poi, quanto ai finanziamenti presi in considerazione dalla L.F., art. 182 quater.

4.4. In secondo luogo, le diverse forme di intervento pubblico di sostegno alle attività produttive individuate dal D.Lgs. n. 123 del 1998 (e descritte dall’art. 7) appaiono espressione di un disegno di impianto unitario, sicché con specifico riferimento al tema del privilegio di cui all’art. 9, comma 5, che qui viene in peculiare rilievo, non sembrano profilarsi ragioni giustificatrici di trattamenti normativi differenziati a seconda delle diverse forme di intervento previste, aventi la medesima finalità di sostegno economico. In tutti i casi in cui divenga operativo il sistema di revoca e restituzione previsto dalla norma dell’art. 9, infatti, si tratta comunque di riassorbire, di recuperare il sacrificio patrimoniale che il sostegno pubblico ha in concreto sopportato in funzione dello sviluppo delle attività produttive (cfr. Cass., n. Sez. I -, Ordinanza n. 21841 del 20/09/2017); in tutti i casi si tratta, in pari tempo, di procurare la provvista per lo svolgimento di ulteriori e futuri sostegni allo sviluppo delle attività produttive, secondo quanto significativamente dispone del medesimo art. 9, comma 6 “le somme restituite ai sensi del comma 4 sono versate all’entrata del bilancio dello Stato per incrementare la disponibilità di cui all’art. 10, comma 2”; l’importanza di questa disposizione si trova segnalata dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., oltre alla già citata Cass., n. 17111/2015, Cass., 20 aprile 2018, n. 9926). Pertanto, l’intervento di sostegno a mezzo di garanzia personale sembra proporre, per qualità, una tipologia di rischio imprenditoriale non diversa da quella propriamente portata dalla concessione dei mutui o comunque dalle erogazioni dirette di somme all’impresa beneficiaria della protezione accordata dalla legge in discorso, con obbligo di restituzione delle somme medesime. Non propone differenze di rilevante sostanza la diversa conformazione strutturale delle due fattispecie, posto che l’assunzione di un impegno diretto da parte del garante nei confronti del terzo viene a determinare una posizione di rischio omologa a quello della consegna diretta delle somme nelle mani del mutuatario.

4.5. Dunque, la causa – espressamente richiesta dall’art. 2745 c.c., per accordare un privilegio – ex art. 9, comma 5, trova la sua ratio nel sostegno pubblico che viene dato alle attività produttive. Ratio condivisa anche dalle concessioni di garanzia. D’altro canto, le prestazioni di crediti di firma sono portatrici di una tipologia di rischio imprenditoriale non diversa da quella propria delle concessioni di mutui o, comunque, delle erogazioni dirette di somme all’impresa beneficiaria della protezione accordata dal D.Lgs. n. 123 del 1998.

4.6. Non sussistono, in definitiva, ragioni valide per escludere dal novero degli interventi coperti dal privilegio ex art. 9, comma 5, gli interventi di garanzia assentiti da S., altrimenti incorrendo in una ingiustificata disparità di trattamento. Ciò, peraltro, è in linea con quanto rilevato dal Giudice delle Leggi che evidenzia come una irragionevole disparità di trattamento tra crediti aventi cause omogenee può dar luogo a giudizio di incostituzionalità. Infatti, “Lo scrutinio di costituzionalità è consentito all’interno di una specifica norma attributiva di privilegio su un credito, al fine di sindacare la ragionevolezza della mancata inclusione, in essa, di fattispecie omogenee rispetto a quella cui la causa di prelazione è riferita” (C. Cost., 29 gennaio 1998. n. 1).

4.7. Tanto rilevato, deve concludersi per la fondatezza dei primi tre motivi di ricorso, anche con riferimento a un’interpretazione costituzionalmente orientata.

  1. Con il quarto ed ultimo motivo, si censura – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e falsa applicazione del combinato disposto del D.Lgs. n. 123 del 1998, art. 9 e L.F., art. 168, comma 3. La ricorrente contesta la decisione impugnata nella parte in cui ha affermato che il privilegio invocato da S. sarebbe, in ogni caso, sorto successivamente all’apertura della procedura concordataria e, come tale, sarebbe inopponibile alla stessa, in forza di quanto disposto dalla L.F., art. 168, comma 3. A sostegno della propria tesi, S. afferma che il credito nasce ex lege privilegiato e, dunque, non rileva se la revoca sia intervenuta prima o dopo l’apertura della procedura concorsuale.

5.1. Il motivo è fondato. In relazione alla genesi del privilegio D.Lgs. n. 123 del 1998, ex art. 9, comma 5, questa Corte, nel precedente più volte citato (Cass., Sez. 1, sentenza n. 2664 del 30/1/2019), ha sancito che il credito di S. nasce come privilegiato ex lege dal momento in cui viene prestata la garanzia. Già in quell’occasione si è rilevato che, secondo l’orientamento nettamente dominante della giurisprudenza di legittimità, rispetto alla normativa di cui all’art. 9 del D.Lgs. in discussione, l’Amministrazione, nel revocare il contributo già accordato ovvero nel dichiarare la decadenza del soggetto beneficiario, non compie alcuna valutazione discrezionale; piuttosto, si limita ad accertare il venir meno di un presupposto già previsto in modo puntuale dalla legge, senza che l’atto di revoca abbia a possedere una qualche valenza costitutiva. Di conseguenza, la revoca del contributo resta opponibile alla massa anche se intervenuta dopo la pubblicazione della sentenza di fallimento dell’impresa beneficiaria (cfr., su questi punti. Cass. SS.UU., 20 luglio 2011, n. 15867; Cass., 3 luglio 2015. n. 13763; 20 Cass., 12 maggio 2017, n. 11928: Cass., 31 maggio 2017, n. 13751; Cass., 26 febbraio 2018, n. 4510; Cass., 23 maggio 2018. n. 12853 (…). Pertanto, diversamente da quanto ritenuto, non può essere ritenuta vicenda fotocopia a quella in esame la fattispecie esaminata da Cass., n. 25640/2017, posto che quest’ultima pronuncia concerne una fattispecie in cui era stata presentata – e accolta – una domanda di ammissione in chirografo e, in tempi successivi, una ulteriore e nuova domanda in privilegio, mentre nel caso in questione la domanda di ammissione al privilegio, in quanto respinta, è oggetto del presente accertamento. Infatti, se il credito di firma prestato da S. ha natura privilegiata in forza della medesima causa del credito che condivide con gli altri interventi D.Lgs. n. 123 del 1998, ex art. 7 – che, nello specifico, è sostegno pubblico per lo sviluppo delle attività produttive ex art. 1 del D.Lgs. – tale causa non sorge all’atto di revoca del beneficio, ma nel momento stesso della sua concessione ed erogazione.

5.2. In sostanza, la peculiare natura del credito, proveniente da fondi pubblici, impone di considerare il procedimento di erogazione del contributo come il presupposto del privilegio. Dovendosi, di conseguenza, intendere la revoca del contributo – cui fa espresso riferimento l’art. 9 – non come momento genetico del privilegio, ma come condizione affinché S. possa agire per il recupero del proprio credito, di contro da qualificarsi come privilegiato sin dalla sua nascita.

  1. Conclusivamente, il ricorso va accolto con rinvio alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, anche per le spese.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia alla Corte d’Appello di Bologna, in diversa composizione, anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 28 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2020.

Cass. civ. Sez. III Ord. 13_05_2020 n. 8882




Procedimento prefallimentare e la valutazione della ricorrenza delle particolari ragioni d’urgenza

Procedimento prefallimentare e la valutazione della ricorrenza delle particolari ragioni d’urgenza

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 8611 del 07/05/2020

Con ordinanza del 7 maggio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che nell’ambito del procedimento prefallimentare, la valutazione della ricorrenza delle particolari ragioni d’urgenza, che giustificano l’abbreviazione del termine per la comparizione del debitore, compete solo al presidente del tribunale (ovvero al presidente di sezione tabellarmente designato per l’adozione di tali provvedimenti) il quale può disporla anche d’ufficio, per la particolare natura dell’istruttoria prefallimentare, non riducibile ad un processo tra parti contrapposte, in quanto idonea a dar luogo (nel caso di accoglimento della domanda) ad un accertamento costitutivo valevole “erga omnes”; tuttavia, la facoltà di abbreviare i termini per la comparizione del debitore è delegabile al giudice incaricato dell’esame del ricorso di fallimento dal presidente del tribunale, come previsto dal combinato disposto dei commi terzo e quinto dell’art. 15 L.F. (che, nel comma 5 facendo riferimento al precedente comma 3, implicitamente lo richiama e attribuisce tale possibilità di delega).


Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 8611 del 07/05/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

(OMISSIS) S.r.l., G. e S. – ricorrenti –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. e P. S.r.l. – intimati –

avverso la sentenza n. __ della Corte d’Appello di Messina, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del __ dal Cons. Dott. __.

Svolgimento del processo

Con sentenza n. __ del giorno __, la Corte di Appello di Messina rigettava il reclamo, L.F., ex art. 18, proposto dalla società (OMISSIS) S.r.l. avverso la sentenza dichiarativa di fallimento pronunciata dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, su domanda della società P. S.r.l..

A supporto delle ragioni di rigetto del reclamo, la Corte territoriale ha confermato la sussistenza dei requisiti di fallibilità alla luce dell’informativa della Guardia di Finanza, nonché l’effettiva esistenza del credito del creditore procedente, P. S.r.l. e la presenza degli indici di decozione quali gli atti di pignoramento subiti, mentre, il decreto di fissazione dell’udienza era stato notificato via PEC in tempo utile; in riferimento, invece, alla riduzione del termine a comparire veniva richiamato il provvedimento presidenziale di delega del giudice incaricato dell’esame del ricorso all’adozione di ogni determinazione in merito alla riduzione dei termini, in caso di sussistenza di ragioni di urgenza.

Avverso la sentenza d’appello, la società (OMISSIS) S.r.l. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di sei motivi, mentre la curatela del fallimento non ha spiegato difese.

Motivi della decisione

che:

Con il primo motivo di ricorso, la società ricorrente deduce il vizio di violazione della L.F., art. 15, commi 3 e 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per difetto di motivazione sulle ragioni di abbreviazione del termine di fissazione dell’udienza e per la conseguente violazione del diritto di difesa, in relazione all’art. 24 Cost., comma 2 e art. 111 Cost., comma 2.

Con il secondo motivo, la società ricorrente prospetta il vizio di nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, perché il decreto che aveva abbreviato il termine a comparire prima dell’udienza prefallimentare era stato adottato da un giudice privo della necessaria qualifica di presidente di tribunale, con conseguente violazione del diritto di difesa.

Con il terzo motivo, la società ricorrente lamenta l’illegittima violazione del termine a comparire, L.F., ex art. 15, come vizio di violazione di legge, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Con il quarto motivo, la società ricorrente lamenta l’illegittima violazione del termine a comparire, L.F., ex art. 15, come vizio di omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, perché la Corte d’appello non aveva valutato correttamente un fatto decisivo ossia la presenza della motivazione a supporto dell’abbreviazione dei termini e la necessità che la decisione al riguardo venisse assunta dal presidente del tribunale Con il quinto motivo, la società ricorrente lamenta il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omessa valutazione delle osservazioni contenute nelle note autorizzate e nei verbali di causa (con riguardo all’assenza di debiti e alla presenza di un attivo inferiore a quello necessario per la dichiarazione di fallimento).

Con il sesto motivo, la società ricorrente denuncia il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, riferito alle doglianze contenute nelle note autorizzate del 2.2.18 e nei verbali di causa, con riferimento alla relazione della Guardia di Finanza.

Il primo e terzo motivo, che possono essere oggetto di un esame congiunto, perché connessi, sono inammissibili, in quanto non colgono la ratio decidendi della sentenza impugnata, atteso che la Corte territoriale ha rilevato che nel provvedimento del tribunale adottato per la comparizione della debitrice, le ragioni d’urgenza sono richiamate nella forma del decreto presidenziale (del __) con cui il giudice relatore è stato delegato all’adozione di ogni determinazione in ordine alla riduzione dei termini, L.F., ex art. 15, commi 3 e 4.

La parte ricorrente, da parte sua, deduce quale vulnus al proprio diritto di difesa come conseguenza del mancato rispetto dell’intero termine di legge a comparire, l’impossibilità di allegare l’insussistenza degli indici di fallibilità (censura che in effetti ha proposto, anche se senza successo), e la mancata possibilità di accordarsi, sempre in ragione dell’immotivata riduzione dei termini a comparire, con il creditore procedente ovvero di adottare le iniziative previste dalla legge per l’estinzione dei propri debiti ma, al contempo, dichiara di non essersi costituita nel corso di quel procedimento perché non aveva letto la PEC di comunicazione del decreto di fissazione dell’udienza ascrivendo gli inconvenienti al minor tempo trascorso (peraltro ridotto di appena __ giorni), senza precisare quando ha effettivamente acceduto alla PEC e perché non ha spiegato possibili istanze successive, visto che l’udienza si era tenuta il __ e la sentenza è stata pubblicata solo il __ (in sentenza è riportata per errore la data del __), con la possibilità, allegando idonea documentazione, anche di proporre istanza di remissione della causa in sede prefallimentare per le ragioni che si assumono – ma solo astrattamente, come si è detto – documentabili.

Infatti, al riguardo vale la regola secondo cui, nell’ambito dell’istruttoria prefallimentare, allorquando si renda necessario disporre l’abbreviazione dei termini a comparire ai sensi della L.F., art. 15, comma 5, la congruità del termine di comparizione deve essere apprezzata con un bilanciamento tra le ragioni di urgenza e le concrete possibilità di difesa (Sez. 1, Sentenza n. 2561 del 2014), sicché ogni doglianza al riguardo deve misurarsi con il preteso cattivo bilanciamento che, nella specie, oltre che allegato in astratto non risulta efficacemente dimostrato.

Il secondo e quarto motivo possono essere anch’essi oggetto di un esame congiunto e sono infondati, in quanto la facoltà di abbreviare i termini per la comparizione del fallendo è delegabile dal presidente del tribunale, come previsto in linea generale dal combinato disposto della L.F., art. 15, commi 3 e 5 (infatti, nel comma 5 si fa riferimento al comma 3, implicitamente richiamandolo e così attribuendo la possibilità al presidente del tribunale di delegare anche il potere di abbreviazione dei termini oltre quello di trattazione del procedimento), mentre, solo il potere di dichiarare l’urgenza ai fini dell’abbreviazione dei termini di comparizione spetta esclusivamente al presidente del tribunale, il cui decreto presidenziale, nel caso di specie, è stato richiamato, secondo quanto riporta la Corte d’appello, nel decreto di fissazione dell’udienza comunicato alla (OMISSIS) S.r.l..

Si deve pertanto respingere il ricorso sul punto enunciando il seguente principio di diritto: “Nell’ambito del procedimento prefallimentare, la valutazione della ricorrenza delle particolari ragioni d’urgenza, che giustificano l’abbreviazione del termine per la comparizione del debitore, compete solo al presidente del tribunale (ovvero al presidente di sezione tabellarmente designato per l’adozione di tali provvedimenti) il quale può disporla anche d’ufficio, per la particolare natura dell’istruttoria prefallimentare, non riducibile ad un processo tra parti contrapposte, in quanto idonea a dar luogo (nel caso di accoglimento della domanda) ad un accertamento costitutivo valevole “erga omnes”; tuttavia, la facoltà di abbreviare i termini per la comparizione del debitore è delegabile al giudice incaricato dell’esame del ricorso di fallimento dal presidente del tribunale, come previsto dal combinato disposto della L.F., art. 15, commi 3 e 5 (che, nel comma 5 facendo riferimento al precedente comma 3, implicitamente lo richiama e attribuisce tale possibilità di delega)”.

Il quinto e sesto motivo, che possono essere esaminati congiuntamente, perché strettamente connessi, sono inammissibili, perché paventano la mancata valutazione delle deduzioni difensive e/o delle risultanze istruttorie, profilo che non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso in cassazione, attenendo al merito della controversia.

La mancata costituzione della curatela del fallimento esonera il collegio dal provvedere sulle spese.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, ove dovuto, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello corrisposto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2020.

 

Cass. civ. Sez. I Ord. 07_05_2020 n. 8611




Fallimento e fondo di garanzia T.F.R.

Fallimento e fondo di garanzia T.F.R.

Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza n. 8259 del 28/04/2020

Con sentenza del 28 aprile 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro, in merito di recupero crediti ha stabilito che in tema di TFR, l’espressione “non soggetto alle disposizioni del R.D. 16 marzo 1942 n. 267”, di cui all’art. 2, comma 5 della L. 29 maggio 1982 n. 297, va interpretata nel senso che l’azione nei confronti del Fondo di garanzia dell’Inps deve trovare ingresso laddove il datore di lavoro non sia assoggettato a fallimento, vuoi perché appartenente ad una categoria di imprenditori non sottoponibili neanche in abstracto ad una procedura concorsuale, vuoi perché, in concreto, il fallimento non è o non è più esperibile per ragioni oggettive.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza n. 8259 del 28/04/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

G. – ricorrente –

contro

I. – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della Corte d’Appello di Napoli, depositata il __ R.G. n. __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere Dott. __;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato __;

udito l’Avvocato __ per delega verbale Avvocato __.

Svolgimento del processo

Con sentenza del __, la Corte d’Appello di Napoli confermava la decisione resa dal Tribunale di Napoli e rigettava la domanda proposta da G. nei confronti di I., avente ad oggetto il riconoscimento del diritto del primo al pagamento, da parte del Fondo di Garanzia di cui alla L. n. 297 del 1982, istituito presso I., di somme non corrisposte dal datore di lavoro inadempiente a titolo di T.F.R., di stipendi per i mesi da __ a __, di tredicesima mensilità per l’anno __, somme già riconosciute al G. all’esito dell’azione monitoria dallo stesso promossa.

La decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto non dovuto l’intervento del Fondo di Garanzia per difetto alla data della domanda amministrativa del complesso dei requisiti necessari tra i quali annovera la dichiarazione di insolvenza proveniente dal Tribunale fallimentare, al quale va riconosciuta in via esclusiva la relativa competenza, da escludersi, viceversa, in capo al giudice del lavoro, che non potrebbe conoscerne neppure in via incidentale ove allegati e provati dall’istante gli elementi di fatto a ciò rilevanti e dunque soccombente G. e tenuto al pagamento delle spese di lite, stante l’invalidità della dichiarazione resa ai fini dell’esonero ex art. 152 disp. att. c.p.c..

Per la cassazione di tale decisione ricorre G., affidando l’impugnazione a tre motivi, cui resiste, con controricorso, I.. Entrambe le parti hanno poi presentato memoria.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, il ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione della L. n. 297 del 1982, art. 2 e della L.F., art. 15, il ricorrente lamenta la non conformità a diritto dell’orientamento accolto dalla Corte territoriale per cui il lavoratore che intenda accedere al Fondo di Garanzia per il pagamento del T.F.R. sarebbe gravato dell’onere di provocare, in anticipo rispetto alla presentazione della domanda in via amministrativa, una pronunzia del Tribunale fallimentare quale unico giudice competente in ordine alla fallibilità del datore di lavoro inadempiente, adducendo in particolare il contrasto con la previsione di cui alla L.F., art. 15, che qualifica come ipotesi di non fallibilità, con esclusione della stessa dall’ambito di efficacia della disciplina in materia, il risultare dagli atti dell’istruttoria prefallimentare l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati complessivamente inferiore ad Euro __.

Nel secondo motivo la medesima censura è prospettata sotto il profilo dell’irrilevanza ai fini della sussistenza del requisito dell’insolvenza legittimante l’intervento del Fondo di Garanzia dell’acquisizione della prova del predetto requisito, data dalla dichiarazione di insolvenza emessa dalla sezione fallimentare del Tribunale di Napoli, successivamente alla presentazione della domanda amministrativa.

Con il terzo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione dell’art. 152 disp. att. c.p.c., D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76 e art. 115 c.p.c., il ricorrente lamenta la non conformità a diritto della pronunzia resa dalla Corte territoriale in ordine all’invalidità, ai fini dell’esonero dalla condanna alle spese di lite della dichiarazione reddituale limitata all’indicazione del reddito personale senza riferimento alcuno al reddito familiare, adducendo che, in base alla formulazione delle norme invocate, la limitazione della dichiarazione all’indicazione prioritaria del reddito personale vale a fondare la presunzione dell’assenza di familiari conviventi con esclusione dell’onere di indicare il reddito relativo.

I primi due motivi, i quali, in quanto strettamente connessi, possono essere qui trattati congiuntamente sono meritevoli di accoglimento.

Benché questa Corte abbia recentemente affermato che la verifica da parte del tribunale fallimentare della non assoggettabilità a fallimento dell’imprenditore, L.F., ex art. 15, ultimo comma, costituisca un presupposto necessario, unitamente alla insufficienza delle garanzie patrimoniali a seguito dell’esperimento dell’esecuzione forzata, per l’accesso alle prestazioni del Fondo per il pagamento del T.F.R. e dei crediti di lavoro di cui alla L. n. 297 del 1982, art. 2 (Cass. n. 21734 del 2018, cui ha dato continuità Cass. n. 3667 del 2019), reputa il Collegio che l’anzidetto orientamento non possa essere condiviso in ragione del principio generale desumibile dalla previsione di cui all’art. 34 c.p.c., secondo cui il giudice adito procede in via incidentale a tutti gli accertamenti preliminari rispetto alla risoluzione della controversia pendente innanzi a sé, salvo che, per legge o per esplicita domanda di una delle parti, sia necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene alla competenza per materia o per valore alla competenza di un giudice superiore, nel qual caso rimette tutta la causa a quest’ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui.

Va premesso, al riguardo, che questa Corte ha ormai consolidato il principio di diritto secondo cui le prestazioni erogate dal Fondo di garanzia gestito da I. hanno natura previdenziale e non retributiva (così, tra le più recenti, Cass. n. 25016 del 2017): si tratta infatti di obbligazioni affatto autonome rispetto a quelle gravanti sul datore di lavoro e inserite nell’ambito di un rapporto assicurativo contributivo-previdenziale, ancorché nella loro misura coincidenti, per ciò che specialmente riguarda il T.F.R., con le obbligazioni di cui è debitore il datore di lavoro, di talché il loro sorgere è connesso ad un fatto costitutivo differente rispetto a quello che ne media la genesi nell’ambito del rapporto di lavoro.

Più precisamente, per ciò che riguarda il pagamento del T.F.R. (rectius: della prestazione previdenziale modulata sul T.F.R. spettante al lavoratore assicurato), tale fatto costitutivo consiste non già nella cessazione del rapporto di lavoro, ma nel verificarsi dei presupposti previsti dalla L. n. 297 del 1982, art. 2, che sono rispettivamente, da un lato, la verifica del credito del lavoratore mediante l’insinuazione al passivo del fallimento del datore di lavoro (art. 2, commi 2 e segg.) e, dall’altro lato, qualora il datore di lavoro non sia soggetto alle disposizioni della legge fallimentare, il previo esperimento dell’esecuzione forzata per la realizzazione del credito, da cui risulti l’insufficienza, totale o parziale, delle garanzie patrimoniali del datore di lavoro stesso (art. 2, comma 5).

Con riguardo a tale ultima fattispecie, che è quella che rileva ai fini del presente giudizio, questa Corte ha precisato che l’espressione “non soggetto alle disposizioni del R.D. 16 marzo 1942, n. 267”, di cui all’art. 2, comma 5, cit., va interpretata nel senso che l’azione nei confronti del Fondo di garanzia deve trovare ingresso quante volte il datore di lavoro non sia assoggettato a fallimento, vuoi perché appartenente ad una categoria di imprenditori non sottoponibili neanche in abstracto ad una procedura concorsuale, vuoi perché, in concreto, il fallimento non è o non è più esperibile per ragioni oggettive (cfr. fra le più recenti, Cass. n. 24767 del 2017), tra le quali rilevano adesso quelle di cui alla L.F., art. 1, comma 2, nel testo modificato dal D.Lgs. n. 169 del 2007, art. 1, comma 1.

Ciò premesso, è evidente che, rispetto alla domanda giudiziale concernente la prestazione previdenziale cui è tenuto il Fondo di garanzia, la verifica della non assoggettabilità del datore di lavoro alle procedure concorsuali costituisce una tipica questione pregiudiziale in senso logico, che nessuna norma di legge impone che debba essere definita con efficacia di giudicato; di più, è una questione che nessuna delle parti del processo potrebbe validamente chiedere che sia decisa con efficacia di giudicato, dal momento che, svolgendosi la controversia previdenziale tra il lavoratore assicurato e l’ente previdenziale chiamato al pagamento ed essendo il datore di lavoro terzo estraneo a tale vicenda, l’accertamento che in essa dovesse essere compiuto circa la sua non assoggettabilità a fallimento non potrebbe mai far stato nei suoi confronti, in considerazione dei limiti soggettivi del giudicato stesso.

Non induce a diverse conclusioni l’argomentazione di Cass. n. 21734 del 2018, cit., che, al fine di affermare il necessario previo adito del giudice fallimentare, valorizza la circostanza che determinate situazioni che in concreto legittimerebbero l’esclusione della procedura concorsuale (quali, nel caso ivi deciso, una soglia di rilevanza dell’insolvenza riferita all’indebitamento complessivo dell’impresa e non alla posizione del creditore istante per il fallimento) possono essere accertate soltanto in sede fallimentare, cioè con il concorso degli altri creditori: questo è piuttosto un problema di prova, nel senso che, ad es., non si potrebbe ritenere provata la non assoggettabilità a fallimento di un imprenditore commerciale sulla base della mera allegazione, da parte del lavoratore assicurato che chieda l’intervento del Fondo, di un credito di importo inferiore alla soglia definita dalla L.F., art. 15, ultimo comma; in questo senso, anzi, va senz’altro rimarcato che il lavoratore assicurato, che adducendo una situazione di concreta non assoggettabilità al fallimento del proprio datore di lavoro chieda l’intervento del Fondo di garanzia, resta pur sempre onerato della prova delle circostanze costitutive del fatto che ha dato luogo al sorgere del rapporto previdenziale, tra le quali appunto la non assoggettabilità a fallimento del proprio datore di lavoro, sia essa predicabile in abstracto o in concreto, e il mancato o insufficiente assolvimento di tale onere non potrà che comportare il rigetto della domanda.

Vanno, pertanto, accolti il primo e secondo motivo di ricorso, con conseguente assorbimento del terzo e la sentenza impugnata cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione, che provvederà in conformità, disponendo, altresì, per regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo ed il secondo motivo, assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2020

 

Cass. civ. Sez. lavoro 28_04_2020 n. 8259




Il presupposto della non assoggettabilità a fallimento dell’imprenditore

Il presupposto della non assoggettabilità a fallimento dell’imprenditore

Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza n. 8258 del 28/04/2020

Con sentenza del 28 aprile 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Civili, in merito di recupero crediti ha stabilito che in tema di intervento del Fondo di garanzia gestito dall’INPS, il presupposto della non assoggettabilità a fallimento dell’imprenditore, sia in astratto che in concreto, costituisce una tipica questione pregiudiziale in senso logico rispetto alla domanda giudiziale concernente la prestazione previdenziale, che può essere accertata dal giudice adito in via incidentale, ai sensi dell’art. 34 c.p.c., senza che sia necessaria una preventiva verifica da parte del Tribunale fallimentare con il concorso degli altri creditori.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza n. 8258 del 28/04/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

I. – ricorrente –

contro

R. – intimato –

avverso la sentenza n. __ della Corte d’Appello di Roma, depositata il __ R.G.N. __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere Dott. __;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato __.

Svolgimento del processo

  1. La Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa sede, ha rigettato l’opposizione proposta dall’Inps avverso il decreto ingiuntivo richiesto da R. nei confronti di I. – Fondo di Garanzia per il pagamento del TFR per il lavoro alle dipendenze della (OMISSIS) S.r.l..

A fondamento della decisione, ha osservato che la società – benché fosse astrattamente suscettibile di fallimento – in concreto non avrebbe potuto essere dichiarata fallita per l’esiguo importo del credito di R. e risultando, la (OMISSIS), in liquidazione ed inattiva da molti anni. Secondo la Corte, pertanto, la richiesta di intervento di I. – Fondo di garanzia era legittimamente fondata sul decreto ingiuntivo emesso nei confronti del datore di lavoro e sull’esito infruttuoso dell’azione esecutiva.

  1. Avverso la sentenza ha proposto ricorso I., articolato in un unico motivo. R. è rimasto intimato.

Motivi della decisione

  1. Con l’unico motivo I. ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione o falsa applicazione della L. 29 maggio 1982, n. 297, art. 2, commi 2 e 5, R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 15 (nel testo modificato dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, art. 1.

Censura la sentenza per aver ritenuto non necessaria l’istanza di fallimento stante l’esiguità del credito inferiore ad Euro __. Secondo la Corte il lavoratore, per dimostrare che il datore di lavoro astrattamente fallibile non possa in concreto essere dichiarato fallibile, è tenuto a presentare istanza al tribunale fallimentare e dunque produrre il provvedimento di detto tribunale di non potersi dar luogo al fallimento.

  1. Il motivo è infondato.
  2. Ritiene il Collegio di confermare quanto esposto nella recente sentenza n. __.

Si è, con detta pronuncia, affermato che “Benché questa Corte abbia recentemente affermato che la verifica da parte del tribunale fallimentare della non assoggettabilità a fallimento dell’imprenditore, L. Fall., ex art. 15, u.c., costituisca un presupposto ò necessario, unitamente alla insufficienza delle garanzie patrimoniali a seguito dell’esperimento dell’esecuzione forzata, per l’accesso alle prestazioni del Fondo per il pagamento del TFR e dei crediti di lavoro di cui alla L. n. 297 del 1982, art. 2 (Cass. nn. 21734 del 2018, cui ha dato continuità Cass. n. 3667 del 2019), reputa il Collegio che l’anzidetto orientamento non possa essere condiviso in ragione del principio generale desumibile dalla previsione di cui all’art. 34 c.p.c., secondo cui il giudice adito procede in via incidentale a tutti gli accertamenti preliminari rispetto alla risoluzione della controversia pendente innanzi a sé, salvo che, per legge o per esplicita domanda di una delle parti, sia necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene alla competenza per materia o per valore alla competenza di un giudice superiore, nel qual caso rimette tutta la causa a quest’ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui”.

Va premesso, al riguardo, che questa Corte ha ormai consolidato il principio di diritto secondo cui le prestazioni erogate dal Fondo di garanzia gestito da I. hanno natura previdenziale e non retributiva (così, tra le più recenti, Cass. n. 25016 del 2017): si tratta infatti di obbligazioni affatto autonome rispetto a quelle gravanti sul datore di lavoro e inserite nell’ambito di un rapporto assicurativo contributivo-previdenziale, ancorché nella loro misura coincidenti, per ciò che specialmente riguarda il TFR, con le obbligazioni di cui è debitore il datore di lavoro, di talché il loro sorgere è connesso ad un fatto costitutivo differente rispetto a quello che ne media la genesi nell’ambito del rapporto di lavoro.

Più precisamente, per ciò che riguarda il pagamento del TFR (rectius: della prestazione previdenziale modulata sul TFR spettante al lavoratore assicurato), tale fatto costitutivo consiste non già nella cessazione del rapporto di lavoro, ma nel verificarsi dei presupposti previsti dalla L. n. 297 del 1982, art. 2, che sono rispettivamente, da un lato, la verifica del credito del lavoratore mediante l’insinuazione al passivo del fallimento del datore di lavoro (art. 2, commi 2 e segg.) e, dall’altro lato, qualora il datore di lavoro non sia soggetto alle disposizioni della legge fallimentare, il previo esperimento dell’esecuzione forzata per la realizzazione del credito, da cui risulti l’insufficienza, totale o parziale, delle garanzie patrimoniali del datore di lavoro stesso (art. 2, comma 5).

Con riguardo a tale ultima fattispecie, che è quella che rileva ai fini del presente giudizio, questa Corte ha precisato che l’espressione “non soggetto alle disposizioni del R.D. 16 marzo 1942, n. 267”, di cui all’art. 2, comma 5, cit., va interpretata nel senso che l’azione nei confronti del Fondo di garanzia deve trovare ingresso quante volte il datore di lavoro non sia assoggettato a fallimento, vuoi perché appartenente ad una categoria di imprenditori non sottoponibili neanche in abstracto ad una procedura concorsuale, vuoi perché, in concreto, il fallimento non è o non è più esperibile per ragioni oggettive (cfr. fra le più recenti, Cass. n. 24767 del 2017), tra le quali rilevano adesso quelle di cui alla L. Fall., art. 1, comma 2, nel testo modificato dal D.Lgs. n. 169 del 2007, art. 1, comma 1.

Ciò premesso, è evidente che, rispetto alla domanda giudiziale concernente la prestazione previdenziale cui è tenuto il Fondo di garanzia, la verifica della non assoggettabilità del datore di lavoro alle procedure concorsuali costituisce una tipica questione pregiudiziale in senso logico, che nessuna norma di legge impone che debba essere definita con efficacia di giudicato; di più, è una questione che nessuna delle parti del processo potrebbe validamente chiedere che sia decisa con efficacia di giudicato, dal momento che, svolgendosi la controversia previdenziale tra il lavoratore assicurato e l’ente previdenziale chiamato al pagamento ed essendo il datore di lavoro terzo estraneo a tale vicenda, l’accertamento che in essa dovesse essere compiuto circa la sua non assoggettabilità a fallimento non potrebbe mai far stato nei suoi confronti, in considerazione dei limiti soggettivi del giudicato stesso.

Non induce a diverse conclusioni l’argomentazione di Cass. n. 21734 del 2018, cit., che, al fine di affermare il necessario previo adito del giudice fallimentare, valorizza la circostanza che determinate situazioni che in concreto legittimerebbero l’esclusione della procedura concorsuale (quali, nel caso ivi deciso, “una soglia di rilevanza dell’insolvenza riferita all’indebitamento complessivo dell’impresa e non alla posizione del creditore istante per il fallimento”) possono essere accertate soltanto in sede fallimentare, cioè con il concorso degli altri creditori: questo è piuttosto un problema di prova, nel senso che, ad es., non si potrebbe ritenere provata la non assoggettabilità a fallimento di un imprenditore commerciale sulla base della mera allegazione, da parte del lavoratore assicurato che chieda l’intervento del Fondo, di un credito di importo inferiore alla soglia definita dalla L. Fall., art. 15, u.c.; in questo senso, anzi, va senz’altro rimarcato che il lavoratore assicurato, che adducendo una situazione di concreta non assoggettabilità al fallimento del proprio datore di lavoro chieda l’intervento del Fondo di garanzia, resta pur sempre onerato della prova delle circostanze costitutive del fatto che ha dato luogo al sorgere del rapporto previdenziale, tra le quali appunto la non assoggettabilità a fallimento del proprio datore di lavoro, sia essa predicabile in abstracto o in concreto, e il mancato o insufficiente assolvimento di tale onere non potrà che comportare il rigetto della domanda.

  1. Nel caso di specie, tuttavia, I., pur contestando che i giudici di merito avevano ritenuto sufficiente l’allegazione del lavoratore di vantare nei confronti del proprio datore di lavoro un credito di Euro __, si è limitato a ribadire l’erroneità della decisione basata sul presupposto che non dovesse essere necessario il provvedimento del competente Tribunale fallimentare con il quale si afferma di non dar luogo alla dichiarazione di fallimento per essere emerso dall’istruttoria prefallimentare che il complesso di tutti i debiti gravanti sul datore di lavoro fossero inferiori al limite minimo di fallibilità di cui alla L. Fall., art. 15, comma 9. Né I. ha formulato alcuna censura all’ulteriore argomento posto a base dalla Corte territoriale secondo cui la società (OMISSIS) aveva cessato ogni attività da anni e neppure circa la proposizione da parte del lavoratore di infruttuose azioni esecutive individuali.
  2. In definitiva il ricorso dell’Inps deve essere rigettato. Non si deve provvedere sulle spese essendo R. rimasto intimato. Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 5 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2020.

Cass. civ. Sez. lavoro 28_04_2020 n. 8258




Esecuzione forzata e opposizione al precetto

Esecuzione forzata e opposizione al precetto

Tribunale Ordinario di Terni, Sezione Civile, Sentenza del 10/02/2020

Con sentenza del 10 febbraio 2020, il Tribunale Ordinario di Terni, Sezione Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che in sede di opposizione a precetto, l’opponente conserva la posizione sostanziale di convenuto, nonostante la formale veste di attore, mentre l’opposto riveste la posizione sostanziale di attore nonostante la formale veste di convenuto. Ciò esplica i suoi effetti non solo in tema di onere della prova, ma anche in ordine ai poteri ed alle preclusioni processuali rispettivamente previsti per ciascuna delle parti.


Tribunale Ordinario di Terni, Sezione Civile, Sentenza del 10/02/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI TERNI

Il giudice, dott.ssa __, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel procedimento civile iscritto al n. __ R.G., trattenuto in decisione all’udienza del giorno __, scaduti i termini concessi ai sensi dell’art. 190 c.p.c., promosso da

A. – attrice opponente

contro

D. – convenuto opposto

nonché contro

G.

e nei confronti di

C. – terzo chiamato

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con atto di citazione ritualmente notificato A. proponeva opposizione avverso l’atto di precetto a lei notificato con il quale D. le intimava il pagamento della somma di Euro __ sulla base del decreto ingiuntivo n. __ emesso nei confronti di C.; avverso la pretesa di pagamento eccepiva: – l’inesistenza a suo carico dell’asserito debito, derivante da lavori di manutenzione per la demolizione e rifacimento del copertura di c., lavori terminati il __ e fatturati in data __, mentre essa esponente aveva acquistato la proprietà dell’immobile di __ solo in data __; – l’ infondatezza della richiesta di pagamento dell’intera somma, per violazione del principio della natura parziaria delle obbligazioni condominiali e del principio della previa escussione dei condomini morosi; concludeva pertanto chiedendo l’accoglimento della opposizione a precetto e, in via subordinata, per l’ipotesi di rigetto dell’opposizione, chiedeva di essere manlevata da ogni conseguenza pregiudizievole da G., che pure citava in causa.

Con comparsa depositata il __ D. si costituiva in giudizio e, avverso l’atto introduttivo di A., eccepiva l’infondatezza delle argomentazioni dalla stessa dedotte a fondamento della domanda, in ragione della natura di obbligazione propter rem da attribuire ai debiti gravanti sull’immobile nei confronti dei terzi fornitori e, inoltre, del carattere solidale delle obbligazioni gravanti sui condomini per i debiti del condominio; chiedeva quindi di essere autorizzato a chiamare in causa il condominio di __ affinché, previo accertamento dell’inadempimento alla obbligazione a suo carico sancita dall’art. 63 disp. att. c.c. fosse condannato a risarcirgli i danni subìti, da quantificarsi negli interessi da lui pagati sugli scoperti di c/c..

Con comparta depositata in data __ G. si costituiva in giudizio ed eccepiva di nulla dovere corrispondere per le pretese oggetto del precetto, avendo provveduto a suo tempo a saldare il dovuto.

Con comparsa depositata in data __ il C. si costituiva in giudizio ed eccepiva, in via preliminare, la nullità dell’atto di citazione notificato nei suoi confronti, per violazione dell’art. 163, comma 3, nn. 3 e 4 c.c. e, nel merito, l’infondatezza della domanda di manleva per insussistenza dei suoi presupposti, configurandosi infatti la domanda introdotta nei suoi confronti piuttosto come autonoma domanda che avrebbe dovuto essere promossa in un separato giudizio. Il giudice, rilevata la sussistenza dell’eccepita nullità della chiamata in causa del condominio, assegnava a D. termine per integrare la domanda.

Concessi i termini di cui all’art. 183 co. 6 c.p.c., la causa veniva istruita in via documentale e trattenuta in decisione all’udienza del __.

La pronuncia a definizione del presente processo deve essere limitata alla verifica della soccombenza virtuale avendo il creditore opposto pacificamente riconosciuto che il proprio credito è stato soddisfatto nelle more del processo, con conseguente cessazione della materia del contendere.

Si premette che è stato introdotto nel caso di specie un giudizio di opposizione a precetto, ai sensi dell’art. 615 c.p.c. che come noto investe l’an dell’azione esecutiva, consistendo nella contestazione del diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata per difetto originario del titolo esecutivo.

Occorre quindi in via preliminare accertare l’esistenza di un valido titolo esecutivo azionabile nei confronti della odierna opponente e, quindi, la possibilità per l’opposto, di agire in via esecutiva nei confronti di A. sulla base di un titolo (decreto ingiuntivo n. __) emesso nei confronti del solo condominio.

Come evincibile dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione sul punto, il titolo esecutivo formatosi tra il creditore del condominio e il condominio stesso può essere azionato anche in danno dei singoli condomini, per cui sussiste la legittimazione passiva della odierna opponente rispetto alla iniziativa esecutiva intrapresa dall’opposto (cfr. Cass., SS.UU., s. n. 9148/2018 secondo cui: “La responsabilità dei singoli partecipanti per le obbligazioni assunte dal condominio verso i terzi ha natura parziaria; il creditore, ottenuta la condanna dell’amministratore (che ha stipulato il contratto in nome e per conto dei rappresentati), può procedere all’esecuzione individualmente nei confronti dei singoli condomini, entro i limiti della quota di ciascuno”).

Procedendo con l’esame delle questioni preliminari, deve essere esaminata la citazione in causa di G. da parte della odierna opponente A..

Premessa l’ammissibilità della chiamata in causa di terzo ad opera dell’opponente (cfr. Cass., s. n. 2928/1994) occorre in proposito chiarire che, in sede di opposizione a precetto, l’opponente conserva la posizione sostanziale di convenuto, nonostante la formale veste di attore, mentre l’opposto riveste la posizione sostanziale di attore nonostante la formale veste di convenuto. Ciò esplica i suoi effetti non solo in tema di onere della prova, ma anche in ordine ai poteri ed alle preclusioni processuali rispettivamente previsti per ciascuna delle parti. Ne consegue che l’ opponente può citare unicamente il soggetto che ha ottenuto nei suoi confronti il precetto, non potendo le parti essere altre che il soggetto istante per il precetto e il soggetto nei cui confronti il precetto è diretto, così che l’opponente deve necessariamente chiedere al giudice ai sensi dell’art. 269 c.p.c., con l’atto di opposizione, l’autorizzazione a chiamare in giudizio il terzo al quale ritenga comune la causa determinandosi, in mancanza, una decadenza rilevabile d’ufficio e insuscettibile di sanatoria (cfr. Cass., sez. I, 29.10.2015, n. 22113; Cass., sez. I, 19.10.2015, n. 21101).

Nel caso di specie, l’opponente è incorsa nella predetta decadenza, non avendo chiesto al giudice la dovuta autorizzazione ai sensi dell’art. 269 c.p.c. ma avendo provveduto a citare direttamente G., soggetto diverso dall’intimante il precetto; pertanto, la domanda formulata da A.P. nei confronti di G. deve considerarsi inammissibile.

Venendo al merito dell’opposizione nel rapporto tra A. e D. e quindi ad esaminare, ai soli fini della soccombenza virtuale, la fondatezza dell’opposizione, si deve premettere che nella giurisprudenza più recente è dominante la tesi della parziarietà dell’obbligazione del condomino. Infatti, le obbligazioni condominiali, in quanto pecuniarie e come tali naturalmente divisibili ex parte debitoris, difettano del requisito dell’unicità della prestazione. Per tale ragione, in assenza di una disposizione normativa diversa, tali obbligazioni non sono soggette al regime della solidarietà, ma a quello della parziarietà. Così, il terzo creditore, ottenuto il titolo esecutivo, potrà promuovere l’esecuzione individualmente nei confronti dei singoli condomini nei limiti della rispettiva quota (cfr. Cassazione civile sez. un., 08/04/2008, n.9148, Cass., s. n. 4238/2013) e a condizione che i condomini destinatari dell’azione siano morosi, secondo il principio della necessità della loro preventiva escussione dettato dall’art. 63 disp. att. c.c..

Con riferimento al problema della individuazione degli oneri di allegazione e prova a carico del creditore ingiungente, è utile richiamare la motivazione della sentenza della Corte di Cassazione, s. n. 22856/2017 che detta un vero e proprio vademecum per i casi assimilabili a quello di specie. Dice la Corte che va certamente escluso che il creditore del condominio, che abbia ottenuto un titolo esecutivo nei confronti di quest’ultimo, e che intenda agire nei confronti dei singoli condomini per recuperare il proprio credito, non solo debba instaurare e coltivare una serie di distinte procedure esecutive contro ciascun singolo condomino per la rispettiva quota di debito (quindi, in talune ipotesi, eventualmente anche per importi irrisori), ma sia anche onerato della prova della misura della quota millesimale spettante a ciascuno di tali singoli condomini. L’utilizzabilità del titolo esecutivo formatosi nei confronti del condominio per promuovere l’esecuzione forzata contro i singoli condomini implica di per sé esclusivamente l’onere, per il creditore procedente, di dimostrare la legittimazione passiva, sul piano esecutivo, dei condomini aggrediti, e cioè la loro qualità di condomini e in particolare, dopo la modifica dell’art. 63 disp. att. c.p.c. (secondo cui: “I creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condomini”) di condomini morosi. Per quanto attiene alla misura della rispettiva quota millesimale, deve invece ritenersi sufficiente una mera allegazione da parte dell’intimante: il condomino cui sia eventualmente richiesto il pagamento di un importo eccedente quello della sua quota potrà proporre opposizione all’esecuzione, ma in tale sede sarà suo onere dimostrare l’esatta misura di detta quota; aggiunge inoltre la Corte (s. n. 22856/2017) che la richiesta di pagamento dell’obbligazione gravante sul condominio, senza la specificazione della minor quota pretesa dal singolo condomino, non può che essere equiparata ad una implicita allegazione, da parte del creditore intimante, di una responsabilità dell’intimato per l’intero ammontare dell’obbligazione del condominio. In tale ipotesi il precetto sarà inefficace per la richiesta dell’importo eccedente la quota millesimale dell’intimato, laddove questi dimostri in concreto la misura di detta quota, ma conserverà la sua efficacia nei limiti di essa. Tale ultima conclusione viene dalla Corte giustificata con il richiamo al principio di vicinanza della prova essendo palese la maggiore prossimità e la riferibilità al singolo condomino del fatto (impeditivo/modificativo) in questione, e cioè la misura della sua quota condominiale.

Nel caso di specie, il titolo esecutivo e il precetto sono stati notificati ad A. senza che D. avesse prioritariamente acquisito contezza della sussistenza di una sua condizione di morosità per cui, da questo punto di vista, l’azione esecutiva non avrebbe potuto essere legittimamente avviata nei suoi confronti; né la comunicazione datata __ resa dal condominio (prodotta sub doc. __) contiene un esplicito riconoscimento della sussistenza di una situazione di morosità a carico della opponente; né tale prova può evincersi dalla lettera del condominio datata __, in cui si legge dell’imminente versamento di Euro __ da parte di tale A., non P., il nome dell’odierna opponente.

Non si condivide invece la tesi della opponente, a cui dire essa non potrebbe essere chiamata a rispondere del debito del condominio qui in discussione, in quanto sorto prima dell’acquisto da parte sua della proprietà dell’immobile; invero, le spese per la conservazione della cosa comune costituiscono obligationes propter rem (trovanti titolo nel diritto di proprietà sulla cosa comune) per le quali vige il principio dell’ambulatorietà passiva stabilito dall’art. 63, disp. att. c.c.. Pertanto, una volta perfezionatosi il trasferimento della proprietà di un’unità immobiliare, non può essere chiesto all’alienante il pagamento dei contributi condominiali, atteso che l’obbligo di pagamento di questi ultimi sorge dal rapporto di natura reale che lega l’obbligato alla proprietà dell’immobile (Cassazione civile sez. II, 09/11/2009, n.23686 secondo cui: “in tema di condominio, una volta perfezionatosi il trasferimento della proprietà di un’unità immobiliare, non può essere chiesto ed emesso nei confronti dell’alienante, in capo al quale è cessata la qualità di condomino, decreto ingiuntivo per la riscossione dei contributi condominiali, atteso che l’obbligo di pagamento di questi ultimi sorge dal rapporto di natura reale che lega l’obbligato alla proprietà dell’immobile.”).

D. deve pertanto ritenersi soccombente rispetto alla posizione di A., non essendosi adeguatamente e tempestivamente attivato presso il condominio al fine di acquisire la prova della sua morosità, necessaria al fine di potere esercitare legittimamente le sue pretese nei confronti della opponente; né questo giudice ha autorizzato la pur formulata richiesta di ordine di esibizione nei confronti del condominio (avente ad oggetto verbali di assemblea, registro condomini con quote millesimali…) apparendo finalizzata ad acquisire la prova della sussistenza della morosità, e quindi evidentemente esplorativa, traducendosi in una sorta di ausilio alla ricerca della prova, invece su di esso incombente.

Infine, con riguardo ai rapporti intercorrenti tra D. e il Condominio, se è vero che il primo ha dimostrato di avere più volte richiesto al secondo la indicazione dei condomini morosi, è pur vero che la domanda di risarcimento del danno (pari agli interessi passivi che il D. paga sugli scoperti di conto) è allegata in termini generici e del tutto sfornita di prova; invero, la mera produzione degli estratti conto bancari non consente in alcun modo di ricavarne la prova del fatto che lo scoperto di conto sia da addebitare esclusivamente al credito nei confronti del Condominio stesso.

Ciò premesso, dovendosi procedere alla pronuncia sulle spese, avuto riguardo alle ragioni delle parti per come esposte sopra esse, nei rapporto tra D. e il Condominio esse sono interamente compensate; nei rapporti tra A. e G. sono poste a carico della prima e liquidate con riguardo ai valori minimi previsti per le fasi di studio e introduttiva e discussione, in ragione del contenuto dispendio di attività difensiva, con riduzione della metà per la fase istruttoria, non avendo la parte redatto le memorie ex art. 183 co. 6 c.p.c.. Infine, con riguardo ai rapporti tra A. e D., le stesse sono poste a carico del secondo e compensate per la metà, in ragione del non integrale accoglimento delle ragioni difensive dell’opponente.

P.Q.M.

Il tribunale di Terni, in composizione monocratica, pronunciando sulla domanda promossa da A. nei confronti di G. e D. e da quest’ultimo nei confronti di C. così provvede:

– dichiara cessata la materia del contendere;

– condanna D. a rifondere, in favore di A., le spese di lite, che liquida nel complessivo importo di Euro __ oltre rimborso forfettario spese generali, IVA e CPA come per legge e al rimborso della somma di Euro __ per CU, e le dichiara compensate per il resto;

– condanna A. a rifondere nei confronti di G. le spese di lite che liquida nel complessivo importo di Euro __ oltre rimborso forfettario spese generali, IVA e CPA come per legge;

– dichiara integralmente compensate le spese di lite nei rapporti tra D. e C..

Così deciso in Terni, l’8 febbraio 2020.

Depositata in Cancelleria il 10 febbraio 2020.

 

Tribunale Terni Sent. 10_02_2020

 

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L’elemento che consente di differenziare l’opposizione all’esecuzione da quella di cui all’art. 617 c.p.c.

L’elemento che consente di differenziare l’opposizione all’esecuzione da quella di cui all’art. 617 c.p.c.

Corte d’Appello di Perugia, Sezione Civile, Sentenza del 12/02/2020

Con sentenza del 12 febbraio 2020, la Corte d’Appello di Perugia, Sezione Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che l’elemento che consente di differenziare l’opposizione all’esecuzione da quella di cui all’art. 617 c.p.c. è costituito dall’oggetto della contestazione: mentre con l’opposizione all’esecuzione il debitore contesta l’an dell’esecuzione e nega il diritto del creditore di agire in executivis nei suoi confronti per difetto originario o sopravvenuto del titolo esecutivo, con l’opposizione agli atti esecutivi il debitore contesta il quomodo e, quindi, la modalità dell’esecuzione in relazione a vizi formali del titolo, del precetto o di altro atto del procedimento esecutivo.


Corte d’Appello di Perugia, Sezione Civile, Sentenza del 12/02/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La Corte d’Appello di Perugia

Sezione civile

riunita in camera di consiglio in persona dei magistrati:

1) dott. __ – presidente

2) dott. __ – consigliere

3) dott. __ – giudice ausiliario rel. e est.

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Nella causa civile iscritta al n. __ R.G. degli affari contenziosi

PROMOSSA DA

M. – attrice appellante

CONTRO

S. – convenuta appellata

AVVERSO

la sentenza n. __, pubblicata il __ dal Tribunale di Spoleto, in persona del Giudice Dr. __, nel giudizio n. __ R.G., sulle seguenti

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con atto di citazione notificato in data __ M. spiegava opposizione avverso l’atto di precetto notificatole il __ da S., con il quale le veniva intimato il pagamento di complessivi Euro __ oltre accessori.

Premesso che il titolo esecutivo era costituito da due sentenze penali, emesse rispettivamente in primo e secondo grado dal Tribunale di Spoleto e dalla Corte di Appello di Perugia, l’opponente rilevava che non erano dovuti: a) Euro __, liquidati dalla sentenza penale n. __ del __ del Tribunale di Spoleto, in quanto tale titolo non era stato notificato, e nell’atto di precetto non era specificata la data di notifica; b) Euro __ a titolo rivalutazione e di interessi legali, in quanto non menzionati nella sentenza n. __, con la quale la Corte di Appello di Perugia aveva ridotto il risarcimento del danno dovuto da M. a S. da Euro __ a Euro __; c) il rimborso forfettario del 12,50 %, in quanto non indicato nella sentenza della Corte di appello di Perugia; d) l’importo di Euro __, relativo a presunti compensi professionali di difesa, che non era dovuto e assente nella riforma contenuta nel D.M. n. 140 del 2012, ormai in vigore alla data di notifica dell’atto di precetto, e di cui venivano contestati le voci accesso uffici (Euro __), apposizione formula esecutiva (Euro __), corrispondenza e consultazioni (Euro __ per 2). In base alle contestazioni mosse l’importo dovuto si riduceva a Euro __.

In via riconvenzionale M. domandava poi la compensazione del credito azionato con l’atto di precetto con il controcredito di Euro __, corrispondente alla quota ereditaria ad essa spettante quale successore del padre A., oltre agli interessi e alla rivalutazione monetaria, con condanna al pagamento del residuo.

Concludeva quindi chiedendo dichiararsi parzialmente nullo il precetto relativamente alla somma intimata di Euro __; dichiarare che M. era creditrice di S. dell’importo di Euro __, e, compensata tale somma con l’importo non contestato di Euro __, condannare in via riconvenzionale S. alla corresponsione della somma residua, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal __.

Si costituiva in giudizio S., la quale in via preliminare rilevava che il credito azionato in via riconvenzionale da M. era già oggetto di un precedente giudizio instaurato avanti il Tribunale di Spoleto nel __ e iscritto al n. __ R.G., nel quale aveva chiesto il riconoscimento e l’assegnazione in suo favore della quota ereditaria nella misura del 50% di tutti i beni mobili e immobili dell’asse ereditario. Tale domanda era inoltre inammissibile per assenza dei presupposti di certezza, liquidità e esigibilità del credito.

Nel merito evidenziava che il credito oggetto dell’atto di precetto originava da una condanna al risarcimento del danno contenuta nelle statuizioni civili della sentenza n. __ del __ del Tribunale penale di Spoleto, il quale aveva condannato C. e M. rispettivamente al pagamento di Euro __ e Euro __, oltre interessi legali e rivalutazione dal __ al saldo, nonché alle spese di lite liquidate in Euro __ per onorari e rimborso forfettario del 12,5 % più IVA. La Corte di appello di Perugia, con sentenza n. __, emessa il __ nel proc. Pen. n. __, in parziale riforma, aveva tuttavia ridotto il risarcimento a Euro __ a carico di C. e Euro __ a carico di M.; confermava nel resto le statuizioni e, compensate al 50 % le spese del grado, aveva condannato la parte civile al residuo liquidato in Euro __, oltre accessori.

Osservava quindi che, ancorché il quantum del risarcimento fosse stato riformato, la sentenza di primo grado per il resto era stata confermata. Conseguentemente erano dovuti la rivalutazione e gli interessi legali nonché il rimborso forfettario del 12,5 %. Concludeva chiedendo il rigetto della domanda, con richiesta di ordinanza ingiuntiva di pagamento delle somme non contestate.

Rigettata l’istanza di sospensione dell’esecuzione, con sentenza n. __, pubblicata il __, il Tribunale rigettava l’opposizione e la domanda riconvenzionale.

M. interponeva appello con atto di citazione notificato il __, denunciando che il primo Giudice non aveva considerato le critiche prospettate in primo grado, che venivano riproposte e di seguito sintetizzate: a) l’omissione di allegazione al precetto della sentenza resa dal Tribunale penale di Spoleto in primo grado e della indicazione della relativa data di notifica, con la conseguenza che non erano dovuti Euro __ per compensi del primo grado; b) quanto agli onorari di Euro __ liquidati dalla Corte di Appello di Perugia, in assenza di condanna in solido con C., M. era tenuta solo al pagamento della metà, pari a Euro __; c) la rivalutazione e gli interessi non erano dovuti, in quanto non menzionati nella sentenza di appello; d) l’atto di precetto, datato __ e notificato il __, era soggetto al D.M. n. 140 del 2012, attuativo del D.L. n. 1 del 2012 che aveva abrogato le tariffe professionali. Di conseguenza le voci di diritti e onorari quantificati in Euro __ non erano dovuti, mentre era dovuto esclusivamente l’importo di Euro __.

Non risultavano riproposte la domanda di decurtazione del rimborso forfettario del 12,50 %, e la domanda riconvenzionale di compensazione con il credito di Euro __, e quella di condanna al pagamento del residuo.

Concludeva quindi, previa sospensione della efficacia esecutiva, per la revoca della sentenza n. __ del Tribunale di Spoleto.

Si costituiva l’appellata, la quale concludeva per il rigetto del gravame.

All’udienza del __ le parti precisavano le conclusioni, e il Collegio, concessi i termini per il deposito di memorie ex art. 190 c.p.c., si riservava la decisione. La riserva è sciolta con il presente provvedimento.

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

Il gravame è in parte fondato e deve essere parzialmente accolto per gli argomenti in appresso.

1) – È opportuno premettere che la domanda di decurtazione del rimborso forfettario del 12,50 % e la domanda riconvenzionale di compensazione con il credito di Euro __ con condanna al pagamento del residuo spiegata in primo grado, non riproposte in appello, devono intendersi rinunciate ai sensi dell’art. 346 c.p.c..

E altresì da rilevare che siccome nel medesimo processo si possono proporre contro la stessa parte più domande (art. 104, primo comma, cod. proc. Civ.), nel giudizio di primo grado e nel proprio atto di appello M. ha proposto due domande.

Una domanda di opposizione agli atti esecutivi: tale è il valore delle contestazioni inerenti all’omissione di allegazione al precetto della sentenza resa dal Tribunale penale di Spoleto in primo grado e di indicazione della relativa data di notifica, con conseguente detrazione dell’importo di Euro __.

Una domanda di opposizione all’esecuzione: tale è il valore delle contestazioni inerenti alla parziarietà dell’obbligo di refusione delle spese dell’appello penale, quantificate in Euro __, da dividere in Euro __ per ciascuno dei coobbligati; gli interessi e della rivalutazione, in quanto non menzionati nella sentenza di appello; l’importo di Euro __ per diritti e onorari, da ridurre a Euro __ quale compenso unico.

2) – Gli arresti della Suprema Corte hanno ripetutamente affermato che l’elemento che consente di differenziare l’opposizione all’esecuzione da quella di cui all’art. 617 c.p.c. è costituito dall’oggetto della contestazione: mentre con l’opposizione all’esecuzione il debitore contesta l’an dell’esecuzione e nega il diritto del creditore di agire in executivis nei suoi confronti per difetto originario o sopravvenuto del titolo esecutivo, con l’opposizione agli atti esecutivi il debitore contesta il quomodo e, quindi, la modalità dell’esecuzione in relazione a vizi formali del titolo, del precetto o di altro atto del procedimento esecutivo (Cass. civ., Sez. III, 14/07/2015, n. 14653; Cass. n. 1568/1997; Cass. n. 796/1999). L’identificazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va operata con riferimento esclusivo alla qualificazione giuridica dell’azione effettuata dal giudice nello stesso provvedimento, a prescindere dalla sua esattezza o dalle indicazioni della parte, fermo il potere del giudice ad quem di operare una autonoma qualificazione non solo ai fini del merito, ma anche dell’ammissibilità stessa dell’impugnazione (Cass. civ., Sez. III, 22/06/2016, n. 12872).

3) – Da tanto deriva che, in ordine alla opposizione agli atti esecutivi, stante la non impugnabilità prevista dall’art. 618 c. 2 c.p.c., la sentenza poteva essere oggetto esclusivamente di ricorso per cassazione. Di conseguenza l’appello è inammissibile.

Inoltre, essendosi il Tribunale di Spoleto già pronunciato con sentenza di accoglimento n. __ del __ sulla questione della omessa notificazione della sentenza penale del Tribunale di Spoleto in altro giudizio di opposizione agli atti esecutivi, parte appellante, avendo ottenuto una pronuncia favorevole, non aveva interesse a impugnare la sentenza n. __ per i medesimi fatti, poiché il giudicato sul punto ha prodotto l’ulteriore effetto, rilevante ex art. 100 c.p.c., di far venire meno, per la parte beneficiaria di esso, ogni interesse ad agire in giudizio e, conseguentemente, esclude la legittimità dell’impugnazione limitatamente a tale questione.

Tale motivo di appello è quindi inammissibile e deve essere respinto.

4) – Venendo ai motivi di opposizione all’esecuzione, la seconda doglianza afferma che la sola somma dovuta per onorari era quella di Euro __ liquidati nel giudizio penale dalla corte di appello di Perugia, ma non essendovi condanna in solido, a M. poteva essere intimato solo il pagamento della metà, pari a Euro __.

La critica, in quanto proposta in primo grado per la prima volta nelle note conclusive del __, e poi nell’atto di appello, è tardiva e inammissibile. La deduzione del carattere non solidale dell’obbligazione integra infatti un’eccezione in senso proprio, che deve essere proposta ritualmente, sicché è inammissibile la sua proposizione per la prima volta nelle note conclusive, che hanno la funzione di illustrare le domande e le eccezioni già ritualmente proposte (Cass. civ. 05/08/2005, n. 16582), e in appello (Cass. civ., Sez. II, 27/03/2015, n. 6282; Cass. 7216/97 e 15592/07). Ed ancora si è detto che l’esclusione del vincolo di solidarietà passiva costituisce un’eccezione in senso stretto, soggetta alle relative decadenze. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito sulla tardività della suddetta eccezione, proposta in corso di causa, e non già con l’atto di opposizione a decreto ingiuntivo, da eredi convenuti per la restituzione di somme a loro corrisposte in esecuzione di una sentenza riformata in grado di appello). (Cass. civ., Sez. lavoro, 28/09/2016, n. 19186).

5) – Parimenti infondato è il rilievo secondo cui sull’importo oggetto del risarcimento del danno non sarebbero dovuti gli interessi e la rivalutazione monetaria, in quanto non menzionati nella sentenza di appello n. __, emessa il __ nel proc. Pen. n. __. È infatti da rilevare che la sentenza penale n. __ della Corte di Appello di Perugia, pur riducendo il risarcimento del danno liquidato nella sentenza di primo grado n. __ del __ del Tribunale di Spoleto, aveva confermato le restanti statuizioni civili di primo grado. Conseguentemente erano dovuti la rivalutazione e gli interessi legali nonché il rimborso forfettario del 12,50 %.

Inoltre gli interessi compensativi e la rivalutazione monetaria costituiscono una componente dell’obbligazione di risarcimento del danno e possono essere riconosciuti dal giudice anche d’ufficio pur se non specificamente richiesti, atteso che essi devono ritenersi compresi nell’originario petitum della domanda risarcitoria, ove non ne siano stati espressamente esclusi (Cass. civ., Sez. III, 16/12/2014, n. 26374; Cass. civ., Sez. III, 30/09/2009, n. 20943).

6) – È invece fondata la censura attinente alla quantificazione dei compensi per la redazione e notificazione dell’atto di precetto. Secondo l’appellante l’atto di precetto, datato __ e notificato il __, era soggetto al D.M. n. 140 del 2012, attuativo del D.L. n. 1 del 2012, il quale aveva abrogato le precedenti tariffe professionali. Di conseguenza le voci di diritti e onorari quantificati in Euro __ non erano dovuti, mentre era dovuto esclusivamente l’importo di Euro __.

In materia di spese giudiziali, a seguito dell’entrata in vigore del D.L. n. 1 del 2012 (art. 9), convertito in L. 24 marzo 2012, n. 27, sono state abrogate le tariffe professionali, prevedendo, quale ausilio del giudice per la liquidazione dei compensi, l’adozione di parametri ministeriali (D.M. 20 luglio 2012, n. 140).

L’abrogazione delle tariffe forensi ha comportato anche il venir meno della distinzione tra diritti di procuratore ed onorario di avvocato, in favore di un compenso unico facente riferimento non alla singola prestazione professionale svolta, ma all’intera attività professionale espletata nelle fasi del giudizio, per ognuna delle quali i parametri ministeriali quantificano il compenso dovuto.

Inoltre, l’art. 41 del D.M. n. 140 del 2012, in attuazione dell’art. 9 del D.L. n. 1 del 2012, ha previsto che le nuove disposizioni si applicano alle liquidazioni successive alla entrata in vigore del decreto medesimo, le quali, come chiarito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenze nn. 17405/12 e 17406/12), facciano riferimento ad un compenso spettante al professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale. In materia deve quindi applicarsi il principio secondo cui “In tema di spese processuali, agli effetti dell’art. 41 del D.M. n. 140 del 2012, i nuovi parametri, in base ai quali vanno commisurati i compensi forensi in luogo delle abrogate tariffe professionali, si applicano in tutti i casi in cui la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto purché, a tale data, la prestazione professionale non sia ancora completata” (Cassazione civile, sez. VI, 11/02/2016, n. 2748).

Ne discende che nel caso in cui, come quello di specie, l’atto di precetto viene redatto successivamente alla data di entrata in vigore del D.M. n. 140 del 2012, ancorché in forza di provvedimenti giudiziali antecedenti tale momento, si dovrà necessariamente far riferimento, per la liquidazione del compenso al precetto, ai parametri previsti nel decreto. Infatti l’art. 11, comma 7, del suddetto decreto prevede che “nella fase esecutiva, fermo quanto previsto nella richiamata tabella A-Avvocati, per l’atto di precetto, sono ricompresi, a titolo di esempio: la disamina del titolo esecutivo, la notificazione dello stesso unitamente al precetto, l’esame delle relative relate; il pignoramento e l’esame del relativo verbale, le iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, gli atti di intervento, le ispezioni ipotecarie, catastali, l’esame dei relativi atti, le assistenze all’udienza o agli atti esecutivi di qualsiasi titolo”.

La redazione e la notifica dell’atto di precetto, attività nella quale sono ricomprese quelle ad esse prodromiche, essendosi perfezionata dopo l’entrata in vigore del D.M. n. 140 del 2012, sono soggette quindi al regime del D.M. n. 140 del 2012.

Il relativo compenso rientra, pertanto, nell’onnicomprensiva voce “competenze per l’atto di precetto”, calcolata, correttamente, in virtù dei parametri di cui al D.M. n. 140 del 2012 (Euro __, scaglione da Euro __ a Euro __), con la conseguenza che non sono dovuti né i diritti (Euro __) di cui al precetto intimato, né l’onorario (Euro __), con rideterminazione di CAP e IVA.

Devono essere invece rimborsate le spese inerenti alla richiesta copie, pari a Euro __ e notifica dell’atto di precetto, costituendo esse un accessorio delle spese processuali riferibili al titolo esecutivo giudiziale, e le spese di notificazione dell’atto di precetto.

Conseguentemente, in parziale accoglimento della domanda de qua, va dichiarata l’illegittimità e l’inefficacia del precetto nella parte in cui intima il pagamento di diritti ed onorari in misura eccedente Euro __, liquidabile quale compenso unico per la fase di notificazione dell’atto di precetto, al quale devono aggiungersi le spese per la richiesta delle copie con formula esecutiva e quelle di notificazione.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo, previa compensazione per tre quarti, tenuto conto del limitatissimo accoglimento quantitativo della domanda e del rigetto della maggior parte dei motivi di gravame.

È di tutta evidenza infatti la reciprocità della soccombenza, nozione riaffermata dalla Suprema Corte nei seguenti termini: “La nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale delle spese processuali, sottende – anche in relazione al principio di causalità – una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate, che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero l’accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, allorché essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri, ovvero una parzialità dell’accoglimento meramente quantitativa, riguardante una domanda articolata in unico capo.” (Cass. civ. 23.9.2013 n. 21684; in termini Cass. civ. 22/02/2016 n. 3438).

P.Q.M.

PER QUESTE RAGIONI

La Corte d’appello

definitivamente pronunciando sull’appello avverso la sentenza sopra indicata, ogni diversa istanza, eccezione, e deduzione disattesa, così provvede:

1) accoglie l’appello per quanto di ragione, e in parziale riforma della sentenza impugnata dichiara nullo ed inefficace il precetto opposto per la parte in cui, con una eccedenza non dovuta e da detrarre di Euro __, intima il pagamento di Euro __ invece che Euro __, dovuto quale compenso professionale, al quale devono aggiungersi le spese per la richiesta di copie della sentenza con formula esecutiva (Euro __) e quelle per la notificazione dell’atto di precetto;

2) compensa per tre quarti le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio, e condanna S. al rimborso in favore di M. della quota residua di un quarto delle dette spese di lite, che liquida per l’intero, quanto al primo grado, in Euro __ per esborsi ed Euro __ per compensi professionali, e quanto al secondo grado in Euro __ per esborsi ed Euro __ per compensi professionali, il tutto oltre rimborso forfettario, CPA e IVA come per legge.

Così deciso in Perugia, camera di consiglio del 5 febbraio 2020.

Depositata in Cancelleria il 12 febbraio 2020.

Corte d'Appello Perugia Sent. 12_02_2020

 

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Il creditore deve depositare le copie conformi degli atti a pena di inefficacia del pignoramento

Il creditore deve depositare le copie conformi degli a pena di inefficacia del pignoramento

Tribunale Ordinario di Busto Arsizio, Sezione II Civile, Sentenza del 16/02/2020

Con sentenza del 16 febbraio 2020, il Tribunale Ordinario di Busto Arsizio, Sezione II Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che l’opportunità offerta a soggetti diversi dal creditore di iscrivere a ruolo il pignoramento (ex art. 159-ter disp. att. c.p.c.), non esime il creditore dal depositare le copie conformi degli atti nel rispetto dei termini di legge, a pena di inefficacia del pignoramento stesso.


Tribunale Ordinario di Busto Arsizio, Sezione II Civile, Sentenza del 16/02/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI BUSTO ARSIZIO

Sezione Seconda Civile

Il Giudice dell’Esecuzione, nel procedimento rubricato al nr. ____ promosso da

A. – creditore procedente /opposto

Nei confronti di

L. e B. – debitori esecutati /opponenti

a scioglimento della riserva assunta all’udienza del __,

– letto il ricorso depositato in data __ con il quale L. e B. hanno proposto opposizione ex art. 615 comma II c.p.c. all’esecuzione instaurata nei propri confronti da A., nonché opposizione ex art. 617 c.p.c., chiedendo la sospensione della procedura esecutiva;

– letta la memoria difensiva depositata da A., creditore procedente, in data __ ed esaminati i documenti prodotti;

– sentiti i procuratori delle parti,

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

quanto segue.

A fondamento dell’istanza cautelare di sospensione e delle domande svolte nel merito, volte ad ottenere la declaratoria di nullità, annullabilità o illegittimità dell’esecuzione, i ricorrenti hanno esposto: i) di avere proposto opposizione al precetto notificato in data __ con cui A. ha richiesto loro il pagamento dell’importo di Euro __ sulla base del contratto di mutuo fondiario stipulato in data __; ii) che, con Provvedimento del __, il giudice designato alla trattazione di tale giudizio ha sospeso l’efficacia esecutiva del titolo azionato; iii) che detto contratto sarebbe nullo per violazione degli artt. 38 comma II T.U.B. e 1418 c.c., poiché l’importo erogato dalla banca sarebbe superiore al limite dell’80% del valore dell’immobile ipotecato previsto dalla Del. CICR del 22 aprile 1995; iv) che i debitori, versando in una condizione di sovraindebitamento, hanno ottenuto la nomina di un professionista incaricato ai sensi dell’art.15 L. n. 3 del 2012 e che la prosecuzione dell’espropriazione forzata individuale pregiudicherebbe la fattibilità e l’attuazione di un piano di ristrutturazione dell’esposizione debitoria complessiva.

L’istituto di credito opposto, premesso di avere richiesto la notificazione dell’atto di pignoramento prima di avere conoscenza del provvedimento di sospensione del titolo esecutivo, ha rilevato che il pignoramento è divenuto inefficace per mancata iscrizione a ruolo da parte della stessa parte creditrice. Ha poi eccepito la litispendenza ex art. 39 c.p.c. rispetto al precedente giudizio di opposizione a precetto instaurato dai debitori sulla base dei medesimi motivi, contestando comunque nel merito la fondatezza delle doglianze ex adverso svolte in ordine alla dedotta invalidità del contratto di mutuo ed alle conseguenze derivanti dalla mera presentazione di domanda di sovraindebitamento. Ha quindi concluso per il rigetto della domanda di sospensione, con vittoria di spese.

In tal modo sinteticamente riassunte le argomentazioni delle parti è necessario chiarire che, sebbene nel ricorso in opposizione non si faccia riferimento ad alcuna specifica norma del codice di rito in forza della quale è chiesta la sospensione della procedura, dall’esame dei motivi si evince che essa è domandata sia ai sensi dell’art. 623 c.p.c. – cd. sospensione necessaria, conseguente al provvedimento del giudice della cognizione davanti al quale è impugnato o comunque contestato il titolo esecutivo (è opportuno precisare che, per ottenere tale sospensione, il debitore esecutato non ha l’onere di proporre una opposizione, essendo sufficiente formulare al G.E. un’istanza ex art. 486 c.p.c.) – sia ai sensi dell’art. 624 c.p.c., nella parte in cui è correlata ai veri e propri motivi di opposizione ex art. 615 comma II c.p.c. (i.e. quelli concernenti la validità del contratto di mutuo e la asserita improcedibilità ai sensi della L. n. 3 del 2012).

Così correttamente qualificata la (duplice) istanza di sospensione, va tuttavia osservato che, nelle more della fissazione dell’udienza di comparizione delle parti, il pignoramento è divenuto inefficace per decorso del termine di cui all’art. 557 c.p.c. e, comunque, del termine previsto dall’art. 497 c.p.c..

Nonostante la procedura esecutiva sia stata iscritta a ruolo dai debitori ai sensi dell’art. 159 ter disp. att. c.p.c., il creditore procedente non ha infatti depositato entro quindici giorni dalla riconsegna dell’atto di pignoramento da parte dell’ufficiale giudiziario (avvenuta in data __; cfr. doc. 3 di parte opposta) le copie conformi degli atti previsti dall’art. 557 c.p.c..

Tali atti sono stati depositati dai debitori, ma ovviamente sprovvisti della attestazione di conformità del legale della creditrice rispetto agli originali in suo possesso. In ogni caso, è inutilmente decorso anche il termine di 45 giorni dal pignoramento, notificato in data __, per il deposito dell’istanza di vendita. Il disinteresse del creditore procedente a coltivare la presente esecuzione, in considerazione dell’attuale sospensione del titolo esecutivo, è stato peraltro confermato anche in occasione dell’udienza del __ (neppure risulta che il pignoramento sia stato trascritto).

Per tali motivi, il pignoramento deve essere dichiarato inefficace e la procedura estinta, il che rende superflua ogni statuizione in ordine a qualsiasi istanza di sospensione.

Tenuto conto dei motivi di opposizione all’esecuzione proposti, vanno comunque assegnati i termini per l’introduzione dell’eventuale giudizio di merito ai sensi dell’art. 616 c.p.c..

P.Q.M.

letti gli artt. 497, 557, 562 e 630 c.p.c.

dichiara l’inefficacia del pignoramento e l’estinzione della procedura esecutiva immobiliare n. __;

dichiara non luogo a provvedere sulla domanda di sospensione dell’esecuzione formulata da L. e B.;

fissa termine perentorio al __ per l’introduzione del giudizio di merito, secondo le modalità previste in ragione della materia e del rito, previa iscrizione a ruolo della causa, a cura della parte interessata, osservati i termini a comparire di cui all’articolo 163-bis c.p.c. (o altri se previsti) ridotti della metà.

Si comunichi alle parti costituite.

Così deciso in Busto Arsizio, il 16 febbraio 2020.

Depositata in Cancelleria il 16 febbraio 2020.

Tribunale Busto Arsizio Sez. II Sent. 16_02_2020




Concordato preventivo ed esecuzione forzata

Concordato preventivo ed esecuzione forzata

Dopo l’omologazione, i creditori anteriori sono vincolati agli effetti modificativi del concordato, ma in questi limiti, in caso di inadempimento, sono giuridicamente liberi di agire esecutivamente nei confronti del debitore per l’adempimento di quanto promesso con la proposta

Tribunale Ordinario di Brescia, Sezione IV Civile Fallimentare, Sentenza del 21/02/2020

Con sentenza del 21 febbraio 2020, il Tribunale Ordinario di Brescia, Sezione IV Civile Fallimentare, in tema di concordato preventivo ha stabilito che, se è vero che l’art. 168 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267 vieta ai creditori con titolo o causa anteriore alla pubblicazione del ricorso contenente la domanda di concordato (anche in bianco) di iniziare o proseguire azioni esecutive sul patrimonio del debitore, ciò vale soltanto “fino al momento in cui il decreto di omologazione del concordato preventivo diventa definitivo”. Peraltro, detta disposizione va coordinata con l’art. 184 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267, che sancisce l’obbligatorietà del concordato omologato per tutti i creditori concorsuali, nel senso che vincolanti per tutti i creditori anteriori sono l’effetto c.d. “esdebitatorio”, nonché le tempistiche di adempimento che la proponente si è obbligata a rispettare, ma ciò non può valere ad estendere il limite del divieto di agire “in executivis” sino all’esecuzione del concordato, poiché una tale interpretazione implicherebbe di fatto la cancellazione dell’inciso “fino al momento in cui il decreto di omologazione del concordato preventivo diventa definitivo”, ciò che non pare ammissibile. Pertanto, dopo l’omologazione, i creditori anteriori sono vincolati agli effetti modificativi del concordato, ma in questi limiti, in caso di inadempimento, sono giuridicamente liberi di agire esecutivamente nei confronti del debitore per l’adempimento di quanto promesso con la proposta.


 

Tribunale Ordinario di Brescia, Sezione IV Civile Fallimentare, Sentenza del 21/02/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE ORDINARIO DI BRESCIA

Sezione IV Civile

fallimentare – procedure concorsuali – esecuzioni

nella persona del Giudice __ ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nelle cause civili riunite di primo grado iscritte al n. __ R.G. ed al n. __ R.G. promosse con atto di citazione entrambe da:

E. S.p.A. (già E. S.p.A. in concordato preventivo) – parte attrice

contro

M. – parte convenuta

nonché contro

A. (già N. S.p.A.) – parte convenuta

Svolgimento del processo

Con un primo atto di citazione ritualmente notificato E. S.p.A. in concordato preventivo (a seguire, più brevemente, E.) ha convenuto in giudizio M. allo scopo di sentir accolte le conclusioni su riportate allegando che il secondo con i decreti n. __ del __ e n. __ del __ le ha concesso due distinti finanziamenti a valere sul fondo speciale rotativo per l’innovazione tecnologica di cui all’art. 14 della L. n. 46 del 17 febbraio 1982 fino agli importi, rispettivamente, di Euro __ nonché di Euro __ e di Euro __.

Sennonché, con note n. __ e __ prot. Del __ M. avrebbe poi comunicato l’avvio del procedimento di revoca di entrambi i benefici evocando la presentazione da parte di E. di una domanda di concordato preventivo del __ (cui hanno fatto seguito il decreto di ammissione alla procedura del __ nonché quello di omologa del __), salvo poi precisare (nel riscontrare le missive datate __ per mezzo delle quali E. ha contestato che “la legge non prevede quindi come causa di revoca l’ingresso nella procedura di concordato”) che in ogni caso la stessa E. sarebbe risultata morosa per la restituzione dei ratei scaduti rispettivamente in data __ e __, fermo peraltro che il conseguente credito restitutorio avrebbe natura privilegiata.

Per parte propria, con missive del __ E. ha evidenziato la natura chirografaria dei crediti di M.: crediti destinati dunque ad essere soddisfatti nella misura falcidiata del __% entro il triennio dall’omologa, al pari di tutti gli altri crediti non prelatizi.

Con decreti n. __ e n. __ del __, da ultimo, M. ha disposto la revoca di entrambi i benefici (richiamando, come anticipato, l’intervenuta presentazione della domanda di concordato da parte di E. oltreché, quanto al beneficio di cui al decreto n. __ del __, la morosità per oltre un anno delle rate di ammortamento del finanziamento) comunicando poi, con nota n. __ del __, l’imminente iscrizione a ruolo dei correlativi importi.

È in un contesto di tal fatta che E., affermata sul punto la giurisdizione del giudice ordinario, ha quindi radicato il giudizio iscritto al n. __ R.G. contestando in primo luogo l’illegittimità dei citati decreti di revoca dei benefici (adottati peraltro successivamente alla presentazione della domanda di concordato) non potendo valere quale motivo di revoca la presentazione di una domanda di concordato (specialmente con continuità aziendale) ed essendo stati i rimborsi dei ratei regolarmente onorati sino alla presentazione della stessa domanda di concordato (dovendosi invece, per il periodo ad essa successivo, escludere che M., così come ogni altro creditore anteriore, potesse essere pagato al di fuori delle regole del concorso).

All’illegittimità dei provvedimenti di revoca (derivante anche dalla violazione della generale disposizione di cui all’art. 21 quinquies della L. n. 241 del 7 agosto 1990) conseguirebbe poi la natura chirografaria dei crediti vantati da M. (il quale peraltro in seno al procedimento concordatario nulla avrebbe contestato sul punto), potendo essere riconosciuto rango privilegiato soltanto alle pretese economiche dell’ente finanziatore nascenti, al contempo, da un provvedimento di revoca, legittimo ed anteriore alla presentazione della domanda.

Con comparsa depositata in data __ si è costituito in giudizio M. rappresentando che le revoche contestate da parte attrice non sarebbero state determinate dalla mera presentazione della domanda di concordato in sé considerata bensì invece dalla prospettazione, in seno a quella, del credito ministeriale quale credito chirografario e non già privilegiato con ogni conseguenza sulla misura (solo parziale) e sui tempi dei pagamenti (ciò da cui dovrebbe desumersi la volontà inequivocabile di E. di non adempiere al debito su di essa gravante).

Del resto le revoche in questione apparirebbero legittime anche alla luce della disciplina generale del procedimento amministrativo fermo, in ogni caso, che la natura privilegiata accompagnerebbe i crediti relativi ai benefici a valere sul fondo speciale rotativo per l’innovazione tecnologica sin dalla loro insorgenza, quale connotato ontologico, a tal fine risultando neutrale l’adozione o meno di un successivo provvedimento di revoca.

M. ha quindi chiesto il rigetto delle domande attoree nonché, in via riconvenzionale, l’accertamento del carattere privilegiato del proprio credito.

Con un secondo atto di citazione ritualmente notificato E. ha poi convenuto in giudizio M. oltreché N S.p.A. (oggi A.) proponendo opposizione preventiva all’esecuzione ex art. 615, c. 1, c.p.c. minacciata in suo danno per mezzo della cartella di pagamento n. (…) (…) recante l’intimazione del pagamento del complessivo importo di Euro __ e spiccata in forza del ruolo ordinario n. _, reso esecutivo in data __, ove sono stati iscritti (come già sopra anticipato) i crediti restitutori de quibus.

Più in particolare E. ha eccepito la nullità della notificazione della cartella (per essere stata curata presso il Commissario giudiziale e non già presso la sede dell’impresa, seppur in concordato) nonché l’improcedibilità dell’azione esecutiva ex art. 168 L.F. oltreché, per il caso in cui fosse riconosciuto il carattere privilegiato del credito di M., per il mancato decorso del termine annuale di cui all’art. 186 bis, c. 2, lett. c), L.F. Così radicatosi il giudizio n. __ R.G., con comparsa depositata in data __ vi si è costituito M. rilevando che la proposizione dell’opposizione da parte di E. avrebbe sanato l’ipotetica nullità della notificazione della cartella e che, in ogni caso, l’ombrello protettivo di cui all’art. 168 L.F. si sarebbe chiuso con il prodursi della definitività del decreto di omologa del concordato.

Con comparsa depositata in data __ si è infine costituita A. documentando di aver notificato la cartella di pagamento in esame tanto al Commissario giudiziale quanto alla società in concordato e deducendo per il resto il proprio difetto di legittimazione passiva in merito ad ogni motivo di opposizione non direttamente afferente all’attività di riscossione demandatale.

A seguito dello scambio delle memorie di cui all’art. 183, c. VI, c.p.c. le due cause (riunite con Provv. del __) sono state istruite in via documentale ed all’udienza del __ (in occasione della quale il procuratore di parte attrice ha dimesso anche il decreto del __ con cui si è accertata la completa esecuzione del concordato) sono state trattenute in decisione da parte di questo Giudice sulle conclusioni su riportate con concessione dei termini di cui agli artt. 190 e 281 quinquies c.p.c.

E. in particolare ha dato atto, per mezzo della propria comparsa conclusionale, che in esecuzione del concordato, secondo i prospettati termini falcidiati, è stato riconosciuto in favore di M. il complessivo importo di Euro __ (ciò da cui ulteriormente discenderebbe l’inesistenza del diritto di M. di procedere in executivis ai suoi danni per la tutela di un credito ormai integralmente soddisfatto, seppur entro i limiti della rimodulazione concordataria).

Con Provv. del __ infine le cause sono state rimesse sul ruolo allo scopo di valutare la percorribilità di una soluzione transattiva alla luce dei più recenti arresti giurisprudenziali in materia dopodiché, all’udienza del __, esclusa detta possibilità, le stesse sono state nuovamente trattenute in decisione con rinuncia ai termini per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica.

Motivi della decisione

Quanto alla causa n. __ R.G., le domande proposte da E. S.p.A. sono infondate e non meritano accoglimento. Al riguardo va preliminarmente affermata, come correttamente osservato da parte attrice, la giurisdizione del giudice ordinario.

Ed infatti si deve ritenere che una volta avvenuta la concessione del finanziamento le vicende del rapporto e della sua esecuzione si sottraggono ordinariamente alla discrezionalità amministrativa, avuto particolare riguardo ad eventi quali la revoca o la decadenza dal contributo del beneficiario o la venuta meno dei presupposti di legge.

In tal senso appare orientato il giudice della giurisdizione il quale (proprio rispetto ad un caso in cui non dissimilmente da quello di specie erano “prospettate, e specularmente ex adverso contestate, mere (gravi) inadempienze alle obbligazioni di esecuzione completa e tempestiva (…) la cui sussistenza e gravità non potevano né possono essere conosciute altri che dal giudice ordinario”) ha precisato che “quanto alla cognizione delle controversie nascenti dalla revoca del contributo e delle conseguenti pretese restitutorie, è costante l’affermazione, cui il Collegio intende dare continuità, per la quale è d’obbligo la devoluzione al giudice amministrativo della controversia sulla revoca le sole volte in cui essa implichi un sindacato sul corretto esercizio della ponderazione comparativa degli interessi valutati in sede di erogazione e venuti meno in tutto o in parte nel prosieguo (vd. S.U. nn. 29529 del 2008 e 6599 del 2009) ma non già quando essa tragga le mosse dall’accertato inadempimento alle condizioni statuite in sede di erogazione o dall’acclarato sviamento dei fondi acquisiti rispetto al programma finanziato o, ancora, dal sopravvenuto contrasto del contributo rispetto a precetti adottati dalle autorità dell’Unione Europea (nn. 24409 del 2011 e 25398 del 2010)” (Cass. Civ., SS.UU., 25.1.2013, n. 1776).

Ad eguali conclusioni è giunto anche il giudice amministrativo il quale, premettendo che “il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche deve essere attuato sulla base del generale criterio di riparto fondato sulla natura della situazione soggettiva azionata”, ha ribadito che “sussiste sempre la giurisdizione del giudice ordinario (…) qualora la controversia attenga alla fase di erogazione o di ripetizione del contributo sul presupposto di un addotto inadempimento del beneficiario alle condizioni statuite in sede di erogazione o dall’acclarato sviamento dei fondi acquisiti rispetto al programma finanziato, anche se si faccia questione di atti formalmente intitolati come revoca, decadenza o risoluzione, purché essi si fondino sull’inadempimento alle obbligazioni assunte di fronte alla concessione del contributo” (Cons. Stato, Ad. Plen., 29.1.2014, n. 6).

Dacché, ricordato che nel revocare i benefici a suo tempo concessi a E., M. non ha dedotto l’esistenza di patologie afferenti il momento genetico del rapporto di finanziamento (quale ad esempio la non corretta rappresentazione dell’esistenza dei requisiti per l’ottenimento del beneficio) ma ha invocato problematiche relative alla fase funzionale del rapporto, ed in particolare il mancato pagamento di ratei già scaduti e la presentazione da parte della beneficiaria di una domanda di concordato dai connotati tali da rivelarne la volontà di non adempiere all’obbligazione restitutoria, va dunque riconosciuta la giurisdizione del giudice ordinario.

Del resto, è persino pacifico fra le parti che la presente controversia verta in materia di diritti soggettivi, risultando invero in contestazione soltanto la natura privilegiata o meno delle pretese economiche reclamate da M.; pretese concordemente ricondotte alla categoria di diritto soggettivo di credito.

Ciò brevemente premesso, ritiene questo Giudice, rispetto al tema di contestazione appena evocato, che il credito vantato da parte di M. non possa che essere riconosciuto come assistito dal privilegio di cui all’art. 9, c. V, del D.Lgs. n. 123 del 1998.

Com’è noto, la vicenda in questione trae origine dall’adozione da parte di Mi. dei decreti n. __ del __ e n. __ del __ per mezzo dei quali sono stati concessi a E. in bonis due finanziamenti fino agli importi, rispettivamente, di Euro __ nonché di Euro __ e di Euro __, a valere sul fondo speciale rotativo per l’innovazione tecnologica di cui all’art. 14 della L. n. 46 del 17 febbraio 1982.

Per mezzo di detta ultima disposizione si è disposta l’istituzione presso M. di un fondo (rinominato “Fondo per la crescita sostenibile” per mezzo dell’art. 23, c. II, del D.L. del 22 giugno 2012 n. 83) finalizzato ad erogare interventi aventi per oggetto programmi di imprese destinati ad introdurre rilevanti avanzamenti tecnologici relativi a nuovi prodotti o processi produttivi o al miglioramento di prodotti o processi produttivi già esistenti, oppure rilevanti innovazioni di contenuto stilistico e qualitativo del prodotto.

Con l’art. 37, c. 3, della L. n. 317 del 5 ottobre 1991 si è poi stabilito, fra l’altro, che “I crediti nascenti dai finanziamenti erogati ai sensi dell’art. 15, L. 17 febbraio 1982, n. 46, modificato da ultimo dal comma 1, lettera a), del presente articolo sono preferiti ad ogni altro titolo di prelazione da qualsiasi causa derivante, ad eccezione del privilegio per spese di giustizia e di quelli previsti dall’art. 2751 bis del codice civile e fatti salvi i diritti preesistenti dei terzi”, ma tale previsione è stata abrogata dall’art. 54, c. V, della L. n. 488 del 23 dicembre 1998.

Ancora, con l’art. 24, cc. 32 e 33, della L. n. 449 del 27 dicembre 1997 si è precisato che i provvedimenti di revoca delle agevolazioni a valere sul fondo in esame costituiscono titolo per l’iscrizione a ruolo del relativi crediti e si è ribadito che il conseguente “diritto alla ripetizione costituisce credito privilegiato e prevale su ogni altro titolo di prelazione da qualsiasi causa derivante ad eccezione del privilegio per spese di giustizia e di quelli previsti dall’art. 2751 bis del codice civile, fatti salvi i precedenti diritti di prelazione spettanti a terzi”.

Sennonché, al di là della specifica disciplina sin qui elencata, occorre rilevare che i finanziamenti di cui si discute rientrano senz’altro nello spettro applicativo del D.Lgs. n. 123 del 31 marzo 1998 recante, in una prospettiva di carattere più generale, “Disposizioni per la razionalizzazione degli interventi di sostegno pubblico alle imprese, a norma dell’articolo 4, comma 4, lettera c) della l. 15 marzo 1997, n. 59” e quindi una serie di principi i quali “costituiscono principi generali dell’ordinamento dello Stato” e che regolano i procedimenti amministrativi concernenti gli interventi di sostegno pubblico per lo sviluppo delle attività produttive, ivi compresi gli incentivi, i contributi, le agevolazioni, le sovvenzioni e i benefici di qualsiasi genere, di seguito denominati interventi, concessi da amministrazioni pubbliche, anche attraverso soggetti terzi (art. 1).

Fra i benefici determinati da detti interventi l’art. 7, c. 1, contempla i moduli di sostegno forse più lineari, ovverosia il contributo in conto capitale, contributo in conto interessi nonché il finanziamento agevolato.

Ebbene a queste ultime ampie nozioni possono essere ricondotti, senza dubbio, anche i finanziamenti agevolati e il contributo di spesa concessi da M. in favore di E.: è dunque alla luce della generale disciplina del D.Lgs. n. 123 del 1998 (peraltro espressamente richiamata nei preamboli di entrambi i decreti di concessione dei benefici) che occorre guardare per stabilire quale natura riconoscere ai crediti vantati dal primo nei confronti della seconda.

Ora, all’art. 9, cc. 1, 3 e 3, del decreto legislativo in esame si stabilisce che la revoca dei benefici può essere disposta in caso di assenza di uno o più requisiti, ovvero di documentazione incompleta o irregolare, per fatti comunque imputabili al richiedente e non sanabili, qualora i beni acquistati con l’intervento siano alienati, ceduti o distratti nei cinque anni successivi alla concessione, ovvero prima che abbia termine quanto previsto dal progetto ammesso all’intervento ovvero comunque per azioni o fatti addebitati all’impresa beneficiaria.

Il comma successivo, il quinto, prosegue poi indicando che “Per le restituzioni di cui al comma 4 i crediti nascenti dai finanziamenti erogati ai sensi del presente decreto legislativo sono preferiti a ogni altro titolo di prelazione da qualsiasi causa derivante, ad eccezione del privilegio per spese di giustizia e di quelli previsti dall’articolo 2751bis del codice civile e fatti salvi i diritti preesistenti dei terzi. Al recupero dei crediti si provvede con l’iscrizione al ruolo, ai sensi dell’articolo 67, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 28 gennaio 1988, n. 43, delle somme oggetto di restituzione, nonché delle somme a titolo di rivalutazione e interessi e delle relative sanzioni”.

Si tratta, com’è noto, di una disposizione legislativa la quale ha generato un ampio dibattito dottrinario e giurisprudenziale (solo in parte sopito a seguito dell’introduzione della norma di cui all’art. 8 bis, c. 3, del D.L. n. 3 del 24 gennaio 2015 convertito con modificazioni con L. n. 33 del 24 marzo 2015) relativo all’esatta perimetrazione dei presupposti di operatività di quello che è stato definito un super privilegio e che si è articolato sulla spinta di due contrapposte tensioni.

Da un lato, l’esigenza pubblicistica di garantire allo Stato il più sicuro recupero di risorse già messe a disposizioni di imprese rivelatesi poi inadempienti al fine di assicurarne il reimpiego in favore di ulteriori operatori economici (cfr. espressamente Cass. Civ., Sez. I, Ord. 20.4.2018, n. 9926), dall’altro, la necessità di rispettare il principio per cui le norme istitutive di privilegio sono di stretta interpretazione (cfr. anche Cass. Civ., SS.UU., 17.5.2010, n. 11930).

Sennonché, recentemente, la Suprema Corte di Cassazione ha fornito sul tema alcune indicazioni che questo Giudice ritiene risolutive anche rispetto al caso di specie.

Più in particolare, a fronte infatti di una posizione interpretativa particolarmente rigorosa (sostenuta anche dall’autorevole pronuncia resa da questo Tribunale e citata da parte attrice) la quale riconosce il carattere privilegiato soltanto ai crediti restitutori delle amministrazioni erogatrici in caso di patologie genetiche del rapporto di finanziamento, i giudici di legittimità hanno invece precisato che il privilegio in questione compete “non soltanto (…) ai crediti aventi la loro fonte nell’irregolare concessione dell’intervento o nell’indebito conseguimento del beneficio – ma anche a quelli derivanti, come nella specie, da “ragioni o fatti addebitati all’impresa beneficiaria o da qualsiasi altra ragione (in tutti gli altri casi), anche se attinente alla fase negoziale successiva all’erogazione del contributo” (Cass. Civ., Sez. I, Ord. 20.4.2018, n. 9926).

S’intende infatti che se da un lato il comma quinto dell’art. 9 del D.Lgs. n. 123 del 1998 riconosce rango privilegiato ai crediti nascenti dai finanziamenti erogati ai sensi del D.Lgs. n. 123 del 1998 soltanto per le restituzioni di cui al comma 4 (ove, come sopra ricordato, si dettano disposizioni relative alle pretese economiche dell’amministrazione erogatrice nei casi di restituzione dell’intervento in conseguenza della revoca di cui al comma 3, o comunque disposta per azioni o fatti addebitati all’impresa beneficiaria, e della revoca di cui al comma 1, disposta anche i misura parziale purché proporzionale all’inadempimento riscontrato), non va dall’altro sottaciuto che tale elencazione non si esaurisce il catalogo delle ipotesi di revoca, come confermato (e rilevato, seppur non espressamente, nella sentenza della Corte di Cassazione da ultima citata) dall’inciso per cui in tutti gli altri casi (in cui si debba provvedere alla restituzione del beneficio, si deve intendere, n.d.s.) la maggiorazione da applicare è determinata in misura pari al tasso ufficiale di sconto.

Ne consegue che è privilegiato, giusta la previsione legislativa di cui al combinato disposto di cui ai commi 4 e 5 dell’art. 9 del D.Lgs. n. 123 del 1998, ogni credito restitutorio nascente dai finanziamenti erogati ai sensi del citato testo normativo sia esso nascente da una revoca di vocazione più prettamente amministrativa, sia esso riconducibile ad una vicenda di inadempimento di matrice più strettamente civilistica, sia esso ricollegato ad uno di “tutti gli altri casi” in cui il finanziamento debba essere restituito, essendosi – se del caso – prodotta una deviazione rispetto al decorso fisiologico del rapporto.

Deviazione la quale nel caso di specie non va tanto individuata nella circostanza per cui, a seguito della presentazione della domanda, Emmeci ha omesso di pagare a M. gli importi dei ratei alle scadenze originarie posto che si sarebbe trattato di pagamenti di crediti anteriori (dovendosi considerare integralmente eseguita la presentazione del M. per effetto della stessa erogazione del finanziamento) in quanto tali vietati dalla disposizione di cui all’art. 168 L.F.

Piuttosto, detta deviazione può essere individuata nella stessa prospettazione da parte di E. di voler destinare, in favore di M., un pagamento soltanto parziale del residuo credito da finanziamento (così come contemplato per i creditori chirografari) e non già un pagamento integrale (così come invece dovuto per i creditori privilegiati).

Del resto, proprio in relazione a tale accadimento M. stesso ha adottato i propri provvedimenti di revoca (i quali peraltro non hanno necessariamente valenza sanzionatoria e rivelano in ogni caso una sostanza meramente dichiarativa, cfr. Cass. Civ., Sez. Sez. I, 30.1.2019, n. 2664).

Del resto, non è mancato chi ha osservato che la revoca del beneficio può avvenire anche a seguito dell’ammissione al concordato dell’impresa beneficiaria in quanto tale fatto suggerisce l’impossibilità o la difficoltà di raggiungere lo scopo per il quale il contributo era stato erogato (ma in effetti dagli atti di causa, rispetto alle concrete vicissitudini del programma a suo tempo finanziato da M., nulla si dice).

Ne discende, concludendo, che ai crediti residui (ovverosia ai crediti ricalcolati al netto dei pagamenti effettuati in sede concordataria) vantati da parte di M. in relazione all’erogazione dei benefici di cui ai decreti n. __ del __ e n. __ del __ va riconosciuto il carattere di crediti assistiti dal privilegio di cui all’art. 9, c. 5, del D.Lgs. n. 123 del 1998, con rigetto sul punto della domanda formulata da parte di Emmeci e con accoglimento invece della domanda riconvenzionale formulata da M..

Se dunque di crediti privilegiati si tratta, come tali detti crediti dovevano essere trattati in seno alla procedura di concordato preventivo in continuità promossa da parte di E. ed ormai archiviata, in seguito alla completa esecuzione, con provvedimento del giudice delegato del __.

Quanto sino ad ora osservato produce evidentemente logiche conseguenze in merito alla causa di opposizione preventiva all’esecuzione ex art. 615, c. 1, c.p.c. iscritta al n. __ R.G..

Vanno premesse due ordini di considerazioni.

In primo luogo, occorre annotare, quanto all’eccezione relativa alla nullità della notificazione della cartella di pagamento n. (…) (…), che essa è infondata posto che l’Agenzia ha riversato in atti documentazione (le cui risultanze non sono state oggetto di contestazione ad opera di parte attrice) dalla cui disamina risulta che la cartella medesima è stata notificata non soltanto al Commissario giudiziale (a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento) bensì anche alla società in concordato a mezzo di posta elettronica certificata (e più in particolare all’indirizzo risultante dalla visura camerale, cfr. docc. n. __ di A. e doc. n. __ di E. nella causa n. __ R.G.).

In secondo luogo, e rispetto agli ulteriori temi di opposizione sviluppati da E., va disattesa l’eccezione di carenza di legittimazione passiva svolta da parte di A. in quanto “l’agente della riscossione è titolare esclusivo dell’azione esecutiva per la riscossione dei crediti esattoriali e pertanto è da ritenersi necessariamente legittimato passivo nelle opposizioni esecutive avanzate del debitore. Esso è anzi l’unico legittimato passivo necessario, quale soggetto titolare dell’azione esecutiva, avendo l’onere di chiamare eventualmente in giudizio l’ente creditore, laddove siano in discussione questioni attinenti al credito o comunque che non riguardino esclusivamente la regolarità degli atti esecutivi” (Cass. Civ., Sez. III, 28.9.2018, n. 23627).

Ciò premesso, quanto al ruolo ordinario n. __, reso esecutivo il __, e alla cartella di pagamento n. (…) (…), trasmessa in data __ a E., quest’ultima ha contestato (così formulando senz’altro un motivo di opposizione all’esecuzione, cfr. Cass. Civ., Sez. I, 25.6.1990, n. 6424) che si tratterebbe di atti invalidi in quanto adottati in violazione del periodo di protezione di cui all’art. 168 L.F. ovvero, in ogni caso, ancora prima del decorso del termine di moratoria annuale per il pagamento dei creditori privilegiati (ove come tali li si volesse qualificare) di cui all’art. 186 bis, c. 2, lett. c), L.F. connotante la proposta concordataria de quo (come evincibile dalle relazioni del Commissario giudiziale riversate in atti da parte attrice).

È utile ricordare, al riguardo, che mentre il decreto di omologa è stato pronunciato in data __, il ruolo n. __ è stato reso esecutivo il __ e la cartella di pagamento n. (…) (…) è stata notificata il __.

Ciò, evidentemente, rileva in tanto in quanto i crediti di M. si qualifichino come privilegiati, poiché ove li si intendesse invece quali crediti chirografari, ad oggi si tratterebbe persino di crediti estinti per effetto della completa esecuzione della proposta omologata.

V’è infatti da ulteriormente annotare che ad oggi la procedura concordataria risulta chiusa ed ha visto il pagamento, in favore di M., del complessivo importo di Euro __ (la circostanza è pacifica) il quale secondo le finali argomentazioni di E. dovrebbe considerarsi integralmente satisfattivo del credito chirografario (soggetto dunque a falcidia sino al __%) di M. stesso.

Sennonché, come si è visto più sopra, ai crediti vantati da parte di M. va riconosciuta la natura di crediti privilegiati.

Alla luce di quanto appena indicato ritiene questo Giudice che l’opposizione preventiva all’esecuzione ex art. 615, c. 1, c.p.c. proposta da parte di E. è fondata e merita accoglimento, per le ragioni che seguono.

Al riguardo, pacifica la natura concorsuale del credito di M. e accertata la sua natura privilegiata, occorre osservare che se è pur vero che l’art. 168 L.F. vieta ai creditori con titolo o causa anteriore alla pubblicazione del ricorso contenente la domanda di concordato (anche in bianco) di iniziare o proseguire azioni esecutive sul patrimonio del debitore, ciò vale soltanto fino al momento in cui il decreto di omologazione del concordato preventivo diventa definitivo.

Altrettanto vero è che la disposizione va poi coordinata con l’art. 184 L.F. che sancisce l’obbligatorietà del concordato omologato per tutti i creditori concorsuali (nel senso che vincolanti per tutti i creditori anteriori sono l’effetto c.d. “esdebitatorio” nonché le tempistiche di adempimento che la proponente si è obbligata a rispettare) ma ciò non può valere ad estendere il limite del divieto di agire in executivis sino all’esecuzione del concordato, poiché una tale interpretazione implicherebbe di fatto la cancellazione dell’inciso “fino al momento in cui il decreto di omologazione del concordato preventivo diventa definitivo”, ciò che non pare ammissibile. Pertanto, dopo l’omologazione, i creditori anteriori sono vincolati agli effetti modificativi del concordato, ma in questi limiti, in caso di inadempimento, sono giuridicamente liberi di agire esecutivamente nei confronti del debitore per l’adempimento di quanto promesso con la proposta.

Sennonché, proprio quanto appena osservato permette di evidenziare come M., nel momento in cui ha provveduto a formare il ruolo e poi, per il tramite del concessionario, ha notificato la cartella in questione, doveva ritenersi vincolato alle tempistiche e alle modalità di adempimento concordatarie le quali prevedevano peraltro una moratoria annuale per il pagamento dei creditori privilegiati (cfr. art. 186 bis, c. 2, lett. c), L.F.).

In altri termini, in credito reclamato da M., all’epoca della formazione del ruolo e della cartella, risultava inesigibile e quindi non azionabile in executivis.

Ne consegue la fondatezza della domanda di opposizione all’esecuzione proposta da E. e la declaratoria di nullità della cartella di pagamento n. (…) (…) (la quale, peraltro, reca degli importi i quali, a seguito dei pagamenti compiuti da Emmeci in sede concordataria, andranno integralmente rideterminati).

La peculiarità e la (pur relativa, ormai) novità delle questioni trattate e delle soluzioni giurisprudenziali così come normative al riguardo intervenute giustificano l’integrale compensazione fra le parti delle spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale di Brescia, ogni contraria e diversa istanza, eccezione e deduzione disattesa, definitivamente pronunciando così provvede:

– dichiara la natura privilegiata ai sensi di cui all’art. 9, c. 5, del D.Lgs. n. 123 del 1998 del credito vantato (per i titoli di cui motivazione) di M. nei confronti di E. S.p.A.;

– dichiara la nullità della cartella di pagamento n. (…) (…) notificata a E. S.p.A. il __;

– compensa integralmente fra le parti le spese di lite.

Così deciso in Brescia, il 12 febbraio 2020.

Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2020.

Tribunale Brescia Sez. fall. Sent. 21_02_2020

 

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Ricorso per decreto ingiuntivo e mediazione obbligatoria

Ricorso per decreto ingiuntivo e mediazione obbligatoria

Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Civili, Sentenza n. 8240 del 28/04/2020

Con sentenza del 28 aprile 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Civili, in merito di recupero crediti ha stabilito che in tema di controversie tra le società erogatrici dei servizi di telecomunicazioni e gli utenti, non è soggetto all’obbligo di esperire il preventivo tentativo di conciliazione, previsto dall’art. 1, comma 11 della L. 31 luglio 1997 n. 249, chi intenda richiedere un provvedimento monitorio, essendo il preventivo tentativo di conciliazione strutturalmente incompatibile con i procedimenti privi di contraddittorio o a contraddittorio differito.


 

Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Civili, Sentenza n. 8240 del 28/04/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Primo Presidente –

Dott. __ – Presidente di Sez. –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

T. S.p.A. – ricorrente –

contro

N. S.p.A. – intimata –

avverso la sentenza n. __ della Corte d’appello di Roma, depositata il __.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere __;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato __.

Svolgimento del processo

  1. – La Corte di Appello di Roma con sentenza n. __, rigettando l’impugnazione proposta da T. S.p.A. (d’ora innanzi, T.) nei confronti della società N. S.p.A. (già K. S.p.A.), ha integralmente confermato la sentenza n. __ con la quale il Tribunale di Roma, nel revocare il decreto ingiuntivo emesso, aveva dichiarato improcedibile la domanda di pagamento azionata da Telecom in via monitoria nei confronti di K. (oggi N.), in relazione al corrispettivo per la fornitura di servizi di telecomunicazione mobile, per il mancato espletamento, prima del deposito del ricorso per decreto ingiuntivo, del tentativo obbligatorio di conciliazione (previsto dalla L. n. 294 del 1997, art. 1, comma 11 e dalla Delibera dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni 182/02/CONS).

1.1.- La Corte d’appello individua il thema decidendum nella questione se il ricorso ex art. 633 c.p.c., debba o meno essere preceduto dal tentativo di conciliazione, come statuito dalla L. n. 249 del 1997, nonché, con atto normativo secondario di natura esecutiva, dal regolamento AGCOM 182/02/CONS. La corte territoriale dà risposta affermativa al quesito, valorizzando il tenore letterale dell’espressione contenuta nell’art. 4 della Legge citata, secondo la quale “il ricorso giurisdizionale non può essere proposto sino a quando non sia stato espletato il tentativo di conciliazione…”, nella cui nozione è a suo avviso pianamente riconducibile, in un rapporto da genere a specie, il ricorso per decreto ingiuntivo; anche sotto il profilo sistematico, e richiamando la necessità di una lettura costituzionalmente orientata delle norme, conferma la necessità di esperire il preventivo tentativo di conciliazione prima di richiedere il provvedimento monitorio, dovendo ravvisarsi, in caso contrario, una violazione ingiustificata del principio di uguaglianza. Il discrimen tra una forma di tutela e l’altra, diversamente opinando, sarebbe lasciato alla libera scelta del titolare del credito che agisce in monitorio. Sottolinea che sia agendo in monitorio che con il normale atto di citazione si agisce a tutela del medesimo diritto di credito, ottenendo un provvedimento atto a passare in cosa giudicata, e che l’opposizione introduce un normale giudizio di cognizione il cui oggetto è proprio l’accertamento del diritto azionato in monitorio.

  1. – Avverso la sentenza della Corte territoriale ha proposto ricorso T., articolando un unico motivo di censura illustrato da memoria e formulando in via subordinata eccezione di illegittimità costituzionale della L. n. 249 del 1997, art. 1, comma 11, per violazione degli artt. 3, 24, 102 e 76 Cost..

Nessuna attività difensiva è stata svolta dalla società intimata.

  1. – La causa, dapprima avviata alla trattazione in adunanza camerale non partecipata dinanzi alla terza Sezione civile, e poi rimessa alla pubblica udienza del __, è stata trasmessa al Primo Presidente e da questi assegnata alle Sezioni Unite, avendo la terza Sezione, con ordinanza interlocutoria n. __ del __, segnalato la presenza di tre questioni di massima di particolare importanza:
  2. a) se, nella materia delle telecomunicazioni, il tentativo di conciliazione sia o meno obbligatorio anche con riferimento al procedimento monitorio;
  3. b) nel caso in cui si ritenga obbligatorio il tentativo, se il mancato assolvimento di detto obbligo comporti la improcedibilità ovvero la improponibilità della domanda;
  4. c) nel caso in cui, al contrario, si ritenga non obbligatorio il tentativo, quale sia, nella successiva fase dell’opposizione, la parte sulla quale grava l’onere di attivazione del tentativo di conciliazione e quali siano le ripercussioni della eventuale inottemperanza a tale onere sulla sorte del decreto ingiuntivo opposto.

Al termine dell’ordinanza interlocutoria si puntualizza, quanto a quest’ultimo problema – che il ricorso in esame non impone in effetti di affrontare in quanto il processo si è chiuso con una pronuncia in limine, di improcedibilità del ricorso per decreto ingiuntivo, e non si è mai aperta una fase di opposizione – che la questione è stata segnalata al Primo Presidente con separata ordinanza (la n. __ del __); essa è stata rimessa autonomamente alle Sezioni Unite e verrà esaminata in una prossima udienza.

  1. – La Procura generale ha depositato conclusioni scritte, con le quali chiede l’accoglimento del ricorso.

Motivi della decisione

Il ricorso.

  1. – T. S.p.A., con un unico motivo di ricorso, denuncia la violazione della L. n. 249 del 1997, art. 1, comma 11 e dell’art. 1 preleggi, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ed anche, in relazione all’art. 360, n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo e controverso “con riferimento alla pronuncia di improcedibilità dell’azione monitoria proposta da T.”.

1.1. – La ricorrente, in relazione al vizio di violazione di legge si duole che la Corte territoriale:

  1. a) violando e comunque male interpretando la L. n. 249 del 1997, art. 1, comma 11, abbia ritenuto che essa imponesse, a pena di improcedibilità, l’obbligatorietà del preventivo tentativo di conciliazione anche con riferimento al procedimento monitorio;
  2. b) violando il generale principio di gerarchia delle fonti (fissato dall’art. 1 preleggi), abbia ritenuto che gli artt. 3 e 4 del regolamento AGCOM 182/02/CONS (norma secondaria), nell’includere il procedimento monitorio tra quelli in relazione ai quali è necessario il preventivo esperimento del tentativo di conciliazione, fossero prevalenti sulla norma primaria (costituita dalla L. n. 249 del 1997, art. 1, comma 11). Deduce, in particolare, la ricorrente che il principio – dettato dalla Corte costituzionale per escludere l’applicabilità del tentativo di conciliazione ai procedimenti monitori nelle controversie in materia di lavoro (ordinanza n. 276 del 2000) e di rapporti di subfornitura (ordinanza n. 163 del 2004) – ha portata di carattere generale e deve trovare applicazione, nel silenzio della legge, anche ai procedimenti monitori, ed in particolare, in riferimento al caso di specie, all’utilizzo di essi in materia di telecomunicazioni.

1.2. – In relazione poi al denunciato vizio di motivazione, di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, la ricorrente rileva di aver dedotto, alla stregua delle pronunce della Corte costituzionale, la incompatibilità strutturale tra tentativo di conciliazione e decreto ingiuntivo in entrambi i giudizi di merito (e, in particolare, alle pagine 3-9 dell’atto di appello), ma che la Corte territoriale in nessun passaggio motivazionale della sentenza impugnata abbia affrontato il tema.

1.3. – In via subordinata – per l’ipotesi in cui la L. n. 249 del 1997, art. 1, comma 11, venga interpretato nel senso che esso imponga in capo al creditore, prima e affinché possa chiedere un decreto ingiuntivo, l’obbligo di promuovere il tentativo di conciliazione la ricorrente solleva questione di legittimità costituzionale della norma così interpretata.

Il precedente di legittimità.

  1. – Il primo interrogativo sottoposto all’attenzione della Corte dalla ordinanza interlocutoria è se, nella particolare materia dei servizi di telecomunicazioni, sia necessario esperire preventivamente il tentativo di conciliazione anche per poter richiedere l’emissione di una ingiunzione di pagamento.

2.1. – Esiste un unico precedente specifico nella giurisprudenza di legittimità sulla necessità o meno di far precedere, nella specifica materia delle telecomunicazioni, la richiesta di emissione di un decreto ingiuntivo dall’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, costituito dalla sentenza n. 25611 del 14/10/2016, nella quale la terza Sezione della Corte, autrice delle odierne ordinanze interlocutorie, decidendo un caso analogo a quello oggetto del ricorso introduttivo del presente giudizio, è pervenuta ad affermare, con ampia motivazione, che il tentativo obbligatorio di conciliazione non si estende anche alla fase sommaria della procedura monitoria. Il principio di diritto espresso dalla menzionata sentenza è stato così massimato: “In tema di controversie tra gli organismi di telecomunicazioni e gli utenti, il tentativo obbligatorio di conciliazione, previsto dalla L. n. 249 del 1997, art. 1, comma 11, non è condizione di procedibilità anche del ricorso per decreto ingiuntivo, attivando quest’ultimo un procedimento “inaudita altera parte”, rispetto al quale la sperimentazione della possibilità di comporre bonariamente la vertenza non appare praticabile, proprio per l’assenza del contraddittorio tra le parti”.

L’ordinanza interlocutoria.

  1. – L’ordinanza interlocutoria, n. 16594 del 2019, muove i seguenti rilievi critici alla soluzione adottata da Cass. n. 25611 del 2016 in ordine alla prima questione:

– nelle controversie in materia di telecomunicazione i termini controversie, ricorso in sede giurisdizionale e agire in giudizio, di cui alla complessiva normativa esistente in materia, sembrano potersi riferire non soltanto all’azione giurisdizionale ordinaria, ma anche al procedimento senza contraddittorio introdotto con le forme speciali di cui all’art. 633 c.p.c.;

– il procedimento per decreto ingiuntivo ha lo scopo di giungere alla celere formazione di un titolo esecutivo mediante cognizione sommaria e senza contraddittorio, differito all’eventuale fase di merito introdotta dal giudizio di opposizione, ma consentirne l’introduzione in assenza di un preventivo tentativo di conciliazione contrasterebbe proprio con la ratio della L. n. 249 del 1997 (che è quella di deflazionare, in subiecta materia, il contenzioso ordinario pendente dinanzi ai tribunali);

– la conciliazione deve svolgersi entro il termine di 30 giorni, per cui è inconsistente l’esigenza di scongiurare il pericolo di un effetto dilatorio della tutela giurisdizionale; d’altronde, non è infrequente nella prassi che le parti, all’esito del tentativo di conciliazione, raggiungano un accordo che evita il giudizio, mentre un decreto, contenente l’ingiunzione di pagamento di una modesta somma di denaro, potrebbe indurre l’utente a non proporre opposizione, in considerazione, a tacer d’altro, dei costi del processo (con conseguente esposizione all’obbligo di pagare anche importi eventualmente non dovuti);

– l’estensione alle controversie in materia di telecomunicazione dell’esclusione dell’obbligatorietà del tentativo quanto alla fase monitoria, disposta in via generale dal D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 5, sembra non tener conto del carattere speciale della normativa che disciplina la suddetta materia;

– la non incidenza del dato statistico sulla pur riconosciuta asimmetria difensiva non pare in linea con la generale esigenza di tutela del contraente debole (che, nella specie, è da ravvisarsi nel singolo utente e non certo nella compagnia di telefonia);

– la sentenza della Corte di giustizia del 18/3/2010 (Alassini), che pone un elenco tassativo di condizioni che devono sussistere affinché sia obbligatorio il tentativo di conciliazione, sembra doversi interpretare, e trovare attuazione, nel senso che detto tentativo sia da considerarsi obbligatorio anche in presenza di un giudizio monitorio nelle controversie in materia di telecomunicazione, restando conseguentemente circoscritta (in guisa di eccezione a tale regola) la possibilità di non esperirlo alle sole ipotesi in cui sia necessario disporre provvedimenti provvisori nei casi eccezionali in cui l’urgenza della situazione lo impone (ipotesi da ritenersi, pertanto, del tutto eterogenee rispetto alla ordinaria procedura per decreto ingiuntivo, normalmente priva, di per se, dei detti caratteri di eccezionalità ed urgenza);

– la Delibera AGCOM 173/07/CONS, art. 2, comma 2, prevede l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione prima del deposito del ricorso per decreto ingiuntivo per tutte le controversie in materia di telecomunicazione (con esclusione di quelle nelle quali l’inadempimento non sia dipeso da contestazioni relative alle prestazioni effettuate), mentre la esclude nella fase di opposizione, e la facoltà del giudice ordinario di disapplicare detta disposizione appare dubbia, non emergendo alcun contrasto tra la stessa e la legge delega (ed, anzi, avendo il Consiglio di Stato, con sentenza n. 1961/2013 esplicitamente ravvisato il fondamento legale della Delibera AGCOM nel disposto della normativa primaria di cui all’art. 1, comma 11 e art. 84 del codice delle telecomunicazioni);

– l’art. 84 del codice delle telecomunicazioni (D.Lgs. n. 259 del 2003, attuativo della direttiva comunitaria Servizio universale n. 22/2002) contiene la delega all’AGCOM della disciplina degli strumenti di definizione del contenzioso alternativi agli strumenti giurisdizionali.

Donde il quesito (che, ad avviso del collegio remittente, meriterebbe risposta affermativa) se, nella materia delle telecomunicazioni, il tentativo di conciliazione sia obbligatorio anche con riferimento al procedimento monitorio.

Cenni al quadro normativo.

  1. – È necessario, per fornire una risposta agli interrogativi posti dalla ordinanza interlocutoria- e per individuare a quale, o a quali di essi sia necessario dare risposta in questa sede – procedere all’inquadramento normativo della fattispecie, sulla base di una interpretazione delle norme applicabili costituzionalmente orientata e che tenga conto delle affermazioni della Corte di Giustizia.

4.1. – La disciplina generale in materia di modalità alternative di risoluzione delle controversie finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, ovvero il D.Lgs. n. 28 del 2010 e successive modifiche, all’art. 5, commi 1 e 1 bis, prevede che il preventivo esperimento di un procedimento di mediazione sia obbligatorio in una serie di materie e che il suo preventivo esperimento costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziaria, con un meccanismo di procedibilità sospensiva, in quanto prevede una modalità di recupero, durante il processo, dell’attività conciliativa eventualmente omessa. Infatti, se il giudice si avvede che la mediazione è iniziata ma non si è ancora completata, o se riscontra che le parti non vi hanno proceduto prima dell’introduzione del giudizio, deve rinviare la trattazione ad udienza successiva alla chiusura del procedimento di mediazione, fissando alle parti un termine per iniziare la mediazione se non vi hanno ancora dato corso.

4.2. – Il medesimo art. 5, comma 4, prevede poi che i commi 1 bis e 2 (quest’ultimo, sulla c.d. mediazione delegata o iussu iudicis) non si applichino in una serie di procedimenti, tra i quali i procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione.

4.3. – Pertanto, per scelta normativa, nella generalità dei procedimenti per i quali è stata introdotta la mediazione preventiva obbligatoria, è esclusa la necessità di procedere preventivamente alla mediazione per poter richiedere un decreto ingiuntivo, e la necessità di introdurre un metodo di risoluzione alternativa è postergata non solo alla introduzione del giudizio di opposizione, ma anche alla intervenuta decisione sulla provvisoria esecutorietà del decreto.

4.4. – Le norme da ultimo citate non sono tuttavia direttamente disciplinanti la fattispecie in esame, perché l’art. 23 del medesimo D.Lgs., fa salvi i procedimenti di conciliazione e mediazione obbligatori già esistenti, ma costituiscono un riferimento interpretativo di tutto rilievo.

4.5. – Nel settore delle telecomunicazioni vi è una autonoma regolamentazione, che prevede anch’essa una modalità di risoluzione alternativa delle controversie, denominata tentativo di conciliazione obbligatorio.

4.6. – In particolare, la L. 31 luglio 1997, n. 249 (che ha istituito l’Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni ed ha regolamentato i sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo) all’art. 1, comma 11, prevede che: “L’Autorità disciplina con propri provvedimenti le modalità per la soluzione non giurisdizionale delle controversie che possono insorgere fra utenti o categorie di utenti ed un soggetto autorizzato o destinatario di licenze, oppure tra soggetti autorizzati o destinatari di licenze tra loro. Per le predette controversie, individuate con provvedimenti dell’Autorità, non può proporsi ricorso in sede giurisdizionale fino a che non sia stato esperito un tentativo obbligatorio di conciliazione da ultimare entro trenta giorni dalla proposizione dell’istanza all’Autorità. A tal fine, i termini per agire in sede giurisdizionale sono sospesi fino alla scadenza del termine per la conclusione del procedimento di conciliazione”.

4.7. – In forza della suddetta delega legislativa, l’Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni (le cui competenze sono indicate nell’art. 1, comma 6 della citata legge istitutiva), con Delibera n. 182 del 2002, ha adottato un primo Regolamento relativo alla risoluzione delle controversie insorte nei rapporti tra organismi di telecomunicazioni ed utenti. Detto Regolamento:

– all’art. 3, comma 1, dispone che: “Gli utenti o associati, ovvero gli organismi, che lamentino la violazione di un proprio diritto o interesse protetti da un accordo privato o dalle norme in materia di telecomunicazioni attribuite alla competenza dell’Autorità e che intendano agire in giudizio, sono tenuti a promuovere preventivamente un tentativo di conciliazione dinanzi al Corecom competente per territorio”;

– all’art. 4, comma 1, dispone che: “La proposizione del tentativo di conciliazione, ai sensi della L. 31 luglio 1997, n. 249, art. 1, comma 11, sospende i termini per agire in sede giurisdizionale, che riprendono a decorrere dalla scadenza del termine per la conclusione del procedimento di conciliazione”;

– all’art. 4, comma 2, dispone che: “Il ricorso giurisdizionale non può essere proposto sino a quando non sia stato espletato il tentativo di conciliazione da ultimare entro trenta giorni dalla proposizione dell’istanza”.

4.8. – L’AGCOM, con successiva Delibera n. 173/07/CONS, ha adottato un nuovo Regolamento per la risoluzione extragiudiziale delle controversie (sostitutivo di quello previsto dalla Delibera AGCOM 182/02/CONS, sopra richiamato), con il quale, per quanto qui rileva, ha previsto:

– nell’art. 2, comma 1, che: “Ai sensi dell’art. 1, commi 11 e 12, della legge, sono rimesse alla competenza dell’Autorità le controversie in materia di comunicazioni elettroniche tra utenti finali ed operatori, inerenti al mancato rispetto delle disposizioni relative al servizio universale ed ai diritti degli utenti finali stabilite 7 dalle norme legislative, dalle delibere dell’Autorità, dalle condizioni contrattuali e dalle carte dei servizi”;

– nell’art. 2, comma 2, che: “Sono escluse dall’applicazione del presente Regolamento le controversie attinenti esclusivamente al recupero di crediti relativi alle prestazioni effettuate, qualora l’inadempimento non sia dipeso da contestazioni relative alle prestazioni medesime. In ogni caso, l’utente finale non è tenuto ad esperire il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall’art. 3, per formulare eccezioni, proporre domande riconvenzionali ovvero opposizione a norma degli artt. 645 c.p.c. e segg.”;

– nell’art. 3, comma 1, che “Per le controversie di cui all’art. 2, comma 1, il ricorso in sede giurisdizionale è improcedibile fino a che non sia stato esperito il tentativo obbligatorio di conciliazione dinanzi al Co.re.com competente per territorio munito di delega a svolgere la funzione conciliativa, ovvero dinanzi agli organismi di risoluzione extragiudiziale delle controversie di cui all’art. 13”. Un successivo regolamento è stato approvato con Delib. n. 203 del 2018.

4.9. – Alla controversia in esame è applicabile, ratione temporis, il secondo regolamento (n. 173/07/CONS), entrato in vigore il 24 luglio 2007 (trentesimo giorno successivo alla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale) in quanto il ricorso per decreto ingiuntivo è stato depositato il 6.9.2017.

4.10. – Il dato testuale fornito dalla normativa di riferimento (art. 3, comma 1) pur nella sua non univocità conduce verso l’esclusione della obbligatorietà del tentativo di conciliazione per poter accedere al procedimento monitorio: la legge istitutiva prevede il preventivo esperimento del tentativo di conciliazione per poter proporre ricorso giurisdizionale e per poter agire in giudizio, utilizzando una terminologia che è di solito associata all’atto introduttivo di un giudizio ordinario, a contraddittorio immediato; il successivo regolamento, chiamato a disciplinare solo le modalità di esecuzione della procedura alternativa, nulla aggiunge di determinante.

4.11. – Un argomento letterale contrastante con l’obbligatorietà del preventivo esperimento del tentativo di conciliazione in riferimento al procedimento monitorio può trarsi dalla previsione contenuta nella Delibera AGCOM 173/07/Cons, art. 2, comma 2 (del quale però la dottrina ha segnalato la non agevole e univoca interpretazione) che, modificando il precedente regolamento del 2002, testualmente per le controversie in materia di telecomunicazioni nei casi in cui l’inadempimento non sia dipeso da contestazioni relative alle prestazioni effettuate prevede, nella parte finale in ogni caso l’utente finale non è tenuto ad esperire il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall’art. 3, per formulare eccezioni, proporre domande riconvenzionali ovvero opposizioni a norma degli artt. 645 c.p.c. e ss..

La giurisprudenza costituzionale.

  1. – La affermazione per cui debba escludersi, in mancanza di una chiara norma espressa, l’obbligo di esperire preventivamente il tentativo di conciliazione in materia di telecomunicazioni (ed in presenza di tale norma, si potrebbe arrivare a dubitare della stessa legittimità costituzionale di essa) è confortata da ripetute affermazioni della Corte Costituzionale, dalle quali emerge l’incompatibilità strutturale del preventivo tentativo di conciliazione con il provvedimento monitorio.

5.1. – La Corte di legittimità delle leggi ha in primo luogo più volte chiarito, in linea generale ed anche a proposito del tentativo di conciliazione previsto in materia di telecomunicazioni (con la 3entenza n. 403 del 2007) che risponde ad una interpretazione costituzionalmente orientata ricostruire in senso non estensivo le disposizioni che introducono condizioni di procedibilità.

5.2. – Con riferimento al rapporto tra tentativo di conciliazione e procedimento monitorio, il giudice delle leggi, già nella sentenza n. 276/00 (in riferimento all’allora obbligatorio tentativo di conciliazione in materia di lavoro previsto dall’art. 412 bis c.p.c.) ha individuato nella mancanza di contraddittorio tra le parti l’elemento di incompatibilità strutturale tra il procedimento di conciliazione (che tale contraddittorio presuppone) ed il provvedimento monitorio (che non prevede contraddittorio nella fase sommaria), rilevando che invero il tentativo obbligatorio di conciliazione è strutturalmente legato ad un processo fondato sul contraddittorio. La logica che impone alle parti di incontrarsi in una sede stragiudiziale, prima di adire il giudice, è strutturalmente collegata ad un (futuro) processo destinato a svolgersi fin dall’inizio in contraddittorio fra le parti. All’istituto (id est, al tentativo di conciliazione) sono quindi per definizione estranei i casi in cui invece il processo si debba svolgere in una prima fase necessariamente senza contraddittorio, come accade per il procedimento per decreto ingiuntivo. Non avrebbe infatti senso imporre, nella fase pregiurisdizionale relativa al tentativo di conciliazione, un contatto fra le parti che invece non è richiesto nella fase giurisdizionale ai fini della pronuncia del provvedimento monitorio.

5.3. – Ancora, la Corte Costituzionale:

– con ordinanza n. 163/2004, richiamando la sua precedente decisione n. 276 del 2000, ha escluso la necessità del previo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dalla L. n. 192 del 1998, art. 10, comma 1, con riferimento alle controversie relative ai contratti di subfornitura di cui alla presente legge, con riferimento alla fase monitoria, evidenziando come il legislatore, consentendo al subfornitore di procedere per ingiunzione, gli avesse apprestato una tutela particolarmente intensa (destinata ad essere vanificata dal previo esperimento del tentativo di conciliazione).

La giurisprudenza sovranazionale.

  1. – La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con sentenza del 18/03/2010, emessa nei procedimenti riuniti C-317/08, C-318/08, C319/08 e C-320/08, in causa A. contro T. S.p.A. ed altri ha affrontato espressamente la questione della interpretazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva rispetto ad una normativa nazionale, quella italiana in particolare, che preveda un tentativo obbligatorio di conciliazione extragiudiziale come condizione di procedibilità dei ricorsi giurisdizionali in talune controversie tra operatori e utilizzatori finali rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 7 marzo 2002, 2002/22/CE, relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica (direttiva servizio universale).

6.1. – In quella sede, pur ritenendo complessivamente la normativa italiana compatibile con le direttive comunitarie, ha lanciato un monito, che non può essere ignorato, a non circoscrivere l’accesso al giudizio al di là di limiti accettabili.

Ha affermato infatti che:

– l’art. 34 della direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 7 marzo 2002, 2002/22/CE, relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica (c.d. direttiva servizio universale) dev’essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa di uno Stato membro in forza della quale le controversie in materia di servizi di comunicazioni elettroniche tra utenti finali e fornitori di tali servizi, che riguardano diritti conferiti da tale direttiva, debbano formare oggetto di un tentativo obbligatorio di conciliazione extragiudiziale come condizione per la ricevibilità dei ricorsi giurisdizionali;

– neanche i principi di equivalenza e di effettività, nonché il principio della tutela giurisdizionale effettiva, ostano ad una normativa nazionale che imponga per siffatte controversie il previo esperimento di una procedura di conciliazione extragiudiziale.

6.2. – La Corte di Giustizia individua però, a questo scopo, talune condizioni:

  1. a) che tale procedura non conduca ad una decisione vincolante per le parti;
  2. b) che non comporti un ritardo sostanziale per la proposizione di un ricorso giurisdizionale; c) che sospenda la prescrizione dei diritti in questione; d) che non generi costi, ovvero generi costi non ingenti, per le parti; e) che la via elettronica non costituisca l’unica modalità di accesso a detta procedura di conciliazione; f) che sia possibile disporre provvedimenti provvisori nei casi eccezionali in cui l’urgenza della situazione lo impone.

6.3. – Tali affermazioni sono state successivamente riprese nella sentenza della Corte di Giustizia del 14 giugno 2017, in causa C-75/16 che, sempre su rinvio pregiudiziale del giudice italiano, occupandosi della disciplina generale italiana in tema di tentativo di mediazione obbligatorio, introdotta dal D.Lgs. n. 28 del 2010, applicabile alle controversie Business to Consumer, nella quale si prevede la mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, e della sua compatibilità con la direttiva 2013/11/UE concernente la risoluzione alternativa delle controversie (A.D.R.) dei consumatori, ha formulato un espresso collegamento della fattispecie al suo esame con la direttiva consumatori, n. 52/2008/CE ed ha ulteriormente chiarito in via generale che l’accesso alla giurisdizione può essere condizionato al previo esperimento di una procedura di mediazione, quale condizione di procedibilità, purché non sia reso eccessivamente difficoltoso alle parti di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario.

La soluzione da dare alla prima questione.

7.1. Sulla base degli elementi raccolti, ed in primo luogo dell’insegnamento costante della Corte costituzionale, che sul tema è intervenuta più volte, deve quindi confermarsi la validità della soluzione adottata da Cass. n. 25611 del 2016, secondo la quale in materia di telecomunicazioni il tentativo obbligatorio di conciliazione non sia espressamente richiesto (a pena di improcedibilità) prima dell’emissione del decreto ingiuntivo e non sia in assoluto compatibile con la struttura e la finalità del procedimento monitorio in quanto esso presuppone un giudizio che si svolga nel contraddittorio attuale tra le parti.

7.2. – Il decreto ingiuntivo e la procedura di mediazione obbligatoria (ove richiesta) rispondono entrambi, sebbene siano strumenti del tutto diversi, all’esigenza di dare una celere ed efficace risposta di giustizia, che, in presenza delle condizioni di emissione del decreto ingiuntivo, si traduce nell’adozione di un provvedimento adottato inaudita altera parte, a contraddittorio differito, in favore del creditore munito di prova scritta.

7.3. – Quanto alla mediazione o al tentativo di conciliazione obbligatori, essi uniscono alla finalità deflattiva una funzione di prevenzione del conflitto, di pacificazione sociale e una efficace attitudine alla soddisfazione e alla salvaguardia degli interessi di entrambe le parti attraverso il dialogo anticipato che si apre, partendo dall’oggetto della contesa ma eventualmente allargando l’ampiezza del confronto ed evitando che essa sfoci in un giudizio, sotto il controllo e la guida del mediatore.

7.4. – L’apertura di questa fase di dialogo anticipato non appare strutturalmente compatibile, come ha più volte segnalato la Corte costituzionale, con i procedimenti che non prevedano o non prevedono in quella fase, il contraddittorio.

7.5. – Pertanto, con riferimento alla fattispecie oggi in esame, non è necessario procedere al tentativo di conciliazione obbligatorio, prima di richiedere il decreto ingiuntivo, prima di tutto per ragioni strutturali, ovvero perché strutturalmente le due procedure sono incompatibili. La fase incidentale dialogica del procedimento, tra giudice e parti, che deve aprirsi qualora si rilevi il mancato previo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione ove previsto, non può conciliarsi con un procedimento privo di contraddittorio, o meglio a contraddittorio differito, come il procedimento monitorio.

7.6. – Anche sotto il profilo finalistico, il procedimento di conciliazione e quello monitorio non appaiono compatibili, perché l’esigenza di immediata soddisfazione del creditore dotato di prova scritta del credito posta alla base del monitorio, che si realizza con il differimento del contraddittorio rispetto alla formazione del titolo, verrebbe vanificata dal previo esperimento del tentativo di conciliazione. Quindi, in questa fase, prevale l’esigenza di concedere un agile strumento a tutela del credito rispetto all’esigenza di trovare una soluzione alternativa alla controversia, che non viene soppressa ma si sposta, come meglio si dirà in seguito, alla fase successiva.

7.7. – L’ordinanza interlocutoria evidenzia la peculiarità delle esigenze di tutela sottese alla materia delle telecomunicazioni, da cui scaturirebbe l’esigenza di dettare uno statuto particolare delle cause in materia di telecomunicazioni, a tutela della parte debole, ovvero del consumatore-fruitore del servizio telefonico, che potrebbe essere dissuaso dai costi del giudizio ordinario dall’intraprendere la via dell’opposizione ove il decreto ingiuntivo non fosse preceduto dal tentativo di conciliazione.

7.8. – Si osserva a questo proposito che le telecomunicazioni rientrano nei servizi di pubblica utilità, aventi un interesse economico generale, e come tali sono prese in considerazione nelle direttive Europee, per cui occorre procedere con cautela nel creare per esse regole speciali in via interpretativa, che le differenzino dagli altri servizi di pubblica utilità, quali le forniture di gas o di energia.

7.9. – La disciplina istitutiva dell’Agcom e i successivi regolamenti attuativi sono dettati poi in primo luogo a tutela non del consumatore, ma del regolare svolgimento del servizio di telecomunicazioni, e a tutela della regolare fruizione del servizio, che deve svolgersi a costi non proibitivi e raggiungere tutto il territorio nazionale, dell’utente finale, categoria nella quale possono rientrare sia consumatori che imprenditori o, come nel caso di specie, persone giuridiche, che si avvalgono del servizio telefonico per le loro attività commerciali o professionali. L’esigenza sottesa alla ordinanza interlocutoria di apprestare una particolare tutela al consumatore come parte debole del contratto non ha quindi carattere generale in materia di telecomunicazioni e non può giustificare una rilettura dell’istituto in questo senso. Essa non è, nel caso all’esame della Corte, neppure presente, essendo l’utente del servizio una persona giuridica che utilizza il servizio a fini commerciali.

7.10. – Quanto alla esigenza di apprestare una idonea tutela alla parte debole, ovvero il consumatore, la Corte costituzionale ha già chiarito, all’interno di altro tipo di rapporti in cui una delle due parti è per definizione la parte debole (lavoro subordinato, subfornitura) che sia legittimo prevedere la mediazione solo dopo la fase monitoria, in ragione della struttura del procedimento e senza che ciò arrechi alcuna lesione al principio di uguaglianza sostanziale.

7.11. – L’adozione di uno strumento di composizione stragiudiziale nasce essenzialmente, in questo campo, dall’esigenza di garantire la fruizione di un servizio essenziale consentendo di risolvere velocemente i vari tipi di disservizi, ossia tutte le questioni connesse alla non corretta attivazione o erogazione del servizio, che con l’immediato confronto in sede di tentativo di conciliazione possono essere risolte consentendo un veloce recupero di funzionalità, con maggiore soddisfazione dell’utenza rispetto al giudizio ordinario e non le controversie in cui il mancato pagamento non sia collegato con la non corretta erogazione del servizio.

7.12. – Non necessariamente, infine, la parte che richiede il decreto ingiuntivo è il somministrante, potendo essere anche il somministrato che agisce in restituzione dell’eccedenza.

7.13. – L’esclusione del tentativo di conciliazione per la proposizione del ricorso per decreto ingiuntivo non si ritorce quindi automaticamente in danno del contraente debole, dando luogo ad una significativa asimmetria difensiva, atteso che il procedimento monitorio è consentito ad entrambe le parti, e che non può valere, ai fini della valutazione della ragionevolezza del sistema, il dato puramente quantitativo, rappresentato dal prevedibile maggior numero di procedure monitorie attivate dal gestore del servizio di telefonia rispetto a quelle instaurate dall’utente.

7.14. – L’imposizione dell’obbligo di svolgere il tentativo di conciliazione prima di poter accedere al procedimento monitorio, infine, non appare neppure conforme con la normativa e con la giurisprudenza Europea, che da un lato ha promosso la mediazione e tutte le altre forme di ADR prevedendole come facoltative, dall’altra ha più volte affermato la legittimità della normativa statale che le abbia imposte (come nel caso dell’Italia) come obbligatorie, purché siano adottate varie cautele, in modo tale da non rivelarsi meccanismi controproducenti defatiganti, atti a rende eccessivamente complesso o oneroso il ricorso alla giustizia ordinaria, come senza dubbio sarebbe, precludendo di fatto in questo campo il ricorso al più agile strumento monitorio, l’imposizione anticipata di un tentativo obbligatorio di conciliazione.

7.15. – Dal complesso di queste indicazioni si ricava conforto per affermare, conformemente alle conclusioni del Procuratore generale, che il criterio ermeneutico letterale, secondo cui i termini ricorso giurisdizionale, controversia e agire in giudizio esprimerebbero una realtà processuale atta a ricomprendere anche il ricorso per decreto ingiuntivo, non è univoco e risulta inidoneo a fornire una risposta appagante all’interrogativo posto dall’ordinanza interlocutoria, in quanto detto criterio non tiene conto della incompatibilità strutturale tra ricorso per ingiunzione e tentativo di conciliazione, e neppure delle finalità proprie di quest’ultimo.

La collocazione del tentativo obbligatorio di conciliazione.

  1. – L’esclusione del previo esperimento del tentativo di conciliazione dalla fase che precede la richiesta e l’emissione del decreto ingiuntivo, in materia di telecomunicazioni, non esclude peraltro che il ricorso ad una forma di risoluzione alternativa della controversia non possa trovare una sua adeguata collocazione in un diverso momento, successivo ed eventuale, ovvero quando, con la proposizione della opposizione a decreto ingiuntivo, si apre la via del giudizio di cognizione ordinaria, in quanto, usando le stesse parole utilizzate dalla sentenza impugnata per arrivare alla opposta conclusione, l’opposizione introduce un normale giudizio di cognizione il cui oggetto è proprio l’accertamento del diritto azionato in monitorio.

8.1. – In questa fase – che è quella in cui viene effettivamente proposto un ricorso giurisdizionale – diviene quindi operativo l’obbligo fissato dalla L. n. 249 del 1997, art. 1, comma 11, di esperire il tentativo di conciliazione, nei limiti in cui esso è operativo in materia di telecomunicazioni, e quindi nel rispetto dei limiti fissati dall’art. 2, comma 2 del regolamento adottato con Delibera n. 173/07/CONS AGCOM (“Sono escluse dall’applicazione del presente Regolamento le controversie attinenti esclusivamente al recupero di crediti relativi alle prestazioni effettuate, qualora l’inadempimento non sia dipeso da contestazioni relative alle prestazioni medesime. In ogni caso, l’utente finale non è tenuto ad esperire il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall’art. 3 per formulare eccezioni, proporre domande riconvenzionali ovvero opposizione a norma degli artt. 645 c.p.c. e segg.”).

  1. 2. – Circa i tempi e le modalità di esperimento del tentativo di conciliazione, in ragione della eadem ratio, può farsi riferimento al D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 5. Esso dovrà svolgersi dopo la pronuncia sulle istanze di concessione e di sospensione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo, ex artt. 648 e 649 c.p.c.. Il suo mancato esperimento potrà essere rilevato su eccezione della parte convenuta o d’ufficio dal giudice, secondo le regole fissate dal D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 5, comma 4, entro l’udienza di trattazione della causa.

8.3. – Come già affermato da questa Corte in relazione alla mediazione obbligatoria disciplinata dal D.Lgs. n. 28 del 2010 (Cass. n. 32797 del 2019), inoltre, il mancato esperimento del rimedio alternativo di risoluzione della controversia obbligatoriamente previsto deve essere eccepito dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevato d’ufficio dal giudice, affinché questi ne tragga le conseguenze, non oltre la prima udienza del giudizio di primo grado (in tal senso già Cass. 13 novembre 2018, n. 29017; 13 aprile 2017, n. 9557; 2 febbraio 2017, n. 2703). In mancanza della tempestiva eccezione del convenuto, ove il giudice di primo grado non abbia provveduto al relativo rilievo d’ufficio, è precluso al giudice di appello rilevarlo.

8.4. – La specifica questione poi della individuazione della parte onerata dell’esperimento del tentativo di conciliazione, se l’opponente, come affermato da Cass. n. 64629 del 2015, con principio ripreso da Cass. n. 23003 del 2019, o l’opposto (e se quindi, di conseguenza, legittimato a proporre l’eccezione sia il convenuto in senso formale o sostanziale), che come detto non ha necessità di essere affrontata in questa sede, perché non si è mai aperto nel caso in esame il giudizio di opposizione, è stata rimessa alle Sezioni unite con la separata ordinanza n. 18741 del 2019, e sarà esaminata in separato giudizio.

La decisione del caso in esame.

  1. – Applicando i principi sopra enunciati al caso sottoposto all’esame della Corte dal presente ricorso, il ricorso è fondato, e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio.

9.1. – La sentenza impugnata non ha fatto buon governo, infatti, dei principi applicabili al caso di specie, laddove ha ritenuto, rigettando l’appello di Telecom e confermando la pronuncia di primo grado, che la richiesta da parte del gestore di telefonia finalizzata all’emissione di un decreto ingiuntivo a carico dell’utente che non ha pagato per i servizi fruiti, debba essere preceduta, a pena di improcedibilità della stessa, dal previo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, previsto dalla L. n. 249 del 1997, art. 1.

9.2. – La sentenza impugnata ha ritenuto che il ricorso per decreto ingiuntivo, in quanto proposto dal creditore a tutela del suo diritto di credito, nel contesto di un rapporto di conflittualità col debitore, e idoneo a portare all’adozione di un provvedimento suscettibile di divenire cosa giudicata, individui quel ricorso giurisdizionale che, a norma della L. n. 249 del 1997, art. 4, non può essere proposto sino a quando non sia stato espletato il tentativo di conciliazione. Il tutto salvo poi affermare correttamente, ma senza trarne le dovute conseguenze- che è la successiva opposizione che introduce un successivo giudizio di cognizione.

9.3. – Per i motivi sopra enunciati, la struttura stessa del procedimento monitorio, a contraddittorio differito, non è invece compatibile con il previo esperimento di un tentativo obbligatorio di conciliazione, che presuppone la possibilità di apertura di una fase dialogica tra le parti.

9.4. – La sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese del presente giudizio e si atterrà al seguente principio di diritto: “In tema di controversie tra le società erogatrici dei servizi di telecomunicazioni e gli utenti, non è soggetto all’obbligo di esperire il preventivo tentativo di conciliazione, previsto dalla L. n. 249 del 1997, art. 1, comma 11, chi intenda richiedere un provvedimento monitorio, essendo il preventivo tentativo di conciliazione strutturalmente incompatibile con i procedimenti privi di contraddittorio o a contraddittorio differito”.

  1. – L’accoglimento del ricorso per i motivi indicati esime dal dover esaminare in questa sede la seconda questione posta dall’ordinanza interlocutoria per l’ipotesi che il tentativo fosse ritenuto obbligatorio, se il tentativo obbligatorio di conciliazione sia condizione di procedibilità o di proponibilità della domanda (cui è collegato il chiarimento auspicato dalla ordinanza di rimessione sulla nozione di irricevibilità comunitaria), oggetto di esame, come questione di massima di particolare importanza, nell’ambito del ricorso n. 402 del 2016, scrutinato anch’esso nell’ambito della odierna udienza: all’interrogativo verrà pertanto risposto con la decisione adottata in relazione a quel ricorso.
  2. Da ultimo, l’ordinanza interlocutoria, nell’ipotesi che non si ritenga di condividere la soluzione da essa proposta nel senso della necessità, anche in riferimento al procedimento monitorio, del previo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, segnala che potrebbe apparire opportuna una nuova rimessione alla Corte di giustizia, perché si esprima sia sul punto dell’obbligatorietà della conciliazione in subiecta materia, sia su quello del significato della irricevibilità del ricorso eventualmente proposto. E tuttavia una nuova rimessione alla Corte di Giustizia non appare necessaria, avendo essa ben chiarito l’interpretazione da dare alle direttive rilevanti in materia; inoltre l’ordinanza sembra sollecitare una interpretazione da parte della Corte di giustizia delle norme interne piuttosto che della normativa Europea.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 14 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2020.

 

Cass. civ. Sez. Unite 28_04_2020 n. 8240




Terzo datore di ipoteca ed opposizione a precetto

Terzo datore di ipoteca ed opposizione a precetto volta all’accertamento della insussistenza di una sua obbligazione al pagamento della somma dovuta dal debitore

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, Ordinanza n. 7249 del 13/03/2020

Con ordinanza del 13 marzo 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, in merito di recupero crediti ha stabilito che quando un terzo costituisce una ipoteca su beni propri a garanzia di un debito altrui, il creditore ha diritto di fare espropriare la cosa ipotecata in caso di inadempimento del debitore, ed ai fini dell’esercizio di tale diritto è tenuto a notificare al terzo datore di ipoteca, oltre che al debitore, sia il titolo esecutivo che il precetto, specificando in quest’ultimo la res del terzo che si intende eventualmente sottoporre ad esecuzione forzata. Tuttavia, va rigettata per difetto di interesse l’opposizione a precetto proposta dal terzo per accertare di non essere obbligato a corrispondere la somma indicata nel precetto, se dall’interpretazione del medesimo precetto si evince che esso non presuppone l’obbligazione diretta dello stesso terzo al soddisfacimento del debito, né l’intenzione del creditore di procedere esecutivamente nei suoi confronti, in ipotesi di mancato pagamento, anche su beni diversi da quelli ipotecati. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito che aveva rigettato l’opposizione a precetto formulata dai terzi intimati deducendo di non avere accettato l’eredità del datore di ipoteca sul bene indicato in precetto.


 

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, Ordinanza n. 7249 del 13/03/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

U., M. e A. – ricorrenti –

contro

S. S.p.A. in liquidazione coatta amministrativa – controricorrente –

contro

B. S.r.l., quale cessionaria di S. S.p.A. in liquidazione coatta amministrativa – resistente –

e contro

O. S.p.A. – intimata –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del __ dal Consigliere Relatore Dott. __.

Svolgimento del processo

che:

U., A. e M., chiamati all’eredità del padre R., terzo datore d’ipoteca su immobili di sua proprietà in favore di O. S.r.l., si opponevano a un precetto loro intimato da S. S.p.A. in liquidazione coatta amministrativa, in forza di decreto ingiuntivo emesso nei confronti di O. S.r.l., eccependo la carenza di legittimazione passiva per non aver assunto la qualità di eredi;

il Tribunale, davanti al quale resisteva la S. S.p.A. in liquidazione coatta amministrativa e rimaneva contumace O. S.r.l. debitrice, dichiarava il difetto d’interesse ad agire degli opponenti posto che avevano dedotto di non essere proprietari del bene su cui veniva minacciata l’esecuzione;

la Corte di appello rigettava il gravame proposto da U., A. e M., rilevando che per un verso non era evincibile la volontà del creditore di procedere su beni degli opponenti diversi da quello pacificamente oggetto d’ipoteca, per altro verso era nelle more intervenuta accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario sicché, essendo stata fondata l’opposizione sulla sola carenza di legittimazione passiva in relazione al difetto di qualità di erede, la stessa era anche infondata;

avverso questa decisione ricorrono per cassazione U., A. e M., articolando due motivi, corredati di memoria;

resiste con controricorso S. S.p.a. in l.c.a.;

è intervenuta B. S.r.l., quale cessionaria del credito di S. S.p.a. in l.c.a.;

Vista la proposta formulata del relatore ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..

Motivi della decisione

che:

con il primo motivo di ricorso si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 345, c.p.c., e l’omesso esame di un fatto decisivo e discusso, poiché la Corte di appello avrebbe errato a rilevare che solo in sede di secondo grado di giudizio gli opponenti avevano allegato di aver proposto opposizione onde evitare che la loro diversa acquiescenza avesse potuto intendersi come accettazione tacita dell’eredità, posto che non si trattava di domanda nuova, ferma la fondatezza della deduzione atteso che, altrimenti, avrebbe potuto maturarsi il giudicato pregiudizievole e non tangibile neppure da una successiva rinuncia all’eredità;

con il secondo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 602, 100 e 476, c.p.c., poiché la Corte di appello avrebbe errato mancando di considerare che gli opponenti avevano l’interesse a escludere un’implicita accettazione tacita dell’eredità;

preliminarmente va dichiarata l’inammissibilità dell’intervento, che non risulta neppure notificato, del successore B S.r.l., quale cessionaria del credito di S. S.p.a. in l.c.a.;

infatti, il successore a titolo particolare nel diritto controverso può tempestivamente impugnare per cassazione la sentenza di merito, ma non anche intervenire nel giudizio di legittimità, mancando una espressa previsione normativa, riguardante la disciplina di quell’autonoma fase processuale, che consenta al terzo la partecipazione a quel giudizio con facoltà di esplicare difese, assumendo una veste atipica rispetto alle parti necessarie, che sono quelle che hanno partecipato al giudizio di merito (Cass. Sez. U. 18/11/2016, n. 23466, punto 1, Cass., 23/03/2016, n. 5759, Cass. 30/05/2014, n. 12179, Cass. 07/04/2011, n. 7986, Cass., 11/05/2010, n. 11375, Cass. 04/05/2007, n. 10215);

la giurisprudenza di questa Corte, che pure ha ritenuto di ammettere il successore all’impugnazione o alla diretta costituzione quale controricorrente (per quello a titolo universale, Cass. 31/03/2011, n. 7441; per quello a titolo particolare, ad esempio Cass. n. 11375 del 2010, cit.; in ogni caso con adeguata produzione di prova della successione, in particolare se contestata dalla controparte), ha ribadito il richiamato principio apportando deroga solo per i casi – che qui non ricorrono, trattandosi di successione a titolo particolare e avendo il dante causa notificato ritualmente controricorso – di successione a titolo universale ovvero per quello in cui il dante causa sia rimasto inerte, visto che altrimenti sarebbe irrimediabilmente vulnerato il diritto di difesa del successore (Cass. 07/06/2016, n. 11638; cfr., di recente, Cass., 07/08/2018, n. 20565; Cass., 09/05/2019, n. 12243; Cass., 10/10/2019, n. 25423);

sempre preliminarmente, all’esito della memoria dei ricorrenti, va qui rilevato che, agli atti della S. S.p.a. in l.c.a., risulta infine la relata di notifica del ricorso, sicché va esclusa l’improcedibilità del ricorso (Cass., Sez. U., 02/05/2017, n. 10648);

i motivi di ricorso, esaminabili congiuntamente per connessione, sono comunque manifestamente inammissibili;

va subito sottolineato che risulta del tutto eccentrica rispetto alle rationes decidendi utilizzate dalla Corte territoriale e sopra riassunte, la deduzione di violazione dell’art. 345 c.p.c., e dell’art. 360 c.p.c., n. 5;

il Collegio di merito non ha fondato la sua decisione sulla novità della deduzione afferente all’interesse ad agire per escludere l’accettazione tacita dell’eredità: ha invece basato la statuizione sulla carenza di pregiudizio derivante al terzo datore d’ipoteca rispetto a un precetto che non minacci di aggredire beni diversi da quello oggetto della garanzia reale, e sulla sopravvenuta accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario rispetto alla deduzione afferente al preteso interesse ad agire per escludere forme di accettazione implicita dell’asse;

né parte ricorrente spiega in alcun modo quale sarebbe il fatto storico discusso e decisivo il cui esame sarebbe stato omesso nella motivazione della sentenza impugnata;

il ricorso è stato inoltre articolato in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, posto che non viene idoneamente riportato il contenuto degli atti processuali e dei documenti evocati anche in parte narrativa e di cui non si indica la collocazione processuale per le relative verifiche;

ciò posto, questa Corte (Cass., 08/04/2003, n. 5507, discussa dalle parti ricorrente e controricorrente) ha condivisibilmente osservato (e ribadito con Cass., 09/03/2018, n. 5664) che quando un terzo costituisce un’ipoteca su beni propri a garanzia di un debito altrui, il creditore ha diritto di far espropriare il bene ipotecato in caso d’inadempimento del debitore, e ai fini dell’esercizio di tale diritto è tenuto a notificare al terzo datore di ipoteca, oltre che al debitore, sia il titolo esecutivo che il precetto, specificando nel precetto il bene del terzo che intende eventualmente sottoporre ad esecuzione forzata. Conseguendone che va rigettata per difetto di interesse l’opposizione a precetto proposta dal terzo volta a far accertare di non essere obbligato al pagamento della somma indicata nel precetto, se dall’interpretazione del precetto si evince che esso non presuppone l’obbligazione diretta del terzo al pagamento del debito, né la volontà del creditore di procedere esecutivamente nei suoi confronti, in caso di mancato pagamento, anche su beni diversi da quelli ipotecati;

il leading case era, appunto, quello di un precetto che conteneva l’erronea intimazione di pagamento diretta anche al terzo datore; nello stesso precetto era stata indicata la qualità di terzo datore ed erano stati indicati i beni su cui l’ipoteca era stata costituita: questa Corte, con l’arresto in parola, rilevò, tra l’altro, che le ultime due specificazioni rendevano plausibile l’interpretazione dei giudici di merito per cui l’esecuzione era stata minacciata anche in confronto del terzo solo come tale e non quale debitore, sicchè il riconoscibile errore nell’intimazione, in luogo della sola notifica diretta a consentirgli di evitare l’escussione, non escludeva la carenza d’interesse ad opporsi;

ora, nel caso qui in delibazione, pacificamente la deduzione è stata quella di carenza di legittimazione passiva per non essere eredi, poi specificata nei termini di opposizione svolta per escludere accettazione tacita dell’eredità, in seguito intervenuta con beneficio d’inventario;

parte ricorrente invoca anche Cass., 03/09/2007, n. 18534, ma si tratta di fattispecie in cui, in sede di opposizione a precetto, si rilevò l’intervenuto giudicato sulla qualità di erede espressamente affermata e invocata in un ricorso per decreto ingiuntivo poi accordato e non opposto;

nella fattispecie odierna, invece, la qualità di erede è stata affermata in precetto che non avrebbe mai potuto determinare un giudicato sulla qualità di erede;

da quanto ricostruito emerge che:

  1. a) non è stata censurata idoneamente la ratio decidendi già propria del giudice di prime cure e ripresa (a pag. __) dal giudice di secondo grado, relativa all’assenza di ogni pregiudizio per il terzo datore d’ipoteca a fronte di un precetto che, come qui pacifico, non minacci di aggredire beni del patrimonio del terzo stesso diversi da quello offerto in garanzia reale;
  2. b) non risulta alcun interesse, rispetto all’assunzione della qualità di erede, che necessitasse all’opposizione al precetto stesso, tenuto conto del fatto che proprio l’assenza di pregiudizio di cui sopra si è discusso non poteva implicare l’accettazione tacita, come peraltro anche con atto stragiudiziale avrebbe potuto chiarirsi;
  3. c) non è dato comprendere quale sia stato e sia l’interesse a coltivare il contenuto della lite una volta accettata l’eredità con beneficio d’inventario: neppure tale ulteriore ragione decisoria è stata quindi censurata;

spese secondo soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese processuali della controricorrente S. S.p.A. in l.c.a. liquidate in Euro __, oltre Euro __ per esborsi, oltre al 15% di spese forfettarie, oltre accessori legali.

Dichiara inammissibile il ricorso per intervento della B S.r.l., condannando la stessa alla rifusione delle spese dei ricorrenti liquidate in Euro __, oltre Euro __ per esborsi, oltre al 15% di spese forfettarie, oltre accessori legali.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il pagamento, se dovuto e nella misura dovuta, da parte dei ricorrenti principali, in solido, e della ricorrente interveniente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 14 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 marzo 2020.

Cass. civ. Sez. VI_3 Ord. 13_03_2020 n. 7249




Il Contratto di mutuo e la sua idoneità fungere da titolo esecutivo

Il Contratto di mutuo e la sua idoneità fungere da titolo esecutivo

Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 6174 del 05/03/2020

Con sentenza del 5 marzo 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che al fine di accertare se un contratto di mutuo possa essere utilizzato quale titolo esecutivo, ai sensi dell’art. 474 c.p.c., occorre verificare, attraverso la sua interpretazione integrata con quanto previsto nell’atto di erogazione e quietanza o di quietanza a saldo ove esistente, se esso contenga pattuizioni volte a trasmettere con immediatezza la disponibilità giuridica della somma mutuata, e che entrambi gli atti, di mutuo ed erogazione, rispettino i requisiti di forma imposti dalla legge.


 

Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 6174 del 05/03/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

D., S., E. e M., tutti nella qualità di coeredi ex lege di N. – ricorrenti –

contro

U. C. S.p.A. e U. S.p.A. – controricorrenti –

avverso la sentenza n. __ della Corte d’Appello di Catania, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere Dott. __;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Rilevato che:

  1. si opponeva al precetto a lui notificato da B. S.p.A., per il recupero di somme erogate in forza di finanziamento agevolato per miglioramenti agrari;

il Tribunale accoglieva l’opposizione, rilevando che il contratto azionato era un preliminare di mutuo privo di efficacia esecutiva; e condannava B. S.p.A. alla restituzione di somme illegittimamente compensate dall’istituto opposto tra il credito ritenuto privo di liquidità ed esigibilità, e il saldo attivo di conto corrente intestato all’opponente e acceso presso la medesima banca;

la Corte di appello, adita da U. C. S.p.A., qualificatasi cessionaria del credito, accoglieva il gravame osservando, per quanto qui ancora importa, che:

a) vi era prova della successione a titolo particolare nel credito, in forza di cessione da B. S.p.A. ad A. S.p.A., poi fusa per incorporazione in U. C. S.p.A.;

b) il credito stesso, a seguito di atto di scissione, era poi divenuto di titolarità di U. S.p.A., intervenuta nel giudizio di appello;

c) il mutuo si era perfezionato con i due atti di erogazione e quietanza, posti a base del precetto, nei quali erano stati specificati modi e tempi di restituzione delle somme, oltre alla misura degli interessi dovuti;

d) il mutuo era stato complessivamente condizionato all’avveramento della condizione di avvenuta approvazione e certificazione, da parte del competente Ministero delle risorse agricole, dei lavori di cui al progetto di miglioramento fondiario;

e) la condizione doveva considerarsi avverata, ex art. 1359 c.c., perché N., sebbene più volte sollecitato dalla banca, non si era attivato, dopo una prima richiesta, per l’ottenimento del certificato; la Corte di appello rigettava quindi l’opposizione a precetto e ogni altra domanda, liquidando le spese del doppio grado a carico solidale degli eredi dell’opponente, costituiti dopo il decesso di quest’ultimo avvenuto nelle more;

avverso questa decisione ricorrono per cassazione E., D., M. e S., quali eredi di N., articolando tre motivi;

resiste con controricorso U. S.p.A., e per essa D. S.p.A.;

le parti hanno depositato memorie.

Rilevato che:

con il primo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 100, 110, 111 c.p.c., poiché la Corte territoriale avrebbe errato mancando di considerare che la sentenza di prime cure aveva pronunciato nei confronti di B. S.p.A., non solo accogliendo la domanda di annullamento del precetto, ma condannando altresì l’istituto alla restituzione delle somme illegittimamente compensate, in uno alla rifusione delle spese legali, sicché U. C. S.p.A., non sarebbe stata legittimata all’appello, quindi inammissibile, così come sarebbe stato tardivo il successivo intervento di U. S.p.A., divenuto successore a titolo universale di B. S.p.A. prima della retrocessione del credito già ceduto a titolo particolare;

con il secondo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 474, c.p.c., artt. 1813, 1822, 1353 c.c. e ss., poiché la Corte di appello avrebbe errato mancando di considerare che:

l’iniziale richiesta rivolta dall’opponente al Ministero per l’ottenimento del certificato di regolare esecuzione dei lavori progettati, avrebbe dovuto ritenersi indice della volontà del mutuatario di dare compiuto seguito al complessivo e definitivo mutuo;

in ogni caso, la condotta eventualmente inadempiente del mutuatario avrebbe potuto legittimare l’azione risarcitoria, ma non avrebbe potuto conferire forza esecutiva a un contratto che, quale valido preliminare, non ne era dotato;

con il terzo motivo di ricorso si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., poiché la Corte di appello avrebbe errato liquidando le spese del doppio grado anche in favore del successore a titolo particolare nel credito che non aveva partecipato, sotto alcun profilo, pertanto, al giudizio di prime cure.

Rilevato che:

il primo motivo è infondato;

secondo la giurisprudenza di questa Corte il successore a titolo particolare nel diritto controverso è legittimato a impugnare la sentenza resa nei confronti del proprio dante causa allegando il titolo che gli consenta di sostituire quest’ultimo, essendo a tal fine sufficiente la specifica indicazione di tale atto nell’intestazione dell’impugnazione qualora il titolo sia di natura pubblica e, quindi, di contenuto accertabile, e sia rimasto del tutto incontestato o non idoneamente contestato dalla controparte (Cass., 31/08/2018, n. 21492, Cass., 11/04/2017, n. 9250; Cass., 17/07/2013, n. 17470, Cass., 11/05/2007, n. 10876);

i ricorrenti evidenziano che, nel caso, vengono in gioco anche i debiti del dante causa in parola, e non solo il credito ceduto, in quanto oggetto delle statuizioni del Tribunale in ordine alle restituzioni e alla rifusione delle spese legali;

l’osservazione non è dirimente poiché:

a regolazione delle spese processuali è profilo accessorio che non può incidere in alcun modo, in quanto tale, sulla ricostruita legittimazione;

non vi è stata impugnazione sulla declinatoria di condanna alle restituzioni per illegittima compensazione con il saldo attivo di conto corrente acceso presso B. S.p.A. (implicita nel residuale capo di rigetto del dispositivo di appello), fermo restando che il punto non sposta la legittimazione del successore a titolo particolare a impugnare l’annullamento del precetto, intimato in forza del credito cui è succeduto;

il secondo motivo è infondato;

la Corte di appello ha affermato che il titolo esecutivo era dato dal contratto di finanziamento a rogito notarile in uno ai due atti di erogazione e quietanza;

tali dazioni sono state accertate e sono pacificamente avvenute; e anche i relativi atti risultano essere stati rogati da notaio;

secondo la giurisprudenza di questa Corte, al fine di accertare se un contratto di mutuo possa essere utilizzato quale titolo esecutivo occorre verificare, attraverso la sua interpretazione integrata con quanto previsto nell’atto di erogazione e quietanza, se esso contenga pattuizioni volte a trasmettere con immediatezza la disponibilità giuridica della somma mutuata, e che entrambi gli atti, di mutuo ed erogazione, rispettino i requisiti di forma imposti dalla legge (Cass., 27/08/2015, n. 17194);

e, come riportato già in parte narrativa, ciò è proprio quanto fatto dalla Corte territoriale (pag. _ della sentenza gravata);

per completezza si evidenzia sul punto che U. S.p.A., nella memoria, indica, corredando il richiamo con produzione documentale, che con sentenza del __, passata in giudicato, la Corte di appello di Catania, giudicando sulla domanda d’illegittima iscrizione nella Centrale rischi (a seguito del precetto di cui sopra) e risarcimento dei susseguenti danni, ha affermato, statuendo tra U. S.p.A. e gli odierni ricorrenti, la natura di titolo esecutivo del complessivo atto qui in scrutinio, menzionando la nomofilachia appena evocata: si tratta di arresto non tra le medesime parti del presente giudizio e soprattutto non con il medesimo oggetto cui rapportare l’ipotizzato ma insussistente giudicato esterno;

quanto poi all’accertamento, in fatto, afferente alla condotta inadempiente ostativa all’avveramento della condizione, a sua volta relativa alla certificazione ministeriale, lo stesso è riferito dalla Corte di appello alla conclusione che era il mutuatario a non aver fatto quanto doveva per consentire il completamento del finanziamento, che quindi non poteva avere riflessi negativi sull’efficacia esecutiva derivante dalle (e relativa alle) erogazioni già effettuate;

il terzo motivo è infondato nei termini che seguono;

il dispositivo della Corte di appello è nel senso della condanna in solido degli allora appellanti alla rifusione delle spese in favore di U. C. S.p.A. e U. S.p.A., liquidate come specificato partitamente per il primo e per il secondo grado;

posto che in primo grado non aveva svolto difese il successore a titolo particolare, e che in secondo grado è intervenuto il successore a titolo universale del soggetto opposto, venuto meno con pacifica fusione societaria, il dispositivo in parola può e deve intendersi nel senso che a U. S.p.A., spetterà la liquidazione delle spese di primo grado, mentre a U. C. S.p.A., quale legittimo appellante, e a U. S.p.A., poi nuovamente titolare del credito, spetteranno quelle di secondo grado quali liquidate;

spese secondo soccombenza, con compensazione per un quarto visti i profili di controvertibilità afferenti al terzo motivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese processuali della controricorrente liquidate per l’intero in Euro __, oltre a Euro __ per esborsi, oltre al 15% di spese forfettarie oltre accessori, con compensazione per un quarto.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il pagamento, se dovuto e nella misura dovuta, da parte dei ricorrenti in solido, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 7 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2020.

Cass. civ. Sez. III Sent. 05_03_2020 n. 6174




Esecuzione forzata ed opposizione agli atti esecutivi 

Esecuzione forzata ed opposizione agli atti esecutivi 

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, Ordinanza n. 5712 del 03/03/2020

Con ordinanza del 3 marzo 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, in merito di recupero crediti ha stabilito che qualora l’appello (nel caso di specie, avanzato avverso una sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 617 c.p.c.) sia inammissibile in quanto strumento processuale radicalmente diverso da quello corretto, non può operare la translatio iudicii perché l’impugnazione proposta è inidonea, anche solo in astratto, a configurare l’instaurazione di un regolare rapporto processuale, né l’appello può convertirsi in ricorso per cassazione, giacché difetta dei requisiti di validità dell’atto nel quale dev’essere convertito, essendo il ricorso di legittimità, mezzo di impugnazione a critica vincolata (a maggior ragione, se proposto in via straordinaria ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost.), strutturalmente diverso.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, Ordinanza n. 5712 del 03/03/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. __ R.G. proposto da:

B. – ricorrente –

contro

C. – controricorrente –

contro

A. – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della Corte d’appello di Milano, depositata il __;

letta la proposta formulata dal Consigliere relatore ai sensi degli artt. 376 e 380-bis c.p.c.;

letti il ricorso e i controricorsi;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del __ dal Consigliere Dott. __.

Svolgimento del processo

B. proponeva opposizione avverso talune cartelle di pagamento ed un preavviso di iscrizione ipotecaria notificatigli da E. S.p.A., quale agente di riscossione per il recupero di crediti vantati dal C..

Il Tribunale di Milano, separate le domande di competenza del giudice di pace, tratteneva innanzi a sé solamente l’opposizione relativa alla mancata notifica delle cartelle di pagamento e del preavviso di iscrizione ipotecaria, che respingeva.

B. appellava la decisione. La Corte d’appello di Milano, rilevato che il giudice di primo grado aveva espressamente qualificato l’opposizione come proposta ai sensi dell’art. 617 c.p.c., dichiarava inammissibile il gravame, in quanto, in base al principio dell’apparenza, la sentenza doveva essere impugnata mediante ricorso per cassazione.

Avverso tale decisione B. ha proposto ricorso per un unico motivo. C. e A. (subentrata a E. S.p.A.) hanno resistito con controricorso.

Il consigliere relatore, ritenuta la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 380-bis c.p.c. (come modificato dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, comma 1, lett. e, conv. con modif. dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197), ha formulato proposta di trattazione del ricorso in camera di consiglio non partecipata.

Motivi della decisione

Va esaminata preliminarmente la ritualità del controricorso di A., successore di E. S.p.A.. Difatti, l’ultima delle notificazioni del ricorso si è perfezionata il __ e, quindi, ai sensi dell’art. 370 c.p.c., il termine per la proposizione del controricorso scadeva il __, laddove l’atto è stato invece notificato solamente in data __.

Sennonché, il ricorso è stato irritualmente notificato al procuratore costituito di E. S.p.A., piuttosto che all’Avvocatura Generale dello Stato, come invece si sarebbe dovuto fare a seguito della soppressione ex lege della società incaricata dei servizi di riscossione e del subentro di A. Tale nullità, da un lato, ha impedito che iniziassero a decorrere i termini di cui all’art. 369 c.p.c., comma 1, e all’art. 370 c.p.c.; dall’altro, risulta sanata, con efficacia ex nunc, dal controricorso di A.. Concludendo, A. si è ritualmente costituita in giudizio, sanando il vizio di notificazione del ricorso.

Venendo alla trattazione del ricorso, con un unico motivo B. deduce la violazione degli artt. 37, 38, 50, 341, 359 e 618 c.p.c., nonché dell’art. 111 Cost..

La ricorrente non contesta la qualificazione dell’opposizione come proposta ai sensi dell’art. 617 c.p.c. e prende atto della circostanza che, secondo quanto disposto dall’art. 618 c.p.c., la sentenza di primo grado quindi non era appellabile. Osserva tuttavia che la Corte d’appello, una volta rilevata l’erroneità del mezzo di impugnazione, non avrebbe dovuto dichiararlo inammissibile, ma avrebbe dovuto trasmettere gli atti alla Corte di cassazione, in attuazione del principio della translatio iudicii, che trova applicazione pure in ipotesi di appello proposto dinanzi a un giudice di grado diverso rispetto a quello davanti al quale avrebbe dovuto essere proposto il gravame. A sostegno, richiama il principio affermato da Sez. U., Sentenza n. 18121 del 14/09/2016, Rv. 641081. Il ricorso è inammissibile.

Il principio di diritto richiamato dalla ricorrente non è riferibile al caso di specie. Infatti, l’ipotesi in cui il mezzo di gravame è astrattamente corretto, ma indirizzato ad un giudice che, per territorio o per grado, è diverso da quello che avrebbe dovuto essere competente, va tenuta distinta dall’ipotesi in cui l’impugnante esperisce uno strumento processuale inidoneo, anche solo in astratto, a configurare l’instaurazione di un regolare rapporto processuale (Sez. VI – 3, Ordinanza n. 25078 del 07/12/2016, Rv. 641933 – 01). Pertanto, la translatio iudicii avrebbe potuto operare qualora, ad esempio, una sentenza del giudice di pace fosse stata impugnata innanzi alla corte d’appello, anziché al tribunale. Nel caso in esame, invece, B. ha esperito un mezzo di impugnazione inammissibile, anche solo in astratto, avverso la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 617 c.p.c.. Non si è trattato di non aver correttamente individuato l’organo giudiziario innanzi al quale proporre il gravame, bensì di aver utilizzato uno strumento processuale radicalmente diverso da quello corretto.

Né può ipotizzarsi che l’atto d’appello potesse convertirsi in ricorso per cassazione, giacché la conversione dell’atto nullo presupponi esso comunque possieda tutti i requisiti di validità dell’atto nel quale deve essere convertito. E poiché il ricorso per cassazione è strutturalmente diverso dall’appello, configurandosi con un mezzo di impugnazione a critica vincolata (a maggior ragione se proposto, per via straordinaria, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost.), tale conversione non è certamente possibile.

In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, nella misura indicata nel dispositivo.

Ricorrono altresì i presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, sicché va disposto il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, di un ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello già dovuto per l’impugnazione da lei proposta.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida per ciascuno di essi in Euro __ per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli accessori di legge e agli esborsi liquidati in Euro __ per C. e alle spese prenotate a debito per A.. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 9 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2020.

Cass. civ. Sez. VI_3 Ord. 03_03_2020 n. 5712




L’opposizione alla vendita della cosa data in pegno

L’opposizione alla vendita della cosa data in pegno

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, Ordinanza n. 5475 del 28/02/2020

Con ordinanza del 28 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, in merito di recupero crediti ha stabilito che l’opposizione alla vendita della cosa data in pegno di cui all’art. 2797, comma 2, c.c. ha la sostanziale natura di un’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. ed è perciò soggetta alle stesse regole processuali di quest’ultima, ivi compresa l’esclusione dalla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale ai sensi dell’art. 3 della l. n. 742 del 1969, regola che trova applicazione anche al giudizio di cassazione, con conseguente rilievo d’ufficio della tardività ed inammissibilità del ricorso.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, Ordinanza n. 5475 del 28/02/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. __ R.G. proposto da:

M. – ricorrente –

contro

C. S.r.l. – intimata –

avverso la sentenza n. __ della Corte d’Appello di Firenze, depositata il __;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio non partecipata del __ dal Consigliere Dott. __.

Svolgimento del processo

che:

M. ricorre, affidandosi a indifferenziati motivi con atto notificato a mezzo PEC il __, per la cassazione della sentenza n. __ del __ della Corte di appello di Firenze, di rigetto degli appelli suo e della creditrice procedente C. S.r.l. avverso l’accoglimento dell’opposizione da lei proposta alla vendita di un’autovettura consegnata per la riparazione;

non espleta attività difensiva l’intimata;

è formulata proposta di definizione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 1, come modificato dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, comma 1, lett. e), conv. con modif. dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197;

la ricorrente deposita istanza di rimessione alle Sezioni Unite, peraltro disattesa dal Primo Presidente con suo provvedimento del __, nonché, ma solo il __, memoria ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c..

Motivi della decisione

che:

va preliminarmente esclusa la tempestività della memoria: questa Corte ha da tempo statuito che il termine a ritroso in scadenza il giorno di sabato, come accade nella specie per doversi rapportare quello di cinque prima dell’adunanza camerale del __ appunto a sabato __, è anticipato di diritto al venerdì precedente (Cass. ord. 14/09/2017, n. 21335; Cass. 30/06/2014, n. 14767; e ciò in quanto, altrimenti, si produrrebbe l’effetto contrario di un’abbreviazione dell’intervallo, in pregiudizio per le esigenze garantite dalla previsione del termine medesimo);

la memoria, che peraltro, nonostante la profusione di richiami a principi generali di non immediata o diretta applicabilità alla fattispecie, non somministra al Collegio argomenti idonei ad inficiare la validità ed il carattere dirimente delle preliminari valutazioni di cui appresso, non deve quindi essere neppure presa in considerazione e deve valutarsi tamquam non esset;

il ricorso, che riguarda sentenza di appello su opposizione a vendita diretta del creditore pignoratizio ai sensi dell’art. 2797 c.c., prima ancora di essere del tutto privo di motivi specifici (non solo e non tanto privi di rubrica riconducibile ad una delle specifiche previsioni dell’art. 360 c.p.c., quanto soprattutto estrinsecati in indistinte ed inestricabili confuse illustrazioni di fatti e di doglianze in diritto, tali da non rendere evidente il contenuto stesso della censura), è irrimediabilmente tardivo;

infatti, anche l’opposizione alla vendita nel procedimento previsto dall’art. 2797 c.c. va qualificata come opposizione all’esecuzione, riconducibile all’art. 615 c.p.c. ed è perciò soggetta alle stesse regole processuali di quest’ultima (anche stavolta in base a giurisprudenza di gran lunga anteriore alla proposizione della presente azione: Cass. 29/09/2008, n. 21908);

pertanto, nemmeno ad essa si applica la sospensione feriale, nemmeno nei gradi di impugnazione, in ossequio a giurisprudenza di legittimità a dir poco consolidata (tra le innumerevoli, si veda affermato tale principio anche ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1, pure con riguardo alle opposizioni a precetto: Cass. ord. 22/10/2014, n. 22484; Cass. n. 10874/05, 6103/06, 12250/07, 14591/07, 4942/10, 20745/09, ordd. n. 9997/10, 7072/15, 19264/15, nonché: Cass., ord. 07/04/2016, n. 6808; Cass., ord. 10/02/2017, n. 3670);

infatti, il termine semestrale dalla pubblicazione, quest’ultima essendo avvenuta il __, è scaduto irrimediabilmente il __, sicché il ricorso, notificato invece solo il __, è tardivo;

tanto va dichiarato in dispositivo, con preclusione radicale di qualunque altra questione eventualmente estrapolabile dalla confusa congerie di fatti e ragioni di diritto in cui il ricorso – mai emendabile con alcun atto successivo, peraltro, nella specie, pure inammissibilmente prodotto – è articolato; ma non vi è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, per non avervi svolto attività difensiva l’intimata;

infine, va dato atto – mancando ogni discrezionalità al riguardo (tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra molte altre: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – della sussistenza dei presupposti processuali per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione e per il caso di reiezione integrale, in rito o nel merito.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso da lei proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2020.

Cass. civ. Sez. VI_3 Ord. 28_02_2020 n. 5475




Dichiarazione di fallimento intervenuta nelle more del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo

Dichiarazione di fallimento intervenuta nelle more del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 6196 del 05/03/2020

Con sentenza del 5 marzo 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che nell’ipotesi di dichiarazione di fallimento intervenuta nelle more del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo proposto dal debitore ingiunto poi fallito, la domanda è contrassegnata da improcedibilità rilevabile d’ufficio, senza che vada integrato il contraddittorio nei confronti della curatela fallimentare, in quanto il creditore opposto è tenuto a far accertare il proprio credito nell’ambito della verifica del passivo ai sensi degli artt. 92 e ss. L.F., in concorso con gli altri creditori. In applicazione del principio, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso avverso la pronuncia con la quale erano stati condannati al pagamento di somme i soli fideiussori dell’impresa debitrice poi fallita, escludendo che dovesse integrarsi il contraddittorio nei confronti della procedura concorsuale.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 6196 del 05/03/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

L. e A.

– ricorrenti –

contro

I. S.p.A., nella qualità di procuratrice della C. S.r.l. per incorporazione di S. S.p.A. in B. S.p.A.

– controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della Corte d’Appello di Palermo, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal cons. Dott. __;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

L. e A. ricorrono a questa Corte onde sentir cassare l’epigrafata sentenza con la quale la Corte d’Appello di Palermo, respingendone il gravame, ha confermato il rigetto in primo grado dell’opposizione da loro proposta avverso il decreto ingiuntivo con cui I. S.p.A., quale mandataria di B. S.p.A., li aveva escussi nella loro veste di fideiussori della (OMISSIS) S.p.A. a fronte dei saldi passivi accumulati dalla società nei rapporti con la banca.

In particolare la Corte territoriale, registrato che nelle more del giudizio di opposizione la società debitrice era fallita, che il Tribunale aveva confermato l’ingiunzione nei soli confronti dei fideiussori non essendosi il fallimento costituito nel giudizio riassunto dopo l’interruzione e che nel susseguente giudizio di appello si era costituito, in sostituzione dell’originario opposto, I. S.p.A. quale mandataria di I. S. S.p.A. – nuova denominazione di B. S.p.A. -, ha motivato il rigetto del gravame ritenendo di dover condividere le conclusioni a cui era approdato il CTU, non scalfite dalle obiezioni sollevate dagli appellanti e, segnatamente, dalle contestazioni in punto di violazione del contraddittorio, che non appaiono fondate in ragione della riscontrata presenza del CTP al momento dell’inizio delle operazioni e del documentato scambio tra CTP e CTU di osservazioni e chiarimenti”

Al ricorso resiste la banca con controricorso, cui replicano i ricorrenti con memoria ex art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso – mercé il quale i ricorrenti censurano l’impugnata decisione perché essa, violando gli artt. 101, 332 e 331 c.p.c., non avrebbe provveduto ad integrare il contraddittorio nei confronti della società fallita – è infondato, avendo la giurisprudenza di questa Corte più volte chiarito che nell’ipotesi di dichiarazione di fallimento intervenuta nelle more del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo proposto dal debitore ingiunto poi fallito, il creditore opposto deve partecipare al concorso con gli altri creditori previa domanda di ammissione al passivo, attesa la inopponibilità, al fallimento, di un decreto non ancora definitivo e, pertanto, privo della indispensabile natura di sentenza impugnabile, esplicitamente richiesta dalla L.F., art. 95, comma 3, norma di carattere eccezionale, insuscettibile di applicazione analogica. Conseguentemente la domanda formulata in sede di cognizione ordinaria, se proposta prima dell’inizio della procedura concorsuale, diventa improcedibile, e tale improcedibilità è rilevabile d’ufficio, anche nel giudizio di cassazione, derivando da norme inderogabilmente dettate a tutela del principio della “par condicio creditorum (Cass., Sez. I, 13/08/2008, n. 21565).

Ne discende che, essendo la domanda nei confronti della (OMISSIS) S.p.A. divenuta improcedibile a seguito del suo fallimento e della susseguente interruzione del processo, non incombeva alla Corte d’Appello alcun obbligo di integrare il contraddittorio nei confronti della società in relazione alla quale, stante la vis attractiva del foro fallimentare, ogni statuizione doveva ritenersi previamente inammissibile ovvero, diversamente, improcedibile.

Il secondo motivo di ricorso – inteso parimenti a censurare la decisione qui in esame per aver pronunciato in violazione degli artt. 101 e 111 c.p.c. nei confronti di I. e non nei confronti dell’originario contraddittore I. B. S.p.A. sparito dal processo quantunque le altre parti non avessero acconsentito alla sua estromissione – è inammissibile per difetto di autosufficienza.

La Corte d’Appello, ancorché non investita della questione, ha comunque avuto modo di annotare che, regolarmente instaurato il contraddittorio, nel giudizio così incardinato di fronte a sé si era costituita I. S.p.A. nella qualità di mandataria della I. S. S.p.A. e di C. S.r.l. nelle more subentrata nel rapporto per cui è causa giusta cessione dei crediti indicata in atti. A ciò il decidente d’Appello è potuto pervenire in guisa della consultazione dei documenti versati in causa dall’appellante, di modo che, risultando da questi, per come li riporta la controricorrente, la sequenza degli eventi negoziali in forza del quale all’originario contraddittore era succeduta, sotto il profilo della legitimatio ad causam, C. S.r.l. e sotto il profilo della legittimatio ad processum I. S.p.A., sarebbe stato allora preciso onere del ricorrente contestare, riportando adeguatamente in ricorso l’indicazione analitica delle documentazioni prodotte ex adverso (che… la corte di merito ha presupposto come in atti e così esaminato), l’inidoneità di ognuno dei documenti ivi evidentemente indicati a provare ciascuno dei singoli passaggi sopra ricostruiti (Cass., Sez. III, 4/05/2018, n. 10603). E poiché nella sua illustrazione i ricorrenti sono venuti meno a siffatto onere limitandosi ad una rimostranza del tutto generica, il motivo deve reputarsi non autosufficiente e conseguentemente inammissibile.

Il terzo motivo di ricorso – con cui si lamenta che la sentenza impugnata sarebbe incorsa nella violazione dell’art. 120 TUB, della L. 7 marzo 1996, n. 108, dell’art. 1815 c.c., delle norme processuali sull’inammissibilità di nuovi documenti in appello e di quelle sullo svolgimento del contraddittorio sulla CTU – è inammissibile per difetto di specificità.

Ed invero mentre la sentenza si dà cura di dare atto, a confutazione della lamentata violazione delle norme sul contraddittorio, della riscontrata presenza del CTP al momento dell’inizio delle operazioni e del documentato scambio tra CTP e CTU di osservazioni e chiarimenti e, quanto alle altre doglianze, di precisare che “in carenza di uno specifico conteggio e di una analitica contestazione dei calcoli eseguiti dal CTU, la conclusione cui giungono gli opponenti con riferimento al saldo di conto corrente, secondo cui si sarebbe verificata la presenza di un tasso usurario nei periodi giusto coincidenti con i trimestri per cui non sono stati depositati estratti conto… sfugge a qualsiasi controllo per l’assenza di dati di supporto e di indicazione del tasso che assume applicato dalla banca, così da rendere assolutamente esplorativa la nomina di un altro ctu”, il motivo, al contrario, si limita a reiterare le ragioni di contestazione già sottoposte al vaglio del giudice di merito e da questo disattese, sicché, sottraendosi in tal modo al confronto con le ragioni della decisione, esso oblitera manifestamente il principio della specificità del ricorso e si rende perciò inammissibile.

Il ricorso va dunque respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da susseguente dispositivo.

Ove dovuto il raddoppio del contributo, ricorrono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

Respinge il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro __, di cui Euro __ per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.

Ove dovuto il raddoppio del contributo. ricorrono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 13 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2020.

Cass. civ. Sez. I Sent. 05_03_2020 n. 6196




Nel giudizio di verificazione del passivo è pienamente efficace la regola del giudicato endofallimentare

Nel giudizio di verificazione del passivo è pienamente efficace la regola del giudicato endofallimentare: il giudice dell’opposizione non può, ex officio, prendere nuovamente in considerazione la questione relativa all’ammissione del credito

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 7898 del 17/04/2020

Con ordinanza del 17 aprile 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che nel giudizio di verificazione del passivo è pienamente efficace la regola del giudicato endofallimentare ex art. 96 legge fallimentare (R.D. n. 267 del 1942), sicché, ove il creditore, ammesso al passivo in collocazione chirografaria, abbia opposto il decreto di esecutività per il mancato riconoscimento del privilegio richiesto senza che, nel conseguente giudizio di opposizione, il curatore si sia costituito ed abbia contestato l’ammissibilità stessa del credito, il giudice dell’opposizione non può, ex officio, prendere nuovamente in considerazione la questione relativa all’ammissione del credito ed escluderlo dallo stato passivo in base ad una rivalutazione dei fatti già oggetto di quel provvedimento, essendo l’ammissione coperta dal predetto giudicato.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 7898 del 17/04/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

S. – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – controricorrente –

avverso il decreto del Tribunale di Bolzano, del __;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del __ dal Cons. Dott. __.

Svolgimento del processo

S. ha presentato domanda di ammissione al passivo del fallimento della (OMISSIS) S.r.l. per un credito da prestazioni professionali maturate tra il __ ed il __ per un importo complessivo di __ Euro, di cui __ Euro con privilegio ex art. 2751 bis c.c., n. 2).

Il giudice delegato ammetteva il credito solo in parte ed in chirografo, osservando che la domanda di insinuazione era stata proposta dallo studio associato e non vi era prova del carattere personale della prestazione; tanto più che dalla documentazione inviata al curatore risultava che molteplici prestazioni non erano state effettuate da F., che aveva sottoscritto la domanda, ma da altri componenti lo studio associato; avuto riguardo al quantum, diverse prestazioni non erano chiaramente individuate e risultavano effettuate in favore di soggetti diversi dalla società debitrice, mentre il contenuto delle parcelle prodotte non consentiva di identificare in modo univoco le pretese creditorie dell’istante.

Il Tribunale di Bolzano dichiarava inammissibile l’opposizione, rilevando la mancanza di legittimazione ad agire dello studio associato.

Il tribunale, in particolare, rilevava che dall’opposizione non si desumeva a che titolo S. fosse legittimato a far valere i crediti di F., non essendo stato allegato alcun atto di cessione del credito o l’esistenza di altro rapporto avente efficacia traslativa.

Avverso detto decreto ha proposto ricorso per cassazione, con due motivi, S.

La curatela fallimentare ha resistito con controricorso.

In prossimità dell’odierna adunanza, entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa

Motivi della decisione

Conviene premettere che il tardivo deposito, unitamente al ricorso, della copia autentica del provvedimento impugnato e degli atti processuali e sostanziali sui quali il ricorso si fonda, comporta ai sensi dell’art. 369 c.p.c., l’improcedibilità dello stesso, che è rilevabile d’ufficio e non è esclusa dalla circostanza che il controricorrente non abbia formulato apposita eccezione.

Il ricorrente, tuttavia, ove il mancato tempestivo deposito sia dovuto a causa ad esso non imputabile può evitare la declaratoria di improcedibilità chiedendo, non appena l’impedimento sia cessato, la rimessione in termini, ai sensi dell’art. 153 c.p.c., comma 2 e provvedendo a depositare contestualmente l’atto non potuto depositare nei termini (Cass. 22092 del 2019).

Nel caso di specie appaiono sussistenti i presupposti per la rimessione in termini del ricorrente, atteso che il mancato tempestivo deposito di copia autentica del provvedimento impugnato risulta dovuto a causa non imputabile al ricorrente, in quanto i documenti inviati tramite corriere sono andati smarriti a causa del furto subito dal corriere.

Ciò premesso, il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 36 c.c., deducendo che il tribunale sarebbe incorso in errore, confondendo la questione, meramente processuale, della legittimazione ad agire in giudizio, con l’effettiva titolarità del rapporto.

Il ricorrente riferisce che nel caso di specie esso studio associato era già stato riconosciuto come soggetto legittimato a far valere, nei confronti del fallimento, il credito per l’attività professionale svolta in favore della (OMISSIS) S.r.l., come da fatture emesse dallo stesso studio associato ed allegate all’insinuazione al passivo: il giudice delegato aveva invero parzialmente ammesso il credito, escludendo unicamente il riconoscimento del privilegio: oggetto dell’opposizione allo stato passivo, era dunque unicamente l’attribuzione del privilegio ex art. 2751 bis c.c..

A fronte di ciò, il tribunale aveva illegittimamente rilevato d’ufficio il difetto di titolarità del rapporto controverso, vale a dire un elemento afferente al merito della controversia, rimesso al potere dispositivo delle parti, che non era stato mai oggetto di contestazione.

Il secondo motivo denuncia nullità del decreto per violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere il Tribunale di Bolzano rilevato d’ufficio la carenza di titolarità del rapporto giuridico controverso in capo a S.

In buona sostanza, lo studio associato ricorrente lamenta che il tribunale abbia erroneamente affermato, con rilievo d’ d’ufficio, la carenza di legittimazione processuale dello studio associato, confondendo la situazione meramente processuale della legittimazione ad agire, con l’effettiva titolarità del rapporto oggetto di causa, che costituisce questione di merito.

I motivi che, in quanto connessi, vanno unitariamente esaminati, sono fondati.

Conviene premettere che secondo il consolidato indirizzo di questa Corte l’associazione professionale costituisce un centro autonomo di imputazione e di interessi rispetto ai singoli professionisti che vi si associano (Cass. 8853/2007; 17683/2010).

La giurisprudenza di questa Corte, peraltro, ha posto in evidenza che, ai sensi dell’art. 36 c.c., l’ordinamento interno e l’amministrazione delle associazioni non riconosciute sono regolati dagli accordi tra gli associati, che ben possono attribuire all’associazione la legittimazione a stipulare contratti e ad acquisire la titolarità di rapporti poi delegati ai singoli aderenti e da essi personalmente curati; in tal caso sussiste legittimazione attiva dello studio professionale associato – cui la legge attribuisce la capacità di porsi come autonomo centro d’imputazione di rapporti giuridici rispetto ai crediti per le prestazioni svolte dai singoli professionisti a favore del cliente conferente l’incarico, in quanto il fenomeno associativo tra professionisti può non essere univocamente finalizzato alla divisione delle spese ed alla gestione congiunta dei proventi (Cass. 6285/2016).

È stato al riguardo precisato che la domanda di insinuazione al passivo proposta da uno studio associato fa presumere l’esclusione della personalità del rapporto d’opera professionale da cui quel credito è derivato e dunque l’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento del privilegio in oggetto, salva l’allegazione e la prova, a titolo esemplificativo, di un accordo tra gli associati che preveda la cessione all’associazione del credito al compenso per la prestazione professionale che ha in tal caso natura personale e quindi privilegiata.

Nel caso di specie, è pacifico che l’insinuazione al passivo fallimentare sia stata proposta dallo studio associato e che il medesimo studio associato sia stato parzialmente ammesso al passivo del fallimento, proponendo l’opposizione L.F., ex art. 98, al fine del riconoscimento del privilegio.

Sulla legittimazione processuale ad agire dello studio associato, in assenza di impugnazione della curatela, si è dunque formato il giudicato endofallimentare.

Ed invero, come questa Corte ha già affermato, nel giudizio di verificazione del passivo è pienamente efficace la regola del giudicato endofallimentare L.F., ex art. 96, sicché, ove il creditore, ammesso al passivo in collocazione chirografaria, abbia opposto il decreto di esecutività per il mancato riconoscimento del privilegio richiesto senza che, nel conseguente giudizio di opposizione, il curatore si sia costituito ed abbia contestato l’ammissibilità stessa del credito, il giudice dell’opposizione non può, ex officio, prendere nuovamente in considerazione la questione relativa all’ammissione del credito ed escluderlo dallo stato passivo in base ad una rivalutazione dei fatti già oggetto di quel provvedimento, essendo l’ammissione coperta dal predetto giudicato (Cass. 6524 del 2017; 25640 del 2017).

Da ciò discende che la legittimazione ad impugnare il provvedimento di esclusione del privilegio spettava (solo) allo studio associato, il quale aveva proposto l’insinuazione ed era stato dunque parte del processo concluso con la pronuncia impugnata.

Il decreto impugnato va dunque cassato e la causa va rinviata al tribunale di Bolzano in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso.

Cassa il decreto impugnato e rinvia al tribunale di Bolzano, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 18 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 aprile 2020.

Cass. civ. Sez. I Ord. 17_04_2020 n. 7898




Efficacia di giudicato del credito azionato e del titolo posto a fondamento dello stesso

Efficacia di giudicato del credito azionato e del titolo posto a fondamento dello stesso

Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, Ordinanza n. 8165 del 24/04/2020

Con ordinanza del 24 aprile 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che L’autorità del giudicato spiega i suoi effetti non solo sulla pronuncia esplicita della decisione ma anche sulle ragioni che ne costituiscono sia pure implicitamente il presupposto logico-giuridico. Detto principio trova applicazione anche in riferimento al decreto ingiuntivo di condanna al pagamento di una somma di denaro, il quale, in mancanza di opposizione o quando quest’ultimo giudizio sia stato dichiarato estinto, acquista efficacia di giudicato non solo in ordine al credito azionato, ma anche in relazione al titolo posto a fondamento dello stesso, precludendo ogni ulteriore esame delle ragioni addotte a giustificazione della relativa domanda in altro giudizio.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, Ordinanza n. 8165 del 24/04/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

C. – ricorrente –

e contro

Curatela Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – intimata –

avverso il decreto del Tribunale di Lecce, depositata il __, R.G.N. __;

Il P.M. ha depositato conclusioni scritte.

Svolgimento del processo

che:

con decreto del __, il Tribunale di Lecce rigettava l’opposizione proposta, ai sensi della L. Fall., art. 98, da C. avverso lo stato passivo del Fallimento (OMISSIS) S.r.l., cui era stato ammesso in via privilegiata ai sensi dell’art. 2751 bis c.c., n. 1, limitatamente al credito di Euro __, per l’attività lavorativa prestata a titolo di rapporto di collaborazione a progetto, in base a Decreto Ingiuntivo dello stesso Tribunale, con esclusione del maggior credito insinuato, di importo complessivo di Euro __, previo l’accertamento di nullità del contratto di lavoro a progetto, invece posto a fondamento del suddetto decreto definitivo, preclusivo della prospettazione di allegazioni eventualmente deducibili in sede monitoria, peraltro inconciliabili con la documentazione (contratto di collaborazione a progetto) per la quale esso era stato ottenuto e del quale in sede concorsuale era dedotta la nullità;

avverso il decreto di rigetto del Tribunale il lavoratore, con atto notificato il __, ricorreva per cassazione con due motivi; la curatela fallimentare, pure ritualmente intimata, non svolgeva difese;

il P.G. rassegnava conclusioni scritte, a norma dell’art. 380 bis 1 c.p.c.

Motivi della decisione

che:

  1. nel rispetto di un’evidente pregiudizialità logico-giuridica nell’esame delle doglianze, il ricorrente deduce la nullità del decreto per violazione dell’art. 112 c.p.c., per inosservanza del principio di corrispondenza del chiesto al pronunciato, avendo il Tribunale omesso di pronunciare sulla deduzione di disconoscimento del rapporto lavorativo, siccome fittizio o simulato e di riserva di autonoma azione per l’accertamento di un rapporto di lavoro subordinato, contenuta nel ricorso in opposizione allo stato passivo (secondo motivo);
  2. esso è infondato;

2.1. non sussiste, infatti, l’omissione di pronuncia denunciata, da escludere quando la decisione adottata comporti una statuizione, anche implicita, di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte (Cass. 6 dicembre 2017, n. 29191; Cass. 13 agosto 2018, n. 20718), avendola il Tribunale addirittura esplicitamente resa (nel senso della sua reiezione per le ragioni esposte agli ultimi tre capoversi di pag. __ del decreto);

  1. il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., artt. 324, 100 c.p.c., art. 111 Cost., art. 6 CEDU, avendo limitato la propria domanda in sede monitoria al credito risultante dai prospetti paga dal mese di __ a quello di __, in via acceleratoria per l’urgenza di soddisfazione di esigenze di mantenimento, ma avendo pure in esso esplicitamente disconosciuto il rapporto lavorativo formalmente qualificato a progetto e riservandosi l’esercizio di un’autonoma azione per l’accertamento di un rapporto di lavoro subordinato, come poi ribadito nei verbali e nelle note autorizzate nel successivo giudizio di primo grado: bene essendo possibile, senza alcun abuso del processo né violazione di giudicato, una tutela frazionata di distinti diritti di credito, anche se relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti (primo motivo);
  2. esso è fondato;

4.1. occorre preliminarmente osservare come il più risalente orientamento, all’epoca accreditato presso la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, di incompatibilità della commisurazione dell’ambito oggettivo del giudicato non solo al dedotto ma anche al deducibile (coerente conseguenza dell’accertamento ordinario cui si riferisce l’art. 2909 c.c.) con le peculiarità del procedimento per ingiunzione, strutturato, almeno nella fase propriamente monitoria, secondo regole finalizzate ad accertare non già la fondatezza o l’infondatezza della pretesa creditoria, ma esclusivamente la sussistenza di elementi sufficienti a giustificare l’ingiunzione (Cass. 6 luglio 2002, n. 9857; Cass. 12 aprile 2003, n. 5854), temperasse l’affermazione del principio con l’assenza del vincolo di giudicato in altri giudizi, aventi ad oggetto le medesime questioni di fatto o di diritto, qualora dal provvedimento monitorio non si ricavassero le ragioni della decisione ed i principi di diritto a suo fondamento (Cass. 25 novembre 2010, n. 23918; Cass. 20 marzo 2014, n. 6543);

4.2. il suddetto indirizzo è stato superato da quello, oggi prevalente, per il quale il principio, secondo cui l’autorità del giudicato spiega i suoi effetti non solo sulla pronuncia esplicita della decisione ma anche sulle ragioni che ne costituiscono sia pure implicitamente il presupposto logico-giuridico, trova applicazione anche in riferimento al decreto ingiuntivo di condanna al pagamento di una somma di denaro, il quale, in mancanza di opposizione o quando quest’ultimo giudizio sia stato dichiarato estinto, acquista efficacia di giudicato non solo in ordine al credito azionato, ma anche in relazione al titolo posto a fondamento dello stesso, precludendo ogni ulteriore esame delle ragioni addotte a giustificazione della relativa domanda in altro giudizio (Cass. 6 settembre 2007, n. 18725; Cass. 28 novembre 2017, n. 28318; Cass. 24 settembre 2018, n. 22465);

4.3. esso deve pertanto essere inteso nel senso dell’estensione dell’ambito oggettivo di efficacia del giudicato del precedente giudizio relativo ad altro credito nascente dal medesimo rapporto ai giudizi in cui il fatto costitutivo sia lo stesso ed abbia costituito oggetto di accertamento esplicito od implicito nel precedente giudizio, rimanendo circoscritto l’accertamento oggetto del successivo giudizio a quei soli elementi del diritto di credito non coincidenti con i fatti costitutivi invarianti che integrano il medesimo presupposto logico-giuridico di entrambi i diritti azionati (Cass. 28 novembre 2017, n. 28318, in motivazione); e ciò sull’essenziale rilievo di esclusione nell’ordinamento processuale del divieto di procedere in separati giudizi all’accertamento di singoli crediti facenti capo ad un medesimo rapporto, nonostante esso preveda strumenti intesi a sollecitare la trattazione unitaria delle cause, onde evitare la duplicazione di attività istruttoria e decisoria, il rischio di giudicati contrastanti, la dispersione dinanzi a giudici diversi della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale, con la conseguenza della possibile giustificazione della scelta del creditore di azionare in separati giudizi distinti diritti di credito che siano, oltre che basati su “un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti,… anche in proiezione inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o comunque fondati sul medesimo fatto costitutivo”, soltanto nel caso in cui sussista un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata (Cass. s.u. 16 febbraio 2017 n. 4090);

4.4. alla luce delle superiori premesse in diritto, nel caso di specie, appare chiaro dall’esposizione del ricorso in via monitoria, come la causa petendi della domanda del lavoratore sia stata la mera esigenza di azionare una pretesa creditoria certa, liquida ed esigibile sulla scorta di una prova documentale idonea, in funzione di mera soddisfazione di esigenze alimentari, avendo, nello stesso contesto espositivo, esplicitamente dedotto la natura simulata di una serie di contratti di collaborazione a progetto tra le parti (p.to __ del “Premesso” del ricorso per decreto ingiuntivo, trascritto a pag. __ del ricorso per cassazione) e addirittura riservato l’esercizio di un autonomo giudizio di accertamento di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti (p.to __ del citato “Premesso”, trascritto a pag. __ dello stesso ricorso);

4.5. neppure è allora configurabile alcun abuso del processo, essendo legittimo che il creditore utilizzi la via più breve (il procedimento monitorio) per riscuotere la parte del credito già liquida e si riservi di agire successivamente per l’accertamento e la liquidazione della parte variabile del suo preteso credito, per la diversa natura delle pretese fatte valere nei separati procedimenti (nell’uno un credito già liquido, nell’altro un credito da liquidare), senza pericolo di formazione di giudicati contraddittori, ma neppure di un ingiusto aggravio per la posizione del debitore: al contrario, essendo piuttosto il creditore a subire un ingiusto pregiudizio nel caso di preclusione della possibilità di avvalersi del procedimento più spedito (quello d’ingiunzione) per la parte di credito già liquida, qualora, per ottenere un titolo esecutivo relativo a tale parte di credito, fosse costretto ad attendere i tempi più lunghi di un procedimento ordinario (Cass. 7 novembre 2016, n. 22574; Cass. 9 febbraio 2018, n. 3226);

  1. pertanto deve essere rigettato il secondo motivo ed accolto il primo, con la cassazione del decreto, in relazione al motivo accolto e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, al Tribunale di Lecce in diversa composizione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo, rigetta il secondo; cassa il decreto, in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, al Tribunale di Lecce in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 29 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 aprile 2020.

 

Cass. civ. Sez. lavoro Ord. 24_04_2020 n. 8165




Opposizione a decreto ingiuntivo intempestiva

Opposizione a decreto ingiuntivo intempestiva e possibilità della formulazione da parte del creditore della richiesta ai sensi dell’art. 647 c.p.c.

Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, Ordinanza n. 7972 del 21/04/2020

Con ordinanza del 21 aprile 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, in merito di recupero crediti ha stabilito che allorquando venga proposta l’opposizione a decreto ingiuntivo intempestivamente e sia seguita da costituzione tempestiva oppure venga proposta tempestivamente, ma sia seguita da una costituzione tardiva dell’opponente, non sussiste la possibilità della formulazione da parte del creditore della richiesta ai sensi dell’art. 647 c.p.c., che si deve intendere limitata od alla mancanza di opposizione od alla mancanza di costituzione dopo l’opposizione. Nelle suddette ipotesi, l’efficacia del decreto è la stessa dei casi di mancanza dell’opposizione o di mancata costituzione, ma, essendosi comunque incardinato il processo in contraddittorio, la definizione del giudizio deve avvenire con la sentenza, in quanto l’opposizione deve essere dichiarata rispettivamente inammissibile od improcedibile d’ufficio nel presupposto che sul decreto ingiuntivo si è formato un giudicato interno, configurandosi il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo come ulteriore sviluppo della fase monitoria.

 

Cass. civ. Sez. lavoro Ord. 21_04_2020 n. 7972




Opposizione all’esecuzione promossa in base a titolo esecutivo di formazione giudiziale

Opposizione all’esecuzione promossa in base a titolo esecutivo di formazione giudiziale

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, Ordinanza n. 3716 del 14/02/2020

Con ordinanza del 14 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, in merito di recupero crediti ha stabilito che in tema di opposizione all’esecuzione promossa in base a titolo esecutivo di formazione giudiziale, non possono essere dedotti fatti estintivi, impeditivi o modificativi verificatisi prima della maturazione delle preclusioni processuali, ad essi relative, nel giudizio di cognizione che ha portato alla formazione di tale titolo.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, Ordinanza n. 3716 del 14/02/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero __ del ruolo generale dell’anno __, proposto da:

R. S.r.l. – ricorrente –

nei confronti di:

M. S.a.s. di M. & C. – intimata –

per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Roma n. __, pubblicata in data __;

udita la relazione sulla causa svolta nella camera di consiglio in data __ dal consigliere __.

Svolgimento del processo

che:

Nel corso della procedura esecutiva promossa nei suoi confronti dalla M. S.a.s. di M. & C. sulla base di un decreto ingiuntivo, R. S.r.l. ha proposto opposizione all’esecuzione, ai sensi dell’art. 615 c.p.c.. L’opposizione è stata rigettata dal Tribunale di Frosinone.

La Corte di Appello di Roma ha confermato la decisione di primo grado.

Ricorre R. S.r.l., sulla base di due motivi.

Non ha svolto attività difensiva in questa sede la società intimata.

È stata disposta la trattazione in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375, 376 e 380 bis c.p.c., in quanto il relatore ha ritenuto che il ricorso fosse destinato ad essere dichiarato inammissibile.

È stata quindi fissata con decreto l’adunanza della Corte, e il decreto è stato notificato alle parti con l’indicazione della proposta.

La società ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 2.

Il Collegio ha disposto che sia redatta motivazione in forma semplificata.

Motivi della decisione

che:

  1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e falsa applicazione dell’art. 615 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

La società ricorrente deduce che solo in data successiva alla definitività del decreto ingiuntivo posto a base dell’esecuzione promossa nei suoi confronti aveva scoperto elementi di prova decisivi che, a suo dire, attestavano la falsità dei documenti sulla base dei quali il decreto stesso era stato ottenuto dalla creditrice, il che dovrebbe determinare l’ammissibilità della sua opposizione all’esecuzione.

La censura è inammissibile, ancor prima che manifestamente infondata.

I giudici di merito hanno deciso la controversia facendo applicazione del costante insegnamento di questa Corte (che il ricorso non contiene motivi idonei a indurre a rivedere), secondo il quale non è possibile dedurre in sede di opposizione all’esecuzione promossa in base a titolo di formazione giudiziale fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto azionato anteriori alla formazione del titolo stesso (e segnatamente fatti anteriori al maturarsi delle preclusioni processuali per la loro allegazione nel giudizio di cognizione che ha portato alla formazione del titolo; si tratta di orientamento pacifico e costante; ex multis: Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 3277 del 18/02/2015, Rv. 634447; Sez. L, Sentenza n. 3667 del 14/02/2013, Rv. 625093; Sez. 3, Sentenza n. 12911 del 24/07/2012, Rv. 623415; Sez. 3, Sentenza n. 9347 del 20/04/2009, Rv. 607522 Sez. 1, Sentenza n. 22402 del 05/09/2008, Rv. 604683; Sez. 3, Sentenza n. 8928 del 18/04/2006, Rv. 590698; Sez. 3, Sentenza n. 26089 del 30/11/2005, Rv. 585846; Sez. L, Sentenza n. 7637 del 21/04/2004, Rv. 572223; Sez. 3, Sentenza n. 12664 del 25/09/2000, Rv. 540444).

Hanno anche, del tutto correttamente, precisato che l’esigenza indicata dalla società ricorrente (derivante dall’assunto rinvenimento di documenti decisivi dopo la formazione del giudicato, e quindi non attinente al fatto estintivo, ma alla sua prova) avrebbe potuto e dovuto trovare soluzione mediante l’impugnazione del provvedimento costituente titolo esecutivo (eventualmente ai sensi dell’art. 395 c.p.c., sussistendone i presupposti), non potendo invece in alcun caso trovare spazio in sede di opposizione all’esecuzione (in tale senso, arg. ex Cass., Sez. 3, Sentenza n. 20318 del 20/11/2012, Rv. 624499, che esclude la pregiudizialità, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., fra il giudizio di revocazione di un decreto ingiuntivo, di cui sia stata dichiarata l’esecutorietà per mancata opposizione, ed il giudizio di opposizione a precetto fondato sul medesimo titolo giudiziale, posto che con il primo, necessariamente motivato da ragioni diverse da quelle su cui si basa l’opposizione, si contesta la formazione del titolo stesso).

Il motivo di ricorso in esame non contiene in realtà censure volte specificamente a criticare i suddetti argomenti in diritto, posti dai giudici di merito a fondamento della decisione impugnata: parte ricorrente si limita a ribadire la tesi (che, come già correttamente rilevato dai giudici di merito, è infondata, in quanto confonde la collocazione temporale del fatto estintivo con quella della formazione della sua prova) secondo la quale, essendosi potuta accertare solo in epoca successiva al giudicato la falsità della fattura in base alla quale era stato emesso il decreto ingiuntivo posto a base della procedura esecutiva, ciò sarebbe sufficiente a consentire l’opposizione all’esecuzione, senza in alcun modo contrapporre ulteriori ragioni a quelle contrarie, esposte nel provvedimento impugnato.

  1. Con il secondo motivo si denunzia “Violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 479 e 140 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Anche questo motivo è inammissibile.

La società debitrice aveva sostenuto, con la propria originaria opposizione, che il decreto ingiuntivo posto in esecuzione nei suoi confronti non aveva alcuna efficacia, in quanto non le era stato validamente notificato. Il tribunale ha rigettato tale motivo di opposizione (correttamente inquadrato in termini di opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c.), rilevando che la notificazione in questione, sulla base della stessa prospettazione di parte opponente, era nulla e non inesistente, il che – secondo i principi costantemente affermati anche da questa Corte – le avrebbe al più consentito di proporre l’opposizione tardiva al decreto ingiuntivo, ai sensi dell’art. 650 c.p.c., ma non l’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c..

La corte di appello ha ritenuto inammissibile la censura relativa a tale capo della decisione di primo grado, svolta con il secondo motivo dell’appello, in quanto la società appellante si era limitata a ribadire il mancato perfezionamento della notificazione del decreto ingiuntivo, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., per l’omesso invio della comunicazione di deposito dell’atto con lettera raccomandata, senza in tal modo però intaccare il fondamento giuridico della decisione contestata.

Con il motivo di ricorso in esame, la ricorrente sostiene, in modo peraltro decisamente confuso, che vi sarebbe una omissione di decisione da parte dei giudici di secondo grado e, al tempo stresso, che la decisione sarebbe viziata per violazione degli artt. 140 e 479 c.p.c., assumendo che avrebbe dovuto essere quanto meno valutata la corretta notificazione del titolo esecutivo, imposta dall’art. 479 c.p.c., ai fini della regolarità dell’esecuzione.

Orbene, la censura in questione difetta in primo luogo di specificità, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in quanto non viene richiamato il preciso contenuto dell’atto di appello in relazione al punto controverso, il che impedisce di verificare la correttezza della valutazione di inammissibilità di esso operata dalla corte di appello.

Inoltre, la ricorrente, insistendo sulla irregolarità della notificazione del decreto ingiuntivo, non pare cogliere e, di conseguenza, contestare – in modo adeguato l’effettiva ratio decidendi posta alla base del provvedimento impugnato, attinente esclusivamente all’ammissibilità del gravame, non al merito di esso.

Viene d’altronde posta, nella sostanza, a fondamento del motivo di ricorso (per quanto è dato comprendere dalla confusa esposizione) la questione della regolare notificazione del titolo esecutivo ai sensi dell’art. 479 c.p.c., questione che non è oggetto della decisione impugnata, senza che sia dedotto e specificamente documentato se, ed eventualmente in quali atti ed in quale fase del giudizio di merito essa era stata già avanzata e in relazione alla quale, costituendo essa motivo di opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell’art. 617 c.p.c., l’appello sarebbe stato comunque inammissibile.

  1. Il ricorso è dichiarato inammissibile.

Nulla è a dirsi con riguardo alle spese del giudizio non avendo la parte intimata svolto attività difensiva nella presente sede. Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte:

– dichiara inammissibile il ricorso;

– nulla per le spese.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2020.

Cass. civ. Sez. VI_3 Ord. 14_02_2020 n. 3716




Esecuzione forzata e contestuale proposizione di opposizione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. e dell’art. 617 c.p.c.

Esecuzione forzata e contestuale proposizione di opposizione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. e dell’art. 617 c.p.c.

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, Ordinanza n. 3722 del 14/02/2020

Con ordinanza del 14 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, in merito di recupero crediti ha stabilito che In tema di esecuzione forzata, in caso di contestuale proposizione di opposizione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. e dell’art. 617 c.p.c., ove vengano decisi solo i motivi qualificabili come opposizione agli atti esecutivi, la denunzia di omessa pronunzia sugli altri motivi, integranti opposizione all’esecuzione, va proposta mediante appello e non con ricorso straordinario per cassazione.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, Ordinanza n. 3722 del 14/02/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero __ del ruolo generale dell’anno __, proposto da:

M. – ricorrente –

nei confronti di

D. – controricorrente –

nonché

B. S.p.A. – intimato –

per la cassazione della sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere n. __, pubblicata in data __ (notificata in data __);

udita la relazione sulla causa svolta nella camera di consiglio in data __ dal consigliere Dott. __.

Svolgimento del processo

che:

  1. ha promosso l’esecuzione forzata – nelle forme del pignoramento presso terzi – nei confronti di M., sulla base di un titolo esecutivo di formazione giudiziale. La debitrice esecutata ha proposto opposizione.

Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, qualificata l’opposizione in termini di opposizione agli atti esecutivi, ai sensi dell’art. 617 c.p.c., l’ha dichiarata inammissibile in quanto proposta tardivamente.

Ricorre M., sulla base di quattro motivi.

Resiste con controricorso il D.

Non ha svolto attività difensiva in questa sede l’altro intimato. È stata disposta la trattazione in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375, 376 e 380 bis c.p.c., in quanto il relatore ha ritenuto che il ricorso fosse destinato ad essere dichiarato inammissibile.

È stata quindi fissata con decreto l’adunanza della Corte, e il decreto è stato notificato alle parti con l’indicazione della proposta.

La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 2, e ha chiesto l’assegnazione del ricorso alla Sezioni Unite ai sensi dell’art. 376 c.p.c., comma 2, e dell’art. 139 disp. att. c.p.c.

L’istanza è stata disattesa dal Primo Presidente della Corte, che ha confermato l’assegnazione a questa Sezione.

Il Collegio ha disposto che sia redatta motivazione in forma semplificata.

Motivi della decisione

che:

  1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 615 e 617 c.p.c., in relazione all’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. Secondo la ricorrente, la propria opposizione avrebbe dovuto essere qualificata come opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. e non come opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell’art. 617 c.p.c.

Il motivo è inammissibile.

Occorre in primo luogo rilevare che la ricorrente si limita a censurare l’erronea qualificazione della domanda da parte del giudice di primo grado, ma non chiarisce in che termini tale erronea qualificazione le avrebbe determinato un concreto pregiudizio. Ciò determina un oggettivo difetto di specificità della censura, che ne impedisce in radice l’esame nel merito. In ogni caso, si tratta di una censura che non potrebbe avere alcun concreto rilievo ai fini della decisione della controversia in termini favorevoli alla ricorrente.

Dalla trascrizione del contenuto dell’atto di opposizione, operato dalla stessa ricorrente (cfr. pag. __ del ricorso) emerge in effetti che, in realtà, questa aveva proposto due distinte opposizioni: a) una opposizione all’esecuzione, ai sensi dell’art. 615 c.p.c., avendo contestato l’esistenza di un titolo esecutivo nei propri confronti (ciò in quanto il titolo esecutivo si era formato, a suo dire, in danno di un’altra, diversa, persona fisica); b) una opposizione agli atti esecutivi, ai sensi dell’art. 617 c.p.c., avendo altresì contestato l’irregolare notificazione dell’atto di pignoramento e degli atti prodromici allo stesso.

Il tribunale ha qualificato correttamente e deciso esclusivamente questa seconda opposizione (cfr. a pag. __, righe finali e pag. __ della sentenza impugnata, là dove si afferma che era stata esclusivamente eccepita dalla debitrice esecutata l’irregolare notificazione del pignoramento), dichiarandola inammissibile perché tardivamente proposta.

Ha invece del tutto omesso di prendere in considerazione, di qualificare e di decidere l’altro motivo di opposizione, effettivamente qualificabile in termini di opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c.: non si tratta cioè di una erronea qualificazione di un unico motivo di opposizione, ma di una radicale omissione di pronuncia in relazione ad uno dei diversi motivi di opposizione avanzati dalla debitrice (basti considerare che il tribunale neanche riferisce della censura diretta a contestare l’efficacia soggettiva del titolo esecutivo in quanto emesso in danno di un diverso soggetto e che la decisione finale contiene solo una dichiarazione di inammissibilità per tardività dell’opposizione, statuizione neanche concepibile per una opposizione all’esecuzione).

Orbene, per quanto riguarda l’opposizione agli atti esecutivi, ai sensi dell’art. 617 c.p.c., la qualificazione del tribunale è corretta, onde la presente censura non potrebbe ritenersi in nessun caso fondata (mentre la concreta decisione assunta in ordine alla suddetta opposizione agli atti esecutivi è oggetto dei successivi motivi del ricorso).

Per quanto poi riguarda l’opposizione all’esecuzione, in relazione alla quale è ravvisabile – come già rilevato – non una erronea qualificazione della domanda, ma una completa omissione di pronuncia, le censure contenute nel motivo di ricorso in esame non sembrano specificamente dirette a denunziare un siffatto vizio. In ogni caso, se anche le si potesse intendere in tale ultimo senso, esse sarebbero comunque inammissibili, dal momento che l’impugnazione del vizio di omissione di pronuncia sul motivo di opposizione qualificabile come opposizione all’esecuzione avrebbe dovuto essere proposta con l’appello e non con il ricorso straordinario per cassazione (cfr. in proposito, Cass., Sez. 3, Sentenza n. 14661 del 18/07/2016, Rv. 640586 – 01: “in tema di esecuzione forzata, in caso di contestuale proposizione di opposizione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. e dell’art. 617 c.p.c., ove vengano decisi solo i motivi qualificabili come opposizione agli atti esecutivi, la denunzia di omessa pronunzia sugli altri motivi, integranti opposizione all’esecuzione, va proposta mediante appello e non con ricorso straordinario per cassazione”; in senso sostanzialmente conforme: Sez. 3, Sentenza n. 18312 del 27/08/2014, Rv. 632102 – 01).

È infine appena il caso di osservare che, in relazione ai principi di diritto fin qui esposti, non sussiste alcun contrasto nella giurisprudenza di questa Corte e che pertanto, come del resto già chiaramente statuito dal Primo Presidente, non sussistono i presupposti per la rimessione del ricorso alla Sezioni Unite.

  1. Con il secondo motivo si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 479 c.p.c., comma 3, art. 480 c.p.c., comma 2, e art. 543 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 137 c.p.c. e art. 6 c.c., comma 3, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Con il terzo motivo si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 480 c.p.c., comma 1, e art. 482 c.p.c. in relazione all’art. 156 c.p.c., comma 3, e art. 160 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Con il quarto motivo si denunzia “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ch’è stato oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

Il secondo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso hanno ad oggetto il merito della decisione adottata dal tribunale in relazione all’opposizione agli atti esecutivi, con la quale era stata dedotta l’irregolarità della procedura esecutiva per insanabili vizi di notificazione dell’atto di pignoramento e degli atti prodromici allo stesso.

I suddetti motivi possono essere esaminati congiuntamente. Essi sono infatti tutti inammissibili, in quanto non colgono e, di conseguenza, non contengono alcuna diretta critica alla effettiva ratio decidendi posta alla base del provvedimento impugnato.

Il tribunale, qualificata l’opposizione diretta a contestare la regolare notificazione degli atti sopra indicati come opposizione agli atti esecutivi, non l’ha affatto decisa nel merito, ma ne ha ravvisato l’inammissibilità, per la sua tardiva proposizione (è appena il caso di osservare che le affermazioni contenute nella sentenza impugnata in merito alla possibile sanatoria del vizio di irregolare notificazione di un atto, anche esecutivo, per il raggiungimento del suo scopo, risultano del tutto ultronee nell’ottica della decisione, non svolgendo di fatto alcun concreto rilievo ai fini della statuizione finale, che è di mera inammissibilità dell’opposizione, in quanto tardivamente proposta, non di sua infondatezza).

Le censure contenute nei motivi di ricorso in esame non contengono dunque alcuna censura in ordine alla effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata.

La ricorrente non allega in alcun modo che la sua opposizione agli atti esecutivi sarebbe stata in realtà proposta tempestivamente, ma si limita ad esporre una serie di argomentazioni volte in definitiva a sostenere la fondatezza nel merito di essa. 3. Il ricorso è dichiarato inammissibile.

Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo. Esse vanno distratte in favore del procuratore della parte controricorrente, che ha reso la prescritta dichiarazione di anticipo ai sensi dell’art. 93 c.p.c.

Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012 n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte:

– dichiara inammissibile il ricorso;

– condanna la ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente, liquidandole in complessivi Euro __, oltre Euro __ per esborsi, spese generali ed accessori di legge, con distrazione in favore dell’avvocato __.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2019.

Depositato in cancelleria il 14 febbraio 2020.

 

Cass. civ. Sez. VI_3 Ord. 14_02_2020 n. 3722