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La determinazione delle somme dovute per la conversione del pignoramento

La determinazione delle somme dovute per la conversione del pignoramento: si deve tenere conto anche dei creditori intervenuti successivamente alla relativa istanza

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, Ordinanza n. 411 del 13/01/2020

Con ordinanza del 13 gennaio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, in merito di recupero crediti ha stabilito che in tema di esecuzione immobiliare, nella determinazione delle somme dovute per la conversione del pignoramento, si deve tenere conto anche dei creditori intervenuti successivamente alla relativa istanza, fino all’udienza nella quale il giudice provvede (ovvero si riserva di provvedere) sulla medesima con l’ordinanza di cui dell’art. 495, comma 3, c.p.c. Tali interventi, peraltro, non incidono ex post sull’ammissibilità della domanda, con specifico riferimento alla quantificazione dell’importo che deve essere versato, a titolo cauzionale, al momento di presentazione della stessa.


 

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, Ordinanza n. 411 del 13/01/2020

La determinazione delle somme dovute per la conversione del pignoramento: si deve tenere conto anche dei creditori intervenuti successivamente alla relativa istanza

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

C. – ricorrente –

contro

E. S.r.l. – controricorrente –

I. S.p.A. – controricorrente –

U. S.p.A. – intimata –

avverso la sentenza n. __ del Tribunale di Viterbo, depositata il __;

letta la proposta formulata dal Consigliere relatore ai sensi degli artt. 376 e 380-bis c.p.c.;

letti il ricorso, il controricorso e le memorie difensive;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del __ dal Consigliere Dott. _.

Svolgimento del processo

C., debitore esecutato, in data __ faceva richiesta di conversione del pignoramento ex art. 495 c.p.c. Il giudice dell’esecuzione fissava per il giorno __ l’udienza per provvedere sull’istanza. In data __ nel processo esecutivo interveniva anche I. S.p.A.

Il giudice dell’esecuzione, nel determinare le somme dovute per la conversione del pignoramento, teneva in conto anche il credito di I. S.p.A. Contro la relativa ordinanza C. proponeva opposizione, sostenendo che l’intervento fosse tardivo o comunque dovesse considerarsi irrilevante ai fini della istanza di conversione.

Il giudice dell’esecuzione rigettava l’istanza di sospensione e disponeva per la prosecuzione del giudizio. C. introduceva nel merito il giudizio di opposizione agli atti esecutivi, a conclusione del quale il Tribunale di Viterbo rigettava l’opposizione, con condanna dell’opponente alle spese processuali.

Avverso tale sentenza C. ha proposto ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., fondato su un unico motivo. I. S.p.A. ed E. S.p.A. hanno resistito con controricorso. U. S.p.A., invece, non ha svolto attività difensiva.

Il consigliere relatore, ritenuta la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 380-bis c.p.c. (come modificato dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, comma 1, art. 1-bis, lett. e), conv. con modif. dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197), ha formulato proposta di trattazione del ricorso in camera di consiglio non partecipata.

Motivi della decisione

In considerazione dei motivi dedotti e delle ragioni della decisione, la motivazione del presente provvedimento può essere redatta in forma semplificata.

Il ricorso è manifestamente infondato.

Esso, infatti, non illustra alcuna ragione per distaccarsi dall’orientamento di questa Corte secondo cui, nella determinazione delle somme dovute per la conversione del pignoramento, si deve tenere conto anche dei creditori intervenuti successivamente all’istanza, fino all’udienza in cui il giudice provvede (ovvero si riserva di provvedere) sulla stessa con l’ordinanza di cui dell’art. 495 c.p.c., comma 3 (Sez. 3, Sentenza n. 940 del 24/01/2012, Rv. 621379).

In particolare, il creditore sostiene che una simile interpretazione finirebbe col frustrare le finalità dell’istituto della conversione del pignoramento, che è finalizzato a favorire la liberazione del debitore mediante lo spontaneo pagamento dei crediti ritualmente ammessi nel processo esecutivo alla data di presentazione dell’istanza.

In realtà, il citato orientamento tiene conto del principio della par condicio creditorum, a mente della quale tutti i creditori hanno pari diritto a soddisfarsi sui beni del comune debitore in proporzione ai rispettivi crediti (art. 2741 c.c.). Tale principio, dal quale deriva la regola della concorsualità, esprime un atteggiamento di favore del legislatore verso gli interventi tempestivi nel processo esecutivo, quali strumenti volti a favorire la contemporanea soddisfazione di tutti i creditori.

Deve quindi concludersi che, diversamente da quanto sostiene il ricorrente, l’ordinamento non ritiene affatto di favorire il debitore nella possibilità di liberare i propri beni dal vincolo del pignoramento pagando solo parte dei creditori intervenuti nel processo esecutivo. La conversione del pignoramento, quale strumento integralmente satisfattivo delle ragioni dei creditori, non può non tener conto del credito per il quale è stato fatto atto di intervento in data anteriore a quella in cui il giudice dell’esecuzione, provvedendo sull’istanza, determinando l’ammontare complessivo delle somme occorrenti per la piena estinzione di tutti i crediti.

Resta da osservare che l’intervento nel processo esecutivo effettuato in data successiva all’istanza di conversione del pignoramento, ma anteriormente all’udienza fissata per provvedere su di essa, ovviamente non incide ex post sull’ammissibilità della domanda, con specifico riferimento all’osservanza dell’onere di accompagnare la stessa con il versamento di una somma pari ad un quinto del credito per cui è stato eseguito il pignoramento e dei crediti dei creditori intervenuti. La commisurazione dell’importo che, a titolo cauzionale, deve accompagnare l’istanza di conversione del pignoramento va rapportata all’ammontare dei crediti insinuati nella procedura esecutiva alla data di presentazione dell’istanza medesima, mentre di quelli successivamente intervenuti si dovrà tenere conto nell’ordinanza con la quale il giudice dell’esecuzione determina la somma da sostituire al bene pignorato ai sensi dell’art. 495 c.p.c., comma 3. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, nella misura indicata nel dispositivo.

Ricorrono altresì i presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, sicché va disposto il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, di un ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello già dovuto per l’impugnazione da lui proposta.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore delle società controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida per ciascuna in Euro __ per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 14 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2020.

 

Cass. civ. Sez. VI - 3 Ord. 13_01_2020 n. 411




Concordato preventivo: la regola generale pagamento creditori privilegiati

Concordato preventivo: la regola generale è quella del pagamento non dilazionato dei creditori privilegiati

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 1, Ordinanza n. 2422 del 04/02/2020

Con ordinanza del 04 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 1, in tema di concordato preventivo ha stabilito che la regola generale è quella del pagamento non dilazionato dei creditori privilegiati, sicché l’adempimento con una tempistica superiore a quella imposta dai tempi tecnici della procedura equivale ad una soddisfazione non integrale degli stessi, in ragione della perdita economica conseguente al ritardo rispetto ai tempi normali con il quale i creditori conseguono le somme dovute. La determinazione in concreto di tale perdita, rilevante ai fini del computo del voto ex art. 177, comma 3, L.F., costituisce un accertamento in fatto che il giudice di merito deve compiere alla luce della relazione giurata del professionista ex art. 160, secondo comma, L.F., tenendo conto degli eventuali interessi offerti ai creditori e dei tempi tecnici di liquidazione dei beni gravati dal privilegio in ipotesi di soluzione della crisi alternativa al concordato.


 

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 1, Ordinanza n. 2422 del 04/02/2020

Concordato preventivo: la regola generale è quella del pagamento non dilazionato dei creditori privilegiati

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – C. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) S.r.l.  – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – controricorrente –

Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ancona e Procura della Repubblica presso la Corte d’Appello di Ancona – intimati –

per la cassazione della sentenza App. Ancona __, n. __, R.G. __, rep. __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del giorno __ dal Consigliere relatore Dott. __;

il Collegio autorizza la redazione del provvedimento in forma semplificata, giusto decreto del __, n. __ del Primo Presidente.

Svolgimento del processo

Rilevato che:

  1. (OMISSIS) S.r.l. impugna la sentenza App. Ancona __, n. __, R.G. __, rep. __, che, rigettando il reclamo avverso la sentenza di fallimento Tribunale di Ancona __, pronunciata unitamente alla dichiarazione d’inammissibilità del concordato preventivo proposto dalla società e sul riunito reclamo altresì avverso il decreto di apertura del procedimento di revoca del concordato, ha ritenuto la correttezza della valutazione di non fattibilità già giuridica del piano in continuità diretta;
  2. per la corte è incompatibile con il sistema dei privilegi il disallineamento temporale tra le vendite di immobili gravati da ipoteche (unica fonte di autofinanziamento) e il pagamento dei relativi creditori garantiti, pagati solo a distanza di tempo, cioè dopo l’esaurimento di un complesso ciclo economico inclusivo del completamento di immobili in costruzione e poi nuove costruzioni, a sua volta eccedente la ragionevolezza, poiché collocato a sei anni e mezzo; la conseguente violazione della clausola di salvaguardia della L.F., art. 186-bis, comma 2, lett. c), era dunque manifestata dal non rimanere i beni nel patrimonio del debitore, poiché venduti ma senza destinazione di realizzo immediato ai detti creditori prelazionari, eventualità non sopperibile con l’attribuzione di voto, contraddetta tra l’altro – dalle previsioni di copertura, proprio con quei flussi, dei costi di costruzione programmati e non suffragata da un’attendibilità dell’attestazione, del tutto illogica perché smentita dalle incertezze del citato lungo periodo di produzione dei beni; era poi rilevato il limite dell’esposizione di un credito verso una società a sua volta fallita, così recependosi le argomentazioni del tribunale e le conclusioni del P.M.;
  3. con il ricorso, in due motivi, si contesta la decisione denunciando violazione degli artt. 160 – 186-bisL.F. ed il vizio di motivazione, avuto riguardo alla violazione dell’art. 277 c.p.c. e art. 177 L.F., avendo la sentenza errato nel negare la dilazione di pagamento ai creditori ipotecari nonostante la previa vendita degli immobili, ancora in parte destinati alla continuazione dell’attività edilizia, con compensazione data dal diritto di voto, affermando la irragionevolezza di un piano in realtà a meno di 5 anni; la corte avrebbe poi errato nel confondere fattibilità economica, rimessa al giudizio dei creditori, con fattibilità giuridica, impedendo sul punto la votazione e omettendo di pronunciarsi sulle problematiche urbanistiche dell’aumento di cubatura connesse all’inoperatività del vincolo sull’immobile oggetto dell’operazione; la curatela resiste con controricorso e ha depositato memoria.

Motivi della decisione

Considerato che:

  1. il primo motivo è inammissibile, posto che, con apprezzamento di fatto non sindacabile in questa sede, la corte anconetana ha riscontrato, in una cornice di durata non dominabile da serie prognosi di fattibilità, una separazione temporale tra l’epoca prevista per la vendita dei beni immobili oggetto della proposta concordataria e il pagamento dei creditori assistiti da cause di prelazione sugli stessi, ciò di per sé vanificando la clausola di salvaguardia dettata della L.F., art. 186-bis, comma 2, lett. c), che, per essi, preclude il voto e dunque la misura partecipativo-compensativa dell’omesso pagamento immediato ogni qual volta il concordato, in fatto e come riscontrato, si risolva in una liquidazione dei beni o diritti su cui sussiste la causa di prelazione; va così data continuità all’indirizzo per cui in materia di concordato preventivo, la regola generale è quella del pagamento non dilazionato dei creditori privilegiati, sicché l’adempimento con una tempistica superiore a quella imposta dai tempi tecnici della procedura (e della liquidazione, in caso di concordato cosiddetto liquidativo) equivale a soddisfazione non integrale degli stessi in ragione della perdita economica conseguente al ritardo, rispetto ai tempi normali, con il quale i creditori conseguono la disponibilità delle somme ad essi spettanti. La determinazione in concreto di tale perdita, rilevante ai fini del computo del voto L.F., ex art. 177, comma 3, costituisce un accertamento in fatto che il giudice di merito deve compiere alla luce della relazione giurata L.F., ex art. 160, comma 2, tenendo conto degli eventuali interessi offerti ai creditori e dei tempi tecnici di realizzo dei beni gravati in ipotesi di soluzione alternativa al concordato, oltre che del contenuto concreto della proposta nonché della disciplina degli interessi di cui agli artt. 54 e 55 L.F. (richiamata dall’art. 169 L.F.) (Cass. 10112/2014, 3482/2016); a sua volta Cass. 20388/2014 ha puntualizzato che ove sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, i creditori muniti di cause di prelazione non hanno diritto al voto, trattandosi di esclusione che opera come una sorta di moratoria coatta paragonabile a quella di cui all’abrogato istituto dell’amministrazione controllata; tale affermazione conferma, a contrario, che per i concordati senza continuità aziendale vige il principio generale sancito dalla L.F., art. 177, comma 3 secondo il quale i creditori muniti di diritto di prelazione di cui la proposta di concordato prevede, ai sensi dell’art. 160, la soddisfazione non integrale, sono equiparati ai chirografari per la parte residua del credito;
  2. avendo riguardo al secondo motivo, la sua inammissibilità discende dalla constatazione per cui la corte, con la medesima cogenza in questa sede dell’insegnamento di Cass. SS.UU. 8053/2014, non ha solo negato l’allineamento temporale fra liquidazione e pagamento ai creditori ipotecari, ma ha posto in evidenza che, oltre i cd. tempi tecnici, le operazioni liquidatorie erano essenziali oltretutto in un concordato proposto con pagamento per intero a tutti i creditori – allo stesso autofinanziamento del debitore, che solo attraverso quella liquidazione era in grado di sovvenzionare le ulteriori attività del piano; sul punto, il ricorso, così peccando di specificità, non ha indicato gli indici di corrispondenza in termini di valore nella considerazione del conseguente credito differito nel pagamento ed ai sensi della collocazione in classe e nel voto, avendo il motivo introdotto e piuttosto una questione di fatto; occorre d’altronde osservare che un conto è – anche in ogni altra prospettiva strumentalmente liquidatoria – la nozione di tempi tecnici della procedura o della liquidazione, un altro e ben diverso conto è l’assunzione, con il ricavato della liquidazione, di un rinnovato rischio d’impresa, come nella sostanza accertato dal giudice di merito, per via del reimpiego delle somme nel frattempo ricavate non nel pagamento dei creditori muniti di prelazione sui beni alienati ma in altre operazioni economiche, trattandosi di traslazione oggettiva del rischio incompatibile con lo statuto di tali creditori; va allora ripetuto che in tema di concordato preventivo, il tribunale è tenuto ad una verifica diretta del presupposto di fattibilità del piano per poter ammettere il debitore alla relativa procedura, nel senso che, mentre il controllo di fattibilità giuridica non incontra particolari limiti, quello concernente la fattibilità economica, intesa come realizzabilità di esso nei fatti, può essere svolto nei limiti della verifica della sussistenza, o meno, di una manifesta inettitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati, individuabile caso per caso in riferimento alle specifiche modalità indicate dal proponente per superare la crisi (con ciò ponendosi il giudice nella prospettiva funzionale, propria della causa concreta). Tali principi vengono maggiormente in rilievo nell’ipotesi di concordato con continuità aziendale ex art. 186-bisL.F., laddove la rigorosa verifica della fattibilità in concreto presuppone un’analisi inscindibile dei presupposti giuridici ed economici, dovendo il piano con continuità essere idoneo a dimostrare la sostenibilità finanziaria della continuità stessa, in un contesto in cui il favor per la prosecuzione dell’attività imprenditoriale è accompagnato da una serie di cautele inerenti il piano e l’attestazione, tese ad evitare il rischio di un aggravamento del dissesto ai danni dei creditori, al cui miglior soddisfacimento la continuazione dell’attività non può che essere funzionale (Cass. 9061/2017); invero la previsione dell’art. 186-bisL.F., ove attribuisce al tribunale il potere di revocare l’ammissione al concordato in continuità qualora l’esercizio dell’attività di impresa risulti manifestamente dannosa per i creditori, esula dalla valutazione della convenienza economica della proposta concordataria riservata, quando essa non sia implausibile, all’accettazione dei creditori, sicché spetta al Tribunale, per i fini della pronuncia di revoca, la verifica dell’andamento dei flussi di cassa e del conseguente indebitamento, tale da erodere le prospettive di soddisfazione del ceto creditorio (Cass. 23315/2018);
  3. il ricorso è, pertanto, inammissibile; si dà atto – mancando ogni discrezionalità al riguardo (cfr., tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra molte altre: Cass., Sez., U. 27/11/2015, n. 24245; Cass., Sez., U. 20/06/2017, n. 15279) – della sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione: norma in forza della quale il giudice dell’impugnazione è vincolato, pronunziando il provvedimento che definisce quest’ultima, a dare atto della sussistenza dei presupposti (rigetto integrale o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) per il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto, per l’impugnazione proposta, a norma del comma 1-bis del detto art. 13.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in favore del controricorrente in Euro 5.000, per compensi ed Euro 100 per esborsi, oltre oneri accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei medesimi ricorrenti ed in via solidale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, giusta il comma 1-bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2020.

Cass. civ. Sez. VI Sott. 1 Ord. 04_02_2020 n. 2422




Con la dichiarazione di fallimento, il contratto di appalto si scioglie

Con la dichiarazione di fallimento, il contratto di appalto si scioglie

Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Civili, Sentenza n. 5685 del 02/03/2020

Con sentenza del 2 marzo 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Civili, in tema di recupero crediti ha stabilito che in caso di fallimento dell’appaltatore di opera pubblica, il meccanismo delineato dall’art. 118, comma 3 del D.Lgs. 12 aprile 2006 n. 163, che consente alla stazione appaltante di sospendere i pagamenti in favore dell’appaltatore, in attesa delle fatture dei pagamenti effettuati da quest’ultimo al subappaltatore, deve ritenersi riferito all’ipotesi in cui il rapporto di appalto sia in corso con un’impresa in bonis e, dunque, non è applicabile nel caso in cui, con la dichiarazione di fallimento, il contratto di appalto si scioglie; ne consegue che al curatore è dovuto dalla stazione appaltante il corrispettivo delle prestazioni eseguite fino all’intervenuto scioglimento del contratto e che il subappaltatore deve essere considerato un creditore concorsuale dell’appaltatore come gli altri, da soddisfare nel rispetto della par condicio creditorum e dell’ordine delle cause di prelazione.


Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Civili, Sentenza n. 5685 del 02/03/2020

Con la dichiarazione di fallimento, il contratto di appalto si scioglie

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Primo Presidente –

Dott. __ – Presidente di Sez. –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

B. S.r.l. – ricorrente –

contro

FALLIMENTO (OMISSIS) S.p.A. – controricorrente –

avverso il decreto n. __ del TRIBUNALE di BERGAMO, depositato il __.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere Dott. __;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi gli avvocati __ e __ per delega dell’avvocato __.

Svolgimento del processo

1.- Il giudice delegato al Fallimento (OMISSIS) S.r.l., ammettendo al passivo della procedura i crediti vantati dalla B. s.r.l. in via chirografaria, respingeva la richiesta di collocazione in prededuzione avanzata da quest’ultima, quale subappaltatrice di lavori pubblici commissionati alla (OMISSIS) dal Consorzio M.

2.- L’opponente Bonotto deduceva che la mancata trasmissione delle fatture quietanzate alla stazione appaltante determinava la sospensione del pagamento a favore dell’appaltatrice (OMISSIS), a norma del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, art. 118 (codice degli appalti, d’ora in avanti “codice del 2006”), e giustificava l’ammissione del proprio credito in prededuzione, in quanto funzionale agli interessi della massa fallimentare.

3.- Il Tribunale di Bergamo, con decreto del __, rigettava l’opposizione.

3.1.- Ad avviso del tribunale, il fallimento dell’appaltatore provoca l’automatico venir meno del vincolo negoziale e, di conseguenza, l’inapplicabilità dell’art. 118 citato, anche alla luce delle modifiche normative introdotte dal D.L. 23 dicembre 2013, n. 145, convertito in L. 21 febbraio 2014, n. 9, dalle quali si desume che presupposto dell’art. 118 codice appalti è la vigenza del contratto di appalto tra la stazione appaltante e l’appaltatore. Ed anche a ragionare in termini di funzionalità del credito rispetto allo scopo di incrementare la massa nell’interesse del ceto creditorio, l’ammissione del credito in prededuzione non comporta il pagamento immediato da parte della stazione appaltante, potendo esso avvenire solo a seguito del riparto, a norma della L.F., art. 111 bis.

4.- Avverso questo decreto la Bonotto ha proposto ricorso per cassazione, illustrato da memoria, resistito dal Fallimento (OMISSIS).

5.- Con due motivi di ricorso, tra loro connessi, la società Bonotto denuncia violazione e falsa applicazione della L.F., art. 111 e D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 118, comma 3 e omesso esame di un fatto decisivo, imputando al tribunale di avere, negando la prededuzione, disatteso senza motivazione alcuna, o con motivazione non conferente, il principio di diritto espresso da questa Corte con la sentenza n. 3402 del 2012, a sostegno del quale sviluppa le seguenti considerazioni:

la società (OMISSIS) era stata dichiarata fallita con sentenza del 10 ottobre 2013, ossia in data precedente all’introduzione delle novità normative di cui al D.L. n. 145 del 2013, convertito con modificazioni dalla L. n. 9 del 2014, dunque inapplicabili nella fattispecie, tanto più che esse prevedevano il pagamento diretto da parte della stazione appaltante al subappaltatore, mentre nella fattispecie veniva in rilievo il pagamento al subappaltatore da parte dell’appaltatore (in moneta fallimentare);

l’art. 118, comma 3, codice del 2006 è posto a tutela del subappaltatore, che è parte debole del rapporto contrattuale, in modo da assicurare la tempestiva soddisfazione dei suoi crediti nei confronti dell’appaltatore;

nella specie, per effetto della comunicazione del mancato pagamento da parte della subappaltatrice (avvenuta a maggio e giugno 2013), la stazione appaltante aveva sospeso i pagamenti a favore della (OMISSIS) quando il contratto di appalto era in vigore;

la sospensione dei pagamenti e il venir meno del contratto di appalto, a seguito del fallimento dell’appaltatrice, non comportano che il credito della (OMISSIS) verso la stazione appaltante si sia estinto per effetto della dichiarazione di fallimento, visto che, pur in caso di risoluzione ex nunc del contratto di appalto, il credito della fallita resta da soddisfare, una volta verificatasi la condizione della trasmissione della quietanza dell’avvenuto pagamento alla subappaltatrice;

la riscossione del credito da parte di quest’ultima è funzionale alla gestione fallimentare, rappresentando la condizione del pagamento che l’appaltatrice fallita deve ricevere dalla stazione appaltante;

per escludere il beneficio derivante dalla prededuzione per la massa dei creditori non rileva che il pagamento al subappaltatore debba avvenire a seguito di riparto L.F., ex art. 111 bis.

6.- Il Collegio della la sez. civ., con ordinanza interlocutoria del 12 luglio 2019, ha rimesso all’esame delle Sezioni Unite la questione, sulla quale ha registrato un contrasto di giurisprudenza all’interno della sezione, riguardante le modalità di soddisfacimento del credito del subappaltatore di opera pubblica nei confronti dell’appaltatore in caso di fallimento di quest’ultimo e, in particolare, se, ove residui un credito dell’appaltatore verso l’amministrazione appaltante e l’amministrazione abbia in base al contratto opposto la condizione di esigibilità di cui all’art. 118 del codice del 2006, il curatore, che voglia incrementare l’attivo, debba subire o meno, sul piano della concreta funzionalità rispetto agli interessi della massa, la prededuzione del subappaltatore.

Motivi della decisione

1.- La questione rimessa al vaglio delle Sezioni Unite attiene alla configurabilità o meno di un nesso intercorrente tra il disposto dell’art. 118, comma 3, del codice del 2006 (D.Lgs. n. 163 del 2006) – nel testo vigente anteriormente alle modifiche apportate dal D.L. 23 dicembre 2013, n. 145 (in vigore dal 24 dicembre 2013), convertito con modificazioni dalla L. 21 febbraio 2014, n. 9 (in vigore dal 22 febbraio 2014), tenuto conto che la sentenza di fallimento della (OMISSIS) è del 10 ottobre 2013, l’istanza di insinuazione al passivo è del 19 novembre 2013, la decisione del giudice delegato che ha negato la prededuzione è dell’11 febbraio 2014 – e l’istituto fallimentare della prededuzione di cui alla L.F., art. 111, u.c., secondo il quale sono prededucibili i crediti così qualificati da una specifica disposizione di legge e quelli sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali.

1.1.- L’art. 118, citato comma 3 del codice del 2006, anticipato dalla L. 19 marzo 1990, n. 55, art. 18, comma 3 e successivamente abrogato dal codice del 2016 (D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, art. 217, d’ora in avanti “codice del 2016”), prevedeva che “Nel bando di gara la stazione appaltante indica che provvederà a corrispondere direttamente al subappaltatore o al cottimista l’importo dovuto per le prestazioni dagli stessi eseguite o, in alternativa, che è fatto obbligo agli affidatari di trasmettere, entro venti giorni, dalla data di ciascun pagamento effettuato nei loro confronti, copia delle fatture quietanzate relative ai pagamenti da essi affidatari corrisposti al subappaltatore o cottimista, con l’indicazione delle ritenute di garanzia effettuate. Qualora gli affidatari non trasmettano le fatture quietanzate del subappaltatore o del cottimista entro il predetto termine, la stazione appaltante sospende il successivo pagamento a favore degli affidatari. Nel caso di pagamento diretto, gli affidatati comunicano alla stazione appaltante la parte delle prestazioni eseguite dal subappaltatore o dal cottimista, con la specificazione del relativo importo e con proposta motivata di pagamento”.

Il D.L. n. 145 del 2013, art. 13, comma 10, lett. a)-b), convertito con modificazioni dalla L. n. 9 del 2014, ha aggiunto all’art. 118 del codice del 2006, comma 3, il seguente periodo: “Ove ricorrano condizioni di crisi di liquidità finanziaria dell’affidatario, comprovate da reiterati ritardi nei pagamenti dei subappaltatori o dei cottimisti, o anche dei diversi soggetti che eventualmente lo compongono, accertate dalla stazione appaltante, per il contratto di appalto in corso può provvedersi, sentito l’affidatario, anche in deroga alle previsioni del bando di gara, al pagamento diretto alle mandanti, alle società, anche consortili, eventualmente costituite per l’esecuzione unitaria dei lavori a norma dell’art. 93 del regolamento di cui al D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, nonché al subappaltatore o al cottimista dell’importo dovuto per le prestazioni dagli stessi eseguite”. E dopo il comma 3, ha inserito il comma 3 bis che così recita: “È sempre consentito alla stazione appaltante, anche per i contratti di appalto in corso, nella pendenza di procedura di concordato preventivo con continuità aziendale, provvedere ai pagamenti dovuti per le prestazioni eseguite dagli eventuali diversi soggetti che costituiscano l’affidatario, quali le mandanti, e dalle società, anche consortili, eventualmente costituite per l’esecuzione unitaria dei lavori a norma dell’art. 93 del regolamento di cui al D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, dai subappaltatori e dai cottimisti, secondo le determinazioni presso il Tribunale competente per l’ammissione alla predetta procedura”.

Il codice del 2016 attualmente prevede soltanto il pagamento diretto da parte della stazione appaltante al subappaltatore, al cottimista, al prestatore di servizi ed al fornitore di beni o lavori (dell’importo dovuto per le prestazioni dagli stessi eseguite nei seguenti casi: a) quando il subappaltatore o il cottimista è una microimpresa o piccola impresa; b) in caso di inadempimento da parte dell’appaltatore; c) su richiesta del subappaltatore e se la natura del contratto lo consente (art. 105, comma 13 e art. 174, comma 7, in tema di esecuzione delle concessioni, del codice del 2016).

2.- L’art. 108, comma 3, codice del 2006, applicabile nella fattispecie, riconosceva dunque alla stazione appaltante la facoltà di inserire nel bando di gara, in alternativa al pagamento diretto in favore del subappaltatore, l’obbligo dell’appaltatore di trasmettere alla stazione appaltante le fatture quietanzate dei pagamenti effettuati al subappaltatore e, in mancanza, di sospendere il pagamento successivo in favore dell’appaltatore da parte della stazione appaltante.

Nella giurisprudenza della Corte, a partire dalla sentenza n. 3402 del 2012, nel caso in cui la stazione appaltante abbia disposto la sospensione del pagamento a favore dell’appaltatore, si è ritenuto che l’unico modo per sbloccare detta sospensione sia quello di riconoscere al credito del subappaltatore il beneficio della prededuzione, al fine di favorire il pagamento da parte della stazione appaltante e, di conseguenza, di incrementare l’attivo della massa fallimentare, nell’interesse dell’intero ceto creditorio. Secondo quest’orientamento, il meccanismo configurato dall’art. 118, comma 3, determina una condizione di esigibilità del pagamento da parte della stazione appaltante anche in caso di sopravvenuto fallimento dell’appaltatore, con la conseguenza che il soddisfacimento del subappaltatore si pone quale momento imprescindibile, in quanto consente all’appaltatore (subappaltante) fallito di ottenere dalla stazione appaltante il pagamento del proprio credito. In questa prospettiva, la prededuzione è lo strumento che consente il soddisfacimento del credito del subappaltatore nei confronti dell’appaltatore fallito (senza dover attendere le operazioni di riparto in senso tecnico), in correlazione con l’interesse della massa a quel pagamento, utile e necessario per il conseguimento dello scopo della procedura.

Il principio enunciato dalla sentenza citata è dunque il seguente: “Ai fini della prededucibilità dei crediti nel fallimento, il necessario collegamento occasionale o funzionale con la procedura concorsuale, ora menzionato dalla L.F., art. 111, va inteso non soltanto con riferimento al nesso tra l’insorgere del credito e gli scopi della procedura, ma anche con riguardo alla circostanza che il pagamento del credito, ancorché avente natura concorsuale, rientri negli interessi della massa e dunque risponda agli scopi della procedura stessa, in quanto utile alla gestione fallimentare. Invero, la prededuzione attua un meccanismo satisfattorio destinato a regolare non solo le obbligazioni della massa sorte al suo interno, ma anche tutte quelle che interferiscono con l’amministrazione fallimentare ed influiscono sugli interessi dell’intero ceto creditorio. (Nella specie, è stato ammesso in prededuzione il credito, sorto in periodo anteriore al fallimento, relativo al corrispettivo di un subappalto concluso con il gruppo della società fallita, cui le opere erano state appaltate da un ente pubblico, sussistendo il nesso di strumentalità tra il pagamento del credito del subappaltatore, da eseguire con detta preferenza e seppur a seguito di riparto, e la soddisfazione del credito della fallita, tenuto conto che il pagamento di quest’ultimo risulta sospeso, ai sensi del D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 118, comma 3, da parte della stazione appaltante, ed invece può essere adempiuto se consti il pagamento al predetto subappaltatore)”.

Il suddetto orientamento (ribadito da Cass. n. 5705 del 2013) è stato precisato dalla giurisprudenza successiva che, da un lato, ha escluso che l’apertura di una procedura concorsuale determini in automatico il verificarsi della sospensione dei pagamenti – ed infatti il mancato pagamento all’appaltatore fallito è un fatto in sé stesso neutro, poiché è la dichiarazione dell’Amministrazione (appaltante) ad avere carattere costitutivo – e, dall’altro, ha osservato che l’onere della prova dell’avvenuta sospensione ricade sul soggetto che invoca la sospensione, mentre toccherà poi al curatore la prova del fatto estintivo costituito dallo spontaneo pagamento da parte dell’Amministrazione (Cass. n. 3203 del 2019).

Si è anche chiarito che il principio enunciato nel precedente del 2012 (n. 3402) “non va inteso (…) nel senso che un tal credito vada ammesso, sempre e comunque, in prededuzione (finendo per dar luogo ad una sorta di innominato privilegio) e ciò anche se la massa dei creditori non tragga alcuna concreta soddisfazione dall’esecuzione di quel pagamento (per il minor o nullo o incerto introito che a quel pagamento consegua). Al contrario, l’ammissione del credito del subappaltatore al passivo fallimentare in prededuzione potrà trovare riscontro solo se e in quanto esso comporti, per la procedura concorsuale, un sicuro ed indubbio vantaggio conseguente al pagamento del committente – P.A. il quale subordini il suo pagamento di una maggior somma alla quietanza del subappaltatore in ordine al proprio credito, ai sensi del D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 118, comma 3”; e si è aggiunto che “se sussiste effettivamente, in concreto, il beneficio per la massa dei creditori, la curatela non potrebbe che convergere con il creditore istante nel riconoscimento della sua posizione di vantaggio, al fine di estinguerlo proprio per fruire dei maggiori introiti a beneficio della massa creditoria” (Cass. n. 3003 del 2016; conformi Cass. n. 2310 e n. 7392 del 2017).

Due ordinanze del 2017 (n. 15479 e n. 19615), pur seguendo l’indirizzo inaugurato nel 2012 e successivamente precisato, contengono tuttavia un significativo obiter dictum, mirante a mettere in discussione quel medesimo indirizzo, laddove affermano che “il riconoscimento di una particolare tutela alle imprese subappaltatrici in appalti pubblici è indiscusso, ma attiene al loro rapporto con le imprese appaltatrici, non può incidere sugli interessi degli altri creditori concorsuali nel caso di fallimento di tali imprese. Sicché non può riconoscersi la prededuzione a un credito che non ha alcun rapporto né genetico né funzionale con la procedura concorsuale”.

3.- Il contrasto si è manifestato nella sentenza n. 33350 del 2018, il cui principio di diritto è stato così massimato: “In caso di fallimento dell’appaltatore di opera pubblica, il subappaltatore deve essere considerato un creditore concorsuale come tutti gli altri, nel rispetto della par condicio creditorum e dell’ordine delle cause di prelazione, non essendo il suo credito espressamente qualificato prededucibile da una norma di legge, né potendosi considerare sorto in funzione della procedura concorsuale, ai sensi della L.F., art. 111, comma 2; invero, il meccanismo del D.Lgs. n. 163 del 2006, ex art. 118, comma 3 – riguardante la sospensione dei pagamenti della stazione appaltante in favore dell’appaltatore, in attesa delle fatture dei pagamenti di quest’ultimo al subappaltatore – deve ritenersi, alla luce della successiva evoluzione della normativa di settore, calibrato sull’ipotesi di un rapporto di appalto in corso con un’impresa in bonis, in funzione dell’interesse pubblico primario al regolare e tempestivo completamento dell’opera, nonché al controllo della sua corretta esecuzione, e solo indirettamente a tutela anche del subappaltatore, quale contraente debole, sicché detto meccanismo non ha ragion d’essere nel momento in cui, con la dichiarazione di fallimento, il contratto di appalto di opera pubblica si scioglie”.

Le ragioni poste a base del suddetto orientamento che nega la prededucibilità del credito del subappaltatore sono così sintetizzabili:

  1. a) in primo luogo, l’interesse sinallagmatico della stazione appaltante alla tempestiva e regolare esecuzione dell’opera da parte dell’appaltatore-affidatario (fallito) viene meno con lo scioglimento del vincolo contrattuale dell’appalto e, di riflesso, del subappalto; di conseguenza, viene meno anche la condizione di esigibilità del credito dell’appaltatore nei confronti della stazione appaltante, dissolvendosi la ragione giustificativa del meccanismo della sospensione del pagamento che serve per garantire alla stazione appaltante la regolare esecuzione delle opere appaltate, nei tempi stabiliti e nella correttezza del risultato, tuttavia non più realizzabile per effetto di quello scioglimento; pertanto, la soddisfazione del credito del subappaltatore (comunque non realizzabile con la sola ammissione al passivo in prededuzione, ma con il pagamento in sede di riparto) non vale ad attribuire all’appaltatore fallito la possibilità di conseguire dalla stazione appaltante il maggior credito spettantegli;
  2. b) in secondo luogo, le modifiche ed integrazioni dell’art. 118 del codice del 2006, operate dal D.L. n. 145 del 2013, art. 13, comma 10, lett. a)-b), convertito in L. n. 9 del 2014, conforterebbero le suindicate conclusioni, poiché il pagamento al subappaltatore costituisce condizione di esigibilità del (maggior) credito verso la stazione appaltante unicamente quando l’appaltatore sia in bonis e per il quale, dunque, il vincolo contrattuale di appalto persista; ciò sarebbe indirettamente dimostrato dal fatto che la stazione appaltante può provvedere al pagamento diretto in presenza di crisi di liquidità (e non già di insolvenza) dell’appaltatore-affidatario e, analogamente, anche per i contratti di appalto in corso, nella pendenza di procedura di concordato preventivo in continuità aziendale;
  3. c) in terzo luogo, diversamente dall’opposto orientamento, il nesso di funzionalità del credito rispetto alla procedura concorsuale, ai fini della prededuzione (L.F., art. 111, comma 2), dovrebbe essere apprezzato in senso stretto sulla base di una valutazione ex ante e avendo riguardo al momento genetico del credito, indipendentemente dall’eventuale vantaggio per la massa che si determini ex post.

4.- Alle argomentazioni sviluppate nella sentenza n. 33350 del 2018 l’ordinanza di rimessione ha mosso le seguenti obiezioni:

  1. a) l’argomento che fa leva sullo scioglimento, ex nunc, del contratto di appalto, per effetto del fallimento dell’appaltatore, non terrebbe debitamente conto della circostanza che se il contratto di appalto contiene una condizione di esigibilità implicata dal bando (quale quella prevista dall’art. 118, comma 3, del codice del 2006), il sopravvenuto scioglimento del vincolo contrattuale non escluderebbe, automaticamente, la possibilità della stazione appaltante di avvalersi della corrispondente clausola di fronte alla pretesa creditoria dell’appaltatore relativa a prestazioni eseguite in adempimento degli obblighi contrattuali;
  2. b) l’argomento che fa leva sul difetto di interesse ad opporre la predetta condizione di esigibilità nel caso di fallimento dell’appaltatore non terrebbe conto del fatto che la stazione appaltante, in armonia con le linee guida tracciate dall’A.N.A.C. (nel parere AG 26/12 del 7 marzo 2013) ed equiparabili ad atti amministrativi generali, resta pur sempre libera di opporla all’appaltatore, finanche se fallito, esercitando in tal modo un potere discrezionale di autotutela che consiste nella mediazione tra interessi (pubblici e privati) potenzialmente confliggenti, la ponderazione dei quali è affidata alla sola amministrazione;
  3. c) l’argomento che fa leva sul venir meno dell’interesse della stazione appaltante all’esecuzione dell’opera, a seguito del fallimento dell’appaltatore, non terrebbe conto che a venire in rilievo sarebbe piuttosto l’interesse oggettivo, rilevante nell’ottica comunitaria, di favorire le piccole e medie imprese, al fine di proteggere anche e proprio il subappaltatore, parte debole del rapporto. Ed infatti, ove dal contratto non fosse consentito il pagamento diretto da parte della stazione appaltante, la tutela del subappaltatore – che è l’operatore economico piccolo o medio che pur ha realizzato (o concorso a realizzare) l’opera pubblica nel contesto di mercato appena detto non potrebbe trovare altro presidio che nella L.F., art. 111, poiché altrimenti il suo credito resterebbe soggetto alla falcidia fallimentare;
  4. d) l’art. 118, comma 3 bis del codice del 2006, introdotto dal D.L. n. 145 del 2013, convertito con modificazioni dalla L. n. 9 del 2014, riferendosi segnatamente alle imprese appaltatrici in concordato preventivo con continuità aziendale, non varrebbe a giustificare la conclusione secondo cui il comma 3, della suindicata disposizione normativa riguarderebbe unicamente l’appalto di opere pubbliche in corso con imprese in bonis e non escluderebbe che nelle situazioni di insolvenza in senso proprio dell’affidatario continui ad operare il dettato del suindicato art. 118, comma 3.

5.- Il Collegio ritiene di dare continuità all’orientamento espresso da Cass. n. 33350 del 2018, con le precisazioni che saranno di seguito illustrate.

5.1.- L’argomento fatto proprio nel decreto impugnato (richiamato sub 3-b) che fa leva sulle modifiche normative introdotte nel 2013 è utilizzato nella sentenza del 2018 in chiave di interpretazione sistematica-evolutiva del precedente testo di legge, per la conferma della soluzione seguita (o da seguire) sulla base di argomenti diversi, piuttosto che come effettiva e decisiva ratio decidendi. L’obiezione (di cui si è dato conto sub 4-d) sviluppata al riguardo nell’ordinanza di rimessione non è dunque decisiva, pur essendo condivisibile. Ed infatti, la modifica del 2013 ha introdotto due regole, contenute nell’integrazione dell’art. 118, comma 3 del codice del 2006 e nell’inserimento del comma 3 bis, che pur riferendosi a specifiche situazioni di imprese in crisi (in bonis) non rivelano alcuna relazione combinatoria o di alternatività rispetto alla fattispecie disciplinata dal precedente testo del comma 3, di cui non può escludersi, in astratto, l’applicazione ad altre situazioni di squilibrio e/o dissesto dell’appaltatore-affidatario, comprese quelle di insolvenza.

5.2.- L’argomento richiamato in senso critico nell’ordinanza di rimessione (sub 4-c), che fa leva sulla tutela a livello comunitario dei subappaltatori (cfr. direttiva 2014/24/UE), quali espressione delle piccole e medie imprese (PMI), coglie il profilo, indubbiamente rilevante, del nesso intrinseco, e non occasionale, tra l’interesse pubblico primario al regolare e tempestivo completamento dell’opera e la tutela dei subappaltatori, i quali sono in condizione di portare a compimento l’esecuzione delle opere solo se vedono i loro crediti soddisfatti, risultando dunque impropria la configurazione del suddetto interesse pubblico, operata nella sentenza del 2018, in termini di contrapposizione all’interesse del subappaltatore come soggetto tutelato “solo indirettamente (…) quale contraente più debole”.

Si deve peraltro rilevare che le ragioni di tutela dei crediti dei subappaltatori non possono di per sé giustificare deroghe, in via giurisprudenziale, al principio della par condicio, restando il subappaltatore che abbia adempiuto le sue prestazioni in favore del debitore in bonis pur sempre un creditore concorsuale come gli altri, salve le cause legittime di prelazione (art. 2741 c.c.) che spetta al legislatore introdurre e disciplinare secondo l’ordine previsto dagli artt. 2777 c.c. e segg., se non si vuole introdurre disparità di trattamento tra i subappaltatori di opere pubbliche e quelli di opere private, pur essi costituiti da piccole e medie imprese.

L’argomento evidenziato anche dall’A.N.A.C. nel citato parere del 2013, secondo cui l’istituto della prededuzione “appare l’unico rimedio per soddisfare il credito degli operatori economici che hanno materialmente realizzato l’opera pubblica”, non è dunque decisivo per riconoscere una particolare preferenza al credito del subappaltatore, sino al punto di assicurargli un privilegio innominato. L’esigenza di tutela del subappaltatore non è incondizionata, com’è dimostrato anche dal fatto che il pagamento diretto da parte della stazione appaltante è considerato anomalo (e quindi revocabile L.F., ex art. 67) se effettuato con denaro che sarebbe destinato all’appaltatore fallito (Cass. n. 25928 del 2015; in senso diverso Cass. n. 506 del 2016, nell’ipotesi in cui ricorra una clausola del capitolato generale d’appalto che impegni il committente a corrispondere ai subappaltatori l’importo dei lavori eseguiti per l’ipotesi, poi verificatasi, di inadempienza dell’appaltatore fallito).

Del resto, nel contesto normativo attuale la tutela del subappaltatore è realizzata mediante il pagamento diretto da parte della stazione appaltante (art. 71, comma 3, della direttiva 2014/24/UE), alle condizioni previste dalla legge (art. 105 del codice del 2016), e non mediante il meccanismo, contemplato nell’art. 118 del codice del 2006, della sospensione del pagamento successivo in favore dell’appaltatore che non trasmetta le fatture quietanzate del subappaltatore nel termine di legge.

5.3.- La tesi che attribuisce natura prededucibile al credito del subappaltatore fa leva – come si è detto – sull’esercizio eventuale del potere (di autotutela) della stazione appaltante, previsto dal bando di gara a norma dell’art. 118, comma 3, codice del 2006, di avvalersi di detta sospensione nei confronti dell’appaltatore: di qui la configurazione, da un lato, del pagamento del credito del subappaltatore come condizione di esigibilità del credito verso la stazione appaltante e, dall’altro, del pagamento del credito del subappaltatore, in caso di fallimento dell’appaltatore, come funzionale agli interessi della procedura che ne giustificherebbe la trasformazione in credito prededucibile.

Il nucleo essenziale del percorso argomentativo sviluppato dalla sentenza n. 33350 del 2018 – prescindendo da argomenti di contorno, come quello che fa leva sulle modifiche normative del 2013 (di cui si è dato conto sub 5.1) e sulle rilevate aporie inerenti al modo di operare della prededucibilità, le quali invero potrebbero essere contestate all’istituto della prededuzione in sé, piuttosto che alle modalità applicative dello stesso nella vicenda in esame – si incentra sul rilievo che il meccanismo della sospensione dei pagamenti della stazione appaltante in favore dell’appaltatore, in attesa delle fatture dei pagamenti di quest’ultimo al subappaltatore, debba ritenersi calibrato sull’ipotesi di un rapporto di appalto in corso con un’impresa in bonis, venendo meno a seguito del fallimento dell’appaltatore l’interesse sinallagmatico della stazione appaltante all’esecuzione dell’opera.

Se è vero peraltro che il fallimento determina lo scioglimento del contratto di appalto (cfr. L.F., art. 81 e, per gli appalti pubblici, art. 140, comma 1, del codice del 2006 e art. 110, comma 1, del codice del 2016) qualora il curatore non dichiari di voler subentrare nel rapporto (cfr. comma 3, lett. b, del citato art. 110), la tesi che ammette la prededuzione postula l’operatività della sospensione come oggetto di un potere unilaterale della stazione appaltante che renderebbe insindacabile la valutazione dell’interesse che ne è a fondamento. Questo postulato non è tuttavia condivisibile.

È certo che la prededuzione è predicabile, in astratto, solo nel caso in cui la stazione appaltante sia in condizione di esercitare in concreto il suddetto potere di sospendere i pagamenti con effetto incondizionato, poiché se il suddetto potere non venisse esercitato oppure non fosse suscettibile di produrre in concreto effetti paralizzanti nei confronti dell’appaltatore, non vi sarebbe ragione di favorire il pagamento del credito del subappaltatore che non recherebbe alcun vantaggio alla massa fallimentare.

Ciò induce a chiedersi se, a seguito del fallimento dell’appaltatore, la stazione appaltante possa esercitare il suddetto potere e continuare ad opporre la sospensione del pagamento all’appaltatore fallito e, dunque, al curatore e, di conseguenza, se il curatore sia legittimato ad agire nei confronti della stazione appaltante per pretendere il pagamento dovuto.

La sospensione del pagamento, in quanto prevista dalla legge (art. 118, comma 3, codice del 2006), si traduce in concreto in una eccezione di inadempimento che la stazione appaltante è legittimata ad opporre all’appaltatore (inadempiente all’obbligo di dimostrare il pagamento al subappaltatore). La proponibilità della suddetta eccezione postula, tuttavia, che il rapporto contrattuale sia in corso, poiché è solo nella fase esecutiva del rapporto in essere che è consentito alle parti far valere reciprocamente adempimenti e inadempimenti contrattuali.

A seguito del fallimento che rende il contratto di appalto, anche di opera pubblica, inefficace ex nunc e, dunque, non più eseguibile (arg. L. Fall., ex art. 72, comma 1), al curatore spetta il corrispettivo dovuto per le prestazioni eseguite fino all’intervenuto scioglimento; la stazione appaltante può rifiutare il pagamento delle opere ineseguite o eseguite non a regola d’arte, ma non può invocare la disciplina prevista dall’art. 1460 c.c., in tema di eccezione di inadempimento, la quale, implicando la sospensione della prestazione della parte non inadempiente, presuppone un contratto non ancora sciolto e quindi eseguibile (cfr. Cass. n. 4616 del 2015; cfr. n. 23810 del 2015).

L’eccezione d’inadempimento, che consente la sospensione della prestazione della parte non inadempiente, in presenza di inadempimento della controparte, configura uno strumento accordato alla parte che voglia salvaguardare i propri interessi, nella prospettiva della esecuzione (e dunque conservazione) del contratto, alla quale l’eccezione serve appunto di stimolo (cfr. Cass. n. 2923 del 1986). Una volta che il contratto si sia sciolto, per qualsiasi causa e, quindi, anche per il fallimento, l’art. 1460 c.c., non può essere invocato e trovano, invece, applicazione le norme che disciplinano gli effetti dello scioglimento.

Il curatore, che ha l’amministrazione del patrimonio fallimentare (L.F., art. 31), ha l’onere imprescindibile di attivare ogni iniziativa utile alla procedura diretta al recupero dell’attivo fallimentare, e quindi anche del corrispettivo del contratto di appalto, al fine di soddisfare la massa dei creditori nel miglior modo possibile.

E qualora si ipotizzasse, in senso contrario, che la stazione appaltante sia legittimata ad opporre al curatore (che agisca in giudizio per ottenere il pagamento di quanto dovuto) le eccezioni che avrebbe potuto opporre all’appaltatore fallito, compresa quella di sospensione del pagamento, risulterebbe confermato che, nel caso di fallimento, la sospensione non potrebbe operare incondizionatamente, ma dovrebbe assumere le vesti di una eccezione (di inadempimento) comunque rimessa a una valutazione giudiziale che tenga conto anche delle contestazioni dell’appaltatore circa la regolarità dei lavori eseguiti dal subappaltatore (cfr. il D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, art. 170, comma 7, regolamento di attuazione del codice del 2006, abrogato dal codice del 2016, art. 217). E ciò diversamente da quanto accade nel caso in cui l’appaltatore sia in bonis, quando la sospensione costituisce oggetto di un potere unilaterale del committente.

Le obiezioni sviluppate nell’ordinanza di rimessione (di cui si è dato conto sub 4-a, 4-b) sono dunque superate.

Non è necessario soffermarsi sulla questione (sub 3-c) inerente alla configurazione della prededuzione di tipo funzionale, la quale nella vicenda in esame non potrebbe comunque operare, in mancanza del nesso strutturale con il meccanismo della sospensione dei pagamenti da parte della stazione appaltante, delineato dell’art. 118, comma 3 del codice appalti 2006, che è destinato ad operare unicamente in presenza di una persistente efficacia del contratto di appalto e, quindi, nel caso in cui l’appaltatore sia in bonis.

6.- In conclusione, il ricorso è infondato e quindi rigettato, alla luce del principio secondo cui, in caso di fallimento dell’appaltatore di opera pubblica, il meccanismo delineato dal D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 118, comma 3 – che consente alla stazione appaltante di sospendere i pagamenti in favore dell’appaltatore, in attesa delle fatture dei pagamenti effettuati da quest’ultimo al subappaltatore deve ritenersi riferito all’ipotesi in cui il rapporto di appalto sia in corso con un’impresa in bonis e, dunque, non è applicabile nel caso in cui, con la dichiarazione di fallimento, il contratto di appalto si scioglie; ne consegue che al curatore è dovuto dalla stazione appaltante il corrispettivo delle prestazioni eseguite fino all’intervenuto scioglimento del contratto e che il subappaltatore deve essere considerato un creditore concorsuale dell’appaltatore come gli altri, da soddisfare nel rispetto della par condicio creditorum e dell’ordine delle cause di prelazione.

7.- Le spese sono compensate, in considerazione della complessità della questione trattata, testimoniata dall’esistenza di divergenti orientamenti interpretativi in materia.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, compensa le spese.

Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 14 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2020

 

Cass. civ. Sez. Unite 02_03_2020 n. 5685




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Opposizione agli atti esecutivi avverso l’atto di pignoramento asseritamente viziato per omessa o invalida notificazione della cartella di pagamento

Corte d’Appello di Lecce Taranto, Sezione Civile, Sentenza del 16/01/2020

Con sentenza del 16 gennaio 2020, la Corte d’Appello di Lecce Taranto, Sezione Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che in merito di esecuzione forzata tributaria, l’opposizione agli atti esecutivi avverso l’atto di pignoramento asseritamente viziato per omessa o invalida notificazione della cartella di pagamento (o di altro atto prodromico al pignoramento) è ammissibile e va proposta, ai sensi degli artt. 2, comma 1 e 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, dell’art. 57 del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 602 e dell’art. 617 c.p.c., davanti al giudice tributario, risolvendosi nell’impugnazione del primo atto in cui si manifesta al contribuente la volontà di procedere alla riscossione di un ben individuato credito tributario.


 

Corte d’Appello di Lecce Taranto, Sezione Civile, Sentenza del 16/01/2020

Opposizione agli atti esecutivi avverso l’atto di pignoramento asseritamente viziato per omessa o invalida notificazione della cartella di pagamento

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La Corte di Appello di Lecce-Sezione distaccata di Taranto-Sezione Lavoro- così composta:

1) Dott.ssa __ – Presidente-

2) Dott.ssa __ – Consigliere relatore-

3) Dott.ssa __ – Giudice Ausiliario

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nella causa di previdenza/assistenza sociale, in grado di appello, iscritta al N. __del Ruolo Generale delle cause dell’anno __, avverso la sentenza n. __ (RG __) pronunciata dal giudice del lavoro di Taranto in materia di rivalutazione contributiva per esposizione ad amianto, promossa da:

A. -Appellante-

contro

I. -Appellata-

OGGETTO: Rivalutazione contributiva

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ricorso in appello depositato in data __ A. ha impugnato la sentenza con cui il Tribunale di Taranto-Sezione Lavoro, ha rigettato la sua domanda di rivalutazione contributiva ex art. 13 comma 8 L. n. 257 del 1992 in relazione al periodo ___ in cui ha lavorato come meccanico alle dipendenze di M. Ha contestato la sentenza, in quanto il giudice ha escluso l’esposizione qualificata ad amianto, nonostante egli operasse quotidianamente interventi sui freni degli automezzi e comunque fosse esposto al rischio ambientale. Ha concluso chiedendo la riforma della sentenza impugnata nella parte qua e il pieno riconoscimento del suo diritto alla rivalutazione dell’intero periodo di lavoro.

L’appellato costituendosi chiedeva il rigetto dell’appello.

L’appello è fondato. Per giurisprudenza consolidata il fatto costitutivo del diritto al conseguimento dei benefici di cui all’art. 13, comma 8, della L. n. 257 del 1992 non si identifica con la mera durata ultradecennale dello svolgimento dell’attività lavorativa in un luogo nel quale è presente amianto, essendo necessaria anche la prova dell’esposizione qualificata, che può ritenersi raggiunta solo in presenza di un elevato grado di probabilità di esposizione in misura superiore alle soglie previste dalla legge. In un giudizio sulla spettanza della rivalutazione contributiva di cui all’art. 13, comma 8, della L. n. 257 del 1992, una volta assunti gli elementi probatori dedotti dalle parti sui fatti concernenti l’attività lavorativa, la prova del superamento dei limiti di soglia (anche in termini di rilevante grado di probabilità), salvo che non sia già fornita da altre fonti, come rilevazioni tecniche attendibili, atti d’indirizzo ministeriali, consulenze tecniche di ufficio espletate in altre cause sulla stessa situazione di fatto, richiede necessariamente un giudizio di carattere tecnico-scientifico demandato ad una C.T.U., che, riguardando, per lo più, una situazione lavorativa non più esistente (a seguito della cessazione dell’utilizzo dell’amianto disposta con la L. n. 257 del 1992), non richiede alcun esperimento riferito all’attualità, ma implica soltanto il riferimento a dati di esperienza e scientifici (come le banche dati in possesso dell’I. o di altri istituti internazionali), ai cui fini a nulla rileva il tempo trascorso o la modifica dello stato dei luoghi rispetto all’attività di lavoro dedotta nel giudizio.

Nel caso di specie, è pacifico sia perché non contestato specificamente dall’I., sia perché risultante dal curriculum professionale rilasciato da M., sia perché emerso dalla prova testimoniale espletata, che il ricorrente per l’intera durata della vita lavorativa ha lavorato come meccanico addetto all’officina di M., che è azienda addetta al trasporto urbano. Nello svolgimento di tali mansioni egli è sicuramente stato esposto all’amianto soprattutto durante le operazioni di manutenzioni dei freni, i cui ferodi e guarnizioni contenevano amianto. Come spiegato dal CTU nella consulenza depositata dal ricorrente e riferita ad un altro giudizio (N. contro I.), ma avente ad oggetto lo stesso ambiente lavorativo, perché N. era collega del ricorrente in quanto meccanico addetto ai freni, l’esposizione all’amianto è dannosa anche se non si ha un contatto diretto con la sostanza, ma è sufficiente inalare le fibre di amianto che si disperdono nell’aria. Infatti quando venivano sostituiti i freni rovinati e venivano smontati a mani nude dai meccanici, si disperdevano le fibre di amianto di cui erano fatti i ferodi e le guarnizioni, contaminando non solo i meccanici che stavano eseguendo il lavoro, ma anche tutti coloro che lavoravano nell’officina. L’esposizione era aggravata dal fatto che l’officina fosse un ambiente chiuso e dunque le fibre aerodisperse permanevano a lungo nell’ambiente di lavoro. Nella sentenza n. __ allegata concernente la causa N., I. si legge, altresì, che M. in una relazione inviata a L., nel __, informava l’istituto che nel periodo __ l’azienda avesse avuto in servizio circa ___ autobus e, che in particolare i meccanici addetti alla lavorazione dei freni manipolando e smontando ferodi fossero stati esposti all’amianto per un tempo medio di __ ore al giorno, per __ giorni a settimana.

E sulla base di tali dati fattuali e di considerazioni tecniche il CTU concludeva per l’esistenza di una elevata probabilità di esposizione qualificata all’amianto da parte del N.

Ebbene, senza dover ripetere tale accertamento, possono utilizzarsi le conclusioni a cui è pervenuto quel CTU anche per l’A., che come N., ha lavorato come addetto ai freni per trent’anni. E non conta che abbia riparato due o meno di due automezzi al giorno, perché l’esposizione qualificata discende non solo dal contatto diretto col ferodo contenente amianto, ma con la stessa presenza in officina lì dove si effettuavano le operazioni di smontaggio e riparazione.

Dunque deve ritenersi che anche il ricorrente in virtù delle mansioni svolte sia stato esposto all’amianto per l’intera durata del periodo lavorativo in concentrazione superiore alla soglia di legge. E abbia diritto al riconoscimento dei benefici di legge con conseguente ricostituzione della pensione in godimento. Le spese del doppio grado seguono la soccombenza, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Accoglie l’appello e dichiara il diritto del ricorrente alla ricostituzione della pensione in godimento con il riconoscimento dei benefici contributivi ex art. 13 coma 8 L. n. 257 del 1992, L. n. 271 del 1993 e successive modificazioni con riferimento al periodo di lavoro __. Condanna l’Istituto alla refusione delle spese del giudizio di I grado, che liquida in Euro __ per compensi professionali, oltre oneri accessori come per legge, e del giudizio di II grado, che liquida in Euro __ per compensi professionali, oltre oneri accessori, con distrazione in favore dei procuratori anticipatari.

Così deciso in Taranto, il 8 gennaio 2020.

Depositata in Cancelleria il 16 gennaio 2020.

 

Corte d'Appello Lecce Taranto Sent. 16_01_2020

 

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Le somme rimaste non riscosse non fanno più parte della massa attiva del fallimento

Le somme rimaste non riscosse non fanno più parte della massa attiva del fallimento

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 5618 del 28/02/2020

Con ordinanza del 28 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in tema di recupero crediti ha stabilito che nel regime originario della legge fallimentare, il deposito delle somme, fatto dalla procedura veniva a innestare un rapporto contrattuale in modo diretto tra il creditore, non presentato o irreperibile, e l’istituto depositario. La quietanza rispondeva, quindi, al pagamento posto in essere dalla procedura a mezzo deposito liberatorio con la medesima forza effettuale, cioè, di cui è dotato il deposito previsto dall’art. 1210 c.c. Nel regime poi sostituito dalla riforma del 2006, le somme rimaste non riscosse non fanno più parte della massa attiva del fallimento, né sono più nella disponibilità degli organi della procedura perché non sono più, prima di ogni altra cosa, di proprietà del debitore ex-fallito.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza n. 5618 del 28/02/2020

Le somme rimaste non riscosse non fanno più parte della massa attiva del fallimento

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso ___ proposto da:

O. Coop S.r.l. – ricorrente –

contro

E. S.p.A. – controricorrente –

e contro

M. – resistente –

e contro

G. S.r.l., F.  – intimati –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ROMA, del __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ da __.

Svolgimento del processo

1.- Aperto nel __, il fallimento della S.r.l. G. è stato chiuso nel __, con un riparto finale che ha visto i creditori chirografari soddisfatti nella misura del 21,10% delle somme ammesse al passivo. Tra questi creditori si è annoverata anche la S.p.a. U., quale successore di B.

Successivamente, U. ha ceduto il credito residuo, che risultava ancora vantare nei confronti della società fallita, alla soc. coop. a r.l. O.

2.- Con istanza del __, O. ha chiesto al giudice delegato del fallimento della G. di disporre – accertata la perdurante giacenza delle somme accantonate a favore dei creditori risultati irreperibili – lo svincolo delle stesse a proprio favore, fino alla concorrenza del credito rimasto insoddisfatto nel riparto finale.

3.- Il giudice delegato ha respinto l’istanza, sul presupposto dell’impossibilità di riassegnare al fallito somme della liquidazione fallimentare destinate ai creditori.

È seguito il reclamo proposto da O. avanti al Tribunale di Roma. Che lo ha rigettato con decreto depositato in data __.

4.- Dato atto che la domanda è stata presentata da un creditore, e non già dal fallito, il Tribunale ha rilevato che nel caso di specie è applicabile la L.F., art. 117, nella formulazione antecedente alla modifica del 2006; che tale norma nulla dispone circa la destinazione delle somme giacenti su libretti e conti correnti intestati a creditori irreperibili; che la disciplina dettata dalla L. n. 181 del 2008, art. 2, comma 2, intitolata Fondo unico di giustizia, ha comportato il venir meno del diritto dei creditori irreperibili alla corresponsione delle somme loro destinate e la conseguente automatica apprensione delle stesse al bilancio dello Stato, configurandosi un regime decadenziale dal diritto degli stessi (creditori irreperibili) a ottenere il pagamento del tutto speciale rispetto all’ordinario termine decennale di prescrizione del diritto; che ciò di conseguenza comporta l’automatica apprensione delle somme rimaste al Fondo Unico Giustizia.

5.- Avverso questo provvedimento O. ha presentato ricorso, svolgendo un motivo di sua cassazione.

Ha resistito, con controricorso, la S.p.A. E.

Motivi della decisione

6.- Il motivo di ricorso è stato così intestato: violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in relazione al R.D. n. 267 del 1942, art. 117, u.c., vecchio testo e R.D. 267 del 1942, art. 117, comma 4, al D.L. n. 143 del 2008, art. 2, comma 2, convertito con L. n. 181 del 2008, in quanto si ritiene che la devoluzione in accrescimento ai creditori insoddisfatti a seguito del riparto finale come oggi stabilito dalla L.F., art. 117, testo vigente non sia impedita, né dal silenzio sul punto da parte della L.F., citato art. 117, vecchio testo, né dalla sopraggiunta previsione di destinazione al Fondo Unico Giustizia delle somme di denaro depositate presso gli operatori finanziari abilitati relativamente a quanto non distribuito in sede di riparto finale del fallimento per irreperibilità dell’avente diritto, ma invece consentita in applicazione del disposto di cui all’art. 2740 c.c.

7.1.- Constatato che nella specie trova applicazione la versione originaria della L. Fall., art. 117 – e fatta propria l’affermazione del Tribunale, per cui questa norma nulla dispone circa la destinazione delle somme giacenti su libretti e conti correnti intestati a creditori irreperibili -, il ricorrente svolge due ordini di rilievi.

7.2.- Di questi, il primo attiene alla normativa relativa all’istituzione del Fondo Unico Giustizia.

In proposito, il ricorrente sostiene in prima battuta che l’interpretazione data dal Tribunale è errata (diversamente presentando, tra l’altro, evidenti profili di incostituzionalità). Nei fatti, tale normativa non è ablativa del diritto del creditore rimasto parzialmente insoddisfatto in sede di riparto finale di un fallimento vecchio rito a ottenere, decorsi cinque anni dall’accantonamento delle somme, quanto non riscosso dai creditori concorrenti.

In ogni caso, rileva ancora il ricorrente, la disciplina della L. n. 181 del 2008, (istitutiva del F.U.G.) non entra in applicazione nella specie concreta, posto che il suo art. 2, comma 2, lett. c ter (come introdotto in sede di conversione) stabilisce che questa riguarda solo le procedure fallimentari in cui trova applicazione il nuovo testo dell’art. 117.

7.3.- L’altro rilievo svolto dal ricorrente assume la vigenza del diritto di accrescimento dei creditori rimasti insoddisfatti in sede di riparto anche nei fallimenti cc.dd. vecchio rito: nei beni presenti e futuri del debitore ci sono certamente le somme non riscosse dai creditori in sede di riparto fallimentare e, in attuazione del principio di cui al citato art. 2740 c.c., su di esse possono soddisfarsi gli (altri) creditori.

8.- Il nodo centrale del tema proposto dal ricorso, che qui si esamina, è dato dall’interpretazione della versione originaria della norma della L.F., art. 117, comma 3, che trova pacificamente applicazione nella fattispecie concreta (per i creditori che non si presentano o sono irreperibili la somma dovuta è depositata presso un istituto di credito. Il certificato di deposito vale quietanza).

Ora, rispetto al testo di questa disposizione non può essere condivisa l’opinione espressa dal decreto impugnato – e poi senz’altro ripresa dal motivo di ricorso -, secondo cui la norma nulla dispone sul destino delle somme che taluni creditori non sono passati a riscuotere.

Tale opinione trascura di leggere, in particolare, la frase normativa per cui il certificato di deposito relativo alle somme rimaste giacenti presso l’istituto di credito designato vale quietanza. In effetti, la formula dell’ultimo periodo dell’art. 117 (versione originaria) viene a indicare in modo univoco la sorte delle somme in discorso, così come ha puntualmente rilevato, con riferimento a una fattispecie per più versi prossima a quella in esame, la pronuncia di Cass. 14 febbraio 2019, n. 4514.

9.- Il senso normativo dell’ultimo periodo dell’art. 117, comma 3, traspare immediato non appena si venga a comparare il testo della versione originaria della norma con quello introdotto dalla riforma del 2006.

Laddove quest’ultimo stabilisce che le somme rimaste depositate e non riscosse divengono, trascorso un dato periodo di tempo, disponibili per un’ulteriore distribuzione a vantaggio dei creditori ancora interessati, il vecchio testo provvede alle stesse secondo una prospettiva affatto diversa. Il riferimento alla quietanza, di cui al certificato di deposito, altro non può significare che l’avvenuto deposito presso l’istituto designato vale come distribuzione delle somme al creditore, quand’anche questi non si sia presentato ovvero sia rimasto irreperibile.

Se il regime attuale ha un’ottica fermata sulla concorsualità tra i creditori del fallito, dunque, quello originario si concentrava invece sul rapporto sussistente tra fallito e singolo creditore.

Nel regime originario della legge fallimentare, in altri termini, il deposito delle somme fatto dalla procedura veniva a innestare un rapporto contrattuale in modo diretto corrente tra il creditore – non presentato o irreperibile – e l’istituto depositario. La richiamata quietanza rispondeva, quindi, al pagamento posto in essere dalla procedura a mezzo deposito liberatorio (come sostanzialmente intestato al creditore che si è disperso): con la medesima forza effettuale, cioè, di cui è dotato il deposito previsto dalla norma dell’art. 1210 c.c.

Del resto, la simmetria tra la posizione del creditore, che (dopo avere fatto domanda di insinuazione) risulta disperso al tempo della distribuzione del ricavato, e la posizione del creditore messo in mora, secondo le regole del codice civile, appare del tutto manifesta.

10.- Nel regime poi sostituito dalla riforma del 2006, perciò, le somme rimaste non riscosse non fanno più parte della massa attiva del fallimento, né sono più nella disponibilità degli organi della procedura. Perché non sono più, prima di ogni altra cosa, di proprietà del debitore ex-fallito (così la disposizione di base dettata dall’art. 2010 c.c., comma 2: “eseguito il deposito… il debitore non può più ritirarlo ed è liberato dalla sua obbligazione”).

Di conseguenza, nel contesto del regime originario della legge fallimentare un problema di (eventuale) rapporto tra diritto del creditore insoddisfatto e somme destinate ad altro creditore del comune debitore – come mediato, cioè, dalla responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c., di quest’ultimo – non aveva proprio alcuno spazio per risultare proponibile.

Del pari inconferente si mostra, riguardo allo specifico tema che è qui in discorso, la normativa relativa al Fondo Unico Giustizia.

11.-Il ricorso va dunque respinto ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., posto che il dispositivo del decreto impugnato risulta in ogni caso conforme a diritto.

12.- Le spese seguono la regola della soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese relative al giudizio di legittimità, che liquida nella somma di Euro __ (di cui Euro __ per esborsi), oltre a spese forfettarie nella misura del 15% e accessori di legge.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quaterm della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, secondo quanto stabilito dalla norma dell’art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 18 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2020.

 

Cass. civ. Sez. I Ord. 28_02_2020 n. 5618




Procedimento esecutivo di espropriazione di crediti presso terzi

Procedimento esecutivo di espropriazione di crediti presso terzi: ordinanza di assegnazione contenente l’espresso addebito al debitore esecutato

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, Ordinanza n. 3720 del 14/02/2020

Con ordinanza del 14 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, in tema di recupero crediti ha stabilito che ove il giudice dell’esecuzione, all’esito di un procedimento esecutivo di espropriazione di crediti presso terzi, pronunci ordinanza di assegnazione contenente l’espresso addebito al debitore esecutato, oltre che dei crediti posti in esecuzione nonché delle spese di precetto ed esecuzione, e in aggiunta a queste ultime, delle spese di registrazione dell’ordinanza stessa, il relativo importo deve ritenersi ricompreso nelle spese di esecuzione liquidate in favore del creditore stesso ai sensi dell’art. 95 c.p.c., per cui esso può essere preteso dal creditore in sede di escussione del terzo nei limiti della capienza del credito assegnato. Di conseguenza, sussiste difetto di interesse del creditore procedente ad ottenere un ulteriore titolo esecutivo da far valere contro il suo originario debitore per le indicate spese di registrazione, avendo egli già conseguito la piena soddisfazione nei confronti di quest’ultimo direttamente in sede esecutiva.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, Ordinanza n. 3720 del 14/02/2020

Procedimento esecutivo di espropriazione di crediti presso terzi: ordinanza di assegnazione contenente l’espresso addebito al debitore esecutato

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero __del ruolo generale dell’anno __, proposto da:

D. – ricorrente –

nei confronti di:

U. S.p.A. – controricorrente –

per la cassazione della sentenza del Tribunale di Roma n. __, pubblicata in data __ (e notificata in data __);

udita la relazione sulla causa svolta nella camera di consiglio in data __ dal consigliere __.

Svolgimento del processo

che:

D. ha agito in giudizio nei confronti di U. S.p.A. per ottenere il rimborso della somma pagata per la registrazione (oltre accessori) di un’ordinanza di assegnazione pronunciata ai sensi dell’art. 553 c.p.c., in un procedimento di espropriazione presso terzi che aveva promosso nei confronti della stessa.

La domanda è stata respinta dal Giudice di Pace di Roma.

Il Tribunale di Roma ha confermato la decisione di primo grado, sulla base di diversa motivazione.

Ricorre il D., sulla base di quattro motivi.

Resiste con controricorso U. S.p.A.

È stata disposta la trattazione in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375, 376 e 380 bis c.p.c., in quanto il relatore ha ritenuto che il ricorso fosse destinato ad essere dichiarato inammissibile e comunque manifestamente infondato. È stata quindi fissata con decreto l’adunanza della Corte e il decreto è stato notificato alle parti con l’indicazione della proposta.

Il collegio ha disposto che sia redatta motivazione in forma semplificata.

Motivi della decisione

che:

  1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 37, (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). Violazione e falsa applicazione dell’art. 95 c.p.c., (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”.

Con il secondo motivo si denunzia “Violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 13, (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). Violazione e falsa applicazione dell’art. 95 c.p.c., (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”.

Con il terzo motivo si denunzia “Violazione e falsa applicazione dell’art. 95 c.p.c., (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”.

Con il quarto motivo si denunzia si denunzia “Violazione e falsa applicazione dell’art. 95 c.p.c., (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”.

I motivi del ricorso sono tutti logicamente connessi e possono quindi essere esaminati congiuntamente.

Secondo il ricorrente, il tribunale avrebbe erroneamente negato l’obbligo della società debitrice esecutata di rimborsargli l’importo pagato per la registrazione dell’ordinanza di assegnazione, anche per avere erroneamente ritenuto che detto importo rientra tra le spese del processo esecutivo ai sensi dell’art. 95 c.p.c.

Orbene, in primo luogo va rilevato che l’esposizione sommaria dei fatti di causa risulta carente e quindi non può ritenersi soddisfatto il requisito di ammissibilità del ricorso di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, anche perché non vengono chiaramente e specificamente richiamati il contenuto dell’ordinanza di assegnazione oggetto di causa, quello della domanda proposta, quello della sentenza di primo grado, quello del gravame avanzato avverso quest’ultima (lo stesso contenuto della decisione impugnata non risulta in effetti correttamente riportato nel ricorso).

In ogni caso, si tratta di una controversia che ha, nella sostanza, oggetto identico ad altre – riguardanti il medesimo ricorrente – in ordine alle quali questa Corte si è già pronunciata, con sentenza di espresso valore nomofilattico, emessa all’esito della pubblica udienza della Terza Sezione Civile, nell’ambito della particolare metodologia organizzativa adottata dalla suddetta sezione per la trattazione dei ricorsi su questioni di diritto di particolare rilevanza in materia di esecuzione forzata (cd. “progetto esecuzioni”, sul quale v. già Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 26049 del 26/10/2018), poi confermata da successive ordinanze di questa Sesta Sezione.

Come già statuito nei precedenti richiamati (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 29855 del 20/11/2018; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 4964 del 20/02/2019, che non risultano massimate), ai quali si intende dare pieno seguito (anche perché il ricorso non contiene argomentazioni idonee ad indurre alcuna rimeditazione sul punto), ed ai quali la decisione impugnata risulta in diritto sostanzialmente conforme, le censure avanzate dal ricorrente risultano in parte manifestamente infondate ed in parte inammissibili, anche con le eventuali precisazioni ed integrazioni che seguono.

È invero pacifico (la circostanza emerge, quanto meno implicitamente, dalla sentenza impugnata, non è smentita nel ricorso ed è espressamente confermata anche nel controricorso) che il giudice dell’esecuzione, all’esito di un procedimento esecutivo di espropriazione di crediti presso terzi promosso dal D.M. nei confronti di un suo debitore (nella specie, U. S.p.A., per quanto è dato comprendere dagli atti) abbia pronunciato ordinanza di assegnazione contenente l’espresso addebito al suddetto debitore esecutato (oltre che dei crediti posti in esecuzione nonché delle spese di precetto ed esecuzione, e in aggiunta a queste ultime) delle spese di registrazione dell’ordinanza stessa e che il relativo importo fosse quindi compreso in quello oggetto della complessiva assegnazione dei crediti pignorati in favore del creditore procedente (in quanto, evidentemente, appunto ricompreso nelle spese di esecuzione liquidate in favore del creditore stesso ai sensi dell’art. 95 c.p.c.), onde tale importo poteva essere preteso dal suddetto creditore in sede di escussione del terzo (nella specie, Banca d’Italia, per quanto è dato comprendere dagli atti).

In questa situazione, sussiste effettivamente difetto di interesse del creditore procedente ad ottenere un ulteriore titolo esecutivo da far valere contro il suo originario debitore, avendo egli già conseguito la piena soddisfazione nei confronti di quest’ultimo, direttamente in sede esecutiva, (anche) del proprio credito per la spesa di registrazione dell’ordinanza di assegnazione (in quanto compreso nell’importo liquidato a titolo di spese del processo esecutivo ai sensi dell’art. 95 c.p.c., ed oggetto dell’assegnazione a valere sui crediti pignorati).

È poi del tutto irrilevante la circostanza che, al momento della richiesta di pagamento degli importi assegnati rivolta al terzo debitor debitoris la somma in questione non fosse stata (e/o non potesse ancora essere) pretesa e riscossa, in quanto non era stata ancora effettuata la registrazione dell’ordinanza (e non era stata quindi ancora anticipata dal creditore la relativa imposta): trattandosi di importo compreso in quello oggetto di assegnazione ai sensi dell’art. 553 c.p.c., infatti, la relativa pretesa poteva essere avanzata anche successivamente e addirittura in via esecutiva direttamente nei confronti del terzo, sulla base della stessa ordinanza di assegnazione (previa, ovviamente, documentazione del relativo esborso), come del resto in qualche modo riconosce lo stesso ricorrente.

Né nel ricorso (che sotto questo aspetto difetta della necessaria specificità, manifestando un profilo di inammissibilità anche ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), viene chiarito (e tanto meno viene documentato) se in concreto vi sia stata vana escussione del terzo, per l’importo in questione, ovvero se le somme complessivamente riconosciute nell’ordinanza di assegnazione (il cui contenuto, in parte qua, non è specificamente riprodotto nel ricorso e la cui esatta allocazione tra gli atti del fascicolo di merito non è neanche indicata, come già sottolineato), ivi inclusa quella relativa all’imposta di registrazione della stessa, fossero state contenute o meno nei limiti di capienza dei crediti pignorati e/o avessero in qualche modo ecceduto tali limiti, onde non potessero essere effettivamente ed in concreto oggetto di integrale recupero nei confronti del terzo debitor debitoris (per quanto sia opportuno precisare che, anche in tale ultima ipotesi, andrebbe comunque applicato il principio di diritto, di recente ribadito da questa Corte, anche in questo caso con pronuncia di espresso valore nomofilattico emessa nell’ambito del già citato cd. “progetto esecuzioni” della Terza Sezione Civile, secondo il quale le spese del processo esecutivo, in caso di incapienza, restano a carico del creditore: cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 24571 del 05/10/2018, Rv. 651157-01).

Possono quindi essere in proposito formulati i seguenti principi di diritto:

laddove il giudice dell’esecuzione, all’esito di un procedimento esecutivo di espropriazione di crediti presso terzi, pronunci ordinanza di assegnazione contenente l’espresso addebito al debitore esecutato (oltre che dei crediti posti in esecuzione nonché delle spese di precetto ed esecuzione, e in aggiunta a queste ultime) delle spese di registrazione dell’ordinanza stessa, il relativo importo deve ritenersi ricompreso nelle spese di esecuzione liquidate in favore del creditore stesso ai sensi dell’art. 95 c.p.c., onde esso può essere preteso dal creditore in sede di escussione del terzo (nei limiti della capienza del credito assegnato), di conseguenza, sussiste difetto di interesse del creditore procedente ad ottenere un ulteriore titolo esecutivo da far valere contro il suo originario debitore per le indicate spese di registrazione, avendo egli già conseguito la piena soddisfazione nei confronti di quest’ultimo, direttamente in sede esecutiva;

il provvedimento di liquidazione delle spese dell’esecuzione implica un accertamento meramente strumentale alla distribuzione o assegnazione, privo di forza esecutiva e di giudicato al di fuori del processo in cui è stato adottato, sicché le suddette spese, quando e nella misura in cui restino insoddisfatte, sono irripetibili dal creditore.

  1. Il ricorso è dichiarato inammissibile.

Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo (con distrazione in favore del legale della società controricorrente, che ha reso la prescritta dichiarazione ai sensi dell’art. 93 c.p.c.).

Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte:

– dichiara inammissibile il ricorso;

– condanna il ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore della società controricorrente, liquidandole in complessivi Euro __, di cui Euro __ per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge, con distrazione in favore dell’avv. __.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma del dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2020.

Cass. civ. Sez. VI Sott. 3 Ord. 14_02_2020 n. 3720




I beni costituenti fondo patrimoniale

I beni costituenti fondo patrimoniale non possono essere sottratti all’azione esecutiva dei creditori

Corte Suprema di Cassazione, Sezione V Civile, Ordinanza n. 5017 del 25/02/2020

Con ordinanza del 25 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione V Civile, in tema di recupero crediti ha stabilito che i beni costituenti fondo patrimoniale non possono essere sottratti all’azione esecutiva dei creditori quando lo scopo perseguito nell’obbligazione sia quello di soddisfare i bisogni della famiglia, da intendersi non in senso oggettivo, ma come comprensivi anche dei bisogni ritenuti tali dai coniugi in ragione dell’indirizzo della vita familiare e del tenore prescelto, in conseguenza delle possibilità economiche familiari. All’uopo, il criterio identificativo dei crediti che possono essere realizzati esecutivamente sui beni conferiti nel fondo va ricercato non già nella natura delle obbligazioni, ma nella relazione esistente tra il fatto generatore di esse ed i bisogni della famiglia, sicché non assume rilievo la natura latamente pubblicistica del credito vantato.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione V Civile, Ordinanza n. 5017 del 25/02/2020

I beni costituenti fondo patrimoniale non possono essere sottratti all’azione esecutiva dei creditori

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

P. – ricorrente –

contro

E. S.p.A. – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della COMM. TRIB. REG. di MILANO, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal Consigliere Dott. __.

Svolgimento del processo

CHE:

  1. P. propone tre motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n. __ depositata il __, con la quale la commissione tributaria regionale della Lombardia confermava la prima decisione – che aveva respinto il ricorso del contribuente avverso l’iscrizione ipotecaria sui beni del fondo patrimoniale familiare – sostenendo che i beni del fondo patrimoniale sono sottratti all’esecuzione forzata di debiti non contratti per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia.

Assumeva che i debiti tributari, contratti dal contribuente con il Fisco – a seguito di accertamento di un maggior reddito a carico dell’impresa edile I. di P. & C. s.a.s., imputato al ricorrente, pro quota, in quanto socio accomandante ai sensi del T.U.I.R., art. 5 – dovevano ritenersi estranei ai bisogni della famiglia, in quanto l’attività di accomandante doveva qualificarsi di speculazione connessa all’impiego di capitali.

La commissione tributaria regionale, in particolare, rilevava la legittimità dell’iscrizione ipotecaria, in quanto gravava sul debitore l’onere della prova della inerenza dei debiti contratti ai bisogni della famiglia nonché la consapevolezza del fisco che i debiti erano stati contratti per scopi estranei alle esigenze della famiglia.

Il ricorrente ha depositato sia una memoria ex art. 380 bis c.p.c., per la rimessione delle questioni sottoposte al vaglio di questa Corte alle S.U., sollecitando la trattazione della causa in pubblica udienza, anche in considerazione dei dubbi di costituzionalità relativa alla iscrizione ipotecaria sui beni del fondo patrimoniale D.P.R. n. 602 del 1973 ex art. 77, sia una istanza ex art. 376 c.p.c. da sottoporre al primo Presidente per la rimessione della questione alle S.U. La società E. S.p.A. si è costituita con controricorso.

Motivi della decisione

CHE:

  1. Occorre premettere che questa Corte non ravvisa motivi per rimettere la questione in esame alle S.U., in assenza di contrasto di orientamenti di legittimità sulla possibilità di iscrivere ipoteca sul fondo patrimoniale anche per tutelare obbligazioni di natura tributaria; la stessa Corte ha peraltro individuato in numerosissime pronunce i criteri per accertare l’inerenza tra obbligazione per la quale viene iscritta ipoteca e le esigenze della famiglia, precisando anche il significato del termine bisogni di cui all’art. 170 c.c. D’altra parte, l’istanza di rimessione del ricorso alle sezioni unite, formulata ai sensi dell’art. 376 c.p.c., comma 2, e dell’art. 139 disp. att. c.p.c., rappresenta una mera sollecitazione all’esercizio di un potere discrezionale, il quale non solo non è soggetto ad un obbligo di motivazione, ma neppure deve necessariamente manifestarsi in uno specifico esame e rigetto di detta istanza (Cass. n. 12962/2016; Cass. n. 6187/2003).
  2. Con la prima censura, che prospetta violazione e falsa applicazione dell’art. 170 c.c. e del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 77 ex art. 360 c.p.c., n. 3), il contribuente lamenta che i giudici territoriali erroneamente hanno ritenuto applicabile sui beni costituiti in fondo patrimoniale l’esecuzione per debiti estranei alle esigenze della famiglia, dovendosi qualificare tali i debiti tributari per una somma dovuta a titolo di IRPEF e sanzioni pecuniarie.

Dalla qualificazione dell’iscrizione dell’ipoteca esattoriale come attività prodromica all’esecuzione di cui condivide la natura e la disciplina e dalla natura dell’obbligazione tributaria finalizzata a soddisfare un interesse collettivo e non un interesse individuale, se ne inferisce l’inapplicabilità del cit. art. 77.

In particolare, si afferma che l’attività del socio accomandante, qual’era quella del P., deve considerarsi attività speculativa connessa all’impiego di capitali, evidenziando come la giurisprudenza di legittimità escluda dal campo di applicazione dell’iscrizione ipotecaria sui beni costituiti in fondo patrimoniale i debiti connessi con attività speculative, atteso che dall’impiego della propria quota societaria., l’accomandante sperava di trarre maggiori guadagni aleatoriamente correlati all’andamento dell’attività societaria. Si tratterebbe, dunque, di debiti contratti con l’Erario riconducibili alle fonti di reddito personale derivanti dalla partecipazione nella citata società personale.

Il decidente avrebbe dunque omesso di accertare la sussistenza di un collegamento immediato tra il debito erariale e le esigenze della famiglia, affermando, al contrario, che in presenza di redditi da attività imprenditoriale – professionale, si deve presumere il nesso tra debito ed esigenze familiari.

  1. Con il secondo motivo, che deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 170 c.c. e del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 77 ex art. 360 c.p.c., n. 3), si lamenta che l’iscrizione a ruolo, prodromica all’iscrizione ipotecaria, recava anche un credito a titolo di sanzioni pecuniarie per Euro __ riferite all’annualità __, le quali in alcun modo possono ritenersi correlate alle esigenze familiari, essendo le sanzioni stabilite dalla legge, quale reazione punitiva personale, diretta nei soli confronti dell’autore dell’illecito che non può estendere i suoi effetti negativi a carico di altri soggetti, componenti il nucleo familiare.

Si afferma, in particolare, che le sanzioni, improntate ad un principio meramente punitivo, basato sui criteri di prevenzione e retribuzione, hanno carattere personale, sono intrasmissibili agli eredi e presuppongono la configurazione dell’elemento soggettivo; finalizzate, dunque, a soddisfare un interesse pubblico e non certamente configurabile come obbligazione contratta nell’interesse della famiglia.

  1. Con la terza censura, che prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 170 c.c. e del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 77 ex art. 360 c.p.c., n. 3), nonché l’omesso esame di fatti decisivi della controversia ex art. 360 c.p.c., n. 5), oltre che violazione dell’art. 2697 c.c., il contribuente attinge la sentenza impugnata nella parte in cui ha gravato il contribuente dell’onere di provare la conoscenza dell’estraneità ai bisogni della famiglia dei debiti tributari da parte del fisco, non apparendo sufficiente alla CTR la sussistenza di altre fonti di reddito derivanti da attività economiche esercitate dai coniugi.

Il ricorrente si duole del fatto che i giudici regionali abbiano affermato che era suo onere dimostrare che le fonti di reddito percepiti dall’attività societaria non erano state impiegate per migliorare il tenore di vita della famiglia; mentre il disposto dell’art. 170 c.c. non regola la distribuzione dell’onere della prova, di guisa che gravare il contribuente dell’onere di provare la conoscenza da parte del Fisco dell’estraneità dei debiti ai bisogni della famiglia significherebbe generare una prova impossibile in capo al contribuente.

Sostiene inoltre di aver offerto in giudizio la prova che gli altri redditi percepiti erano idonei a soddisfare le esigenze della famiglia, il che avrebbe dovuto indurre la CTR a graduare il principio di distribuzione dell’onere della prova secondo il principio di proporzionalità, tenuto conto che nel processo tributario non è ammessa la prova testimoniale D.Lgs. n. 546 del 1982 ex art. 7.

A conforto di detta tesi, P. cita il disposto dell’art. 2645 ter c.c. che prevede la destinazione di beni immobili e mobili per un periodo non superiore a 90 anni o per la vita del beneficiario, alla realizzazione degli interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità e che possono costituire oggetto di esecuzione solo per debiti contratti per tale scopo; disposizione che dimostrerebbe la tendenziale svalutazione della consapevolezza del creditore quanto alla natura del debito.

  1. Con riferimento al denunciato omesso esame dei fatti decisivi, si lamenta che la CTR avrebbe trascurato di esaminare l’entità dei redditi percepiti dai coniugi dalle rispettive attività professionali, i quali erano adeguati rispetto ai bisogni della famiglia, con la conseguenza della derivata natura speculativa delle attività societaria.
  2. Le censure che, in quanto involgenti questioni connesse, vanno scrutinate congiuntamente, sono destituite di fondamento.
  3. La tesi sostenuta dal ricorrente secondo il quale “l’iscrizione ipotecaria è atto avente natura esecutiva in quanto attività prodromica all’esecuzione di cui condividerebbe la natura e la disciplina” (pag. 8 del ricorso) argomenta sulla base di alcuni precedenti di questa Corte (Sez. 3, n. 1652 del 29/01/2016; Sez. 5, n. 3600 del 24/02/2016; Sez. 6-5, Ord. n. 23876 del 23/11/2015), che ha affermato l’applicabilità dell’art. 170 c.c. anche all’iscrizione ipotecaria D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 ex art. 77 e lo ha fatto richiamando il precedente di Sez. 3, n. 5385 del 05/03/2013, il quale a sua volta richiama Sez. 5, n. 7880 del 18/05/2012.

Entrambi i precedenti da ultimo citati però argomentano sulla base della premessa che l’ipoteca D.P.R. cit. ex art. 77 abbia natura di atto funzionale all’esecuzione forzata (premessa essenziale al ragionamento, posto che l’art. 170 c.c., si riferisce espressamente, quale attività il cui compimento vieta sui beni del fondo e sui frutti di essi, all’esecuzione). In particolare, evocano al riguardo il tradizionale criterio secondo cui nel concetto di atti di esecuzione rientrano non soltanto gli atti del processo di esecuzione stricto sensu, ma tutti i possibili effetti dell’esecutività del titolo e, dunque, anche l’ipoteca iscritta sulla base dell’esecutività del titolo medesimo, con ciò dunque chiaramente postulando, sia pure alla stregua di tale lato criterio definitorio, la possibilità di definire l’iscrizione de qua quale atto di esecuzione.

Tale premessa non può più, però, essere tenuta ferma alla luce della ricostruzione dell’istituto operata, come noto, dalle Sezioni Unite di questa S.C. con sentenza n. 19667 del 18/09/2014.

Come noto, infatti, tale pronuncia – richiamata e confermata in motivazione anche da Sez. U, ord. n. 15354 del 22/07/2015 – ha escluso che l’iscrizione ipotecaria prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 77, possa essere considerata un atto dell’espropriazione forzata, dovendosi piuttosto essa essere considerata un atto riferito ad una procedura alternativa all’esecuzione forzata vera e propria.

  1. Tale affermazione di principio, dalla quale non si vede ragione per discostarsi, non può non riverberarsi nella materia qui trattata, nella quale, venuta meno la premessa ricostruttiva fondata come detto sulla qualificazione dell’iscrizione ipotecaria D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 ex art. 77 come atto dell’esecuzione, viene meno anche l’applicabilità dell’art. 170 c.c., non sembrando superabile il dato testuale sopra già evidenziato, tanto più ove si consideri che, ponendo la norma una eccezione alla regola della responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c., la stessa è da ritenersi soggetta a interpretazione tassativa (V. anche Cass. n. 23875/2015; n. 10794/2016, in motiv.; Cass. n. 5577/2019).

Alla luce della natura dell’iscrizione ipotecaria, si è dunque affermato che l’iscrizione ipotecaria di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 77, è ammissibile anche sui beni facenti parte di un fondo patrimoniale alle condizioni indicate dall’art. 170 c.c., sicché è legittima solo se l’obbligazione sia strumentale ai bisogni della famiglia o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità a tali bisogni, gravando in capo al debitore opponente l’onere della prova non solo della regolare costituzione del fondo patrimoniale, e della sua opponibilità al creditore procedente, ma anche della circostanza che il debito sia stato contratto per scopi estranei alle necessità familiari, avuto riguardo al fatto generatore dell’obbligazione e a prescindere dalla natura della stessa. (Cass. n. 20998/2018; Cass. n. 1652 del 2016; Cass. n. 22761 del 09/11/2016; Cass. n. 3738/2015; Cass. 23876/2015). In particolare, si è affermato che il creditore può iscrivere ipoteca su beni appartenenti al debitore e conferiti nel fondo, se il debito sia stato contratto per uno scopo non estraneo ai bisogni familiari, ovvero – nell’ipotesi contraria – purché il titolare del credito, per il quale procede alla riscossione, non fosse a conoscenza di tale estraneità, dovendosi ritenere, diversamente, illegittima l’eventuale iscrizione comunque effettuata (v. Cass. n. 23876/2015; Cass. n. 1652/2016; Cass. n. 2998/2018).

Ne consegue che i beni costituenti fondo patrimoniale non possono essere sottratti all’azione esecutiva dei creditori quando lo scopo perseguito nell’obbligazione sia quello di soddisfare i bisogni della famiglia, da intendersi non in senso oggettivo, ma come comprensivi anche dei bisogni ritenuti tali dai coniugi in ragione dell’indirizzo della vita familiare e del tenore prescelto, in conseguenza delle possibilità economiche familiari.

  1. Questa Corte ha, altresì, ribadito che il criterio identificativo dei crediti che possono essere realizzati esecutivamente sui beni conferiti nel fondo va ricercato non già nella natura delle obbligazioni, ma nella relazione esistente tra il fatto generatore di esse e i bisogni della famiglia sicché non assume rilievo la natura per usare le parole del ricorrente – latamente pubblicistica del credito di cui alle cartelle di pagamento (Cass. n. 3738/2015, n. 15886/2014; Cass. n. 31590/2018 in motiv.).

Spetta, pertanto, al giudice di merito di accertare – in fatto – se il debito in questione si possa dire contratto per soddisfare i bisogni della famiglia, (Cass. n. 12998/2006) a prescindere dalla natura della stessa: sicché anche un debito di natura tributaria sorto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale può ritenersi contratto per soddisfare tale finalità, fermo restando che essa non può dirsi sussistente per il solo fatto che il debito derivi dall’attività professionale o d’impresa, dovendosi accertare che l’obbligazione sia sorta per il soddisfacimento dei bisogni familiari, nel cui ambito vanno incluse le esigenze volte al pieno mantenimento ed all’univoco sviluppo della famiglia, ovvero per il potenziamento della capacità lavorativa, e non per esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da interessi meramente speculativi (cfr. Cass. n. 26126/2019; Cass. n. 9188/2016; Cass. n. 3738/2015; Cass. n. 23876/2015, peraltro in riferimento alla riscossione dell’esattore). Errata è dunque quella impostazione che ritiene l’inerenza diretta del debito fiscale con i bisogni della famiglia solo limitatamente alle imposte relative ai redditi prodotti dalle attività conferiti nel fondo (Cass. N. 23876/2015).

  1. La circostanza che il contribuente percepisse altri redditi da lavoro che addizionati a quelli del coniuge erano sufficienti a soddisfare le esigenze della famiglia, appare affermazione tautologica e disancorata dal preciso onere probatorio gravante su chi contesta la pignorabilità dei cespiti.

In primo luogo, l’adeguatezza di detti redditi non può essere valutata in astratto rispetto alle comuni esigenze di una famiglia, atteso che la qualità e quantità dei bisogni di una famiglia vanno valutate in relazione al tenore prescelto in concreto dai coniugi e all’indirizzo impresso alla vita familiare che potrebbero necessitare di redditi cospicui.

In secondo luogo, il ricorrente non ha offerto alcuna prova in merito alle finalità speculative dei redditi societari, limitandosi ad affermare che il lungo lasso di tempo trascorso dalla loro percezione gli aveva impedito di fornire la relativa dimostrazione. Sarebbe stato, invece, onere del ricorrente quanto meno allegare (e poi provare) che il maggior reddito conseguito all’evasione era stato destinato a scopi voluttuari estranei ai bisogni della famiglia: quali investimenti azionari ovvero acquisti di immobili non costituiti nel fondo patrimoniale (Cass. n. 4593/2017 in motiv.); e, del resto, la difficoltà di provare la conoscenza dell’Erario della non inerenza dei crediti alle esigenze della famiglia non integra sul piano giuridico un elemento idoneo a invertire la regola di distribuzione dell’onere probatorio.

  1. Ne consegue che il motivo, concernente proprio l’erronea ripartizione dell’onere probatorio, è destituito di fondamento, in quanto la Corte territoriale, nel porre a carico del ricorrente l’onere di provare l’estraneità dei crediti ai bisogni familiari, ha fatto corretta applicazione dei principi sopra riportati (v. Cass. n. 20998/2018; Cass. n. 222761/2016; Cass. nn. 641 e 5385 del 2015; Cass. nn. 23876 3738 del 2015; Cass. n. 4011 del 2013). Questa Corte ha pure precisato che tali oneri di allegazione e di prova si configurano anche quando si proponga contro l’esattore domanda di declaratoria della illegittimità di una ipoteca iscritta ai sensi del citato D.P.R. n. 602 del 1973, art. 77.
  2. Ciò posto, la censura relativa all’omesso esame delle deduzioni e della contabilità allegata dal contribuente nel giudizio di merito, non si confronta con la ratio decidendi della decisione impugnata, laddove il decidente ha affermato che la sussistenza di altre fonti di reddito con i quali il ricorrente avrebbe soddisfatto i bisogni della famiglia, non lo esimeva dal dimostrare che gli utili percepiti dalla partecipazione societaria erano stati impiegati altrimenti per esigenze speculative o voluttuarie.
  3. Detta censura, peraltro, presuppone una rivisitazione delle prove al fine di giungere ad un accertamento dei fatti divergente da quello compiuta dal giudice di merito.

Il mezzo è inammissibile laddove la parte si limita a sostenere un’interpretazione diversa dei fatti, a fronte della valutazione degli stessi da parte del giudice di merito, richiedendo un nuovo giudizio di merito, laddove il controllo di legittimità non equivale alla revisione del ragionamento decisorio e nemmeno costituisce un terzo grado, ove fare valere la supposta ingiustizia della decisione impugnata (Cass. sez. un. 23/01/2018, n. 1653).

  1. Si osserva, infine, che il ricorrente è altresì tenuto a pagare le sanzioni a lui inflitte, visto che, per ciò che emerge dagli atti, il credito deve ritenersi definitivamente accertato ed oggetto di legittima pretesa.

Una diversa soluzione legittimerebbe, in modo improprio, l’utilizzo del fondo patrimoniale (istituto che ha la finalità di apprestare misure di protezione per i bisogni economici della famiglia) a scopo elusivo: al riguardo, soccorrono i principi concernenti la solidarietà economica e la ratio degli artt. 23 e 53 Cost., i quali, consentendo un corretto bilanciamento delle diverse esigenze, legittima l’iscrizione ipotecaria sul fondo patrimoniale anche per le somme dovute a titolo di sanzioni(Cass. n. 20998/2018, in motiv.).

L’iscrizione ipotecaria non consente alcun vaglio giurisdizionale, fondandosi non su un credito da accertare, ma su un titolo esecutivo portante un credito ormai liquido ed esigibile, il che esclude una valutazione sulla legittimità della iscrizione anche per sanzioni accessorie al debito tributario.

  1. Nel caso di specie, i giudici di merito, in corretta applicazione dei suddetti principi di diritto, hanno ritenuto decisiva la circostanza che il ricorrente non avesse né allegato né, tanto meno, provato, che i redditi aziendali fossero destinati ad esigenze speculative o voluttuarie (e che la creditrice fosse di ciò consapevole), essendosi il predetto limitato ad allegare la congruità dei redditi da lavoro percepiti da entrambi i coniugi ai fini del soddisfacimento delle esigenze della famiglia, le quali possono essere comprensive anche degli ulteriori bisogni ritenuti tali dai coniugi in ragione dell’indirizzo della vita familiare e del tenore prescelto, in conseguenza delle possibilità economiche familiari (Cass. n. 25437/2019; Cass. n. 19578/2019).
  2. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto con aggravio di spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte:

Rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente alla refusione delle spese di lite sostenute dalla concessionaria che liquida in Euro __, oltre rimborso forfettario e accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 12 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2020.

 

Cass. civ. Sez. V Ord. 25_02_2020 n. 5017




Comunione e condominio: precetto inefficace

Comunione e condominio: precetto inefficace per la richiesta dell’importo eccedente la quota millesimale dell’intimato

Tribunale Ordinario di Roma, Sezione IV Civile, Sentenza del 14/02/2020

Con sentenza del 14 febbraio 2020, il Tribunale Ordinario di Roma, Sezione IV Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che laddove il creditore del condominio intimi il pagamento dell’intera obbligazione ad uno o più condomini, ovvero intimi comunque il pagamento della quota ad uno solo condomino, indicando nel precetto l’importo totale del credito, ma senza specificare la misura della quota millesimale dell’intimato, il precetto sarà inefficace per la richiesta dell’importo eccedente la quota millesimale dell’intimato, laddove questi dimostri in concreto la misura di detta quota, ma conserverà la sua efficacia nei limiti di essa.


Tribunale Ordinario di Roma, Sezione IV Civile, Sentenza del 14/02/2020

Comunione e condominio: precetto inefficace per la richiesta dell’importo eccedente la quota millesimale dell’intimato

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Roma

QUARTA SEZIONE

nella composizione monocratica della dott.ssa __

ai sensi degli artt. 281 quater, 281 quinquies, 1° comma, c.p.c. vigente ha pronunciato la seguente

SENTENZA

(a seguito di trattazione scritta)

nella causa civile di primo grado iscritta al numero __ R.G.A.C.C., posta in decisione nell’udienza del __ , pubblicata come da certificazione in calce e vertente tra le seguenti

Parti

L. (opponente)

S. S.r.l. (opposto)

Oggetto: Opposizione a precetto (art. 615, 1° comma c.p.c.)

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con atto di citazione in opposizione a precetto notificato il __ L., proponeva opposizione avverso l’atto di precetto a lui notificato il __ da S. S.r.l. sulla scorta del decreto ingiuntivo n. __ R.G. n. __ emesso dal Tribunale di Roma in data __ e munito della formula esecutiva in data __.

L’attore eccepiva preliminarmente l’incompetenza territoriale del Tribunale di Roma e la competenza del Tribunale di Rieti ai fini dell’emissione del Decreto Ingiuntivo; la mancata previa notifica del titolo esecutivo; l’adempimento dell’obbligazione pro quota quale condomino.

Si costituiva S. S.r.l. che chiedeva il rigetto dell’opposizione, contestando integralmente le deduzioni di controparte, con vittoria delle spese di giudizio.

La causa veniva istruita con prova documentale e trattenuta in decisione all’udienza del __, con concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c.

Vanno preliminarmente qualificate le doglianze mosse da L.

Quella attinente alla mancata previa notifica del titolo esecutivo costituisce un’opposizione agli atti, vertendo essa sulla regolarità formale dell’atto di precetto.

La restante costituisce, invece, un’opposizione preventiva all’esecuzione, postulando l’accertamento del diritto di procedere ad esecuzione forzata della società S. S.r.l. nei confronti di L. sulla scorta del decreto ingiuntivo n. __ emesso dal Tribunale di Roma in data __.

L’opposizione ex art. 615 c.p.c. è fondata e, pertanto, merita accoglimento.

In linea generale, occorre ricordare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’obbligazione (contrattuale) del condominio grava pro parte sui singoli condomini, e non in solido per l’intero sugli stessi (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 8530 del 27/09/1996, Rv. 499798 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 5117 del 19/04/2000, Rv. 535867 – 01; Sez. U, Sentenza n. 9148 del 08/04/2008, Rv. 602479 – 01; Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 14530 del 09/06/2017).

Il titolo formatosi contro il condominio è valido, ai fini dell’azione esecutiva, contro i singoli condomini.

Il creditore del condominio, che abbia ottenuto un titolo esecutivo nei confronti di quest’ultimo, e che intenda agire nei confronti dei singoli condomini per recuperare il proprio credito, non è tenuto ad instaurare e coltivare una serie di distinte procedure esecutive contro ciascun singolo condomino per la rispettiva quota di debito (quindi, in talune ipotesi, per importi irrisori), né è onerato della prova della misura della quota millesimale spettante a ciascuno di tali singoli condomini (onere peraltro di difficile attuazione anche alla luce della novella dell’art. 63 disp. att. c.c.).

L’utilizzabilità del titolo esecutivo formatosi nei confronti del condominio per promuovere l’esecuzione forzata contro i singoli condomini implica di per sé esclusivamente l’onere, per il creditore procedente, di dimostrare la legittimazione passiva, sul piano esecutivo, dei condomini aggrediti, e cioè la loro qualità di condomini.

Laddove il creditore intimi il pagamento dell’intera obbligazione ad uno o più condomini (sostenendo che sono titolari della totalità delle quote condominiali o anche assumendone, erroneamente, la responsabilità solidale per l’intera obbligazione), ovvero intimi comunque il pagamento della quota ad un solo condomino, indicando nel precetto l’importo totale del credito ma senza specificare la misura della quota millesimale dell’intimato, il precetto sarà inefficace per la richiesta dell’importo eccedente la quota millesimale dell’intimato, laddove questi dimostri in concreto la misura di detta quota, ma conserverà la sua efficacia nei limiti di essa.

Il singolo condomino cui sia intimato il pagamento del debito condominiale, per intero, o comunque senza specificazione della sua quota di responsabilità, potrà in altri termini proporre l’opposizione all’esecuzione, ai sensi dell’art. 615 c.p.c., o allegando di non essere condomino o eccependo di essere condomino per una quota millesimale inferiore a quella allegata (esplicitamente o implicitamente) dal creditore.

Nel primo caso l’onere della prova della qualità di condomino spetterà al creditore, trattandosi di un fatto costitutivo della legittimazione passiva all’azione esecutiva del singolo condomino ovvero dell’efficacia del titolo contro l’intimato; nel secondo spetterà all’opponente, trattandosi di allegazione di un fatto (quanto meno assimilabile a quello) modificativo e/o parzialmente impeditivo della legittimazione passiva all’azione esecutiva del singolo condomino, ovvero dell’efficacia del titolo esecutivo per il suo intero importo ( Cass., sez. III, 29 settembre 2017, n. 22856).

In definitiva, laddove il singolo condomino intimato del pagamento del debito del condominio (per intero, o comunque senza specificazione della minor quota su di lui gravante) proponga opposizione all’esecuzione, dovrà dimostrare, a sostegno dell’opposizione proposta, la misura della sua partecipazione condominiale. In caso contrario subirà l’esecuzione per la quota allegata dal creditore e, laddove detta quota non sia stata specificata, per l’intero debito di cui risulti intimato il pagamento (ferme restando, nel vigore della nuova normativa, le limitazioni di cui al secondo comma dell’art. 63 disp. att. c.p.c. in tema di beneficium excussionis).

Come è noto, il disposto dell’art. 63, co. II disp. att. c.c. sancisce un beneficium excussionis a favore dei condomini in regola coi pagamenti degli oneri condominiali.

Ciò significa che il creditore può rivalersi anche su costoro ma solo dopo aver agito preventivamente ed infruttuosamente verso i condomini morosi. Per poter chiedere il pagamento agli altri, peraltro, non è sufficiente un qualsiasi tentativo di ottenere il pagamento dal soggetto moroso: il creditore deve poter dimostrare di aver provato a ottenere il pagamento con ragionevole sforzo e di aver rispettato l’ordine di escussione per come esso emerga dallo stato di ripartizione approvato dall’assemblea condominiale, di cui si occupa il primo comma dell’art. 63 disp. att. c.c.

Ora, tornando al caso in esame, L. ha fornito valida prova della misura della propria quota condominiale, allegando il piano di riparto approvato dall’assemblea sulla base della tabella millesimale del condominio, ed ha dimostrato di non essere moroso rispetto ad essa, documentando i pagamenti effettuati.

Dal suo canto la società opposta ha mancato di documentare di aver escusso infruttuosamente il patrimonio dei condomini morosi nel rispetto dell’art. 63 disp. att. c.c. come novellato.

Non vi è prova infatti che la società S. S.r.l. abbia intrapreso infruttuosamente tutte le procedure esecutive (mobiliari, immobiliari e presso terzi) in danno dei condomini morosi prima di minacciare di aggredire il patrimonio dell’opponente (Tribunale di Monza, 27 aprile 2016).

Conseguentemente, in assenza di prova sufficiente circa il rispetto del criterio di sussidiarietà dettato dall’art. 63 disp. att., la società opposta non ha diritto di agire in esecuzione forzata in danno del condomino L. (Cass., sez. III, 14 maggio 2019, n. 12175).

In definitiva va dichiarata l’inesistenza del diritto di procedere ad esecuzione forzata della società S. S.r.l. nei confronti di L. sulla scorta del decreto ingiuntivo n. __ emesso dal Tribunale di Roma in data __.

L’accoglimento dell’opposizione ex art. 615 c.p.c. determina l’assorbimento delle ulteriori questioni proposte.

Le spese di lite seguono la soccombenza e, tenuto conto della notula in atti, sono liquidate come in dispositivo in applicazione del D.M. n. 55 del 2014 con riferimento ai valori minimi dello scaglione fino ad Euro __ previsti per le fasi di studio, introduttiva e decisoria, stante l’unicità della questione giuridica trattata.

P.Q.M.

Il Tribunale di Roma, nella composizione monocratica in epigrafe, definitivamente pronunziando tra le parti in causa, disattesa ogni altra domanda od eccezione:

– Accoglie l’opposizione e, per l’effetto, dichiara l’inesistenza del diritto di procedere ad esecuzione forzata della società S. S.r.l. nei confronti di L. sulla scorta del decreto ingiuntivo n. __ emesso dal Tribunale di Roma in data __;

– Condanna la società S. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento delle spese di lite a favore di L. che liquida in Euro __ per competenze ed Euro __ per esborsi, oltre accessori di legge, da attribuirsi agli avv.ti __ e __ dichiaratisi antistatari.

Così deciso in Roma, il 13 febbraio 2020.

Depositata in Cancelleria il 14 febbraio 2020.

 

Tribunale Roma Sez. IV 14_02_2020

 

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Reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento

Reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento: accertamento dello stato di insolvenza

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 4737 del 21/02/2020

Con sentenza del 21 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in tema di recupero crediti ha stabilito che nel giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento l’accertamento dello stato di insolvenza va compiuto con riferimento alla data della dichiarazione di fallimento, ma può fondarsi anche su fatti diversi da quelli in base ai quali il fallimento è stato dichiarato, purché si tratti di fatti anteriori alla pronuncia, anche se conosciuti successivamente in sede di gravame e desunti da circostanze non contestate dello stato passivo.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 4737 del 21/02/2020

Reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento: accertamento dello stato di insolvenza

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

F., C., G., in proprio e quali amministratori della Società (OMISSIS) S.p.A., nonché F. quale legale rappresentante della Società (OMISSIS) S.p.A. – ricorrenti –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.p.A. in persona del curatore avv. G. – controricorrente –

Procuratore Repubblica c/o tribunale di Ivrea – intimato –

avverso la sentenza n. 1273/2016 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ da Dott. __;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per il rigetto;

udito per il controricorrente l’avv. __, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1.- Con sentenza depositata in data __, il Tribunale di Ivrea ha dichiarato, su istanza formulata dalla Procura, il fallimento della S.p.A. (OMISSIS), società cancellata dal registro delle imprese l'(OMISSIS), a seguito di scissione totale con patrimonio assegnato alla S.r.l. (OMISSIS) e alla S.p.A. (OMISSIS).

2.- Avverso questa sentenza la società (OMISSIS), F., C. e C., in proprio e quali amministratori della medesima, hanno proposto reclamo L.F., ex art. 18 avanti alla Corte di Appello di Torino. Che lo ha respinto con sentenza pubblicata in data __.

3.- In punto di fallibilità della società scissa, nel caso di scissione totale, la Corte torinese ha rilevato, in primo luogo, che l’utilità di una simile procedura concorsuale è indubbia: a prescindere dal rilievo dell’identità del patrimonio, costituito dalla sommatoria dei patrimoni delle due società, non può non attribuirsi rilievo al carattere illimitato della responsabilità della società madre e alla possibilità, per la curatela, di esercitare azioni, quali quelle connesse alle revocatorie fallimentari precluse alla curatela delle società figlie.

Ha rilevato, inoltre, che lo scioglimento senza liquidazione, di cui all’art. 2506 c.c., comma 3, è connaturato a un evento dissolutivo totale, coincidente con l’estinzione della società e con la cessazione della sua attività, intendendosi come tale l’attività esercitata direttamente dall’operatore economico. La società scissa deve naturalmente avere una cessazione in concomitanza del trasferimento o assegnazione ad altro soggetto del suo patrimonio: altrimenti, rimarrebbe un soggetto solo formalmente in essere, essendosi di fatto dissolto nelle derivazioni societarie.

Nel caso di scissione totale – ha concluso al riguardo la pronuncia non è dato prospettare una mera vicenda modificativa (come nell’ipotesi della fusione per incorporazione) ricorrendo una vera e propria dissoluzione giuridica controbilanciata da un fenomeno successorio.

4.- Quanto al tema dello stato di insolvenza, la Corte territoriale ha osservato che, se è vero che i processi verbali di accertamento dell’Agenzia delle Entrate siano provvisti di natura provvisoria, tuttavia nella specie costituisce oggetto di contestazione un monte di operazioni, definite inesistenti, per un importo complessivo di grande rilievo; sì che il giudizio fallimentare può e deve tenere conto, nel contesto delle risultanze contabili, di una situazione, di impronta negativa, di così vasta portata.

Del resto – ha aggiunto la pronuncia -, lo stato di insolvenza risulta anche da altre circostanze: quale l’entità delle insinuazioni effettuate prima della costituzione in giudizio del fallimento; quale, altresì, il montante dei debiti verso i fornitori, emerso a seguito di richieste formulate dal curatore. Si tratta – ha soggiunto ancora la Corte torinese – di cifre imponenti, che danno contezza di una situazione connotata da un’incapacità ordinaria ad affrontare le obbligazioni scaturenti dall’attività di impresa.

5.- Avverso questa sentenza hanno presentato ricorso i signori F., C. e C., in proprio e quali amministratori della società scissa, nonché la stessa (OMISSIS) S.p.A., svolgendo quattro motivi di cassazione.

Ha resistito il fallimento, con controricorso.

6.- Entrambe le parti hanno anche depositato memorie.

Motivi della decisione

7.- I motivi di ricorso sono intestati nei termini qui di seguito riportati.

Primo motivo: violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2506 c.c. e della L.F., art. 10 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1 n. 3.

Secondo motivo: violazione e/o falsa applicazione della L.F., art. 10 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1 n. 3.

Terzo motivo: violazione e/o falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1 n. 3.

Quarto motivo: violazione e/o falsa applicazione della L.F., art. 5 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1 n. 3. Errata od omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione.

8.- Il primo, il secondo e il terzo motivo di ricorso sono suscettibili di un esame unitario, posto che risultano tutti diretti a svolgere la tesi secondo cui, nel caso di scissione totale, la società scissa non delinea, per sua propria natura, una struttura, un centro di imputazione, o comunque una situazione o fenomeno, assoggettabile a fallimento. Con gli indicati motivi, dunque, i ricorrenti vengono in buona sostanza a volgere quattro gruppi di rilievi.

9.- Il primo consiste in ciò che la scissione non dà vita a un fenomeno successorio e perciò estintivo del soggetto di cui alla società scissa, come ritenuto dalla Corte torinese. In realtà, la stessa determina solo una modificazione dell’atto costitutivo.

A conforto di questa tesi rilevano, in specie, che la norma dell’art. 2506 c.c., comma 1 definisce la scissione come un’operazione di assegnazione del patrimonio; più in generale, affermano la pertinenza e opportunità di una lettura estensiva – o quanto meno analogica – della disciplina della fusione.

10.- Il secondo gruppo rileva che la norma della L.F., art. 10 concerne gli imprenditori che cessano la loro attività. Nel caso della scissione (in genere e in specie in quella totale), invece, l’attività continua senza soluzione di continuità in capo alle beneficiarie: la cancellazione della scissa coincide sostanzialmente con la costituzione delle nuove società.

Di conseguenza, tale norma risulta non applicabile alla fattispecie, come per contro è stato ritenuto dalla Corte territoriale.

11.- Il terzo ordine di rilievi viene a richiamare la norma dell’art. 2506 bis c.c., comma 3. Ad avviso dei ricorrenti, da questa disposizione si desume che (solo) le società beneficiarie rispondono in via solidale degli elementi del passivo non desumibili dal progetto di scissione, pur se nel limite del valore del patrimonio netto ad esse trasferito; responsabilità che si aggiunge a quella solidale di cui all’art. 2506 quater c.c. per i debiti non soddisfatti dalla società a cui fanno carico.

12.- L’ultimo rilievo assume che è errata pure l’affermazione della sentenza impugnata circa l’utilità di una pronuncia di fallimento della scissa.

Nei fatti, l’unico risultato del fallimento di (OMISSIS) – così si segnala sarebbe una moltiplicazione di procedure con aggravio di costi, senza vantaggi concreti per i creditori e con l’insorgere di gravi difficoltà tra i vari soggetti coinvolti.

13.- Il primo, il secondo e il terzo motivo di ricorso non sono fondati e non meritano quindi di essere accolti.

14.- Il punto di riferimento di base dell’esame, che il Collegio è chiamato a compiere, è rappresentato dalla sussistenza di una società che, al momento dell’operazione di scissione, risulta di per sé pienamente fallibile: sia sotto il profilo soggettivo, che sotto il profilo oggettivo.

Rispetto a questo tipo di fattispecie la tesi dei ricorrenti – assumendo che l’operazione di scissione si risolve senza residuo alcuno in una mera modifica dell’atto costitutivo – viene di necessità a predicare una sorta di identità soggettiva tra la società scissa e le società beneficiarie: nelle seconde rifluendo, in specie, la prima (che, per l’appunto, si dichiara non venga a estinguersi e che dovrebbe venire a identificarsi, a quanto pare di doversi intendere, nella sommatoria delle soggettività delle beneficiarie).

Ora, può stimarsi sicuro che, nel vigente sistema normativo, un fenomeno di riorganizzazione societario – quale, tra gli altri, è la scissione -, come pure, più in generale, di modificazione della struttura conformativa del debitore, non può, come principio, realizzare una causa di sottrazione dell’impresa dalla soggezione alle procedure concorsuali.

Ciò significa, a dare corso e sfogo alla tesi dei ricorrenti, che all’esclusione dalle procedure della società scissa dovrebbe senz’altro corrispondere – e in via del tutto automatica – la fallibilità delle società beneficiarie: in via indipendente dalla connotazione soggettiva specifica a ciascuna di esse, e quindi pure in presenza dei requisiti di non fallibilità, di cui alla L.F., art. 1, comma 2; e con piena corrispondenza, altresì, dei termini di aggredibilità del patrimonio debitorio ante e post scissione.

Una simile regola, che all’evidenza non potrebbe non essere espressa, non risulta tuttavia appartenere al novero di quelle vigenti (per il punto dell’aggredibilità patrimoniale, anzi, il legislatore ha positivamente espresso un regime specifico della scissione che non risulta affatto in linea con quello appena ipotizzato: cfr. n. 17, ult. Cpv.).

15.- Il tema della soggezione della società scissa alle procedure concorsuali, d’altronde, non risulta propriamente attenere al piano dell’organizzazione societaria dell’impresa, come sembrano per contro ritenere i ricorrenti (sopra, il n. 9). Attiene, piuttosto, al piano dell’operatività dell’impresa e dei suoi rapporti coi terzi, contraenti e creditori.

Né può essere dubbio che – nel rispetto di questa problematica – le società beneficiarie di una scissione totale e la società scissa siano considerate dalla normativa vigente come soggetti tra loro altri, come distinte strutture soggettive cioè.

Decisamente non convincente si mostra, in questa prospettiva, l’accostamento che i ricorrenti promuovono con l’istituto della fusione societaria. Che questa è, per sé, fenomeno di aggregazione patrimoniale, laddove la scissione all’opposto realizza, per l’appunto, un fenomeno di disaggregazione.

Né va dato credito all’argomento che i ricorrenti ritengono di trarre dal termine assegnazione, a cui ricorre la norma dell’art. 2506 c.c. nel descrivere l’operazione di scissione. Nel lessico dei codici, tale termine, infatti, assume il prevalente significato di trasferimento di uno o più beni dal patrimonio di un soggetto a quello di un altro: cfr., così, le norme degli artt. 2798 e 2925 c.c. e quelle dell’art. 509 c.p.c. e 588 c.p.c. e ss.

Rilevante a questo proposito si manifesta, piuttosto, la disposizione dell’art. 2506 c.c., comma 3 che avvia la società scissa – che stabilisce di non continuare la propria attività – allo scioglimento dell’ente: con cancellazione della società ex art. 2495 c.c., che ne viene così a conseguire, e correlata “estinzione” della medesima (cfr. l’incipit del comma 2 di quest’ultima norma).

16.- Quanto poi alla disposizione della L.F., art. 10, presupposto della sua applicazione altro non è – secondo quanto emerge pianamente dalla lettura del suo testo – che la cancellazione dell’imprenditore dal registro dell’impresa. La norma non presuppone necessariamente che anche la corrispondente attività di impresa venga a cessare sul piano oggettivo, come invece sostengono i ricorrenti (cfr. sopra, il n. 10).

Sotto questo profilo, la posizione della società scissa nell’ipotesi di scissione totale appare per più versi sostanzialmente prossima a quella dell’imprenditore che abbia ceduto ad altri l’intera sua azienda: non a caso, in dottrina, si discute dell’applicabilità al fenomeno della scissione delle regole scritte per la cessione di azienda (con risposta che propende per la verifica norma per norma).

17.- Ciò posto, va ancora osservato che la responsabilità delle beneficiarie per i debiti propri della società scissa, che è sancita dalle norme dell’art. 2506 bis c.c., comma 3 e art. 2506 quater c.c., non vale a eliminare – come sembrano per contro invocare i ricorrenti (sopra, il n. 11) – la responsabilità della società scissa.

Nel nostro sistema, infatti, l’esonero dalla responsabilità patrimoniale, come pure le limitazioni della stessa – e così pure, quindi, la liberazione del debitore durante il corso di rapporto – suppongono una espressa previsione normativa a corredo (cfr. la norma dell’art. 2740 c.c., comma 2). Sì che non potrebbe comunque ritenersi sufficiente a fondare un simile, e dirompente, effetto la mera diversità del tenore letterale della previsione relativa al caso della scissione parziale rispetto a quello per la scissione totale.

Del resto, in assenza di una responsabilità della scissa, potrebbe anche verificarsi il caso – si è opportunamente rilevato in dottrina – di debiti per cui nessuno venga (più) a rispondere illimitatamente. In effetti per quelli, la cui destinazione non è desumibile dal progetto di scissione, la norma dell’art. 2506 ter c.c., comma 3 limita la responsabilità delle beneficiarie al valore effettivo del patrimonio netto attribuito a ciascuna di esse (con correlata esclusione dei beni futuri di cui all’art. 2740 c.c.; riguardo alle limitazioni di aggressione patrimoniale subite dai creditori va pure ricordato che, stante il disposto dell’art. 2506 quater c.c., comma 3, costoro possono rivolgersi alle altre beneficiarie solo allorché non siano stati soddisfatti dalla società a cui fanno carico).

18.- Per altro verso, va ancora osservato – anche a completamento dei rilievi svolti nel numero precedente – che non può in ogni caso essere considerato fattore di ostacolo alla dichiarazione di fallimento della società scissa il fatto che nessuno dei suoi creditori abbia formulato opposizione alla disaggrezione dell’ente ex art. 2506 ter c.c., comma 5 e art. 2503 c.c. Come ha rilevato la pronuncia di Cass., 4 dicembre 2019, n. 31654, lo strumento dell’opposizione dei creditori alla scissione è rimedio non sostitutivo e necessario, ma solo aggiuntivo. Manca, d’altronde, una disposizione ad hoc, che pure sarebbe necessaria in un sistema in cui la procedura fallimentare non è rimessa alla disponibilità dei creditori.

19.- I rilievi, che precedono, rendono anche manifesta l’utilità dell’assoggettamento a fallimento della società scissa, che i ricorrenti hanno contestato (cfr. sopra, il n. 12).

Per completezza di esposizione non pare comunque inopportuno segnalare la pronuncia resa da questa Corte in sede penale, 17 aprile 2018, n. 17163 in tema di bancarotta fraudolenta compiuta dall’amministratore della società scissa; nonché l’appena citata sentenza di Cass., n. 31654/2019, sulla revocatoria dell’operazione di scissione (nella specie parziale; ivi pure il corretto rilievo che la c. d. regola di irretrattabilità della scissione vale solo per il tema della invalidità della relativa operazione e non anche per quello revocatorio), secondo una linea che risulta anche approvata dalla Corte di Giustizia UE (cfr., sentenza 30 gennaio 2020, sezione II, 394/18).

20.- Il quarto motivo di ricorso assume che lo stato di insolvenza della società scissa è stato dedotto dal Tribunale di Ivrea esclusivamente sulla base dei c.d. PVC, processi verbali di contestazione.

Per poi aggiungere che la Corte d’Appello, se riconosce la natura non probatoria dei PVC, ritiene tuttavia di ricavare aliunde la sussistenza dell’insolvenza in capo a (OMISSIS) in base a un criterio presuntivo: ritenendo che, in base agli esiti dei PVC e alla rilevanza delle contestazioni fatte, le rettifiche della Procura di Ivrea operate sui bilanci (OMISSIS)… debbano portare a ritenere sussistente l’insolvenza.

L’istituto della insolvenza per presunzione – così si conclude non esiste nel nostro ordinamento dovendo la stessa essere provata e non presunta.

21.- Il motivo è inammissibile.

Lo stesso trascura, invero, che la pronuncia della Corte torinese ha posto – a base della valutazione relativa all’insolvenza della società scissa – anche ulteriori circostanze, prescindenti dagli accertamenti, che ha espressamente ritenute da sé sole sufficienti per tale proposito.

E così le insinuazioni effettuate prima della costituzione in giudizio del fallimento; come pure il montante dei debiti della scissa versa i fornitori, come emergente a seguito di richieste formulate dal curatore.

Ciò posto, resta da aggiungere che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, nel giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento l’accertamento dello stato di insolvenza va compiuto con riferimento alla data della dichiarazione di fallimento, ma può fondarsi anche su fatti diversi da quelli in base ai quali il fallimento è stato dichiarato, purché si tratti di fatti anteriori alla pronuncia, anche se conosciuti successivamente in sede di gravame e desunti da circostanze non contestate dello stato passivo (cfr., così, Cass., 27 maggio 2015, n. 10952).

22.- In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese seguono il criterio della soccombenza e vengono liquidate nel dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida nella somma di Euro __ (di cui Euro __ per esborsi), oltre a spese forfettarie nella misura del 15% e accessori di legge.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, secondo quanto stabilito dalla norma dell’art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima civile, il 22 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2020.

 

Cass. civ. Sez. I 21_02_2020 n. 4737




L’insinuazione al passivo dei crediti sorti nel corso della procedura fallimentare

L’insinuazione al passivo dei crediti sorti nel corso della procedura fallimentare

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 3872 del 17/02/2020

Con sentenza del 17 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in tema di recupero crediti ha stabilito che l’insinuazione al passivo dei crediti sorti nel corso della procedura fallimentare non è soggetta al termine di decadenza previsto dall’art. 101, commi primo ed ultimo, della L.F. Tale insinuazione, tuttavia, incontra comunque un limite temporale, da individuarsi, in coerenza e armonia con l’intero sistema di insinuazione che è attualmente in essere e sulla scorta dei principi costituzionali di parità di trattamento di cui all’art. 3 Cost. e del diritto di azione in giudizio di cui all’art. 24 Cost., nel termine di un anno, espressivo dell’attuale sistema in materia, decorrente dal momento in cui si verificano le condizioni di partecipazione al passivo fallimentare.


 

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 3872 del 17/02/2020

L’insinuazione al passivo dei crediti sorti nel corso della procedura fallimentare

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __- Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. __ proposto da:

E. S.p.A. – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – controricorrente –

avverso il decreto n. __ del Tribunale di Ancona del __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal cons. Dott. __;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per il rigetto del ricorso, come da requisitoria scritta depositata in atti;

udito, per la ricorrente, l’Avv. __ che si riporta al ricorso ed alle memorie ed insiste per l’accoglimento;

udito, per il controricorrente, l’Avvocato Micci Manola che si riporta e chiede il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

  1. Con ricorso L. F., ex art. 101 del __ E. S.p.A. domandava di insinuare al passivo del fallimento di (OMISSIS) S.r.l. il credito per ripetizione di indebito che vantava direttamente nei confronti della procedura, poiché aveva erroneamente accreditato sul conto della fallita in data __, quando la compagine era già stata dichiarata insolvente, un rimborso di conto fiscale di Euro __, che poi era stato acquisito dalla curatela fallimentare; tale accredito era stato disposto in ragione della cessione a (OMISSIS) S.r.l. del credito vantato da D. S.r.l. nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, ufficio I.V.A. di (OMISSIS), quando ancora non era stato scoperto che l’atto di cessione era stato oggetto di successiva risoluzione consensuale.

Il giudice delegato alla procedura reputava inammissibile la domanda in quanto non vi era prova della non imputabilità del ritardo con cui l’insinuazione era avvenuta, a nulla rilevando la sentenza del Tribunale di Napoli che, in data __, aveva condannato E. S.p.A. a pagare a D. S.r.l. l’importo dovuto, poiché la statuizione non era stata pronunciata anche nei confronti della curatela, rimasta estranea al giudizio.

  1. A seguito del reclamo proposto da E. S.p.A. il Tribunale di Ancona riteneva in via preliminare che i provvedimenti del giudice delegato nel procedimento di formazione del passivo fossero comunque acquisibili, in quanto gli stessi facevano parte del fascicolo d’ufficio della procedura e non integravano documenti relativi alla prova del credito la cui produzione era soggetta a decadenza L.F., ex art. 99, comma 7.

Il collegio dell’opposizione, una volta preso atto che il credito restitutorio era sopravvenuto rispetto alla procedura concorsuale, riteneva poi che, in assenza di una norma che disciplinasse i tempi di insinuazione del creditore sopravvenuto, dovesse farsi applicazione dei principi generali contenuti nella L.F., art. 101; tale creditore, al pari del creditore anteriore, poteva quindi formulare domanda ultratardiva, dimostrando la sua assenza di colpa, ma era tenuto ad attivarsi in un termine sì congruo e ragionevole rispetto alle sue esigenze difensive, ma comunque adeguato in relazione alle esigenze di celerità della procedura di accertamento del passivo, senza avere a disposizione un lasso temporale di dodici o diciotto mesi dall’insorgenza del diritto.

La domanda di insinuazione, presentata nel __, doveva perciò considerarsi più che tardiva rispetto al momento in cui il diritto di credito era sorto, individuabile quanto meno dal rifiuto di rimborso espresso dal curatore nel __, mentre non era rilevante a tal fine – a giudizio del collegio dell’opposizione – la sentenza del Tribunale di Napoli pronunziata nel __, poiché il diritto di E. S.p.A. a ripetere l’eventuale indebito non derivava da tale statuizione.

  1. Per la cassazione di tale decreto ha proposto ricorso, assistito da memoria, E. S.p.A. prospettando tre motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso il fallimento di (OMISSIS) S.r.l.

Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte sollecitando il rigetto del ricorso.

La sesta sezione di questa Corte, inizialmente investita della decisione della controversia, ha rimesso la causa a questa sezione per la trattazione in pubblica udienza.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

4.1 Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione della L.F., art. 99, comma 7, art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio già oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5:  il Tribunale, pur constatando la tardiva costituzione della curatela in sede di opposizione, non avrebbe provveduto a espungere la documentazione prodotta tardivamente e non specificamente indicata, dalla quale aveva tratto la dimostrazione dell’epoca a cui risaliva il decreto di esecutività delle domande tempestive e del carattere ultratardivo dell’insinuazione presentata, e avrebbe omesso di pronunciarsi sulla questione sollevata dall’opponente con il suo primo motivo di opposizione; in proposito il collegio dell’opposizione si sarebbe limitato a fare richiamo a un precedente di legittimità affatto diverso, riguardante l’acquisizione della domanda di insinuazione tempestiva ritenuta indispensabile ai fini della decisione, mentre nel caso di specie si trattava di apprezzare un documento tardivamente prodotto a sostegno dell’eccezione sollevata dalla curatela.

4.2 Il motivo è infondato.

Il collegio dell’opposizione ha ritenuto che i provvedimenti del GD nel procedimento di formazione dello stato passivo fossero comunque acquisibili – al pari della istanza di insinuazione: v Cass. 3164/2014 in quanto facenti parte del fascicolo d’ufficio della procedura e non integranti documenti relativi alla prova del credito la cui produzione sia soggetta alla decadenza prevista dalla L.F., art. 99, comma 7; risultava quindi di nessun rilievo la tardività con cui la curatela, costituendosi, aveva depositato la documentazione relativa alla formazione dello stato passivo delle domande di insinuazione tempestive.

La doglianza in esame contesta un simile assunto, ritenendo che la produzione dello stato passivo e del relativo decreto di esecutività fosse soggetta ai termini di decadenza previsti dalla L.F., art. 99 per il deposito dei documenti di cui le parti intendessero avvalersi al fine di suffragare le proprie tesi difensive.

Una simile censura si fonda sull’erronea commistione della disciplina concernente i documenti prodotti dalle parti con quella riguardante gli atti e i provvedimenti attinenti al procedimento.

Questi atti e provvedimenti, formati dagli organi della procedura o assunti dall’autorità giudiziaria nel progressivo evolversi del fallimento, sono raccolti nel fascicolo di cui alla L.F., art. 90 e rimangono nella disponibilità del giudice delegato e del Tribunale fallimentare, che possono liberamente attingere a tale fascicolo al fine di verificare e prendere in esame le statuizioni adottate nel corso del procedimento concorsuale.

I provvedimenti del giudice delegato di formazione dello stato passivo delle domande di insinuazione tempestivamente presentate e il relativo decreto di esecutività non necessitano quindi di produzione e sfuggono alle regole in materia, perché sono atti del fascicolo d’ufficio consultabili da parte del Tribunale direttamente e senza impedimento alcuno.

5.1 Il secondo mezzo lamenta la violazione e falsa applicazione del disposto della L.F., art. 101, u.c. in relazione alla L. Fall., artt. 111 e 111 bis, art. 112 c.p.c., art. 14 preleggi e art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 3: E. aveva domandato l’ammissione al passivo rappresentando di vantare un credito di natura restitutoria sorto successivamente alla dichiarazione di fallimento, direttamente nei confronti della massa dei creditori, da soddisfarsi in prededuzione, al quale – in tesi di parte ricorrente – non si sarebbero dovuti applicare i termini di decadenza previsti dalla L.F., art. 101, comma 1, e la connessa disposizione di cui all’u.c., dato che la L.F., art. 111-bis stabilisce che le modalità e non i termini di accertamento dei crediti prededucibili contestati siano quelli previsti dal capo V L.F.; né sarebbe stato possibile sostenere – ha concluso la ricorrente – che il creditore concorsuale sia equiparabile agli altri creditori tempestivi o tardivi e sia così onerato, per esigenze di celerità ed efficienza proprie dell’accertamento del passivo fallimentare, ad attivarsi per l’insinuazione del proprio credito entro termini ragionevoli da ricavare, tenendo conto di quelli previsti per gli altri creditori concorsuali, con decorrenza dalla esigibilità del credito, in quanto il creditore prededucibile deve sempre essere soddisfatto integralmente e con priorità rispetto ai creditori concorsuali.

5.2 Il motivo in esame non contesta l’assunto del Tribunale secondo cui al creditore sopravveniente non trova applicazione diretta il disposto della L.F., art. 101, ma intende criticare la tesi secondo cui la sua domanda di insinuazione sarebbe soggetta ai principi generali evincibili da tale norma e dunque al rispetto di un termine, congruo e ragionevole, ma comunque adeguato rispetto alle esigenze di celerità della procedura di accertamento del passivo.

La doglianza non è fondata, nei termini che si vanno a illustrare.

5.2.1 La giurisprudenza di questa Corte si è già ripetutamente espressa nel senso di escludere l’applicazione del termine decadenziale di dodici (o sino a diciotto) mesi dal deposito di esecutività dello stato passivo, di cui alla L.F., art. 101, commi 1 e 4, nei confronti dei crediti sopravvenuti (si vedano in questo senso Cass. 31 luglio 2015 n. 16218, relativa a un credito per rimborso dell’acconto sul prezzo di un acquisto immobiliare versato a seguito di preliminare poi sciolto dal curatore, Cass. 31 luglio 2018 n. 20310, concernente un credito in prededuzione per canoni e indennizzi per occupazione maturati tra la sentenza dichiarativa e la riconsegna dell’immobile, Cass. 18 gennaio 2019 n. 1391, in tema di credito da inadempimento di un contratto di fornitura stipulato nell’ambito di una procedura di amministrazione straordinaria, Cass. 12 marzo 2019 n. 13461 rispetto a un danno aquiliano procurato a terzi nel corso dell’amministrazione straordinaria, Cass. 20 giugno 2019 n. 18544, relativa a un credito legato allo scioglimento di un contratto immobiliare di trasferimento stabilito dal curatore L.F., ex art. 72, nonché Cass. 7 novembre 2019 n. 28799, in merito a crediti da indennità o corrispettivo maturati in relazione a immobili dopo la sentenza dichiarativa di fallimento).

Ora, nuovi crediti possono sorgere nei casi previsti dalla legge durante tutto l’arco della procedura, anche in fase assai avanzata, sicché il termine decadenziale previsto dalla L.F., art. 101. ben potrebbe essere già scaduto alla data del sorgere del credito.

In questi casi non è possibile ritenere che i crediti così sorti rimangano privi di un adeguato spazio temporale per la presentazione dell’insinuazione, non costituendo a ciò rimedio adeguato l’opinione secondo cui, costituendo il carattere sopravvenuto del credito stesso ragione di non imputabilità del ritardo dell’insinuazione, quest’ultima sarebbe comunque ammissibile ai sensi della L.F., art. 101, u.c. (Cass. 16218/2015).

Inimputabilità del ritardo e sopravvenienza del credito non sono infatti situazioni che si sovrappongono in modo perfetto – annota la citata pronuncia -, richiamando l’esempio del credito L.F., ex art. 70, comma 2, (collegandosi pure in via espressa alla sentenza di Cass. 3 giugno 2004 n. 10678, secondo la quale il sistema, se non considera illecita la prestazione del fallito soggetta a revocatoria, non apprezza però, nella posizione del convenuto soccombente in revocatoria, ragioni meritevoli di particolare tutela).

L’esempio, del resto, ben potrebbe essere replicato (e secondo linee dai contorni, nel concreto, anche non poco sfumati): si pensi anche solo all’ipotesi del credito da indennizzo L.F., ex art. 104 bis, comma 3 aggiunge Cass. 18544/2019, che conclude sostenendo che in definitiva il punto non sembra sfuggire alla osservazione che – ben potendo la sopravvenienza del credito risultare (per un verso o per altro) imputabile al creditore – l’applicazione della norma dell’art. 101 viene a comportare, per una serie (aperta) di crediti, la privazione della stessa possibilità di insinuarsi nel passivo fallimentare.

5.2.2. Nel caso poi in cui il termine, al momento del sorgere del credito, non sia scaduto, al creditore sopravvenuto residuerebbe, per provvedere all’insinuazione, un tempo comunque più breve di quello a disposizione dei creditori preesistenti, con conseguenti dubbi di legittimità costituzionale sotto il profilo del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) e del diritto di azione in giudizio (art. 24 Cost.).

Sotto il profilo del diritto di azione l’applicazione della L.F., art. 101 ai crediti sopravvenuti introdurrebbe una decadenza non prevista dalla legge ma derivata da un intervento di natura pretoria, mettendo a repentaglio i principi espressi dall’art. 24 Cost.: in vero, nel caso in cui il credito sopravvenga dopo il deposito del decreto di esecutività dello stato passivo (tempo da cui decorre il periodo annuale fissato dall’art. 101), per tale credito la decadenza verrebbe a operare non solo allo spirare di un periodo di tempo inferiore di quello stabilito dall’art. 101, ma pure secondo una dinamica diversa da quella stabilita da questa norma e costituita, invece, dal tempo di nascita del credito.

Sotto il primo profilo invece l’applicazione della L.F., art. 101 comporterebbe un’evidente discriminazione dei creditori sopravvenuti rispetto agli altri a dispetto del principio della parità di trattamento previsto dall’art. 3 Cost.; discriminazione che risulta ancor più marcata laddove si consideri che i creditori anteriori (quali quelli che, per l’appunto, hanno ormai maturato le condizioni di partecipazione al concorso al tempo della sentenza dichiarativa), posseggono già – prima di entrare nella fase di tardività regolata dalla norma dell’art. 101 ampi margini temporali per la gestione e proposizione delle loro domande di insinuazione.

5.2.3 Né è possibile fare ricorso al disposto della L.F., art. 111-bis, là dove la norma prevede che i crediti prededucibili devono essere accertati, con le modalità di cui al capo V della legge medesima, al fine di dare fondamento normativo all’applicazione, nel caso di specie, alla L.F., art. 101.

La tecnica del rinvio normativo comporta sempre (e tanto più quando si tratta, come nel caso, di rinvii di particolare ampiezza) un’applicazione condotta nei limiti della compatibilità.

Nella specie, del resto, il rinvio alla normativa del Capo V, che è operato dall’art. 111-bis, concerne (solo) le modalità (di accertamento dei crediti), non (anche) i termini.

D’altro canto – osserva, a ragione, Cass. 18544/2019 – i crediti sopravvenuti ben possono essere semplici chirografi: né v’è bisogno di indugiare per mostrare l’inutile complicazione che deriverebbe dal diversificare, in punto di termini, i crediti sopravvenuti prededucibili e i crediti sopravvenuti chirografi.

5.2.4 Le esigenze di celerità e concentrazione del procedimento di verifica del passivo non bastano a giustificare l’applicazione non solo delle modalità di accertamento dei crediti sopravvenuti, pacificamente ritenute applicabili, bensì pure dei termini di decadenza previsti dalla L.F., art. 101.

In proposito già Cass. 16218/2015 ha opportunamente osservato che le controindicazioni della soluzione qui accolta, sotto il profilo della rapidità delle operazioni di verifica del passivo, non vanno drammatizzate, perché il creditore sopravvenuto che tardi a insinuarsi pur dopo il sorgere del proprio credito va comunque incontro a inconvenienti di non scarso rilievo. Egli, infatti, concorrerà soltanto ai riparti dell’attivo successivi all’insinuazione. Potrà anche, in base alla L.F., art. 112, avere diritto a prelevare, in quel riparto, le quote che gli sarebbero spettate nelle precedenti ripartizioni, ove si valuti che il ritardo dovuto all’inesistenza del credito dipenda da causa non imputabile, ma sarà comunque esposto al rischio di impraticabilità di un tale prelievo mano a mano che, con il susseguirsi dei riparti dell’attivo, si assottigliano le risorse dell’attivo.

D’altra parte le indubbie esigenze di celerità e di concentrazione della procedura dell’accertamento fallimentare debbono comunque trovare coordinamento con i principi costituzionali sopra richiamati, che non possono venire tralasciati rispetto al creditore sopravvenuto.

5.2.5 Una volta riconosciuta la correttezza della valutazione del Tribunale che ha escluso l’applicabilità diretta al caso di specie della L.F., art. 101 ai crediti sopravvenuti, si tratta di valutare – entrando nel cuore del problema sollevato con il motivo di ricorso – se dalla norma sia possibile mutuare principi che disciplinino anche i termini di presentazione delle domande di insinuazione per i crediti sopravvenuti. Questa Corte, in passato, ha ritenuto che rispetto all’insinuazione di un credito sorto in epoca posteriore alla data di approvazione dello stato passivo occorresse fare riferimento a un criterio razionale che valutasse il tempo impiegato per la proposizione della domanda, computandolo dal momento di insorgenza del credito fino alla data dell’insinuazione, e ha valutato eccessivo, in assenza di adeguata e specifica giustificazione, un intervallo temporale di quasi due anni (Cass. 19679/2015).

L’assunto è stato affinato più di recente (Cass. 18544/2019), quando si è rappresentato, in termini condivisi da questo collegio, che la disciplina positivamente applicabile per l’insinuazione di tali crediti non possa essere che ricavata in via sistematica, con riguardo ai principi generali dell’ordinamento e facendo perno, in particolare, sui richiamati principi costituzionali dell’art. 3 Cost. e dell’art. 24 Cost.

Per portare i crediti sopravvenuti a una posizione adeguatamente accostabile a quella degli altri creditori, si deve fermare pertanto un termine annuale per la presentazione delle relative domande.

Questo termine verrà a decorrere – in tutti i casi in cui il credito abbia maturato le condizioni di partecipazione al passivo dopo il deposito del decreto di esecutività dello stato passivo – dal momento stesso in cui si siano verificate le dette condizioni.

In applicazione di tale principio – a cui questo collegio intende dare continuità – il decreto impugnato andrà dunque corretto, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4, laddove afferma che il creditore sopravvenuto abbia la possibilità di insinuarsi al passivo non nel termine di dodici mesi dall’insorgenza del suo credito sopravvenuto, ma in un indeterminato tempo adeguato alle esigenze di celerità della procedura di accertamento del passivo.

Rimane esente da emenda invece la conclusione a cui è giunto il collegio dell’opposizione rispetto alla tardività dell’iniziativa del creditore, dato che il principio appena riaffermato ha comunque trovato applicazione laddove è stata considerata tardiva un’iniziativa assunta a distanza di quasi quattro anni dal venir meno della causa incolpevole impeditiva dell’azione, costituita dal rifiuto del rimborso da parte del curatore fallimentare.

Al riguardo occorrerà dunque affermare il seguente principio: l’insinuazione al passivo dei crediti sorti nel corso della procedura fallimentare non è soggetta al termine di decadenza previsto dalla L.F., art. 101, comma 1 ed u.c.; tale insinuazione tuttavia incontra comunque un limite temporale, da individuarsi – in coerenza e armonia con l’intero sistema di insinuazione che è attualmente in essere e sulla scorta dei principi costituzionali di parità di trattamento di cui all’art. 3 Cost. e del diritto di azione in giudizio di cui all’art. 24 Cost. – nel termine di un anno, espressivo dell’attuale sistema in materia, decorrente dal momento in cui si verificano le condizioni di partecipazione al passivo fallimentare.

6.1 Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, – nullità del decreto impugnato e del procedimento – per aver il Tribunale omesso di pronunziarsi in ordine alla domanda subordinata di ammissibilità del ricorso L. Fall., ex art. 101 per la ricorrenza di oggettiva e valida causa giustificativa del ritardo di cui alla L. Fall., art. 101, u.c.: il collegio dell’opposizione avrebbe erroneamente trascurato di rilevare che la sentenza del Tribunale di Napoli, pubblicata in data __, costituiva oggettiva e valida causa giustificativa del ritardo, ai sensi della L.F., art. 101, u.c., poiché soltanto con tale statuizione era stato escluso il carattere liberatorio del pagamento eseguito da E. nei confronti del Fallimento (OMISSIS); nel contempo il Tribunale avrebbe omesso di apprezzare le circostanze di fatto addotte per sostenere la tempestività del ricorso, o comunque l’esistenza di una causa giustificativa del ritardo, e di pronunciarsi in merito.

6.2 Il motivo è inammissibile.

Il Tribunale ha individuato a chiare lettere nel rifiuto di rimborso da parte del curatore il momento da cui l’insinuazione poteva essere presentata, ritenendo irrilevanti a tal riguardo, espressamente, la pronuncia di una sentenza di condanna ad effettuare il medesimo pagamento nei confronti dell’originario cedente e, implicitamente, le circostanze di fatto già addotte in quella sede di merito al fine di sostenere il carattere liberatorio del pagamento già compiuto in favore della procedura.

La doglianza in esame appare perciò volta a contestare, piuttosto che l’omissione di una pronuncia, le valutazioni poste a fondamento della pronuncia adottata, benché l’individuazione del momento in cui si verificano le condizioni di partecipazione al passivo fallimentare implichi un accertamento di fatto, rimesso alla valutazione del giudice di merito, che, se congruamente e logicamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità (Cass. 21661/2018, Cass. 19017/2017).

  1. In forza dei motivi sopra illustrati il ricorso deve essere pertanto respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro __, di cui Euro __ per esborsi, oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 21 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2020

Cass. civ. Sez. I 17_02_2020 n. 3872




Nel giudizio di opposizione all’esecuzione non è consentito rimettere in discussione la titolarità dell’azione esecutiva

Nel giudizio di opposizione all’esecuzione non è consentito rimettere in discussione la titolarità dell’azione esecutiva

Corte d’Appello di Catanzaro, Sezione II Civile, Sentenza del 17/01/2020

Con sentenza del 17 gennaio 2020, la Corte d’Appello di Catanzaro, Sezione II Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che nel giudizio di opposizione all’esecuzione non è consentito rimettere in discussione la titolarità dell’azione esecutiva nei confronti del soggetto a favore del quale la sentenza ha accertato il diritto alla prestazione, al cui conseguimento è diretta l’azione esecutiva. Ciò in quanto, con l’opposizione all’esecuzione forzata fondata su titolo esecutivo giurisdizionale possono farsi valere soltanto i fatti posteriori alla formazione del provvedimento costituente titolo esecutivo non essendo ammissibile un controllo a ritroso della legittimità e della fondatezza del provvedimento stesso fuori dell’impugnazione tipica e del procedimento che ad essa consegue.


 

Corte d’Appello di Catanzaro, Sezione II Civile, Sentenza del 17/01/2020

Nel giudizio di opposizione all’esecuzione non è consentito rimettere in discussione la titolarità dell’azione esecutiva

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

CORTE DI APPELLO DI CATANZARO

Sezione Seconda Civile

Riunita in camera di consiglio e composta dai seguenti Magistrati:

Dott.ssa __ – PRESIDENTE

Dott. __ – CONSIGLIERE

Dott.ssa __ – CONSIGLIERE REL.

ha emesso la seguente

SENTENZA

nella causa civile n. __ R.G.A.G., trattenuta in decisione all’udienza del __, previa concessione dei termini ex art. 190 c.p.c., vertente

TRA

L. e I. – APPELLANTI

E

F., A., P. fu P. – APPELLATI

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

par. 1. Il giudizio di primo e di secondo grado

1.1. Con atto di citazione del 15 dicembre 2014 le signore L. e I. proponevano opposizione all’atto di precetto loro notificato il __, con il quale F., A. e P. fu P. intimavano alle opponenti nella loro qualità di eredi di R., di consegnare l’immobile sito in __, alla Via __.

A sostegno dell’opposizione, deducevano di avere rinunciato all’eredità del de cuius con atto n. __ repertorio e n. __ cronologico del Tribunale di Cosenza. Evidenziavano, altresì, come esse opponenti, lungi dal prendere posizione sui fatti di causa (esclusa cioè un’attività difensiva su facoltà proprie) (cfr. atto di citazione pag. 2), non potessero comunque esimersi dal rappresentare al Tribunale la presenza di vizi giuridici rilevabili d’ufficio, all’interno del titolo oggi azionato (sentenza) contro di loro (cfr. atto di citazione pag. 2), e, segnatamente, la circostanza per la quale l’immobile chiesto in restituzione dai sigg. S., A. e P., è un bene demaniale di proprietà della Pubblica Amministrazione (Regione Calabria) ed i richiedenti in precetto non posseggono alcuna legitimatio ad causam sul bene in questione (cfr. atto di citazione pag. 2).

Tanto dedotto, argomentato ed eccepito, così concludevano: “Voglia il Tribunale adito, respinta ogni contraria domanda, eccezioni e deduzioni, 1. dichiarare la loro estromissione dal giudizio de quo; 2. dichiarare, in diritto ed ex officio, l’inefficacia derivata dell’atto di precetto opposto; 3. dichiarare che gli attori non devono alcunché ai sigg.ri F., A. e P. per le causali cui alla sentenza nr. __ del __ emessa dal Tribunale civile di Cosenza; con vittoria di spese, diritti e compensi professionali di avvocato” (cfr. atto di citazione pag. 3).

Radicatosi il contraddittorio, si costituivano in giudizio F., A. e P. fu P. resistendo all’opposizione, chiedendone il rigetto.

Rigettata l’istanza di sospensione della procedura esecutiva, acquisita la documentazione prodotta dalle parti, la causa veniva decisa con sentenza resa ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c. all’udienza del __ con cui il Tribunale di Cosenza rigettava l’opposizione e condannava le opponenti L. e I. al pagamento in favore degli opposti delle spese processuali.

Il Giudice di prime cure, in sintesi, rigettava la domanda ritenendo inefficace la rinuncia all’eredità di R. da parte di L. e di I., rispettivamente moglie e figlia del de cuius, per avere costoro, in data successiva alla rinuncia, proposto appello dinanzi alla Corte di Appello di Catanzaro avverso la sentenza __ su cui si fonda il precetto opposto, e opposizione avverso l’avviso di rilascio del compendio immobiliare di cui il loro dante causa era stato condannato alla restituzione sempre dalla citata sentenza, agendo, sia nell’atto di appello che nell’opposizione agli atti esecutivi, nella loro qualità di eredi di R. (cfr. sentenza pag. 2).

1.2. Avverso questa sentenza, non notificata, L. e I., con atto di citazione notificato il __, interponevano appello, affidato a tre motivi.

Con il primo motivo denunciavano la erroneità della sentenza di primo grado per non avere il Tribunale cosentino rilevato che a proporre appello avverso la sentenza __ era stato tale D. e non I. e L. (cfr. atto di appello pag. 5) e che l’opposizione avverso l’avviso di rilascio del compendio immobiliare de quo era stato da esse proposto non in qualità di eredi ma in quanto destinatari in proprio di uno sfratto/rilascio di un immobile (casetta in lamiera sita in via __ di __) non oggetto di sentenza né di precetto (cfr. atto di appello pag. 5), sì che, conclusivamente sul punto, la loro rinuncia formale all’eredità è da considerare valida ed efficace (cfr. atto di appello, pag. 5).

Con il secondo motivo deducevano la nullità della sentenza di primo grado per omessa valutazione dei mezzi di prova richiesti e per mancanza di esposizione delle ragioni di fatto e di diritto in ordine alla effettiva individuazione dell’immobile oggetto di sentenza e di precetto (cfr. atto di appello, pag. 5). Argomentavano le appellanti che, il Tribunale cosentino aveva omesso di pronunciarsi sulla circostanza evidenziata dal nuovo difensore delle opponenti nella memoria ex art. 183 comma 6 n. 1 e cioè che l’atto di precetto opposto pedissequo a sentenza, aveva come oggetto un bene diverso rispetto a quello contenuto in sentenza (cfr. atto di appello, pag. 3), dacché l’atto di precetto notificato alle appellanti contiene l’indicazione di un immobile sito alla via __ diverso rispetto a quello indicato nella sentenza n. __ del __ (via __).

Con il terzo motivo deducevano la nullità della sentenza “atteso che è evidente che il Tribunale abbia ritenuto di non dover spendere alcuna parola circa le eccezioni formulate nell’atto di opposizione a precetto affermando GENERICAMENTE per i superiori rilievi, l’opposizione a precetto va rigettata, rimanendo assorbiti gli ulteriori motivi di doglianza attinenti, peraltro, al contenuto decisorio del titolo giudiziale su cui l’atto di precetto opposto si fonda.” (cfr. atto di appello pag. 6).

Si costituivano in giudizio gli appellati, eccependo la inammissibilità del gravame secondo il disposto dell’art. 348-bis c.p.c., e, comunque, la sua infondatezza, chiedendone il rigetto.

Acquisito il fascicolo di ufficio del giudizio di primo grado, con ordinanza in data __ l’intestata Corte di Appello dichiarava l’inammissibilità delle richieste istruttorie avanzate dalle parti appellanti e rinviava per la precisazione delle conclusioni.

Indi, all’udienza del __, precisate le conclusioni, la causa veniva riservata in decisione previa assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito di comparsa conclusionale e di memoria di replica.

Entrambe le parti depositavano soltanto la comparsa conclusionale.

par. 2. Le questioni preliminari

2.1. L’eccezione di inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c. non può essere esaminata essendo già stata superata la fase processuale a tanto deputata. È noto, invero, che l’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. può essere pronunciata solo all’udienza di cui all’art. 350 c.p.c., prima di procedere alla trattazione e sentite le parti (cfr. Cass. civ., 20 luglio 2018, n. 19333).

par. 3. Le valutazioni della Corte

3.1. Privo di pregio giuridico è il primo motivo di gravame con il quale le impugnanti denunciano la erroneità della sentenza di primo grado per non avere il Tribunale cosentino rilevato che a proporre appello avverso la sentenza __ era stato tale D. e non I. e L. (cfr. atto di appello pag. 5) e per non avere considerato che l’opposizione avverso l’avviso di rilascio del compendio immobiliare de quo era stato da esse proposto non in qualità di eredi ma in quanto destinatari in proprio di uno sfratto/rilascio di un immobile (casetta in lamiera sita in via __ di __) non oggetto di sentenza né di precetto (cfr. atto di appello pag. 5), sì che, conclusivamente sul punto, la loro rinuncia formale all’eredità è da considerare valida ed efficace (cfr. atto di appello, pag. 5).

L’infondatezza del motivo emerge in maniera lampante dal mero esame della documentazione citata dalle appellanti.

Ed invero, se è pur vero che D., nella qualità di erede di R., risulta aver proposto appello avverso la sentenza __ del __ (v. doc. 4 allegato al fascicolo di parte opponente), è altrettanto certo che autonomo atto di appello avverso la medesima sentenza risulta proposto da L. e I., nella loro qualità di eredi di R. (cfr. pag. 1 dell’atto di citazione in appello notificato il __ all’Avv. C., domiciliatario dei sigg.ri F. e P., allegato al fascicolo di parte opposta, doc. 1).

Egualmente, l’opposizione avverso l’avviso di rilascio del compendio immobiliare de quo risulta essere stata proposta da L. e I., nella loro qualità di eredi del compianto R. (cfr. pag. 1 del ricorso in opposizione agli atti esecutivi con istanza di sospensione dell’esecuzione, allegato al fascicolo di parte opposta, doc. 2).

3.2. Egualmente, privo di fondamento giuridico appare il secondo motivo di gravame con il quale le appellanti deducono la nullità della sentenza di primo grado per omessa valutazione dei mezzi di prova richiesti e per mancanza di esposizione delle ragioni di fatto e di diritto in ordine alla effettiva individuazione dell’immobile oggetto di sentenza e di precetto (cfr. atto di appello, pag. 5).

Più in particolare, lamentano la omessa pronuncia, da parte del Tribunale cosentino, in merito alla circostanza evidenziata dal nuovo difensore delle opponenti nella memoria ex art. 183 comma 6 n. 1 del __ e cioè che l’atto di precetto opposto pedissequo a sentenza, aveva come oggetto un bene diverso rispetto a quello contenuto in sentenza (cfr. atto di appello, pag. 3), dacché l’atto di precetto notificato alle appellanti contiene l’indicazione di un immobile sito alla via __ diverso rispetto a quello indicato nella sentenza n. __ del __ (via __).

Orbene, nel giudizio di opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. – giudizio che si configura come preordinato all’accertamento negativo del diritto di procedere ad esecuzione forzata – l’opponente ha veste sostanziale e processuale di attore; pertanto, le eventuali eccezioni da lui sollevate per contrastare il diritto del creditore a procedere ad esecuzione forzata costituiscono causa petendi della domanda proposta con il ricorso in opposizione e sono soggette al regime sostanziale e processuale della domanda. Ne consegue che l’opponente non può mutare la domanda modificando le eccezioni che ne costituiscono il fondamento, né il giudice può accogliere l’opposizione per motivi che costituiscono un mutamento di quelli espressi nel ricorso introduttivo, ancorché si tratti di eccezioni rilevabili d’ufficio (cfr. Cass. civ., 20 gennaio 2011, n. 1328; conf. Cass. civ., 28 luglio 2011, n. 16610). È dunque evidente che l’opposizione all’esecuzione va condotta sulla base dei motivi di opposizione proposti, che non possono essere modificati dall’opponente nel corso del giudizio neppure con la memoria ex art. 183, comma sesto, n. 1, c.p.c., che consente alle parti di precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già proposte.

Correttamente, pertanto, il Tribunale cosentino non ha tenuto conto del motivo relativo all’allocazione del bene oggetto dell’esecuzione forzata, introdotto dalle opponenti soltanto con la memoria ex art. 183, comma sesto, n. 1, c.p.c., trattandosi di motivo nuovo, diverso cioè da quello dedotto con l’atto introduttivo del giudizio di opposizione.

3.3. Quanto poi al terzo motivo di appello con cui le impugnanti deducono la nullità della sentenza atteso che è evidente che il Tribunale abbia ritenuto di non dover spendere alcuna parola circa le eccezioni formulate nell’atto di opposizione a precetto affermando GENERICAMENTE per i superiori rilievi, l’opposizione a precetto va rigettata, rimanendo assorbiti gli ulteriori motivi di doglianza attinenti, peraltro, al contenuto decisorio del titolo giudiziale su cui l’atto di precetto opposto si fonda” (cfr. atto di appello pag. 6), reputa la Corte che, in disparte la sua genericità, esso non colga la ratio decidendi sottesa alla pronuncia di primo grado.

Ed invero, il primo giudice, con sia pure implicito riferimento alla eccezione di carenza di legittimazione ad causam dei sig.ri F. e P. formulata dalle opponenti nell’atto introduttivo del giudizio, sul presupposto che l’immobile chiesto in restituzione dai sigg. F., A. e P., è un bene demaniale di proprietà della Pubblica Amministrazione (Regione Calabria) ed i richiedenti in precetto non posseggono alcuna legitimatio ad causam sul bene in questione (cfr. atto di citazione pag. 2), e sia pure al solo fine di rappresentare al Tribunale la presenza di vizi giuridici rilevabili d’ufficio, all’interno del titolo oggi azionato (sentenza) contro di loro (cfr. atto di citazione pag. 2), pur ritenendolo assorbito, ha comunque precisato che si trattava di motivo di doglianza attinente al contenuto decisorio del titolo giudiziale su cui l’atto di precetto si fonda, vale a dire la sentenza n. __ del __ con cui il Tribunale di Cosenza ha ordinato a R., dante causa delle appellanti, la restituzione degli immobili in parola agli odierni appellati.

Così argomentando, il Tribunale ha fatto corretta applicazione del principio di diritto secondo cui nel giudizio di opposizione all’esecuzione non è consentito rimettere in discussione la titolarità dell’azione esecutiva nei confronti del soggetto a favore del quale la sentenza ha accertato il diritto alla prestazione, al cui conseguimento è diretta l’azione esecutiva (v. Cass. Sez. Un., 18 luglio 1973, n. 2099). Ciò in quanto, con l’opposizione all’esecuzione forzata fondata su titolo esecutivo giurisdizionale possono farsi valere soltanto i fatti posteriori alla formazione del provvedimento costituente titolo esecutivo non essendo ammissibile un controllo a ritroso della legittimità e della fondatezza del provvedimento stesso fuori dell’impugnazione tipica e del procedimento che ad essa consegue.

L’appello va dunque rigettato.

par. 4. Le spese di lite

4.1. Le spese di lite del grado di giudizio, liquidate come in dispositivo in base al valore della controversia secondo i parametri medi di cui al D.M. n. 55 del 2014 e al D.M. n. 37 del 2018 (valore della causa indeterminabile – complessità bassa), escluso il compenso per la fase istruttoria perché non tenuta e ridotta la fase decisionale in misura del 30% per non avere gli appellati depositato la memoria di replica, seguono la soccombenza.

4.2. Sussistono i presupposti per la declaratoria, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dell’obbligo delle appellanti di pagare l’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’appello.

P.Q.M.

La Corte di Appello di Catanzaro, Seconda Sezione Civile, definitivamente decidendo sull’appello proposto da L. e da I. nei confronti di F., A. e P. fu P. con atto di citazione notificato il __ avverso la sentenza resa dal Tribunale di Cosenza all’udienza del __ ex art. 281 sexies c.p.c., non notificata, così provvede:

– rigetta l’appello e, per l’effetto, conferma integralmente la sentenza impugnata;

– condanna L. e I. al pagamento in favore di F., A. e P. fu P. delle spese di lite del gravame, che si liquidano in Euro __ per compensi professionali oltre rimborso forfetario delle spese generali in misura del 15%, IVA e CPA come per legge;

– dà atto che sussistono i presupposti per porre a carico di parte appellante il pagamento di un ulteriore contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Catanzaro, nella camera di consiglio della Corte di Appello, Sezione Seconda Civile, l’8 gennaio 2020.

Depositata in Cancelleria il 17 gennaio 2020.

 

Corte d'Appello Catanzaro Sez. II Sent. 17_01_2020

 

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Nullità del precetto sanata dal fatto che nessuna incertezza fosse possibile

Nullità del precetto sanata dal fatto che nessuna incertezza fosse possibile

Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 1928 del 28/01/2020

Con ordinanza del 17 gennaio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, in tema di recupero crediti ha stabilito che il giudice chiamato a pronunciare la nullità del precetto, dopo averne riscontrata la sussistenza in astratto, non può trascurare di accertare in concreto se, per avventura, quella nullità sia stata sanata dal fatto che nessuna incertezza fosse possibile, per il debitore, sull’individuazione del titolo esecutivo.


 

Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza n. 1928 del 28/01/2020

Nullità del precetto sanata dal fatto che nessuna incertezza fosse possibile

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

S. – ricorrente –

contro

R. – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ del TRIBUNALE di GORIZIA, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere Dott. __;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per l’accoglimento;

udito l’Avvocato __;

udito l’Avvocato __.

Svolgimento del processo

S., avendo ottenuto un decreto ingiuntivo nei confronti di R., in data __ notificò il precetto al debitore, intimandogli il pagamento dell’importo indicato dal suddetto decreto e gli accessori, per complessivi Euro __.

Con atto di citazione notificato il __ propose opposizione agli atti esecutivi dinanzi al Tribunale di Gorizia, deducendo – per quanto ancora rileva – la nullità del precetto ai sensi dell’art. 480 c.p.c., comma 2, a causa della mancanza in esso della indicazione della data di notificazione del titolo esecutivo.

Nel corso del giudizio di opposizione il debitore adempì la propria obbligazione.

Con sentenza del __ n. __ il Tribunale:

(a) dichiarò di rigettare in rito l’opposizione, per sopravvenuta carenza di interesse dell’opponente, a causa dell’avvenuto adempimento spontaneo;

(b) condannò S. (creditore opposto) alla rifusione delle spese di lite in favore di R. (debitore opponente), sul presupposto che l’opposizione, se ne fosse stato esaminato il merito, sarebbe stata fondata.

Secondo il Tribunale l’opposizione sarebbe stata fondata nel merito perché il precetto notificato da S. a R. non indicava la data della pregressa notifica del decreto ingiuntivo, in violazione di quanto richiesto dall’art. 480 c.p.c., comma 2.

Ha precisato che nel caso di specie si era verificata la seguente vicenda processuale:

– il decreto ingiuntivo non era provvisoriamente esecutivo;

– venne notificato all’intimato per i fini di cui agli artt. 643 e 644 c.p.c.;

– venne successivamente munito di formula esecutiva.

Quando si verifichi tale sequenza, ha affermato il Tribunale, il precettante non è tenuto a notificare, insieme al precetto, il decreto ingiuntivo già notificato; deve però indicare nel precetto la data della prima notifica del decreto stesso. Indicazione che, nel caso di specie, mancava.

Ricorre per cassazione avverso la suddetta sentenza S.L., con ricorso fondato su un motivo.

Resiste R. con controricorso.

La causa, fissata per l’adunanza camerale del __, con ordinanza __ n. __ è stata rinviata alla pubblica udienza, perché ritenuta di rilievo nomofilattico.

Motivi della decisione

  1. Questione preliminare:

1.1. Preliminarmente va rilevato come non incida, sull’ammissibilità dell’impugnazione, la circostanza che il ricorrente abbia notificato due ricorsi, a distanza di un giorno l’uno dall’altro.

Questa Corte, infatti, ha già affermato che “il principio di consumazione dell’impugnazione non esclude che, fino a quando non intervenga una declaratoria di inammissibilità, possa essere proposto un secondo atto di impugnazione, immune dai vizi del precedente e destinato a sostituirlo, purché esso sia tempestivo, requisito per la cui valutazione occorre tener conto, anche in caso di mancata notificazione della sentenza, non del termine annuale, bensì del termine breve, decorrente dalla data di proposizione della prima impugnazione, equivalendo essa alla conoscenza legale della sentenza da parte dell’impugnante” (ex multis, Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 14214 del 04/06/2018, Rv. 649337 – 01).

E nel caso di specie il secondo ricorso, notificato un solo giorno dopo la notifica del primo, è ovviamente tempestivo: la sentenza impugnata è stata infatti depositata il __; il primo ricorso è stato notificato il __, il secondo ricorso il __.

  1. Il motivo unico di ricorso.

2.1. Con l’unico motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la violazione degli artt. 480 e 654 c.p.c.

Sostiene che la mancanza, nel precetto, della data di notificazione del decreto ingiuntivo, non ne comportava la nullità; e che il precetto notificato sulla base di un previo decreto ingiuntivo può limitarsi a contenere la sola indicazione del provvedimento che ha disposto l’esecutività del decreto, e non anche della data di notificazione dello stesso.

Conclude che, di conseguenza, erroneamente il Tribunale ha reputato sussistere una sua soccombenza virtuale, condannandolo alle spese.

2.2. Il motivo è fondato.

Il Tribunale di Gorizia, ai fini della regolazione delle spese, ha valutato quale avrebbe dovuto essere, in tesi, l’esito della lite ove se ne fosse dovuto esaminare il merito: e riscontrata la difformità del precetto concretamente notificato dal creditore al debitore rispetto al suo modello legale, ne ha rilevata la nullità, e concluso che tanto sarebbe bastato ad accogliere l’opposizione.

L’iter logico seguito dalla sentenza impugnata tuttavia non può essere condiviso: non perché sia stato scorretto, ma perché è stato incompleto. È mancata, infatti, nell’analisi del Tribunale, l’indagine richiesta dall’art. 156, comma 3, c.p.c. (a norma del quale la nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato), la quale deve essere compiuta anche d’ufficio.

2.3. La dichiarazione di nullità del precetto, come di qualsiasi altro atto processuale, richiede all’organo giudicante tre passi logici consecutivi:

a) individuare quali siano i requisiti formali richiesti dalla legge per l’atto della cui validità si discute (ricognizione della fattispecie astratta);

b) accertare con quali forme e contenuti sia stato compiuto l’atto suddetto, e se l’una e gli altri coincidano con quelli prescritti dalla legge (accertamento della fattispecie concreta);

c) ove emerga uno iato tra lo schema legale dell’atto, e la sua realizzazione concreta, tuttavia, il Giudice non potrà dichiararlo nullo sic et simpliciter, ma dovrà ancora compiere una terza e più delicata indagine: stabilire se l’atto, nonostante il suo vizio formale, abbia; concretamente raggiunto lo scopo cui era preordinato.

2.4. Con specifico riferimento alla notifica del precetto fondato su un titolo esecutivo rappresentato da un decreto ingiuntivo non opposto nei termini di legge, e quindi munito ex post dell’efficacia esecutiva di cui era privo, il Tribunale ha correttamente ricostruito la fattispecie astratta.

Il precetto fondato su decreto ingiuntivo divenuto esecutivo per mancata opposizione, infatti, ha il seguente schema legale:

a) non deve essere preceduto dalla notifica del decreto ingiuntivo (art. 654 c.p.c., comma 2);

b) deve fare menzione del provvedimento che ha disposto l’esecutorietà del decreto ingiuntivo (art. 654 c.p.c., comma 2);

c) deve fare menzione dell’avvenuta apposizione, in calce al decreto ingiuntivo, della formula esecutiva (art. 654 c.p.c., comma 2);

d) deve indicare la data di notifica del decreto ingiuntivo (art. 480 c.p.c., comma 2).

Tutte le suddette indicazioni hanno lo scopo di consentire al debitore l’individuazione inequivoca dell’obbligazione di cui gli si chiede l’adempimento e del titolo che la sorregge; tutte, pertanto, compongono lo schema legale astratto dell’atto di precetto.

Tali principi sono pacifici nella giurisprudenza di questa Corte da tempi remoti: in tal senso si vedano già Sez. 3, Sentenza n. 1539 del 16/05/1968, Rv. 333242 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 843 del 15/03/1969, Rv. 339186 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 3677 del 11/11/1969, Rv. 343920 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 1975 del 20/06/1972, Rv. 359093 01, fino alle più recenti Sez. 3 -, Sentenza n. 24226 del 30/09/2019, Rv. 655175 – 01; Sez. 1 -, Ordinanza n. 4705 del 28/02/2018, Rv. 647433 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 22510 del 23/10/2014, Rv. 633160 – 01.

Non pertinenti, invece, rispetto all’oggetto del presente giudizio sono i sette precedenti di questa corte invocati dal ricorrente alle pp. 4-6 del ricorso. Ed infatti:

– quattro di questi precedenti (Sez. 3, Sentenza n. 12731 del 30/05/2007, Rv. 598117 – 01, Sez. 3, Sentenza n. 7454 del 05/06/2000, Rv. 537238, Sez. 3, Sentenza n. 1656 del 28/04/1975, Rv. 375267 – 01 e Sez. 3, Sentenza n. 11885 del 01/12/1993, Rv. 484569 – 01) contengono nella motivazione l’espressa affermazione d’un principio opposto a quello invocato dal ricorrente e cioè quello secondo cui il precetto fondato su decreto ingiuntivo non opposto è valido quando in esso siano indicate le parti (e) la data della notificazione del decreto ingiuntivo;

– il precedente rappresentato da Sez. 3, Sentenza n. 12792 del 17/12/1997, Rv. 511011 – 01, non è rilevante ai nostri fini, perché riguardava una questione diversa da quella qui in esame: e cioè se fosse valido il precetto in cui non era stata indicata l’autorità che aveva dichiarato esecutivo il decreto ingiuntivo;

– il precedente rappresentato da Sez. 3, Sentenza n. 330 del 16/01/1987, Rv. 450082 – 01, è del pari non pertinente ai nostri fini, perché aveva ad oggetto un caso di nullità del precetto per omessa indicazione dell’apposizione della formula esecutiva sul decreto ingiuntivo;

– il precedente rappresentato da Sez. 3, Sentenza n. 1539 del 16/05/1968, Rv. 333242 – 01, infine, non è rilevante ai nostri fini perché si occupava del diverso problema della superfluità, per i fini di cui all’art. 480 c.p.c., d’una seconda notifica del decreto ingiuntivo già notificato per i fini dell’art. 643 c.p.c.

2.5. Per quanto attiene all’accertamento della fattispecie concreta, esso non è oggetto di contesa tra le parti: è pacifico che il precetto non contenesse la data in cui era stato notificato il decreto ingiuntivo. Corretta, in definitiva, fu la valutazione del Tribunale circa la difformità del precetto notificato da S. rispetto al suo schema legale.

2.6. Quel che tuttavia è mancato, nella sentenza impugnata, è stata l’indagine richiesta dall’art. 156 c.p.c., comma 3: e cioè stabilire se il precetto, nonostante la suddetta mancanza, potesse nel caso concreto avere comunque raggiunto il suo scopo.

Va premesso che il raggiungimento dello scopo cui l’atto nullo era preordinato è una circostanza impeditiva della pronuncia sulla nullità: e al pari di questa, pertanto, la sua esistenza va rilevata e dichiarata ex officio.

Ciò posto, deve ricordarsi come lo scopo della notifica dell’atto di precetto è, tra gli altri, rendere avvisato il debitore della pretesa creditoria, e consentirgli di individuare quale sia il credito (ed il sotteso titolo esecutivo) di cui gli si chiede l’adempimento.

Se, pertanto, è indubbio che il precetto fondato su un decreto ingiuntivo non opposto, e privo dell’indicazione della data di notifica di quest’ultimo, sia nullo, è altresì vero come non possa escludersi che, nello specifico e concreto caso, tale omissione possa non avere ingenerato alcun equivoco od incertezza nel debitore: ad esempio, perché non esistevano altri rapporti di dare-avere tra questi ed il suo creditore; oppure perché il credito era in altro modo indicato nel precetto senza possibilità di incertezze.

Il giudice chiamato a pronunciare la nullità del precetto, pertanto, dopo averne riscontrata la sussistenza in astratto, non può trascurare di accertare in concreto se, per avventura, quella nullità sia stata sanata dal fatto che nessuna incertezza fosse possibile, per il debitore, sull’individuazione del titolo esecutivo.

Tale principio venne affermato già da Sez. 3, Sentenza n. 6536 del 28/07/1987, Rv. 454790 – 01, secondo cui l’erronea indicazione degli elementi formali prescritti dall’art. 480 c.p.c., comma 2, non determina la nullità del precetto, “qualora l’esigenza d’individuazione del titolo esecutivo risulti soddisfatta da altri elementi contenuti nel precetto stesso (quali: l’indicazione dell’autorità promanante, la data di emissione del decreto ingiuntivo, la data di notifica del precetto)”. Nella ampia e dotta motivazione di quella sentenza, cui il Collegio intende dare qui continuità, si osserva: “gli elementi formali di un atto processuale, richiesti dalla legge nella indicazione della sua struttura tipica, sono funzionali allo scopo che l’atto processuale è destinato a conseguire: sono richiesti quegli elementi formali che sono indispensabili per il conseguimento dello scopo dell’atto; e se lo scopo risulta ugualmente raggiunto, non rileva la mancanza od incompletezza od imprecisione di un elemento formale. La forma dell’atto processuale, invero, non ha valore di per sè, ma è funzionale allo scopo dell’atto medesimo, in relazione al quale deve essere valutata la sua essenzialità; per cui non ne deve essere esasperata la rilevanza, ai fini della nullità o meno dell’atto, sino a considerarla come requisito autonomo, di per sé stante, avulso dallo scopo”.

Tali principi furono in seguito ribaditi da Sez. 3, Sentenza n. 10294 del 05/05/2009, la quale espressamente afferma che la validità dell’atto di precetto deve essere valutata “alla luce del principio di conservazione, che evita odiose lungaggini”, e che impedisce la pronuncia di qualsiasi nullità al cospetto di omissioni puramente formali, che non impediscono al debitore di sapere chi sia il creditore, quale sia il credito di cui chiede conto, e quale il titolo che lo sorregge.

Il Tribunale, pertanto, in applicazione di tali principi, non avrebbe dovuto fermarsi a rilevare la mancanza, nel precetto, della data di notifica del decreto ingiuntivo, ma avrebbe dovuto valutare se dal complesso dell’atto (il precetto) il debitore fu messo, o non fu messo, in condizione di individuare con certezza quale fosse il titolo esecutivo messo in esecuzione.

  1. Le spese.

Le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio.

P.Q.M.

la Corte di cassazione accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa al Tribunale di Gorizia, in persona d’altro magistrato, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 7 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2020

Cass. civ. Sez. III 28_01_2020 n. 1928




La sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo

La sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione, Ordinanza n. 1005 del 17/01/2020

Con ordinanza del 17 gennaio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, in tema di recupero crediti ha stabilito che in sede di opposizione all’esecuzione, la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo, in conformità del generale principio della domanda, non determina ex se la fondatezza dell’opposizione e il suo accoglimento, bensì la cessazione della materia del contendere per difetto di interesse, sicché, nel regolare le spese dell’intero giudizio, il giudice dell’opposizione non può porle senz’altro a favore dell’opponente, ma deve utilizzare il criterio della soccombenza virtuale, secondo il principio di causalità, considerando, a tal fine, l’intera vicenda processuale.

 


 

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione, Ordinanza n. 1005 del 17/01/2020

La sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero 18656 del ruolo generale dell’anno 2018, proposto da:

G. – ricorrente –

nei confronti di:

D. – intimato –

per la cassazione della sentenza della Corte di appello di L’Aquila n__, pubblicata in data __;

udita la relazione sulla causa svolta nella camera di consiglio in data __ dal consigliere __.

Svolgimento del processo

che:

G. ha proposto opposizione all’esecuzione, ai sensi dell’art. 615 c.p.c., avverso un atto di precetto di pagamento notificatogli da D. L’opposizione è stata rigettata dal Tribunale di Pescara, con condanna dell’opponente alle spese del giudizio.

La Corte di Appello di L’Aquila, poiché nelle more era venuto meno il titolo esecutivo posto a base del precetto opposto, ha dichiarato cessata la materia del contendere e ha condannato il G. anche al pagamento delle spese del grado.

La predetta sentenza è stata cassata con rinvio da questa Corte (Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 22748 del 03/11/2011).

All’esito del giudizio di rinvio, la Corte di Appello di L’Aquila, confermata la dichiarazione di cessazione della materia del contendere, ha nuovamente condannato l’appellante al pagamento delle spese del grado in favore dell’appellato.

Ricorre il G., sulla base di un unico motivo.

Non ha svolto attività difensiva in questa sede l’intimato.

È stata disposta la trattazione in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375, 376 e 380 bis c.p.c., in quanto il relatore ha ritenuto che il ricorso fosse destinato ad essere dichiarato manifestamente infondato.

È stata quindi fissata con decreto l’adunanza della Corte, e il decreto è stato notificato alle parti con l’indicazione della proposta. Il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 2.

Motivi della decisione

che:

  1. Con l’unico motivo del ricorso si denunzia “Violazione degli artt. 91, 99, 100, 113, 474 480 e 615 c.p.c. (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4)”.

Il ricorrente sostiene che la corte di appello avrebbe erroneamente applicato il principio della soccombenza virtuale, affermando la (virtuale) infondatezza dei motivi posti a base della sua opposizione, senza considerare che la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo comportava da sola la sua posizione di parte virtualmente vittoriosa, anche a prescindere dalla fondatezza dei suddetti motivi di opposizione.

Il ricorso è manifestamente infondato.

La decisione impugnata, nella parte in cui, confermata la cessazione della materia del contendere sull’opposizione proposta da G., ha provveduto a liquidare le spese processuali sulla base del principio della soccombenza virtuale, valutando a tal fine la fondatezza dei motivi di opposizione e non limitandosi a prendere atto dell’avvenuta caducazione del titolo esecutivo, è infatti del tutto conforme ai principi di diritto sanciti in proposito da questa Corte, con pronunzie di espresso valore nomofilattico, emesse all’esito della pubblica udienza della Terza Sezione Civile, nell’ambito della particolare metodologia organizzativa adottata dalla suddetta sezione per la trattazione dei ricorsi su questioni di diritto di particolare rilevanza in materia di esecuzione forzata (cd. progetto esecuzioni, sul quale v. già Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 26049 del 26/10/2018, nonché Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 4964 del 20/02/2019), precisamente nelle sentenze n. 30857 del 29/11/2018, Rv. 652283 – 01 e n. 31955 del 11/12/2018, Rv. 652284 – 01, secondo cui “in sede di opposizione all’esecuzione, la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo, in conformità del generale principio della domanda, non determina ex se la fondatezza dell’opposizione e il suo accoglimento, bensì la cessazione della materia del contendere per difetto di interesse, sicché, nel regolare le spese dell’intero giudizio, il giudice dell’opposizione non può porle senz’altro a favore dell’opponente, ma deve utilizzare il criterio della soccombenza virtuale, secondo il principio di causalità, considerando, a tal fine, l’intera vicenda processuale”.

In tali arresti (richiamandosi anche il precedente costituito da Cass., Sez. 3, Sentenza n. 6016 del 09/03/2017, Rv. 643403 01), nell’ambito di una chiarissima presa di posizione nel senso appena indicato (che ha espressamente inteso definitivamente superare quanto affermato in precedenti decisioni della medesima sezione, quali Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 20868 del 06/09/2017, Rv. 645366 – 02 e Sez. 3, Sentenza n. 3977 del 13/03/2012, Rv. 621627 – 01) sono altresì contenute le seguenti precisazioni: “l’affermazione secondo la quale la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo, nell’ambito del giudizio di opposizione all’esecuzione, benchè sia intervenuta per motivi del tutto autonomi e diversi dai quelli rispetto ai quali fosse stata proposta originariamente l’opposizione, porti all’accoglimento nel merito della opposizione, contrasta, ingiustificatamente, con il generale principio della domanda, che nelle opposizioni esecutive, ed agli atti esecutivi in particolare, riceve una ulteriore cristallizzazione in virtù della individuata tipologia dei motivi legittimanti la proposizione di ciascuna categoria di opposizione e della delimitazione dell’oggetto della opposizione all’esame dei motivi concretamente proposti; a) l’onere delle spese è sorretto dal principio di causalità rispetto alla domanda svolta e non a fatti esterni, sebbene connessi, che ne inibiscano la compiuta delibazione; b) il rilievo d’ufficio della caducazione sopravvenuta del titolo, in questa chiave ricostruttiva, è un’eventualità propria del giudizio in parola, ma esterna ai motivi, che nelle opposizioni esecutive sono vincolanti; c) ne consegue, rispetto ai motivi cristallizzati con l’opposizione, la cessazione della correlativa materia del contendere; d) non vi è ragione per discostarsi dal principio generale della soccombenza virtuale, afferente alla regolazione delle spese nell’ipotesi di cessazione della materia del contendere, che costituisce declinazione di quello di causalità quale sopra richiamato; e) diversamente, la redistribuzione dei costi della lite sarebbe innervata irrazionalmente dalla casualità, determinata, cioè, dalla tempistica della caducazione del titolo, e s’incentiverebbe un possibile utilizzo strumentale dell’opposizione”.

Il ricorso non contiene argomentazioni tali da indurre a rivedere tale indirizzo, al quale va senz’altro data piena continuità (senza che possa assumere rilievo in senso contrario una isolata recente decisione di altra sezione, che pare ribadire ancora il contrario orientamento, ormai superato, senza peraltro farsi in nessun modo carico delle argomentazioni alla base del più recente indirizzo: cfr. Cass., Sez. 2, Sentenza n. 21240 del 09/08/2019, che non risulta ad oggi massimata).

  1. Il ricorso è rigettato.

Nulla è a dirsi con riguardo alle spese del giudizio non avendo la parte intimata svolto attività difensiva nella presente sede.

Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte:

– rigetta il ricorso;

– nulla per le spese.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 25 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2020.

 

Cass. civ. Sez. VI_3 Ord. 17_01_2020 n. 1005




Domanda di sostituzione esecutiva

Domanda di sostituzione esecutiva: realizza il subingresso di uno o più creditori del creditore dell’esecutato nella sua posizione processuale e nel diritto al riparto della somma ricevuta dall’esecuzione

Tribunale Ordinario di Milano, Sezione III Civile, Sentenza del 10/01/2020

Con sentenza del 10 gennaio 2020, il Tribunale Ordinario di Milano, Sezione III Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che in merito alla domanda di sostituzione esecutiva, ai sensi dell’art. 511 c.p.c., essa realizza il subingresso di uno o più creditori del creditore dell’esecutato nella sua posizione processuale e nel diritto al riparto della somma ricevuta dall’esecuzione, non assimilabile all’intervento del creditore nel processo esecutivo, perché il creditore istante non fa valere una pretesa nei confronti del debitore ma nei confronti di altro creditore. Ne consegue che presupposto per la presentazione della domanda di sostituzione esecutiva è l’affermazione di un diritto di credito nei confronti del creditore presente nel processo esecutivo.


 

Tribunale Ordinario di Milano, Sezione III Civile, Sentenza del 10/01/2020

Domanda di sostituzione esecutiva: realizza il subingresso di uno o più creditori del creditore dell’esecutato nella sua posizione processuale e nel diritto al riparto della somma ricevuta dall’esecuzione

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di MILANO

TERZA CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. __

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. R.G. __ promossa da:

P. – ATTORE

contro

D. e C.- CONVENUTI

G. e M. – CONVENUTI

B. S.p.A. – INTERVENUTO

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con atto di citazione ritualmente notificato P, premesso di aver assoggettato a pignoramento immobiliare l’immobile di proprietà di G. in misura pari al 50%, sito in __, catastalmente contraddistinto al Foglio (…), particella (…), sub. (…);

che nel procedimento sub (…) incardinato veniva chiesta la vendita dell’immobile;

che il G.E. disposta perizia dell’immobile, sospendeva il giudizio esecutivo, essendo stata pignorata la sola metà, e disponeva darsi ingresso a procedura di divisione;

tutto quanto ciò premesso, conveniva in giudizio il debitore e la comproprietaria M. dell’immobile instando per la divisione dello stesso.

A M., quale creditore ipotecario, veniva notificato, in data __, invito ad intervenire nel presente giudizio.

Alla prima udienza del __, il legale di parte attrice dava atto che la comproprietaria non esecutata M. nell’anno __, antecedentemente alla citazione, aveva alienato la propria quota;

il giudice, preso atto, disponeva conseguentemente la integrazione del contraddittorio nei confronti di D. e C.; acquirenti della quota ed attuali comproprietari in giudizio.

Questi ultimi si costituivano non opponendosi alla divisione richiesta ed opponendosi alla sola richiesta di rifusione delle spese di giudizio svolta nei loro confronti dalla attrice.

Il convenuto G. non si costituiva.

Il giudizio proseguiva attraverso la acquisizione della documentazione ipocatastale, con la nomina di delegato e con la vendita dell’immobile.

L’intero immobile veniva acquistato dai convenuti D. e C., che mai avevano dichiarato la loro disponibilità ad acquistare la quota.

Il decreto di trasferimento veniva firmato in data __.

Il giudice predisponeva piano di riparto nel quale, dedotte le spese tutte della procedura, il residuo veniva così distribuito:

“Euro __ alla procedura esecutiva RGE __;

Euro __ a C.;

Euro __ a D.”.

Veniva fissata per la approvazione del riparto l’udienza del __, poi rinviata d’ufficio al __. In data __ si costituiva in giudizio il B.

La Banca, premettendo che la procedura esecutiva immobiliare R.G.E. n. __, promossa da P., aveva colpito la quota del 50% di proprietà di G. del bene sito nel Comune di __;

che sul bene esecutato ed oggetto del giudizio di divisione nella sua interezza grava ipoteca di primo grado a favore del B. S.p.A. (già B. Soc. Coop. a r.l. e poi B. S.p.A.), come emerge dalle trascrizioni iscritta in virtù di contratto di finanziamento in data __ a rogito del dott. R., stipulato dai signori P.;

che la stessa aveva titolo per poter far valere il suddetto credito nei confronti di G. quale datore di ipoteca a garanzia del finanziamento erogato a favore della sig.ra M. ed era infatti intervenuta nella procedura esecutiva immobiliare R.G. n. __;

che, pertanto, si trovava in una posizione di creditore del creditore, in questo caso della sig.ra M., e per effetto del diritto di sequela avanza diritti nei confronti dei sigg.ri C. e D. (acquirenti del 50% della nuda proprietà dalla sig.ra M.) a cui stanno per essere distribuite somme derivate dalla vendita della quota del 50% del bene oggetto di divisione, originariamente di proprietà della sig.ra M., soggetto finanziato dalla Banca nel __ e su cui grava l’ipoteca iscritta anche dopo il frazionamento e la vendita della nuda proprietà;

chiedeva pertanto di essere sostituito ai sigg.ri D. e C. nella distribuzione delle somme derivate dalla vendita in sede di divisione del 50% del bene, originariamente di proprietà della sig.ra M. ed iscritto di ipoteca di primo grado a favore dell’esponente, non essendo sufficiente l’importo che verrà distribuito in sede esecutiva a coprire neppure il capitale residuo dovuto per il finanziamento del __.

Il giudice, preso atto della mancata approvazione del riparto, fissava udienza per la precisazione delle conclusioni ex art. 789 c.p.c., che venivano precisate all’udienza del __.

Quanto alla istanza preliminare svolta dai signori D. e C. di far risultare al Catasto il persistere del diritto di abitazione a favore della Sig.ra M. sulla quota del 50% dell’immobile compravenduto, non ancora annotata, alcun potere è rimesso a questo giudice, avendo già disposto sul punto ed essendo onere delle parti richiedere la relativa annotazione.

Nel merito, i fatti di causa sono pacifici e non contestati.

P. vanta un credito nei confronti di G.

Pignora pertanto la metà del bene di proprietà di questi; indi, instaura giudizio di divisione dell’intero, convenendo oltre al suo debitore G. anche i signori D. e C. nella loro qualità di acquirenti della quota della comproprietaria alla data del pignoramento M.

La Banca, pur avvisata della procedura esecutiva e della presente procedura divisionale, non ha mai pignorato l’intero (pur avendo titolo nei confronti di entrambi i P. comproprietari).

Interviene nel giudizio esecutivo e nel giudizio divisionale solo in data successiva al decreto di trasferimento e richiede, nel giudizio divisionale, di potersi sostituire alla signora M. e per essa ai suoi aventi causa D. e C., ai sensi dell’art. 511 c.p.c.

La norma invocata, inserita all’interno del libro terzo del codice di rito, dedicato alla espropriazione forzata, così dispone: “I creditori di un creditore aventi diritto alla distribuzione possono chiedere di essere a lui sostituiti, proponendo domanda a norma dell’art. 499 secondo comma. Il Giudice dell’Esecuzione provvede alla distribuzione anche nei loro confronti, ma le contestazioni relative alle loro domande non possono ritardare la distribuzione tra gli altri creditori”.

  1. S.p.A. afferma di essere creditrice della signora M. e, conseguentemente, in virtù di sequela, dei signori C. e D.; la signora P. però non è debitrice nel giudizio esecutivo (la sua quota non è mai stata pignorata); nel presente giudizio divisionale i suoi aventi causa sono meri comproprietari non esecutati, posto che la.

La norma di cui all’art. 511 c.p.c. è norma del processo esecutivo; la stessa non può essere trasportata nel processo divisionale, procedimento ordinario disciplinato dal libro secondo del codice.

Il giudice che procede nel processo ordinario non è il giudice dell’esecuzione; conseguentemente non può accogliersi la domanda di sostituzione.

Inoltre deve ribadirsi che la quota della signora M. non è mai stata pignorata, né la stessa è intervenuta nel processo esecutivo quale creditrice; M., d’altronde, non ha mai vantato alcun diritto di credito nei confronti del debitore esecutato G., posto che nel giudizio la stessa non è mai entrata a far parte, posto che, attesa la cessione di quota, sono divenuti litisconsorti i suoi acquirenti.

Come evidenziato dall’arresto giurisprudenziale citato dai convenuti, “In merito alla domanda di sostituzione esecutiva, ai sensi dell’art. 511 c.p.c., essa realizza il subingresso di uno o più creditori del creditore dell’esecutato nella sua posizione processuale e nel diritto al riparto della somma ricevuta dall’esecuzione, non assimilabile all’intervento del creditore nel processo esecutivo, perché il creditore istante non fa valere una pretesa nei confronti del debitore ma nei confronti di altro creditore. Ne consegue che presupposto per la presentazione della domanda di sostituzione esecutiva è l’affermazione di un diritto di credito nei confronti del creditore presente nel processo esecutivo” (Cass. n. 8001/2015).

Se ne ricava che alcun intervento può essere effettuato ex art. 511 c.p.c.

Posto peraltro che spetta pur sempre al giudice adito la qualificazione giuridica del fatto, deve rilevarsi che il creditore che vanta un diritto iscritto sull’immobile oggetto di divisione ben può intervenire nel giudizio divisionale del medesimo immobile promosso da un terzo a garanzia del proprio diritto sul bene, ai sensi dell’art. 1113 del codice civile.

La norma predetta così dispone: “I creditori e gli aventi causa da un partecipante possono intervenire nella divisione a proprie spese, ma non possono impugnare la divisione già eseguita, a meno che abbiano notificato un’opposizione anteriormente alla divisione stessa e salvo sempre ad essi l’esperimento dell’azione revocatoria o dell’azione surrogatoria.

Nella divisione che ha per oggetto beni immobili, l’opposizione, per l’effetto indicato dal comma precedente, deve essere trascritta prima della trascrizione dell’atto di divisione e, se si tratta di divisione giudiziale, prima della trascrizione della relativa domanda.

Devono essere chiamati a intervenire, perché la divisione abbia effetto nei loro confronti, i creditori iscritti e coloro che hanno acquistato diritti sull’immobile in virtù di atti soggetti a trascrizione e trascritti prima della trascrizione dell’atto di divisione o della trascrizione della domanda di divisione giudiziale.

Nessuna ragione di prelevamento in natura per crediti nascenti dalla comunione può opporsi contro le persone indicate dal comma precedente, eccetto le ragioni di prelevamento nascenti da titolo anteriore alla comunione medesima, ovvero da collazione”.

Ratio di tale norma è quello di offrire ai creditori la difesa dei diritti sorti durante lo stato di comunione contro il pericolo che la divisione riesca di pregiudizio a chi deriva il suo diritto da quello di un condividente.

Proprio in virtù della ora citata norma la signora P., attrice, aveva notificato alla B. l’invito ad intervenire nel giudizio per far ivi valere i propri diritti.

Non v’è dubbio che nel caso di specie B., che vanta un credito nei confronti di entrambi i condividenti e che può salvaguardare quello nei confronti di G. nella procedura esecutiva, può salvaguardare il proprio diritto nei confronti di G. ed oggi, degli acquirenti della sua quota (l’ipoteca permane sul bene) solo all’interno della presente procedura, ove l’immobile sul quale era iscritta l’ipoteca è stato alienato ed è stata disposta la cancellazione della ipoteca medesima.

Ne consegue che l’intervento deve essere valutato sotto tale profilo.

Posto che non vi è dubbio alcuno che la Banca vanti un diritto connesso alla ipoteca trascritta sull’immobile e che D. e C. sono ben consapevoli di aver acquistato (privatamente) la metà di un bene pignorato per la residua metà e soggetto a vincolo ipotecario per l’intero e che gli stessi si sono pacificamente accollati il debito, come risulta dal quadro D allegato alla iscrizione ipotecaria della vendita che qui si riporta:

“Sezione D – Ulteriori informazioni

Altri aspetti che si ritiene utile indicare ai fini della pubblicità immobiliare

LA SIGNORA.M. HA VENDUTO AI SIGNORI CONIUGI D.D. E C.C. CHE HANNO ACCETTATO ED ACQUISTATO IN PARTI UGUALI E PRO-INDIVISO NOMINATIVAMENTE QUOTA INDIVISA PARI AD 1/2 (UN MEZZO) DEL DIRITTO DI NUDA PROPRIETÀ RISERVANDOSI LA PARTE VENDITRICE IL DIRITTO DI ABITAZIONE SULLA SEGUENTE PORZIONE IMMOBILIARE FACENTE PARTE DELLO STABILE SITO IN COMUNE DI __ E PIÙ PRECISAMENTE: – APPARTAMENTO POSTO AL PIANO PRIMO COMPOSTO DA QUATTRO LOCALI, BALCONE E SERVIZI. FORMALITÀ PREGIUDIZIEVOLI: – IPOTECA ISCRITTA PRESSO L’AGENZIA DEL TERRITORIO – SERVIZIO DI PUBBLICITÀ IMMOBILIARE – UFFICIO PROVINCIALE DI MILANO, CIRCOSCRIZIONE DI MILANO 2 CON NOTA IN DATA __ AI NN. __, A FAVORE DELLA B., CAUTANTE UN DEBITO COME IN ATTO IN PARTE ACCOLLATO.

Deve essere accolta (nei limiti che verranno precisati) la domanda della B. di vedersi attribuito il controvalore della quota spettante agli acquirenti, atteso che questi ultimi si sono accollati il relativo debito e che la vendita del bene ha trasferito a questi un immobile privo di trascrizioni pregiudizievoli. Circa il credito residuo della B., si rileva.

B. S.p.A. ha affermato che il finanziamento è ancora in essere e che le parti (presumibilmente i convenuti) stanno eseguendo i pagamenti convenuti; che il credito, difatti, alla data del deposito dell’intervento era pari a Euro __, mentre alla data delle note conclusionali si era ridotto a Euro __ e presumibilmente alla data della sentenza si sarà ancora ridotto.

I convenuti nei loro scritti finali hanno dato atto di aver versato le rate nelle more venute a scadere nel corso dell’anno __.

Gli stessi si dolgono della mancata precisazione del credito da parte della banca e della mancata allegazione di documentazione a supporto.

B., al momento dell’intervento, ha, in realtà, allegato documentazione a supporto. In particolare, ha prodotto il doc. 5 dal quale si evince che a fronte di un finanziamento di Euro __, vi è un debito residuo di Euro __,e che alla momento dell’intervento l’ultima rata del __ era stata pagata.

La Banca non ha dato atto di aver risolto il contratto per inadempimento, circostanza dalla quale deve desumersi che i pagamenti siano stati tutti effettuati, nulla è stato richiesto per interessi, per cui nulla sembra possa essere vantato a tale titolo.

Posto peraltro che detto credito grava sia sulla quota di G. sia su quella già di G.; che B. è intervenuta nel giudizio esecutivo a carico di G., la sua domanda può essere accolta nei limiti della metà del residuo credito, posto che la residua metà verrà fatta valere nella procedura esecutiva.

La domanda della banca può essere quindi accolta nei limiti di Euro __.

Pertanto il piano di riparto che viene disposto è il seguente:

Rilevato che dalla vendita è stato ricavato l’importo di Euro __;

Che alla signora P. va restituito il fondo spese non utilizzato pari a Euro __;

Tenuto conto che vi sono da considerare:

Euro __ per spese di chiusura conto;

Euro __ per annotazione di cancellazioni;

Euro __ e Euro __ per compenso custode e delegato;

che vanno riconosciute alla attrice Euro __ per spese legali e anticipazioni sostenute;

che pertanto la somma da distribuire è la seguente: Euro __;

Assegna:

Euro __ alla procedura esecutiva RGE __;

Euro __ al B. S.p.A.;

il residuo di Euro __ in parti uguali ai comproprietari e pertanto:

Euro __ a C.;

Euro __ al signor D.”.

B. sarà onerata di comunicare l’incasso delle somme nell’ambito della procedura esecutiva.

Quanto alle spese di giudizio, si osserva.

Le spese in favore della attrice P. sono state già disposte in sede di piano di riparto, che viene confermato sul punto;

le spese della fase conclusiva, che ha riguardato le sole posizioni C./D. da un lato e B. dall’altro, in considerazione dell’esito della stessa, nella quale entrambe le parti sono rimaste in parte vittoriose ed in parte soccombenti (entrambe volevano l’intera metà dell’importo, che è stato invece ripartito secondo le quote); vengono compensate fra loro.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

la restituzione a P. del fondo spese non utilizzato pari a Euro __;

autorizza il dott. V. al prelievo, ove non già effettuato, degli importi di Euro __ ed Euro __ quali compenso custode e delegato;

autorizza il pagamento in favore di P. delle spese legali e anticipazioni sostenute per Euro __;

Assegna:

Euro __ alla procedura esecutiva RGE __;

Euro __ a B. S.p.A.;

Euro __ a C.;

Euro __ a D.

Compensa le spese di giudizio fra la parte convenuta D. e C. e la parte intervenuta B. S.p.A.

Assegna termine di mesi tre dalla comunicazione della presente sentenza, per la riassunzione, a cura della parte interessata, del procedimento RGE __.

Così deciso in Milano, il 9 gennaio 2020.

Depositata in Cancelleria il 10 gennaio 2020.

 

Tribunale Milano Sez. III Sent. 10_01_2020

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L’intimazione di adempiere

L’intimazione di adempiere non richiede, quale requisito formale a pena di nullità l’indicazione del procedimento logico-giuridico e del calcolo matematico seguiti per determinare la somma domandata in base al titolo esecutivo

Tribunale Ordinario di Castrovillari, Sezione Civile, Sentenza del 08/01/2020

Con sentenza dell’8 gennaio 2020, il Tribunale Ordinario di Castrovillari, Sezione Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che l’intimazione di adempiere, l’obbligo risultante dal titolo esecutivo – contenuto nel precetto a norma dell’art. 480, comma 1, c.p.c. – non richiede, quale requisito formale a pena di nullità, oltre all’indicazione della somma domandata in base al titolo esecutivo, anche quella del procedimento logico-giuridico e del calcolo matematico seguiti per determinarla.


Tribunale Ordinario di Castrovillari, Sezione Civile, Sentenza del 08/01/2020

L’intimazione di adempiere non richiede, quale requisito formale a pena di nullità l’indicazione del procedimento logico-giuridico e del calcolo matematico seguiti per determinare la somma domandata in base al titolo esecutivo

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI CASTROVILLARI

SEZIONE CIVILE

in persona del giudice monocratico Dott. __ ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Nella causa civile iscritta al n. __ RGAC dell’anno __avente ad oggetto opposizione a precetto e vertente

TRA

A., in qualità di titolare della ditta T., e R. – OPPONENTI

E

U. S.p.A. – OPPOSTA

NONCHÈ

M. S.r.l. – INTERVENUTA

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.1. Gli attori hanno proposto opposizione al precetto notificato il __ da U. S.p.A., con cui si è intimato il pagamento di Euro __ in forza del contratto di mutuo ipotecario fondiario stipulato per atto pubblico a rogito notaio L. il (…) tra R. e T. e la allora B.

Hanno dedotto: a) la mancanza del piano di ammortamento con conseguente indeterminatezza delle somme precettate; b) l’indeterminatezza del tasso di interesse e del piano di ammortamento; c) la mancata indicazione delle modalità di calcolo della somma richiesta; d) l’avvenuta applicazione di interessi usurari e anatocistici; e) la nullità della determinazione degli interessi mediante il rinvio all’Euribor per indeterminatezza e per violazione della normativa antitrust; f) l’esistenza di una differenza tra il TAEG indicato in contratto e quello concretamente applicato; g) l’esistenza di un controcredito derivante dall’applicazione di interessi anatocistici, commissioni di massimo scoperto e variazioni unilaterali delle condizioni pattuite sul conto corrente n. (…), aperto nel __, sul quale la somma mutuata è stata accreditata.

1.2. Si è costituita U., cessionaria del credito, chiedendo il rigetto dell’istanza di sospensione.

1.3. Si è, poi, costituita anche P., nella suindicata qualità, spiegando intervento ex art. 111 c.p.c. in virtù della intervenuta acquisizione del credito.

  1. In via preliminare, con riferimento all’eccezione di carenza di legittimazione attiva dell’intervenuta, sollevata da parte opponente in sede di comparsa conclusionale, deve rilevarsi che, secondo la pronuncia citata dalla stessa parte, “la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicché spetta all’attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto” (Cass civ., SS. UU., 16 febbraio 2016, n. 2951).

Per tale ragione, considerato che alla comparsa di intervento sono allegati l’estratto della Gazzetta Ufficiale relativo alla cessione del credito a M. S.r.l., la procura rilasciata da M. a P., la procura rilasciata da P. a B.T. e la procura alle liti rilasciata da quest’ultima al difensore, nonché l’assenza di qualsiasi contestazione di parte opponente alla prima udienza successiva alla costituzione, circostanza qualificabile come difesa incompatibile con la negazione della legittimazione, l’eccezione deve essere respinta.

  1. Nel merito si osserva quanto segue.

3.1. In primo luogo, deve escludersi la fondatezza del motivo inerente all’assenza del piano di ammortamento e la determinatezza o determinabilità del tasso di interesse pattuito.

Infatti, pur nell’ambito di un giudizio di opposizione allo stato passivo fallimentare, ma esprimendo principi di portata generale applicabili anche al caso di specie, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che “la produzione del piano di ammortamento non costituisce elemento indefettibile della prova del residuo credito da mutuo, specie ove i requisiti costitutivi delle reciproche obbligazioni, ed in particolare quella restitutoria, risultino dalla chiara previsione contrattuale e dalla natura delle rate, dalla prevedibilità del loro importo per quota di interessi separata rispetto al capitale e si tratti di circostanze allegate al giudizio dal creditore, non bastando al riguardo una generica contestazione di rilevanza del curatore” (Cass. civ., Sez. VI – 1, 8/11/2017, n. 26426).

Ciò chiarito, deve rilevarsi che, nella fattispecie in esame, il contratto di mutuo e l’allegato documento di sintesi indicano in modo chiaro e preciso l’importo mutuato, la natura dell’ammortamento con il sistema alla francese, il numero delle rate e la relativa scadenza, nonché il tasso di interesse (TAN, TAEG e tasso di mora) applicato e gli ulteriori costi dovuti.

Del resto, la stessa consulenza di parte prodotta dagli opponenti evidenzia la conformità del mutuo in esame alla normativa relativa alla determinabilità dell’oggetto e alla trasparenza.

3.2. Con riferimento, invece, alla mancata indicazione in precetto delle modalità di calcolo delle somme richieste, deve rilevarsi che “l’intimazione di adempiere l’obbligo risultante dal titolo esecutivo – contenuto nel precetto a norma dell’art. 480, comma primo, cod. proc. civ. – non richiede, quale requisito formale a pena di nullità, oltre alla indicazione della somma domandata in base al titolo esecutivo, anche quella del procedimento logico-giuridico e del calcolo matematico seguiti per determinarla” (Cass. civ. Sez. III, 19 febbraio 2013, n. 4008).

Pertanto, deve ritenersi sufficiente l’indicazione in precetto dell’importo richiesto dal creditore.

3.3. Non meritevole di accoglimento è anche l’avvenuta applicazione di interessi usurari.

Infatti, la ricorrente deduce di avere allegato all’atto di citazione i comunicati stampa della B.I., giudicandoli equipollenti ai decreti ministeriali ai fini della prova del tasso di usura, e denuncia il fatto che, in violazione del principio iura novit curia, il giudicante abbia posto a suo carico l’onere di produrre in giudizio decreti che egli era tenuto a conoscere, essendo essi, in quanto richiamati dalla L. n. 108 del 1996, atti integrativi della legge con funzione innovativa dell’ordinamento giuridico. Censura, in aggiunta, che la Corte d’appello non abbia fatto riferimento al fatto notorio, atteso che la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto che i tassi di interesse bancario in un dato periodo costituiscono un fatto notorio cui il giudice può fare legittimo ricorso ex art. 115 c.p.c.

  1. Il motivo è infondato.

Il giudicante ha fatto buon governo dell’orientamento espresso dalle Sezioni unite di questa Corte, già nel 2009 (Cass., Sez. un., 29/04/2009, n. 9441), e più volte ribadito, secondo cui “la natura di atti meramente amministrativi dei decreti ministeriali… rende ad essi inapplicabile il principio iura novit curia di cui all’art. 113 c.p.c., da coordinarsi, sul piano ermeneutico, con il disposto dell’art. 1 preleggi (che non comprende, appunto, i detti decreti tra le fonti del diritto)”.

Tale principio di carattere generale è stato, peraltro, concretamente applicato ai decreti ministeriali di cui alla L. n. 108 del 1996, da Cass. 26/06/2001, n. 8742 nonché da Cass. 31/01/2002, n. 11706.

In sostanza, per giurisprudenza costante, il principio jura novit curia va coordinato con l’art. 1 preleggi, il quale indica le fonti del diritto, onde, laddove il primo eleva a dovere del Giudice la ricerca del diritto, non può non fare esclusivo riferimento alle vere e proprie fonti del diritto oggettivo, id est ai precetti che sono caratterizzati dal duplice connotato della normatività e della giuridicità, sicché vanno esclusi dall’ambito d’operatività del richiamato principio sia i precetti aventi carattere normativo ma non giuridico (come le regole della morale o del costume), sia quelli aventi carattere giuridico ma non normativo (come gli atti di autonomia privata o gli atti amministrativi) estranei alla previsione del menzionato art. 1 preleggi, sia quelli aventi forza normativa puramente interna, come gli statuti degli enti e i regolamenti interni.

Né la mancata produzione della copia dei decreti ministeriali che stabilivano, all’epoca della stipula del contratto, la soglia antiusura può essere superata, come correttamente ha ritenuto la sentenza impugnata, con la produzione di equipollenti.

Con la produzione in giudizio dei comunicati stampa della B.I. non può, dunque, ritenersi soddisfatto l’onere probatorio gravante sulla ricorrente. La copia dei suddetti decreti ministeriali costituisce, infatti, elemento di prova essenziale della fattispecie, non altrimenti surrogabile” (Cass. civ. Sez. III, Ord. 30 gennaio 2019, n. 2543).

Per tale ragione, considerato che parte opponente non ha prodotto alcun decreto ministeriale, ma soltanto i comunicati stampa della B.I., non sussiste alcuna prova dell’avvenuta pattuizione di interessi usurari.

In ogni caso, anche a voler utilizzare tali comunicati, si rileva che il tasso medio per i mutui a tasso variabile rilevato nel IV trimestre dell’anno 2009 risulta pari al 3,25%.

Pertanto, considerato che, ai sensi dell’art. 2, comma 4, L. n. 108 del 1996, il tasso soglia deve essere determinato aumentando tale tasso medio della metà, il limite usurario rilevante ai fini che qui interessano è pari al 4,875% (la metodologia di calcolo indicata dagli opponenti, peraltro in modo parziale con riferimento all’aumento di 1/4 rispetto al tasso medio, è riferita al periodo successivo al comunicato del Dipartimento del Tesoro del 18 maggio 2011, con cui è stato fissato il tasso soglia nella misura pari al tasso medio rilevato, aumentato di 1/4, con aggiunta di ulteriori 4 punti percentuali e, in ogni caso, con una differenza tra tasso medio e tasso soglia non superiore a 8 punti percentuali).

Di conseguenza, il TAEG (4,865%) e, a maggior ragione il TEG, nonché il tasso di mora singolarmente considerato (4,750%), risultano inferiori al tasso soglia.

3.3.1. Parte opponente ha anche affermato che nel computo del TAEG andrebbero sommati gli interessi moratori agli interessi corrispettivi.

Al riguardo, merita evidenziare innanzitutto che il dato rilevante ai fini dell’usura è il TEG e non già il TAEG, che rappresenta un indicatore del tutto diverso con riferimento a modalità di calcolo e finalità di indicazione.

Inoltre, deve osservarsi che, secondo il più recente e qui condiviso orientamento di legittimità, ai fini dell’usura gli interessi moratori non possono essere sommati a quelli corrispettivi.

Infatti, gli interessi convenzionali di mora non sfuggono alla regola generale per cui, se pattuiti ad un tasso eccedente quello stabilito dalla L. 7 marzo 1996, n. 108, art. 2, comma 4, vanno qualificati ipso iure come usurari, ma in prospettiva del confronto con il tasso soglia antiusura non è corretto sommare interessi corrispettivi ed interessi moratori. Alla base di tale conclusione vi è la constatazione che i due tassi sono alternativi tra loro. Se il debitore è in termini deve corrispondere gli interessi corrispettivi, quando è in ritardo qualificato dalla mora, al posto degli interessi corrispettivi deve pagare quelli moratori. Di qui la conclusione che i tassi non si possano sommare semplicemente perché si riferiscono a basi di calcolo diverse. Il tasso corrispettivo si calcola sul capitale residuo, il tasso di mora si calcola sulla rata scaduta. Ciò vale anche là dove sia stato predisposto, come in questo caso, un piano di ammortamento, a mente del quale la formazione delle varie rate, nella misura composita predeterminata di capitale ed interessi, attiene ad una modalità dell’adempimento dell’obbligazioni gravante sulla società utilizzatrice di restituire la somma capitale aumentata degli interessi. Nella rata concorrono, infatti, la graduale restituzione del costo complessivo del bene e la corresponsione degli interessi: trattandosi di una pattuizione che ha il solo scopo di scaglionare nel tempo le due distinte obbligazioni.

In altre parole, preso atto della ricorrenza di un doppio tasso, uno attuale, quello corrispettivo, ed uno sospensivamente condizionato al ritardo e da esso decorrente, quello moratorio, si porrebbe in tal caso il problema della sorte della pattuizione relativa a tale secondo tasso che comporta costi solo eventuali. Problema che la giurisprudenza di questa Corte risolve sanzionando la clausola relativa alla pattuizione degli interessi moratori ove determinati ad un tasso sopra soglia e non già come preteso dal ricorrente trasformando forzosamente, a vantaggio dell’inadempiente, il contratto da oneroso a gratuito. Ragionando in via ipotetica perché si ripete, nel caso di specie, neppure si pone il problema della richiesta di pagamento di costi eventuali – la capacità in potenza moratoria degli interessi (eventuali) verrebbe risolta colpendo esclusivamente la relativa pattuizione: Cass., 15/09/2017, n. 21470 (Cass. civ. Sez. III, 28-06-2019, n. 17447).

In buona sostanza, quindi, il tasso moratorio non può sommarsi a quello corrispettivo e, in caso di usurarietà del primo, la conseguente nullità colpisce soltanto la mora con sostituzione del tasso legale a quello pattuito.

Per tale ragione, considerato che, nel caso di specie, il tasso di mora è inferiore al tasso soglia, deve escludersi qualsiasi ipotesi di usura.

3.3.2. Vale anche precisare, con riferimento all’usura cd. sopravvenuta che, secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, allorché il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura come determinata in base alle disposizioni della L. n. 108 del 1996 , non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge, o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula; né la pretesa del mutuante di riscuotere gli interessi secondo il tasso validamente concordato può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento di tale soglia, contraria al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto (Cass. civ. Sez. Unite, 19 ottobre 2017, n. 24675).

3.3.3. Per quel che riguarda, invece, la tesi dell’avvenuta applicazione di interessi anatocistici, va in primo luogo osservato che in termini teorici, peraltro, il meccanismo di strutturazione del piano di restituzione rateale con il metodo francese non determina alcun effetto anatocistico, giacché degli interessi via via maturati viene previsto il pagamento al momento della scadenza di ciascuna rata, senza che gli stessi formino oggetto di capitalizzazione di modo che neppure è dato riscontrare alcuna violazione delle previsioni degli artt. 1283 c.c., in tema di anatocismo (Trib. Palermo Sez. Specializzata in materia di imprese, 16 gennaio 2015).

È tuttavia possibile che la banca calcoli gli interessi moratori dovuti in caso di ritardo nel pagamento delle rate del mutuo non soltanto sulla quota capitale ma anche sulla quota interessi.

In tal caso si genera, quindi, un fenomeno anatocistico vietato (cfr. Cass. civ. Sez. I, 22 maggio 2014, n. 11400).

Ciò premesso, nel caso di specie, esclusa ogni forma di anatocismo con riferimento alla previsione del piano di ammortamento alla francese, deve, tuttavia, rilevarsi che l’art. 8 delle condizioni generali prevede che ogni somma non corrisposta (quindi anche a titolo di interessi) produrrà interessi di mora.

Deve, quindi, ritenersi, che gli interessi moratori applicati dalla banca siano stati calcolati sull’intero importo delle rate scadute (quota capitale + quota interessi).

Pertanto, considerato che l’allegato 4 al fascicolo di parte opposta, costituito dal piano di ammortamento con indicazione delle rate pagate e degli interessi anche di mora applicati, non specificamente contestato da parte opponente, evidenzia che gli interessi di mora riscossi ammontano complessivamente ad Euro __ (somma di quelli applicati per le rate 1, 3-6, 10-13, 19, 28, 34, 36, 37-43, 45-48), tale importo deve essere detratto dal totale.

Inoltre, in assenza di qualsiasi indicazione sulla data di avvenuto pagamento di dette rate (nell’allegato 4 non v’è alcuna indicazione in tal senso), alcun importo a titolo di mora può essere riconosciuto per le medesime, risultando impossibile determinare in sentenza il periodo per il quale la mora debba essere calcolata solo sulla quota capitale.

Merita, poi, evidenziare che, sempre dal citato allegato 4, risulta che al __ (data di scadenza dell’ultima rata parzialmente pagata), il debito residuo risultava pari ad Euro __, oltre Euro __ per parziale insoluto sulle rate dalla __ alla __, per un totale di Euro __.

Pertanto, risultando superfluo l’espletamento di una CTU in presenza dell’indicazione esatta dell’andamento dei pagamenti, il credito vantato da parte opposta al __ risulta pari ad Euro __ (__ – __), oltre interessi di mora da calcolare sulla sola quota capitale delle rate scadute e non pagate (dalla __ sino alla avvenuta decadenza dal beneficio del termine, che, dal tenore del precetto, deve ritenersi intervenuta il __) dalla scadenza di ogni rata al saldo, nonché interessi di mora sul capitale residuo risultante al __ da tale data al saldo.

3.4. Deve, poi, escludersi la nullità della pattuizione degli interessi mediante il richiamo all’euribor.

Invero, secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza di merito, non è fondata l’eccezione di nullità della pattuizione del tasso di interesse di un contratto di mutuo determinato con riferimento al tasso Euribor, che deriverebbe dalla pretesa violazione dell’art. 2 della L. 10 ottobre 1990, n. 287, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato (che vieta, tra l’altro, le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, anche attraverso attività consistenti nel: a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali). Se è vero infatti che l’ammontare dell’Euribor – tasso di interesse medio delle transazioni finanziarie in Euro tra le principali banche europee, fissato dalla E.R. Federation (E.) come media dei tassi di deposito interbancario tra le medesime, con un criterio di calcolo inteso a evitare l’incidenza di tassi anomali – può essere influenzato dalle singole banche, ciò non basta per affermare l’illiceità del meccanismo. L’eccepita nullità richiede invece l’esistenza di accordi tra le banche interessate diretti ad influenzare la determinazione dell’Euribor attraverso la modifica concordata del tasso di deposito da ciascuna di esse applicato nei rapporti con altri istituti di credito: accordi dei quali non vi è prova. La clausola contrattuale che richiama l’Euribor non è neppure in contrasto con l’art. 117 comma 6 del T.U.B.: il tasso di interesse è, tempo per tempo, determinabile attraverso il rinvio recettizio al tasso di riferimento e la variabilità del tasso, anche nel caso in cui questo aumenti, non fa sì che il tasso applicato sia più sfavorevole per il cliente di quello pubblicizzato” il mutuatario sa sin dall’inizio che è esposto alle variazioni del tasso Euribor e non può essere indotto a ritenere che il corrispettivo del mutuo non sarà mai superiore a quello inizialmente indicato, sulla base dell’Euribor vigente alla data di conclusione del contratto. Allo stesso modo, la clausola non viola le previsioni degli artt. 1346 e 1284 comma 3 c.c., atteso che l’oggetto del contratto di mutuo è determinabile anche quando nel documento contrattuale la parti indicano criteri certi ed oggettivi che consentono la concreta quantificazione del tasso d’interesse, ancorché ciò avvenga per relationem, mediante il richiamo ad elementi estranei al documento (Cass. sez. I, 12 novembre 1987, n. 8335), ed anche se tali elementi sono destinati a variare nel corso del tempo, con conseguente modifica del tasso applicabile (Trib. Udine, 16 settembre 2013; cfr. anche Trib. Palermo Sez. Specializzata in materia di imprese, 16 gennaio 2015).

Ciò premesso, allo stato vi è prova dell’illegittimità della rilevazione euribor, sulla base della pronuncia della Commissione Antitrust Europea – Direzione Generale della Concorrenza – soltanto per il periodo 2005-2008 (vds. decisione del 4 dicembre 2013 della Commissione UE).

Pertanto, considerato che il mutuo per cui è causa è stato stipulato nel 2009, non è meritevole di accoglimento il motivo relativo alla violazione della normativa antitrust.

Neppure è fondato il motivo inerente alla nullità per indeterminatezza del tasso di interesse determinato con riferimento all’euribor, in quanto, in virtù dell’orientamento richiamato, il tasso risulta specificamente individuato.

3.5. Per quel che riguarda, poi, la differenza tra il TAEG pattuito e quello applicato, va evidenziato che, secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza di merito, tale difformità non implica l’applicazione dei tassi sostituitivi di cui all’art. 117 TUB, salva l’ipotesi del credito al consumo in virtù della specifica previsione dell’art. 125 bis TUB (cfr. Tribunale Torino, 3 ottobre 2018, n. 4580).

Pertanto, non venendo in questione nel caso di specie alcuna ipotesi di credito al consumo (la A. ha agito in qualità di titolare di una ditta per cui deve escludersi che la stessa rivesta la qualità di consumatrice), deve essere esclusa la sostituzione del TAEG contrattuale con i tassi sostitutivi di cui all’art. 117 TUB.

3.6. Non meritevole di accoglimento è anche del motivo inerente all’esistenza di un controcredito in favore degli opponenti, in quanto tale circostanza è risultata del tutto sprovvista di prova.

Infatti, parte opponente non ha depositato né il contratto di conto corrente né gli estratti conto, per cui non sussiste alcun elemento istruttorio idoneo a dimostrare la fondatezza della pretesa dedotta.

  1. L’avvenuto consolidamento in epoca successiva all’introduzione del giudizio della gran parte degli orientamenti giurisprudenziali applicati giustifica la compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale di Castrovillari – Sezione Civile – in persona del giudice monocratico Dott. __, definitivamente pronunciando sulla causa in oggetto, disattesa ogni contraria istanza, eccezione e difesa, così provvede:

1) Accerta e dichiara che il credito vantato da parte opposta per le causali di cui in parte motiva è pari, al __, ad Euro __, oltre interessi di mora da calcolare sulla sola quota capitale delle rate scadute e non pagate (dalla __ sino alla avvenuta decadenza dal beneficio del termine, intervenuta il __ dalla scadenza di ogni rata al saldo, nonché interessi di mora sul capitale residuo risultante al __ da tale data al saldo;

2) Compensa le spese.

Così deciso in Castrovillari, 8 gennaio 2020.

Depositata in Cancelleria il 8 gennaio 2020.

 

Tribunale Castrovillari Sent. 08_01_2020

 




Il debitore può invocare soltanto fatti estintivi o modificativi del diritto del creditore

Il debitore può invocare soltanto fatti estintivi o modificativi del diritto del creditore

Tribunale Ordinario di Vicenza, Sezione I Civile, Sentenza del 07/01/2020

Con sentenza del 7 gennaio 2020, il Tribunale Ordinario di Vicenza, Sezione I Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che in sede di opposizione all’esecuzione promossa in base a titolo giudiziale, il debitore può invocare soltanto fatti estintivi o modificativi del diritto del creditore che si siano verificati posteriormente alla formazione del titolo e non anche quelli intervenuti anteriormente, i quali sono deducibili esclusivamente nel giudizio preordinato alla formazione del titolo stesso.

 


 

Tribunale Ordinario di Vicenza, Sezione I Civile, Sentenza del 07/01/2020

Il debitore può invocare soltanto fatti estintivi o modificativi del diritto del creditore

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di VICENZA

SEZIONE PRIMA CIVILE

Il Tribunale di Vicenza, Sezione Prima Civile, in composizione monocratica, in persona del Giudice dott. __, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di primo grado iscritta a ruolo il __ al n. __ R.G., promossa con atto di citazione in opposizione all’atto di precetto ex art. 615 c.p.c. notificato in data __

DA

V. – attore opponente –

CONTRO

P. S.n.c. di C. – convenuta opposta –

In punto: opposizione all’atto di precetto ex art. 615 c.p.c.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Al fine di un opportuno inquadramento dell’oggetto del presente giudizio è necessario premettere che V., con atto di citazione notificato in data __ proponeva opposizione ex art. 615 c.p.c. avverso l’atto di precetto notificato in data __ con il quale la P. S.n.c. di C. (d’ora in avanti, per brevità, P. S.n.c.), in persona del suo legale rappresentante pro tempore, gli aveva intimato il pagamento della somma complessiva di Euro __, per capitale, interessi, spese tutte sostenute e per compensi dovuti, e ciò sulla base del decreto ingiuntivo n. __, emesso dall’intestato Tribunale in data __ su ricorso della predetta società e dichiarato provvisoriamente esecutivo, ai sensi dell’art. 648 c.p.c., in pendenza del giudizio di opposizione promosso dal medesimo odierno opponente e rubricato al n. __ R.G..

A sostegno della spiegata opposizione, V. deduceva che non sussistevano i presupposti di cui all’art. 642 c.p.c. per la concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto; che, al contrario, ricorrevano i gravi motivi contemplati dall’art. 649 c.p.c. per la sospensione dell’esecuzione, stante il fondato pericolo che poteva derivare per esso opponente in conseguenza dell’esecuzione forzata dell’impugnato provvedimento monitorio; che la pretesa creditoria fatta valere dalla P. S.n.c. non era fondata, avendo egli integralmente pagato all’ingiungente, con vari acconti corrisposti tutti nel corso del __, la somma dovuta per la fornitura dei materiali e per i lavori commissionati alla predetta società e dalla stessa eseguiti.

Sulla base di tali assunti, V. conveniva in giudizio avanti all’intestato Tribunale la P. S.n.c., richiedendo che, in via preliminare, previo “accertamento dell’inesistenza dei presupposti ex art. 642 c.p.c. per l’emissione del decreto ingiuntivo in forma immediatamente esecutiva, ricorrendone gravi motivi, …” fosse disposta la sospensione della “provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo n. __ R.G. __, considerata la mancanza dei presupposti del diritto all’esecuzione” e che venisse revocata “la provvisoria esecutività per il rischio di danni gravi ed irreparabili e per la palese fondatezza dell’atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, del fumus boni iuris e del periculum in mora”.

Nel merito, l’opponente instava per l’accoglimento delle domande dal medesimo proposte e per la revoca dell’atto di precetto notificato.

La P. S.n.c., nel costituirsi ritualmente in giudizio depositando apposita comparsa di costituzione e risposta, eccepiva, in primo luogo, l’inammissibilità dell’opposizione ex adverso proposta, in quanto le ragioni di contestazione sollevate nell’interesse di V. non sono dirette a far valere un difetto originario o sopravvenuto del titolo esecutivo, né fatti estintivi o modificativi successivi alla formazione titolo posto a fondamento dell’esecuzione.

La convenuta opposta, inoltre, sottolineava la non pertinenza alla fattispecie in esame del richiamo contenuto nell’atto di opposizione agli artt. 642 e 649 c.p.c., aventi ad oggetto rispettivamente le diverse ipotesi di concessione dell’esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo in sede di procedimento monitorio e di sospensione della provvisoria esecuzione così concessa.

Nel merito, l’opposta contestava gli assunti di controparte, negando di aver formulato e consegnato a V. gli asseriti preventivi richiamati dall’opponente o di aver ricevuto da quest’ultimo acconti non fatturati per l’asserito importo complessivo di Euro __, concludendo per il rigetto dell’opposizione avversaria e per la declaratoria di legittimità e validità dell’atto di precetto notificato.

Alla prima udienza di comparizione delle parti del __, il procuratore di parte opponente instava per la revoca della provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo concessa nell’ambito del giudizio di opposizione n. __ R.G. Con Provv. del __, emesso fuori udienza e regolarmente comunicato alle parti, il Giudice dichiarava l’inammissibilità dell’istanza proposta dall’opponente di sospensione della provvisoria esecutorietà già concessa al decreto ingiuntivo n. __ e rigettava l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo fatto valere dalla P. S.n.c. con l’atto di precetto opposto.

Al contempo, sul presupposto che la causa era matura per la decisione, fissava per la precisazione delle conclusioni e per la discussione orale ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c. l’udienza del __, concedendo alle parti termine sino al __ per il deposito di note difensive finali.

Con atto depositato telematicamente in data __, il procuratore di parte opponente precisava che, nelle more, il proprio assistito aveva provveduto a pagare spontaneamente a P. S.n.c., a saldo, la somma di Euro __ (comprensiva di capitale, interessi e competenze) portata dall’atto di precetto e pignoramento presso terzi, impregiudicato ogni diritto fatto valere nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo rubricato al n. __ R.G.

Con lo stesso atto, l’opponente dichiarava che non aveva più interesse a coltivare il giudizio di opposizione ex art. 615 c.p.c. promosso nei confronti della precettante, essendo a suo dire cessata la materia del contendere, rinunciando, quindi, agli atti del relativo giudizio ai sensi dell’art. 306 c.p.c. e richiedendo la declaratoria di estinzione del processo.

All’udienza del __, il Giudice, preso atto che il procuratore di parte opposta, con atto depositato telematicamente in data __, aveva dichiarato di non accettare la rinuncia agli atti del giudizio formalizzata dalla controparte, invitava le parti a precisare le rispettive conclusioni, revocando il Provv. del __ nella parte in cui disponeva la discussione orale, trattenendo immediatamente la causa in decisione, sulle conclusioni in epigrafe trascritte, avendo le parti espressamente rinunciato alla concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. per il deposito degli scritti conclusivi.

Così delineato l’ambito del dibattito processuale, deve rilevarsi, in primo luogo, come non possa dichiararsi l’estinzione del processo ai sensi delle previsioni dell’art. 306 c.p.c., avendo la convenuta opposta dichiarato di non accettare la rinuncia agli atti effettuata dalla parte opponente con l’atto depositato in data __.

Al contempo, ritiene il Giudicante che non sussistano neppure le condizioni per la declaratoria di cessazione della materia del contendere invocata sempre dall’opponente.

Ed invero, la cessazione della materia del contendere costituisce il riflesso processuale del venir meno della ragion d’essere della lite per gli aspetti considerati, per la sopravvenienza di fatti, oggettivi, che nel privare le parti di ogni interesse a proseguire il giudizio, incidendo sulle situazioni sostanziali prospettate, rende superflua la pronuncia giudiziale in precedenza rispettivamente richiesta dalle parti interessate.

Nel caso di specie, l’opponente ha sostenuto che, a seguito dell’avvenuto spontaneo pagamento nelle more del presente giudizio della somma portata dall’atto di precetto opposto, sarebbe venuto meno ogni interesse alla prosecuzione del processo.

A confutazione dell’assunto, tuttavia, è sufficiente evidenziare che il pagamento della somma precettata non è avvenuto incondizionatamente, essendo stato effettuato facendo salva ogni ragione fatta valere nell’ambito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo n. __ ancora pendente inter partes, come lo stesso opponente ha tenuto a precisare nello stesso atto di rinuncia agli atti del presente giudizio.

Ed allora, nella descritta situazione non può ritenersi che tra le parti sia venuta a cessare ogni ragione di contestazione, tale da rendere superflua la pronuncia giudiziale sulle domande oggetto del presente giudizio, che, in ogni caso, vanno esaminate nel merito quanto meno sotto il profilo della soccombenza virtuale ai fini della regolamentazione delle spese di lite.

Passando, pertanto, agli aspetti controversi della causa, si rivela innanzitutto del tutto irrituale ed inammissibile (come già posto in evidenza nel provvedimento emesso in data __) l’istanza di parte opponente contenuta nelle conclusioni svolte in via preliminare nell’atto di citazione in opposizione all’atto di precetto di sospensione della “provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo n. __ R.G. __”, trattandosi di richiesta che non può essere rivolta al giudice dell’opposizione all’esecuzione, bensì al giudice designato per l’opposizione al decreto ingiuntivo nell’ambito del procedimento contraddistinto con il n. __ R.G.

Nel merito, ritiene il Giudicante che la spiegata opposizione ex art. 615 c.p.c. proposta nell’interesse di V. si riveli inammissibile.

Deve considerarsi, infatti, che V. ha posto a fondamento della spiegata opposizione all’atto di precetto, pretesi pagamenti effettuati tutti nel corso del __ a saldo della fornitura di materiali e di prestazioni d’opera eseguiti in suo favore dalla P. S.n.c., invocando, quindi, in sede di opposizione all’esecuzione, fatti estintivi e/o modificativi anteriori alla formazione del titolo esecutivo giudiziale, mentre, al contrario, tali fatti dovevano essere fatti valere esclusivamente nell’ambito del giudizio di merito in cui tale titolo si è formato ovvero nei gradi successivi.

Ed invero, in sede di opposizione all’atto di precetto, è consentito il riesame del titolo giudiziale di cui trattasi, anche ai fini della sospensione del titolo esecutivo azionato, solo sotto il profilo della sua regolarità formale e non anche per l’aspetto del suo contenuto decisorio (cfr. Cass. civ., sez. I, 5.9.2008, n. 22402).

Al riguardo, infatti, nella fattispecie, deve farsi applicazione del costante orientamento del Supremo Collegio, secondo cui “In sede di opposizione all’esecuzione promossa in base a titolo giudiziale, il debitore può invocare soltanto fatti estintivi o modificativi del diritto del creditore…….che si siano verificati posteriormente alla formazione del titolo e non anche quelli intervenuti anteriormente, i quali sono deducibili esclusivamente nel giudizio preordinato alla formazione del titolo stesso” (cfr. Cass. 29.9.2007, n. 20594; Cass. civ., sez, I, 06.9.2007, n. 18725; Cass. civ., sez. VI, 18.02.2015, n. 3277; Cass. civ., sez. III, 26.6.2015, n. 13207).

Alla luce, quindi, dei principi ermeneutici enunciati dal Supremo Collegio nei citati arresti, viene ad essere preclusa in questa sede la valutazione delle ragioni di merito fatte valere dalla parte opponente a sostegno dell’invocata sospensione dell’esecuzione e della revoca dell’atto di precetto notificato, in quanto inerenti ad aspetti preesistenti alla formazione del titolo esecutivo che, come tali, non possono essere esaminate in questa sede.

Di conseguenza, poiché il titolo esecutivo azionato dal creditore procedente non è venuto meno, risulta evidente che non sussistono quei gravi motivi richiesti dall’art. 624 c.p.c. (norma questa peraltro neppure specificatamente invocata dall’opponente) per la sospensione dell’esecuzione e/o del titolo esecutivo fatto valere con l’impugnato atto di precetto, atteso che, anche in forza della prospettazione della parte opponente, l’asserita integrale estinzione del credito azionato dalla parte ingiungente sarebbe, comunque, avvenuta in epoca antecedente alla formazione del titolo in virtù del quale è stata preannunciata l’azione esecutiva con l’atto di precetto di cui trattasi.

La raggiunta conclusione denota, all’evidenza, la piena legittimità, validità ed efficacia dell’atto di precetto per cui è controversia e, al contempo, l’inammissibilità dell’opposizione dispiegata da V. avverso l’atto di precetto notificato ed il rigetto di ogni altra domanda dal medesimo proposta in giudizio.

L’accoglimento della domanda principale della parte opposta esime il Giudicante dallo scrutinio delle domande svolte in via subordinata dalla medesima parte.

Le spese di lite vanno poste a carico della parte opponente, in osservanza del principio di soccombenza – dato che il pagamento della somma precettata è avvenuto incontestatamente nelle more del presente giudizio di opposizione all’atto di precetto – e liquidate in favore della convenuta opposta P. S.n.c., come da dispositivo, mediante la previsione di un importo forfettario a titolo di compenso per l’attività professionale svolta, calcolato sulla base dei parametri di cui al D.M. 10 marzo 2014, n. 55, come modificato dal D.M. 8 marzo 2018, n. 37, avendo riguardo al valore della controversia – ricompreso nello scaglione di riferimento da Euro __ a Euro __ – e con il compenso determinato ai valori medi per le fasi di studio, introduttiva, di trattazione e decisoria, ma ridotto all’importo di Euro __ per la fase di trattazione, non essendo stati concessi i termini per il deposito delle memorie ex art. 183, 6 comma, c.p.c., né espletata attività istruttoria.

P.Q.M.

Il Tribunale di Vicenza, Sezione Prima Civile, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando nella causa come sopra promossa sulle conclusioni in epigrafe trascritte, ogni altra istanza, deduzione ed eccezione disattesa, così provvede:

1) accerta e dichiara la legittimità, validità ed efficacia dell’atto di precetto opposto notificato il __ all’opponente V.;

2) dichiara l’inammissibilità dell’opposizione proposta da V. avverso il suddetto atto di precetto notificato ad iniziativa della P. S.n.c. di C., con rigetto di ogni altra domanda spiegata in causa dall’opponente;

3) condanna l’opponente V. a rifondere alla convenuta opposta le spese processuali sostenute nel giudizio, che liquida in complessivi Euro __, di cui Euro __ per compenso professionale ed Euro __ per esborsi in senso stretto, oltre al rimborso delle spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge.

Così deciso in Vicenza, il 7 gennaio 2020.

Depositata in Cancelleria il 7 gennaio 2020.

 

Tribunale Vicenza Sez. I Sent. 07_01_2020

 

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L’espropriazione forzata promossa mediante ingiunzione esecutiva

L’espropriazione forzata promossa mediante ingiunzione esecutiva

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, Ordinanza n. 31226 del 29/11/2019

Con ordinanza del 29 novembre 2019, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, in tema di recupero crediti ha stabilito che, nell’espropriazione forzata promossa mediante ingiunzione esecutiva, il precetto deve contenere l’indicazione delle parti, della data di notifica del decreto ingiuntivo, nonché del provvedimento che ha disposto l’esecutorietà e l’apposizione della formula esecutiva, poiché la completa identificazione del titolo sostituisce, ai sensi dell’art. 654 c.p.c., la notifica dello stesso, sicché, in assenza di tali indicazioni, l’atto è viziato ex art. 480 c.p.c., producendosi una nullità equivalente a quella che colpisce il precetto non preceduto dalla notifica del titolo esecutivo, non suscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo con la mera proposizione dell’opposizione agli atti esecutivi.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 3, Ordinanza n. 31226 del 29/11/2019

L’espropriazione forzata promossa mediante ingiunzione esecutiva

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

M. – ricorrente –

contro

G. S.p.A. – intimata –

avverso la sentenza n. __ del TRIBUNALE di PALMI, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del __ dal Consigliere Relatore Dott. __.

Svolgimento del processo

Che:

con ricorso affidato a cinque motivi, M. ha impugnato la sentenza del Tribunale di Palmi, resa pubblica in data __, che dichiarava la nullità del precetto opposto da G. S.p.A., con condanna della stessa M. a rifondere le spese di lite in favore della parte opponente;

che il Tribunale osservava: 1) che l’opposizione era da qualificarsi come opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., in quanto relativa al difetto della notifica del titolo esecutivo; 2) che l’opposizione era tempestiva per esser la notificazione intervenuta nel termine di venti giorni dalla notificazione del precetto; 3) che il precetto opposto era affetto da nullità sotto il duplice profilo della mancata notifica del titolo esecutivo e della carenza di indicazione, nel precetto, della data di tale notifica;

che non ha svolto attività difensiva in questa sede l’intimata G. S.p.A.;

che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio, in prossimità della quale la ricorrente ha depositato memoria;

che il Collegio ha deliberato di adottare una motivazione in forma semplificata.

Motivi della decisione

che:

  1. a) con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4, nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa applicazione degli artt. 617 e 112 c.p.c., per aver il Tribunale, per un verso, accolto l’opposizione per un motivo diverso (mancata indicazione della data sia dell’apposizione di formula esecutiva della sentenza, sia della notifica del titolo) da quello effettivamente proposto dall’opponente (ossia, mancata indicazione e notificazione del titolo esecutivo) e, per altro verso, per aver erroneamente pronunciato una sentenza di nullità del precetto anziché di cessazione della materia del contendere. Lamenta, inoltre, la ricorrente la violazione dell’art. 617 c.p.c., per aver il Tribunale erroneamente accolto un’opposizione agli atti esecutivi inammissibile, in assenza del primo atto esecutivo da cui far decorrere il termine di venti giorni indicato dalla legge;

a.1) il motivo è inammissibile in tutta la sua articolazione.

Esso, anzitutto, non censura specificatamente la ratio decidendi della sentenza impugnata che (in alternativa alla nullità per carenza di indicazione nel precetto della data di notificazione del titolo esecutivo) fonda la nullità del precetto anche sulla mancata notificazione del titolo esecutivo. Là dove, in ogni caso, giova rammentare che nell’espropriazione forzata promossa in forza di ingiunzione esecutiva, il precetto deve contenere l’indicazione delle parti, della data di notifica del decreto ingiuntivo, nonché del provvedimento che ha disposto l’esecutorietà e l’apposizione della formula esecutiva, in quanto la completa identificazione del titolo sostituisce, in forza dell’art. 654 c.p.c., la notifica dello stesso, sicché, in assenza di tali indicazioni, l’atto è viziato ex art. 480 c.p.c., producendosi una nullità equivalente a quello che colpisce il precetto non preceduto dalla notifica del titolo esecutivo, non suscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo con la mera proposizione dell’opposizione agli atti esecutivi (Cass. n. 22510/2014; analogamente Cass. n. 23894/2012: non è sanabile per raggiungimento dello scopo, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., u.c., la nullità del precetto conseguente all’omissione della notificazione del titolo esecutivo: e ciò sia quando venga proposta opposizione ex art. 617 c.p.c., per far valere il vizio della mancata osservanza dell’art. 479 c.p.c., comma 1; sia quando, unitamente a quest’ultima, vengano proposti motivi di opposizione ex art. 615 c.p.c.).

Inoltre, quanto al profilo della mancata pronuncia di cessazione della materia del contendere, si osserva che tale declaratoria presuppone che le parti si diano reciprocamente atto del sopravvenuto mutamento della situazione sostanziale, dedotta in giudizio, e precisino al giudice conclusioni conformi in tal senso. Ne consegue che l’allegazione di un fatto sopravvenuto, assunto da una sola parte come idoneo a determinarla – e oggetto di contestazione dalla controparte comporta la necessità che il giudice ne valuti l’idoneità a determinare cessata la materia del contendere e, qualora non la reputi sussistente, pronunci su tutte le domande e le eccezioni delle parti (Cass. n. 2063/2014).

Nel ricorso si deduce soltanto di come sostanzialmente nel corso del giudizio, e precisamente nella prima memoria ex art. 183 c.p.c., anche l’opponente (che nell’atto di opposizione aveva concluso per la declaratoria di nullità del precetto) avrebbe dato atto della cessazione della materia del contendere, senza tuttavia indicare, nel rispetto del principio di principio di specificità e di localizzazione processuale (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), il contenuto proprio di tale asserzione difensiva ed anzi evidenziando come la stessa opponente abbia, nella successiva memoria di replica, nuovamente contestato la validità del precetto per mancata notificazione del titolo esecutivo, quale posizione che si pone in contrasto con una convergenza delle parti sul venir meno della materia del contendere.

Infine, inammissibile è anche l’ulteriore censura relativa alla violazione dell’art. 617 c.p.c., giacché non coglie la ratio della decisione, armonica rispetto alla previsione dell’art. 617 c.p.c., per cui le opposizioni relative alla regolarità formali del precetto, attenendo al controllo dello svolgimento del processo esecutivo e non essendo la stessa esecuzione ancora iniziata, sono disciplinate non dal primo, ma dal comma 2 di detta disposizione, là dove, per il resto, la doglianza contravviene all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in assenza di indicazione puntuale del contenuto e della localizzazione dell’atto di opposizione e della relativa notifica;

  1. b) con il secondo mezzo è dedotta la nullità della sentenza e del procedimento ex art. 360, c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione degli artt. 100, 115 e 116 c.p.c., o, in via subordinata, violazione e falsa applicazione di norme del diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in riferimento agli artt. 100, 115 e 116 c.p.c., per aver erroneamente il giudice di merito accolto l’opposizione agli atti esecutivi pur in assenza di un interesse ad agire di parte opponente, così come emerge da alcuni atti prodotti dalla stessa in giudizio e dalla non contestazione delle deduzioni ed eccezioni di parte opposta;

b.1) il motivo è inammissibile, essendo confezionato, anzitutto, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in assenza di indicazione del contenuto specifico degli atti processuali su cui esso si fonda e, segnatamente, della rispettiva localizzazione processuale.

In ogni caso, è comunque inammissibile, ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, giacché, alla luce delle citate Cass. n. 2063/2014 e di Cass. n. 23894/2012, nell’ipotesi di violazione delle norme sulle forme del processo esecutivo, l’effettiva utilità che dalla nullità dell’atto l’opponente possa ricavare, sussiste ogniqualvolta l’adempimento formale sia imposto dalla legge quale requisito di validità dell’atto; pertanto l’omissione dell’adempimento ovvero l’inosservanza delle forme prescritte impongono di dichiarare la nullità dell’atto, venendo meno, sì, gli effetti in capo al destinatario, a meno che non ricorre un’ipotesi di sanatoria della nullità ai sensi dell’art. 156 c.p.c., u.c., di qui, l’interesse a proporre opposizione avverso il precetto non preceduto dalla notificazione del titolo esecutivo, al fine di ottenerne la nullità e dunque porre nel nulla l’intimazione e l’avvertimento ex art. 480 c.p.c., comma 1, impedendo il regolare inizio dell’azione esecutiva e ciò, a prescindere dalla conoscenza che la parte opponente abbia dell’esistenza e del contenuto del titolo esecutivo.

È, altresì, inammissibile in quanto nel ricorso per cassazione, per un verso, la violazione dell’art. 115 c.p.c., può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre; per altro verso, la violazione dell’art. 116 c.p.c., è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. n. 11892/2016);

  1. c) con il terzo mezzo è prospettata nullità della sentenza e del procedimento ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione degli art. 156 e 157 c.p.c., o, in via subordinata, violazione e falsa applicazione di nonne di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in riferimento agli art. 156 e 157 c.p.c., per aver il giudice di merito erroneamente accolto l’opposizione nonostante non vi sia alcuna norma che sancisca la nullità del precetto per mancata notifica del titolo esecutivo, che non poteva comunque essere dichiarata d’ufficio (in assenza di specifico motivo di parte), nonché perché sussisteva, in ogni caso, la sanatoria della nullità per raggiungimento dello scopo in forza della stessa proposizione dell’opposizione.

c.1) il motivo è inammissibile per le ragioni già evidenziate in sede di esame dei motivi che precedono;

  1. d) con il quarto mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione al mancato esame delle eccezioni e delle deduzioni in tema di applicazione dell’art. 100 e art. 617, comma 2, e art. 156 c.p.c., e omesso esame degli atti e documenti di causa in violazione degli art. 112, 115 e 116 c.p.c., per aver il Tribunale esaminato la sola domanda di parte opponente senza vagliare le questioni e le dirimenti eccezioni di parte opposta;

d.1) il motivo è inammissibile, giacché il vizio censurato non è riconducibile al paradigma del vigente art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (cfr. tra le altre Cass., S.U., n. 8053/2014), che attiene all’omesso esame del fatto storico, decisivo e discusso tra le parti, e non all’omesso esame di difese ed eccezioni di parte, ovvero alla carente valutazione di atti e documenti processuali;

  1. e) con il quinto mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza e del procedimento, o in via subordinata, ai sensi del n. 5, dell’articolo cit., violazione dell’art. 112 c.p.c., per aver il giudice di merito omesso di rispondere alle eccezioni (indicate nel quarto motivo) dedotte nel corso del giudizio dall’odierno ricorrente;

e.1) il motivo è inammissibile sia (in via assorbente) per difetto di specificità e, soprattutto, localizzazione processuale (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) in relazione agli e documenti su cui si fonda, ma anche perché il vizio di omessa pronunzia è configurabile solo nel caso di mancato esame di questioni di merito e non anche di questioni processuali (Cass. n. 1876/2018, Cass. n. 25154/2018);

che la memoria di parte ricorrente, là dove non inammissibile per essere non solo illustrativa, ma anche integrativa e/o emendativa delle ragioni originarie di censura, non fornisce argomenti idonei a scalfire le considerazioni che precedono;

che il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile, non occorrendo provvedere alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità in assenza di attività difensiva da parte dell’intimata compagnia di assicurazioni.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della VI-3 Sezione civile della Corte suprema di Cassazione, in data 20 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2019.

 

Cass. civ. Sez. VI_3 Ord. 29_11_2019 n. 31226




Il mutuo fondiario e il mutuo ipotecario

Il mutuo fondiario possiede requisiti identificativi diversi da quelli dell’ordinario mutuo ipotecario

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I, Ordinanza n. 3024 del 10/02/2020

Con ordinanza del 10 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in tema di fallimento e recupero crediti ha stabilito che, il mutuo fondiario è operazione che si connota per concentrare la copertura del rischio di rientro dell’erogato sul solo immobile “mobilizzato” e contestualmente iscritto in ipoteca di primo grado. Ne deriva che il mutuo fondiario possiede requisiti identificativi diversi da quelli dell’ordinario mutuo ipotecario ed è inteso a porre in essere un’operazione diversa e con effetti (anche) distinti da quelli propri dell’ordinario mutuo.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione I, Ordinanza n. 3024 del 10/02/2020

Il mutuo fondiario possiede requisiti identificativi diversi da quelli dell’ordinario mutuo ipotecario

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

B. S.p.A. – ricorrente –

contro

Curatela Fallimento C. – controricorrente –

avverso l’ordinanza del TRIBUNALE di TRANI, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal cons. Dott. __;

lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha chiesto che la Corte rigetti il ricorso, con tutte le conseguenze che ne derivano per legge.

Svolgimento del processo

1.- B. S.p.A. ha chiesto di essere ammessa con privilegio ipotecario al passivo fallimentare dell’impresa individuale C., titolando la propria domanda in un mutuo fondiario.

Il giudice delegato ha ammesso il credito integralmente in via chirografaria, in quanto la costituzione della garanzia ipotecaria è da ritenersi inefficace nei confronti della procedura ex art. 67 comma 1, in quanto avvenuta nel periodo sospetto e comunque in relazione a un credito preesistente non scaduto.

2.- B. ha proposto opposizione ai sensi della L.F., artt. 98 e ss. avanti al Tribunale di Trani. Che la ha respinta, con provvedimento depositato in data __.

3.1.- In proposito, il Tribunale ha rilevato che l’assunta operazione di mutuo fondiario è stata posta in essere quattro mesi prima della dichiarazione di fallimento; e che, inoltre, il saldo passivo dei contratti di conto corrente, in parte azzerato (per un contratto) e in parte ridotto (per il secondo contratto) con la somma mutuata, costituisce un debito preesistente e scaduto al momento della costituzione dell’ipoteca, essendo immediatamente esigibile: l’art. 7 delle norme uniformi bancarie stabilisce l’immediata esigibilità delle esposizioni debitorie su c/c, prevedendo che ogni versamento di una somma su un conto passivo implichi l’estinzione della passività per il corrispondente importo.

Constatato poi che nella specie non si discuteva del credito in quanto tale, ma solo dell’atto di costituzione di garanzia reale, ha osservato che la fattispecie giuridica ricorribile nel caso di specie sia quella del negozio indiretto, come inteso a conseguire il fine ulteriore di munire di prelazione ipotecaria un credito chirografario (ossia lo scoperto di conto corrente), con il risultato di costituire la garanzia ipotecaria per il preesistente debito. Riscontrata così la natura indiretta e fraudolenta dell’operazione, il Tribunale ha ritenuto corretta la decisione del giudice delegato di ammettere al passivo il credito bancario in chirografo per effetto della revocatoria in via breve della garanzia ipotecaria, precisando trattarsi di ipotesi da catalogare nella L.F., art. 67, comma 1, n. 4.

3.2.- Volgendosi altresì a esaminare partitamente i contenuti dell’opposizione presentata dalla banca in punto di esenzione per il mutuo fondiario, il giudice ha rilevato che la norma dell’art. 38, comma 1, TUB, impone che l’ipoteca sia concessa a garanzia del finanziamento e non di debiti preesistenti; che la non contestualità esclude quindi che il mutuo possa essere qualificato come fondiario; che la norma della L.F., art. 67, u.c. è di stretta interpretazione, facendo eccezione alla regola generale della revocabilità, attuativa del principio generale espresso dal combinato disposto degli artt. 2740 e 2741 c.c., per cui non ne è consentita l’applicazione fuori dai casi previsti, cioè nel caso in cui non siano rispettate le condizioni di configurabilità del mutuo fondiario.

4.- Avverso questo provvedimento ricorre Banca Apulia, svolgendo due motivi di cassazione.

Resiste il fallimento, con controricorso.

5.- Entrambe la parti hanno anche presentato memorie.

Motivi della decisione

6.- I motivi di ricorso sono intestati secondo i termini che qui di seguito vengono riportati.

Primo motivo: violazione e falsa applicazione della L.F., art. 67, u.c. e dell’art. 39 TUB in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Secondo motivo: violazione e falsa applicazione della L.F., art. 67.

7.- Al di là della rubricazione che reca, il primo motivo di ricorso viene a proporre un contenuto scomposto in due parti; e articolato in due distinte censure.

7.1.- Ritiene dunque il ricorrente, nella prima sezione del motivo, che il Tribunale pugliese ha errato nel ritenere che tra i presupposti del credito fondiario rientri la contestualità (da intendere come coesistenza sinallagmatica) tra la concessione dell’ipoteca e l’erogazione del mutuo.

La norma dell’art. 38 TUB – così ammonisce il motivo – pone esclusivamente requisiti connessi: 1) alla durata delle operazioni (a medio e lungo termine, cioè con durata superiore a 18 mesi); 2) alla presenza di garanzie ipotecarie di immobili (di determinate caratteristiche rispetto al grado di iscrizione e all’ammontare del credito garantito in rapporto al valore dei beni ipotecati o al costo delle opere da eseguire su di essi). Null’altro.

7.2.- Nella sua seconda sezione, il motivo assume che la norma della L.F., art. 67, comma 4 ha portata esonerativa più ampia di quella prevista dalla norma dell’art. 39, comma 4 TUB, che ne risulta assorbita. E così questa norma esonera, tra l’altro, da revocatoria pure la costituzione di garanzie anche non contestuali, che come tali ricadrebbero sotto la disciplina revocatoria della L.F., art. 67, commi 1 e 4.

In altri termini – incalza il motivo – l’esenzione estesa di cui alla L.F., art. 67, u.c. rende non assoggettabile a revocatoria l’operazione (come quella in esame) in forza della quale una banca concede credito all’impresa, nella forma del finanziamento fondiario, perché questa estingua i debiti già in essere verso la stessa banca.

8.- Il motivo non merita di essere accolto, né nella prima, né nella seconda parte in cui risulta articolato.

In proposito, va rilevato che l’intima connessione strutturale – che nell’operazione di credito fondiario si pone tra erogazione del mutuo e garanzia ipotecaria – risulta già disvelata del testo dell’art. 38 TUB, comma 1 che appunto lega in modo diretto la concessione del credito alla costituzione della garanzia.

A parte ciò, risulta comunque decisiva, peraltro, la constatazione che la disposizione dell’art. 38 TUB, comma 2 stabilisce la regola per cui l’ammontare del finanziamento è “determinato… in rapporto al valore dei beni ipotecati”. Ciò significa, all’evidenza, che nel mutuo fondiario l’ammontare del credito dipende – non può non dipendere, meglio – dal valore che possiede l’immobile dato in ipoteca.

Proprio sulla base di questa disposizione (come poi completata dalle Istruzioni della Banca d’Italia), la giurisprudenza di questa Corte ha rilevato che il mutuo fondiario è operazione che si connota per concentrare la copertura del rischio di rientro dell’erogato sul solo immobile mobilizzato e contestualmente iscritto in ipoteca di primo grado (cfr. Cass., 18 maggio 2018, n. 11201; v. pure sulla scia di questa, tra le altre, Cass., 28 maggio 2018, n. 13285; Cass. 28 maggio 13286; Cass., 24 settembre 2018, n. 22459). Perciò, il mutuo fondiario possiede requisiti identificativi diversi da quelli dell’ordinario mutuo ipotecario ed è inteso a porre in essere un’operazione diversa e con effetti (anche) distinti da quelli propri dell’ordinario mutuo (cfr. ancora Cass., n. 11201/2018).

In altri termini, nel mutuo fondiario è proprio la garanzia dell’ipoteca a conformare il credito (merito e quantità): così dando vita a una speciale tipologia di operazione, che il sistema vigente ha inteso proteggere in modo peculiare (con l’assegnazione di forti vantaggi disciplinari), in ragione della rischiosità sua intrinseca.

Ne segue che un mutuo non può, nel corso di svolgimento del relativo rapporto, diventare fondiario. Nel caso di ipoteca posta a servizio di un preesistente mutuo, quest’ultimo rimane semplicemente un ordinario mutuo.

9.- Dal complesso delle osservazioni appena compiute viene pure a discendere in via diretta l’infondatezza della censura svolta nella seconda parte del motivo.

In effetti, il problema che così è stato sollevato – come relativo all’ipotetica estensione dell’esenzione revocatoria, nell’avviso del ricorrente dall’art. 67, u.c. portata sino alle ipoteche a servizio di crediti preesistenti – non ha, in realtà, neppure uno spazio per potersi porre.

10.- Con il secondo motivo, il ricorrente contesta la decisione del Tribunale di ritenere revocabile la sola garanzia ipotecaria, secondo la prospettiva tracciata dalla curatela del fallimento. Richiamando precedenti della giurisprudenza di questa Corte, il ricorrente sostiene, per contro, nel caso presupposto necessario per potere revocare l’ipoteca è l’inopponibilità del mutuo alla massa dei creditori fallimentari.

11.- Il motivo è inammissibile.

Lo stesso infatti non coglie la ratio decidendi della pronuncia del Tribunale pugliese. Questo, in effetti, non ha assegnato – come pure mostra di ritenere il ricorrente – al mutuo fondiario nessuna funzione realmente solutoria (anche solo in via indiretta).

Sul punto, in realtà, il provvedimento impugnato si manifesta chiaro, univoco: scopo dell’operazione oggetto di revoca non (è stato) il pagamento effettuato in forma anomala, quanto la trasformazione di un debito preesistente da chirografario a privilegiato attraverso il negozio indiretto di cui si è detto (apparente estinzione della passività preesistente e creazione di una nuova passività privilegiata).

In questa prospettiva, dunque, la stipulazione del mutuo fondiario viene propriamente assunta come mera forma, strutturalmente idonea a realizzare la funzione fraudolenta dell’operazione, quale quella di rendere contestuale un’ipoteca per un credito che era preesistente. E che, nello svolgimento della motivazione compiuto dal Tribunale, tale nella sostanza è rimasto: posto, se non altro, che l’ipoteca è stata revocata in relazione alla norma della L.F., art. 67, comma 1, n. 4.

12.- In conclusione il ricorso dev’essere respinto.

Le spese seguono la regola della soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese relative al giudizio di legittimità, che liquida nella somma di Euro __ (di cui Euro __ per esborsi), oltre a oltre a spese forfettarie nella misura del 15% e accessori di legge.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, secondo quanto stabilito dalla norma dell’art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima civile, il 21 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 febbraio 2020.

 

Cass. civ. Sez. I Ord. 10_02_2020 n. 3024




La domanda di risoluzione proposta prima della dichiarazione di fallimento

La domanda di risoluzione proposta prima della dichiarazione di fallimento, se diretta in via esclusiva a far valere le consequenziali pretese risarcitorie o restitutorie in sede fallimentare, non può proseguire in sede di cognizione ordinaria

Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 2990 del 07/02/2020

Con sentenza del 7 febbraio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, in tema di fallimento e recupero crediti ha stabilito che, nel sistema concorsuale riformato, l’art. 72, comma 5, secondo periodo, L.F. impone – anche alla luce dei principi di specializzazione, concentrazione e speditezza sottesi agli artt. 24 e 52 L.F., nonché del contraddittorio incrociato tipico del procedimento di accertamento del passivo – che la domanda di risoluzione proposta prima della dichiarazione di fallimento, se diretta in via esclusiva a far valere le consequenziali pretese risarcitorie o restitutorie in sede fallimentare, non può proseguire in sede di cognizione ordinaria, ma deve essere interamente proposta secondo il rito speciale disciplinato dagli artt. 93 e ss. L.F.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n. 2990 del 07/02/2020

La domanda di risoluzione proposta prima della dichiarazione di fallimento, se diretta in via esclusiva a far valere le consequenziali pretese risarcitorie o restitutorie in sede fallimentare, non può proseguire in sede di cognizione ordinaria

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

A. S.r.l. & Co. s.a.s., (già A. di G.L. & C. s.a.s.) – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. in liquidazione – controricorrente –

avverso il decreto n. __ del TRIBUNALE di PERUGIA, depositato il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal cons. Dott. __;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo, assorbiti i restanti.

Svolgimento del processo

  1. Con il decreto impugnato, il Tribunale di Perugia ha rigettato l’opposizione allo stato passivo del Fallimento (OMISSIS) S.r.l. in liquidazione, proposta da A. S.r.l. & Co. S.a.s., la quale lamentava la mancata ammissione con riserva, L.F., ex art. 96, del credito risarcitorio di Euro __, in attesa della definizione del giudizio di risoluzione ex art. 1453 c.c. dei contratti di fornitura di prodotti dolciari, per inadempimento della venditrice (OMISSIS) in bonis, già promosso dinanzi al Tribunale di Trento, successivamente interrotto a causa del suo fallimento e riassunto nei confronti della curatela fallimentare.

1.1. Secondo il Tribunale di Perugia, il credito insinuato al passivo incerto nell’an e nel quantum – non sarebbe né condizionale, né ammissibile con riserva (in mancanza di sentenza intervenuta prima della dichiarazione di fallimento), bensì soggetto all’accertamento del Tribunale Fallimentare in base alla competenza funzionale L.F., ex art. 24, sicché la sua sussistenza andava comprovata dinanzi al G.D. (…) o, al più tardi, mediante istruttoria da svolgersi nella sede oppositiva, mentre l’azione proposta dinanzi al Tribunale di Trento doveva essere dichiarata improcedibile. Di qui il rigetto dell’opposizione, avendo il creditore omesso di allegare e provare i fatti costitutivi della pretesa nell’unica sede deputata all’accertamento del credito e alla sua ammissione, quella fallimentare.

  1. Avverso detta decisione A. ha proposto quattro motivi di ricorso per cassazione, cui la curatela fallimentare ha resistito con controricorso, corredato da memoria.
  2. Con ordinanza interlocutoria n. __ del __ il Collegio ha disposto rinvio a nuovo ruolo per trattazione congiunta con il ricorso iscritto al n. __ R.G., promosso contro la sentenza della Corte d’appello di Trento che ha rigettato l’impugnazione proposta dalla stessa A. avverso la sentenza con cui il Tribunale di Trento aveva dichiarato improcedibili le domande di risoluzione contrattuale e risarcimento del danno.
  3. La Procura generale ha depositato requisitoria scritta.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo – rubricato “Violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto – L.F., art. 24 (e L.F., art. 72)” – si sostiene che le azioni di risoluzione contrattuale introdotte prima del fallimento rimangono in punto di an di competenza del Tribunale ordinario ed in punto di risarcimento e relativo quantum di competenza del Tribunale Fallimentare, sicché il credito per cui è causa non poteva che ammettersi con riserva, in via condizionata, in attesa della decisione sulla domanda di risoluzione pendente dinanzi alla Corte d’appello di Trento, essendo l’accertamento della risoluzione prodromico ad ogni ulteriore accertamento.

5.1. Il secondo mezzo prospetta la medesima questione sotto il profilo dell’omesso esame della motivazione offerta dall’opponente ai fini dell’ammissione condizionata del proprio credito e dell’adozione della decisione sulla base di affermazioni tautologiche, apodittiche e contraddittorie.

5.2. Il terzo motivo denunzia la violazione della L.F., art. 99, che richiede la pronuncia di un decreto motivato, mentre quello impugnato sarebbe privo di motivazione sulla ritenuta competenza funzionale del tribunale fallimentare L.F., ex art. 24.

5.3. Con il quarto mezzo – rubricato “Violazione art. 91 c.p.c.” – si deduce infine che la peculiare vicenda processuale da sola avrebbe consigliato/imposto quantomeno la compensazione delle spese.

  1. Il primo motivo è infondato.
  2. A partire dalla riforma fallimentare del 2006, l’ordinamento concorsuale ha visto rafforzarsi i due principi fondamentali della competenza funzionale inderogabile del tribunale fallimentare (L.F., art. 24) e della obbligatorietà ed esclusività delle forme dell’accertamento del passivo (L.F., art. 52), entrambi strumentali agli obbiettivi di specializzazione, celerità e concentrazione delle procedure fallimentari e, segnatamente, del procedimento di accertamento del passivo fallimentare.

7.1. Già in precedenza la giurisprudenza aveva segnalato che l’esclusività del procedimento di verifica dei crediti non involge un problema di competenza – influenzata dalla vis attractiva del tribunale fallimentare – ma una questione di specialità del rito, rimarcando che la devoluzione della controversia al foro fallimentare discende direttamente e inequivocabilmente dal combinato disposto della L.F., artt. 52 e 93 ss. (ex plurimis, Cass. 2032/1987, 1893/1996, 11379/1998), teso a realizzare le peculiarità del sistema concorsuale ove l’accertamento del passivo è consegnato ad un particolare procedimento, quale strumento di cognizione attribuito a un Giudice, la cui individuazione è disancorata dai criteri ordinari in materia di competenza, derivando, invece, dalla stessa sentenza dichiarativa di un determinato fallimento; ne consegue che l’attuazione, nella sede fallimentare, delle domande intese a ottenere il riconoscimento del diritto di partecipare al concorso o di un diritto reale o restitutorio su beni mobili (e oggi anche immobili) acquisiti all’attivo non discende, in altri termini, dal principio di cui all’art. 24 citato – il quale risolve, più che altro, un problema di competenza riferito alla cognizione del Tribunale fallimentare, specie in relazione a crediti del soggetto fallito – ma è riconducibile al principio, dettato dall’art. 52 citato, della obbligatorietà ed esclusività del procedimento di verifica del passivo per quanti intendano far valere pretese verso il fallimento (Cass. 2439/2006).

7.2. Nel sistema vigente, la riforma ha inciso sull’accertamento del passivo in senso marcatamente estensivo e acceleratorio, per consentire la conclusione nel più breve tempo possibile sia della prima fase (necessaria) davanti al giudice delegato, sia di quella successiva (eventuale) di tipo impugnatorio dinanzi al tribunale fallimentare (nella triplice forma di opposizione, impugnazione e revocazione dello stato passivo L.F., ex art. 98).

7.3. In particolare, dalla L.F., art. 24 – per cui il tribunale che ha dichiarato il fallimento è competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne sia il valore – è stata espunta l’originaria esclusione delle azioni reali immobiliari, non più soggette, come in passato, alle norme ordinarie di competenza (cui erano state già sottratte le azioni relative a rapporti di lavoro). Inoltre, la L.F., art. 93, comma 1, contempla, accanto alla domanda di ammissione al passivo di un credito, quella di restituzione o rivendicazione di beni mobili e immobili, essendo venuta meno nella L.F., art. 103 la limitazione ai soli beni mobili delle domande di rivendica e restituzione.

7.4. Al riguardo merita evidenziare come il D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (nuovo CCII), di prossima applicazione, nel precisare che il decreto che rende esecutivo lo stato passivo e le decisioni assunte dal tribunale all’esito dei giudizi di cui all’art. 206 (i.e. opposizione, impugnazione dei crediti ammessi e revocazione) limitatamente ai crediti accertati e al diritto di partecipare al riparto quando il debitore ha concesso ipoteca a garanzia di debiti altrui, producono effetti soltanto ai fini del concorso (art. 204, comma 5), ha chiarito – così risolvendo alcune difficoltà attuative della nuova competenza immobiliare del tribunale fallimentare – che il decreto che accoglie la domanda di rivendica di beni o diritti il cui trasferimento è soggetto a forme di pubblicità legale deve essere reso opponibile ai terzi con le medesime forme (art. 210, comma 3).

7.5. La giurisprudenza di questa Corte è univoca nel ritenere che in materia di procedure concorsuali, la competenza funzionale inderogabile del tribunale fallimentare, prevista dalla L.F., art. 24 e dal D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 13 suo omologo nell’amministrazione straordinaria, opera con riferimento non solo alle controversie che traggono origine e fondamento dalla dichiarazione dello stato d’insolvenza ma anche a quelle destinate ad incidere sulla procedura concorsuale in quanto l’accertamento del credito verso il fallito costituisca premessa di una pretesa nei confronti della massa (Cass. 15982/2018; Cass. 20350/2005), sicché sono azioni derivanti dal fallimento, ai sensi della L.F., art. 24, quelle che comunque incidono sul patrimonio del fallito, compresi gli accertamenti che costituiscono premessa di una pretesa nei confronti della massa, anche quando siano diretti a porre in essere il presupposto di una successiva sentenza di condanna (Cass. 17279/2010; coni. Cass. 17388/2007; Cass. 7510/2002).

7.6.  È altresì pacifico che il vigente L.F., art. 52, nel fare riferimento omnicomprensivo a ogni credito e ad ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, ivi compresi i crediti esentati dal divieto di cui all’art. 51, assoggetta inevitabilmente alla competenza dell’organo giurisdizionale fallimentare e al rito speciale dell’accertamento del passivo (cd. concorso formale) – salvo diversa disposizione di legge – anche la cognizione degli antecedenti logico-giuridici che costituiscono il presupposto delle suddette pretese.

7.7. Il principio del concorso formale può quindi essere derogato solo da specifiche disposizioni di legge, come la L.F., art. 96, n. 3), – a norma del quale i crediti accertati con sentenza del giudice ordinario o speciale non passata in giudicato, pronunciata prima della dichiarazione di fallimento (quand’anche di accertamento negativo, secondo la consolidata interpretazione estensiva di questa Corte: Cass. 11362/2018, 26041/2010, 4646/2009, 18088/2007) vanno ammessi al passivo con riserva, potendo il curatore solo proporre o proseguire il giudizio di impugnazione dinanzi al giudice ordinario o speciale, destinato perciò a fare stato in sede fallimentare – e il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 88, comma 2, il quale prevede analogamente l’ammissione con riserva dei crediti tributari contestati, il cui accertamento resta perciò radicato nella sfera di competenza della giurisdizione tributaria.

  1. Orbene, il Collegio ritiene che la L.F., art. 72, comma 5 – articolo riformulato ex novo con la riforma di cui al D.Lgs. n. 5 del 2006 e destinato a disciplinare i rapporti pendenti all’interno della Sezione che disciplina gli effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti – non rappresenti quella diversa disposizione di legge destinata a derogare, nella fattispecie considerata, al rito fallimentare.

8.1. Il primo periodo di detta disposizione – per cui l’azione di risoluzione del contratto promossa prima del fallimento nei confronti della parte inadempiente spiega i sui effetti nei confronti del curatore fatta salva, nei casi previsti, l’efficacia della trascrizione della domanda – integra un comando di tipo sostanziale che individua nella domanda di risoluzione contrattuale proposta ante fallimento un limite al potere del curatore di scegliere se sciogliersi dal contratto pendente o subentrarvi, previsto in linea generale dal comma 1 (salvo che, nei contratti ad effetti reali, sia già avvenuto il trasferimento del diritto); con la precisazione che, laddove necessarie (per lo più con riguardo a diritti su beni immobili e mobili registrati), anche le formalità per la trascrizione della domanda devono essere effettuate prima del fallimento, in applicazione della regola di cui alla L.F., art. 45.

8.2. Il secondo periodo – per cui se il contraente intende ottenere con la pronuncia di risoluzione la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le disposizioni di cui al Capo V – integra invece un comando di carattere processuale che non solo non deroga alla regola della L.F., art. 52, ma anzi la conferma espressamente, in base al quale il contraente che abbia proposto domanda di risoluzione del contratto prima del fallimento, pur potendo sottrarsi alla eventuale scelta del curatore di subentrare nel contratto (in forza del primo periodo), non può coltivare quella domanda in sede ordinaria – ma deve proporla in sede fallimentare – tutte le volte in cui con essa intenda far valere i consequenziali effetti restitutori o risarcitori nei confronti della massa dei creditori.

8.3. Tra l’altro, una diversa lettura della norma la svuoterebbe di significato, rendendo del tutto superfluo il secondo periodo, non essendo mai stato messo in dubbio nel sistema concorsuale che – a fronte di una azione di risoluzione del contratto per inadempimento promossa prima del fallimento – ogni pretesa pecuniaria, risarcitoria o restitutoria debba comunque essere fatta valere in sede concorsuale.

8.4. Pertanto, non si rinviene nel sistema concorsuale vigente un indice normativo che giustifichi la deroga al principio del concorso formale sulle pretese restitutorie o risarcitorie derivanti dalla domanda di risoluzione contrattuale proposta prima della dichiarazione di fallimento, ivi compresi i presupposti di quest’ultima, sia essa di natura dichiarativa, in presenza di clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c., o costitutiva, per inadempimento colposo ex art. 1453 c.c. (cfr. Cass. 10294/2018). D’altronde, l’efficacia della trascrizione della domanda L.F., ex art. 72, comma 5, primo periodo, – quando prevista – è funzionale, in uno all’opponibilità L.F., ex art. 45, alla prenotazione degli effetti sostanziali dell’eventuale accoglimento della domanda di risoluzione, ma non rileva ai fini del rito da adottare per la decisione della domanda, dopo la declaratoria di fallimento.

8.5. L’opposta soluzione poteva al più essere predicata nell’assetto normativo ante riforma, dove la procedibilità dell’azione di risoluzione in sede ordinaria appariva compatibile con il procedimento di verifica del passivo dell’epoca, gran parte delle cui fasi (giudizi di opposizione, impugnazione e revocazione dei crediti ammessi; fase conteziosa delle insinuazioni tardive) seguiva il rito ordinario di cognizione, con conseguente possibilità di formazione del giudicato ex art. 2909 c.c. (cfr. Cass. 2439/2006, per l’opponibilità alla massa dei creditori della sentenza, sebbene trascritta dopo il fallimento, recante l’accoglimento di una domanda di risoluzione di un contratto di compravendita per inadempimento dell’acquirente, nonché di restituzione delle cose in base ad esso consegnate, trascritta invece prima della dichiarazione di fallimento del convenuto; v. anche Cass. Sez. U, 23077/2004, per la trattazione unitaria, ex art. 274 c.p.c., del giudizio di opposizione allo stato passivo con quello coltivato dal curatore per il recupero di un credito del fallito, nel quale il convenuto aveva originariamente proposto domanda riconvenzionale contro il soggetto in bonis, dichiarata improcedibile a seguito della dichiarazione di fallimento; ovvero, in difetto delle necessarie condizioni, per l’applicazione dell’art. 295 c.p.c., fermo restando che la sospensione deve riguardare la causa promossa in sede ordinaria).

  1. Né risulta possibile – come preteso dal ricorrente – applicare alla domanda di risoluzione contrattuale proposta ante fallimento la disciplina dell’ammissione con riserva ai sensi della L.F., art. 96, n. 3), non solo per la natura eccezionale della norma, che la rende insuscettibile di applicazione analogica al di fuori del caso tassativamente previsto della pronuncia di una sentenza (non passata in giudicato) prima della dichiarazione di fallimento, ma anche perché, come osservato, è proprio il secondo periodo della L.F., art. 72, comma 5, ad imporre l’attrazione dell’intera domanda – di risoluzione e consequenziale risarcimento e/o restituzione – al rito fallimentare.

9.1. Per le stesse ragioni, l’ammissione con riserva L.F., ex art. 96, n. 3, non risulta applicabile nemmeno indirettamente, per il tramite dell’effetto prenotativo della domanda trascritta – peraltro valevole solo per alcuni tipi di beni e diritti – in forza del quale le sentenze che accolgono le domande di risoluzione aventi ad oggetto i diritti immobiliari menzionati nell’art. 2643 c.c. non pregiudicano i diritti acquistati dai terzi in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda (art. 2652 c.c., comma 1, n. 1); principio richiamato dall’art. 2690 c.c., comma 1, n. 1 per le domande di risoluzione aventi ad oggetto i diritti sui beni mobili registrati ex art. 2684 c.c.

9.2. Infatti, ferma restando l’operatività delle suddette regole su altri piani – grazie al principio di opponibilità ai terzi consacrato nella L.F., art. 45 – la retroazione degli effetti dell’accoglimento della domanda giudiziale di risoluzione avente ad oggetto beni immobili e mobili registrati alla data della trascrizione della relativa domanda non sarebbe idonea, sul piano processuale, a precludere la trasmigrazione della domanda di risoluzione, ove diretta a far valere pretese restitutorie o risarcitorie in sede fallimentare, dal giudizio di cognizione ordinaria al giudizio sommario di verifica del passivo, essendo appunto questa la regola imposta dalla L.F., art. 72, comma 5, secondo periodo.

9.3. In proposito va opportunamente precisato che altro è l’ambito operativo della domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto (art. 2932 c.c.), per la quale la L.F., art. 72 in effetti non detta una regola processuale analoga a quella appena vista per la domanda di risoluzione contrattuale. In questa diversa prospettiva va quindi considerato che l’effetto prenotativo della domanda ex art. 2932 c.c. concorre comunque a delimitare il potere di scelta del curatore fallimentare del promittente venditore di un immobile, il quale non può sciogliersi dal contratto preliminare ai sensi della L.F., art. 72 con effetto verso il promissario acquirente ove questi abbia trascritto prima del fallimento la domanda ex art. 2932 c.c. e la domanda stessa sia stata accolta con sentenza trascritta, in quanto, a norma dell’art. 2652 c.c., n. 2, la trascrizione della sentenza di accoglimento prevale sull’iscrizione della sentenza di fallimento nel registro delle imprese (Cass. Sez. U, 18131/2015; conf. Cass. Sez. 1, 13786/2018), sicché detta sentenza, anche se trascritta successivamente, è opponibile alla massa dei creditori e impedisce l’apprensione del bene da parte del curatore del contraente fallito, che non può quindi avvalersi del potere di scioglimento accordatogli, in via generale, dalla L.F., art. 72 (Cass. Sez. U, 12505/2004; conf. Sez. 1, 15218/2010, 16160/2010, 27903/2011; cfr. Sez. 2, 29544/2019 che richiama Sez. 1, 3953/2016 limitatamente alla inammissibilità di domanda di risoluzione proposta dopo la dichiarazione di fallimento, nell’ambito di un giudizio ex art. 2932 c.c. interrotto ai sensi della L.F., art. 43).

9.4. Alla fattispecie in esame non risulta nemmeno applicabile il principio, affermato da Cass. Sez. U, 12371/2008 nel sistema vigente ante riforma, per cui la pretesa risarcitoria o restitutoria sarebbe un credito condizionato rispetto alla pronuncia di risoluzione, da ammettere perciò con riserva L.F., ex art. 96, n. 1, poiché in quel caso si trattava di accertamento devoluto alla giurisdizione della Corte dei Conti (assimilabile all’ipotesi della giurisdizione speciale tributaria), mentre nella fattispecie in esame sussiste la giurisdizione del giudice ordinario.

9.5. Peraltro, considerare credito condizionato quello caratterizzato, in realtà, da un rapporto di pregiudizialità logico-giuridica, astrattamente risolvibile con la sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c., rappresenta una forzatura del dato normativo della L.F., art. 96, n. 1, che verrebbe così a subire una inammissibile interpretazione analogica.

9.6. Deve al riguardo ribadirsi che la tipicità delle ipotesi di ammissione condizionata al passivo impedisce di ammettere con riserva il credito restitutorio o condannatorio in attesa che, nell’ambito del giudizio di cognizione ordinaria, si formi il giudicato sulla sentenza di risoluzione; la giurisprudenza di questa Corte è invero costante nell’affermare la tassatività delle ipotesi di ammissione con riserva, con conseguente inammissibilità di eventuali riserve atipiche o anomale, da considerarsi semmai come non apposte (ex multis, Cass. 24866/2014, 3397/2004, 17526/2003, 7329/2002). In effetti, dette ipotesi hanno carattere straordinario poiché, implicando la provvisorietà dell’accertamento e la necessità di ulteriori verifiche, contrastano con la finalità di acquisire nel più breve tempo possibile una ricognizione completa ed unitaria dello stato passivo fallimentare, funzionale al sollecito ed ordinato sviluppo della procedura concorsuale.

  1. Numerosi precedenti di questa Corte si sono espressi a favore della competenza funzionale e inderogabile del foro fallimentare (anche) sulla domanda di risoluzione contrattuale tutte (e sole) le volte in cui essa è finalizzata a far valere pretese risarcitorie e/o restitutorie nei confronti del debitore fallito o sottoposto ad amministrazione straordinaria, ferma restando, in caso contrario, la sua soggezione al rito ordinario di cognizione (v. Cass. 25868/2011, per cui nelle azioni derivanti dal fallimento, sottoposte alla competenza funzionale del tribunale fallimentare, ai sensi della L.F., art. 24, perché incidenti sul patrimonio del fallito, ivi compresi gli accertamenti che siano premessa di una pretesa verso la massa, rientra anche la domanda di risoluzione del contratto (nella specie, di produzione associata di opere filmiche) finalizzata alla domanda di risarcimento del danno nei confronti della società fallita; conf., a contrario, Cass. 8972/2011: qualora sia stata proposta dal locatore azione di risoluzione di un contratto di locazione per morosità del conduttore assoggettato alla procedura di amministrazione straordinaria e non sia stata avanzata contestualmente anche la domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla morosità, tale domanda di risoluzione resta disciplinata dalle regole ordinarie e non è devoluta alla competenza del tribunale fallimentare prevista dalla L.F., art. 24 e dal D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, art. 13 poiché essa non trova causa o titolo nella procedura concorsuale). Talora si è aggiunto che la domanda di risoluzione del contratto, quand’anche finalizzata ad ottenere il risarcimento del danno, è attratta dal foro fallimentare L.F., ex art. 24, e può anche essere proposta incidentalmente in sede di opposizione allo stato passivo (Cass. 19914/2017, che richiama Cass. 9170/2005).
  2. Di recente, in una complessa fattispecie (domanda di accertamento della simulazione assoluta o relativa di un contratto di compravendita, nonché della efficacia di un preliminare di permuta immobiliare di cosa futura di cui si chiedeva però la risoluzione di diritto exart. 1454 c.c., ovvero per inadempimento exart. 1453 c.c., con condanna alla restituzione del bene permutato e al risarcimento del danno) questa Corte ha sostenuto la necessità della separazione delle cause, senza peraltro esplicitare la regola di raccordo tra le due sedi giurisdizionali coinvolte (Cass. 3953/2016), nel senso che le domande principali (prodromiche) di simulazione e risoluzione contrattuale, trascritte anteriormente alla dichiarazione di fallimento della parte convenuta in giudizio, proseguono legittimamente con il rito ordinario, attesa l’opponibilità della relativa sentenza alla massa dei creditori in ragione dell’effetto prenotativo della trascrizione, mentre le pretese, accessorie, di restituzione e risarcimento del danno devono necessariamente procedere, previa separazione dalle prime, nelle forme della L.F., artt. 93 e ss., in quanto assoggettate alla regola del concorso e non suscettibili di sopravvivere in sede ordinaria; ciò in difformità dal contrario principio della generalizzata attrazione nel rito speciale di verifica dei crediti delle domande principali dichiarative e costitutive ancorché già trascritte poiché, altrimenti, si imporrebbe all’attore, inutilmente, di ricominciare tutto il giudizio daccapo in sede fallimentare, con violazione del diritto alla ragionevole durata del processo contemplato dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e dalla Carta costituzionale (art. 111 Cost.).
  3. Nella fattispecie in esame, va invece preferito l’orientamento – di cui sopra si è dato conto – favorevole alla attrazione al rito di accertamento del passivo anche della domanda di risoluzione dichiaratamente proposta (come nel caso in esame) al solo fine di ottenere i consequenziali effetti restitutori e risarcitori in sede fallimentare. Invero, le stesse Sezioni Unite di questa Corte, nel pronunciarsi su altra questione in tema di accertamento del passivo, hanno avuto occasione di rilevare il favor dell’ordinamento per una soluzione che privilegi la concentrazione in un unico procedimento delle diverse questioni che possono sorgere nella delibazione circa la sussistenza del credito azionato. L’esame congiunto di ogni vicenda costitutiva di detto credito, oltre che degli eventuali fatti impeditivi e modificativi del diritto e delle possibili ragioni di inefficacia, consente infatti un esame completo ed esaustivo della posizione creditoria, per di più espletato con un medesimo rito, nel più assoluto rispetto della rilevanza concorsuale del rapporto e con soluzione spiegante effetti all’interno della stessa procedura ammissiva (Cass. Sez. U, 16508/2010).

12.1. Al contrario, la soluzione di applicare l’art. 103 c.p.c., comma 2 e art. 104 c.p.c. confligge non solo con i principi generali di specialità, concentrazione e speditezza che caratterizzano il sistema concorsuale, ma anche con il principio del contraddittorio incrociato tra tutti i creditori (e i titolari di altri diritti) concorsuali, i quali altrimenti, a fronte della separazione delle domande e della prosecuzione di quella di risoluzione in sede ordinaria, si troverebbero costretti – come segnalato anche da accorta dottrina a proporre contro la sentenza di eventuale accoglimento della domanda di risoluzione l’opposizione di terzo (ordinaria o revocatoria) ex art. 404 c.p.c., oppure l’accertamento in separato giudizio dei propri autonomi diritti (cfr. Cass. Sez. U, 16508/2010 cit. per cui, sia pure con riguardo ad altri temi, si sottolinea che l’esame congiunto dei fatti costitutivi e di quelli modificativi ed estintivi del credito, nell’ambito della medesima sede deputata alla verificazione della loro esistenza ed entità, costituisce una più puntuale realizzazione del giusto processo, poiché consente una effettiva partecipazione ad esso di tutte le parti interessate ed incide in termini positivi sulla sua durata).

12.2. Né sussiste il paventato pregiudizio al diritto alla ragionevole durata del processo, ben potendo utilizzarsi nel procedimento di accertamento del passivo le prove eventualmente già raccolte nel giudizio ordinario, ferma restando la possibilità di compiere già dinanzi al giudice delegato gli atti di istruzione compatibili con le esigenze di speditezza del procedimento (L.F., art. 95, comma 3), oppure di dare spazio alla ulteriore istruttoria in sede di opposizione allo stato passivo. Anzi, quello stesso principio dovrebbe semmai indurre a devolvere al giudice fallimentare anche la domanda di risoluzione, stante la maggiore rapidità con cui vengono usualmente decise le domande di ammissione al passivo (cfr. ancora Sez. U, 16508/2010 cit., per cui l’instaurazione di parentesi di cognizione esterne rispetto al modulo procedimentale concorsuale costituisce infatti uno dei fattori più significativi delle violazioni normative derivanti dall’eccessiva durata del processo, L. n. 89 del 2001).

12.3. Ciò – si sottolinea – tutte le volte in cui la domanda di risoluzione sia proposta non autonomamente, ma ai soli fini della insinuazione al passivo fallimentare, conformemente ai principi da tempo elaborati anche in materia di lavoro, per cui le domande di mero accertamento o anche costitutive (p.es. annullamento licenziamento e reintegrazione) che siano mero strumento di diritti patrimoniali da far valere sul patrimonio del fallito sfuggono alla competenza funzionale del giudice del lavoro, cui restano invece soggette allorquando si fondino anche sull’interesse del lavoratore a tutelare la sua posizione all’interno della impresa fallita, sia per l’eventualità della ripresa dell’attività lavorativa (conseguente all’esercizio provvisorio ovvero alla cessione dell’azienda, o a un concordato fallimentare), sia per tutelare i connessi diritti non patrimoniali, ed i diritti previdenziali, estranei all’esigenza della par condicio creditorum (ex multis, Cass. sez. L, 23418/2017; cfr. Cass. Sez. L, 1646/2018, 7990/2018).

12.4. Peraltro, la separazione delle domande creerebbe anche problemi di raccordo tra le due sedi giurisdizionali, non tanto per la anomalia di un’ordinanza del giudice della cognizione ordinaria di rimessione al giudice delegato di domande restitutorie o risarcitorie sicuramente non formulate secondo il modulo procedimentale della L.F., art. 93, quanto perché, sussistendo tra la risoluzione e le conseguenti pretese risarcitorie-restitutorie un rapporto di pregiudizialità-dipendenza, la causa pregiudicata andrebbe sospesa in sede fallimentare, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., in attesa della decisione della causa pregiudiziale di risoluzione proseguita in sede ordinaria. Soluzione, questa, ripetutamente dichiarata incompatibile con i principi che presiedono all’accertamento del passivo fallimentare, sopra richiamati (Cass. n. 7547/2018; Cass. 5255/2017; Cass. Sez. U, 21499/04).

12.5. Analoghe perplessità suscita la soluzione di puntare, con il ricorso L.F., ex art. 93, al rigetto della domanda di ammissione al passivo – per carenza attuale di un suo presupposto – al fine strumentale di chiedere la sospensione del processo di opposizione allo stato passivo ex art. 295 c.p.c., in attesa della decisione nelle sedi ordinarie, confidando sulla possibilità per il creditore di beneficiare medio tempore, previa concessione di misure cautelari, degli accantonamenti L.F., ex art. 113, comma 2, senza peraltro precludere la chiusura del fallimento, potendo comunque il creditore opponente (o, secundum eventum litis, gli altri creditori, mediante riparto supplementare) ottenere, una volta cessata la causa di sospensione, la distribuzione delle somme accantonate ai sensi della L.F., art. 117, comma 3.

  1. Risulta dunque maggiormente condivisibile l’orientamento espresso dalla prevalente dottrina per cui, in caso di interruzione L.F., ex art. 43 del giudizio ordinario di cognizione nel quale siano state proposte domande risarcitorie o restitutorie derivanti da risoluzione per inadempimento contrattuale, il contraente in bonis deve riassumerlo davanti al giudice delegato, essendo questi competente funzionalmente a conoscere della domanda principale e di quelle accessorie e consequenziali, in forza della L.F., art. 72, comma 5, secondo periodo, in modo che sia assicurato il rispetto dei principi che presiedono al concorso formale. Ciò in quanto il giudice fallimentare può conoscere principaliter anche dei petita che si pongono in rapporto di pregiudizialità con l’insinuazione al passivo, ove necessario procedendo anche ad un accertamento di natura costitutiva, comunque destinato a restare confinato in ambito endofallimentare. Nulla osta, quindi, alla riproposizione con il ricorso L.F., ex art. 93 di un petitum di risoluzione contrattuale originariamente formulato nell’atto introduttivo di un giudizio ordinario di cognizione.

13.1. Resta inteso che, come segnalato da accorta dottrina, vanno dichiarate improcedibili in sede di cognizione ordinaria, ed attratte al rito di cui alla L.F., artt. 92 e ss., solo le domande pregiudiziali strumentali all’ammissione al passivo fallimentare (ad es. domanda di risoluzione per inadempimento del promittente venditore promossa dal promissario acquirente per la restituzione degli acconti versati), non anche quelle dirette a conseguire finalità del tutto estranee alla partecipazione al concorso (ad esempio l’azione di risoluzione finalizzata ad escutere una garanzia di terzi, o a liberare la parte in bonis dagli obblighi contrattuali, ovvero destinata a farsi valere nei confronti del fallito tornato in bonis).

13.2. In simili casi, infatti, la procedibilità della domanda di risoluzione in sede di cognizione ordinaria non sembra incompatibile con una pronuncia incidenter tantum del giudice fallimentare sulla questione pregiudiziale alle domande risarcitorie o restitutorie, il rischio di conflitto tra giudicati restando escluso per la diversa attitudine alla stabilità dei provvedimenti conclusivi dei rispettivi giudizi (il primo con autorità di giudicato ex art. 2909 c.c., il secondo con valenza endoconcorsuale L.F., ex art. 96, u.c.).

  1. Per concludere, vanno formulati i seguenti principi di diritto:
  2. Nel sistema concorsuale riformato, la L.F., art. 72, comma 5, secondo periodo, impone – anche alla luce dei principi di specializzazione, concentrazione e speditezza sottesi alla L.F., artt. 24 e 52, nonché del contraddittorio incrociato tipico del procedimento di accertamento del passivo – che la domanda di risoluzione proposta prima della dichiarazione di fallimento, se diretta in via esclusiva a far valere le consequenziali pretese risarcitorie o restitutorie in sede fallimentare, non può proseguire in sede di cognizione ordinaria, ma deve essere interamente proposta secondo il rito speciale disciplinato dalla L.F., artt. 93 e ss.
  3. In sede di accertamento del passivo, la domanda di risoluzione che costituisca antecedente logico-giuridico della domanda di risarcimento o restituzione deve essere esaminata e decisa dal giudice fallimentare, non essendo applicabile in via analogica l’istituto dell’ammissione con riserva ai sensi della L.F., art. 96, n. 1 o n. 3, né potendosi disporre la sospensione necessaria ai sensi dell’art. 295 c.p.c., in attesa della decisione della causa pregiudiziale di risoluzione in ipotesi proseguita in sede di cognizione ordinaria.

III. La domanda di risoluzione diretta a conseguire finalità estranee alla partecipazione al concorso (come la liberazione della parte in bonis dagli obblighi contrattuali, o l’escussione di una garanzia di terzi) è procedibile in sede di cognizione ordinaria, dopo l’interruzione del processo L.F., ex art. 43 e la sua riassunzione nei confronti della curatela fallimentare.

  1. Il rigetto del primo motivo rende superfluo l’esame degli ulteriori tre motivi, che peraltro presentano autonomi profili di infondatezza (specie il terzo) e di inammissibilità, per genericità o difformità dai più ristretti canoni che governano le censure motivazionali ai sensi del vigente art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (specie il secondo), mentre è inammissibile il quarto, esulando dal sindacato di questa Corte l’esercizio del potere discrezionale del giudice di merito (Cass. 19613/2017; Cass. 24502/2017).
  2. Quanto alle spese del giudizio di legittimità, l’esistenza di orientamenti difformi, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, integra le gravi ed eccezionali ragioni ex art. 92 c.p.c., comma 2, (nella formulazione introdotta dalla L. n. 69 del 2009 applicabile ratione temporis) per disporne l’integrale compensazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Dichiara compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso principale, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2020

 

Cass. civ. Sez. I 07_02_2020 n. 2990




Il decreto con il quale il tribunale fallimentare, ai sensi dell’art. 26 L.F., respinge il reclamo

Il decreto con il quale il tribunale fallimentare, ai sensi dell’art. 26 L.F., respinge il reclamo

Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI, Sottosezione 1, Ordinanza n. 775 del 16/01/2020

Con ordinanza del 16 gennaio 2020, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Civile, Sottosezione 1, in tema fallimento e recupero crediti, ha stabilito che, il decreto con il quale il tribunale fallimentare, ai sensi dell’art. 26 L.F., respinge il reclamo avverso l’atto con cui il curatore ha esercitato, giusta l’art. 72 L.F., la facoltà di scioglimento dal contratto pendente non ha natura decisoria, in quanto non risolve una controversia su diritti soggettivi, ma rientra tra i provvedimenti che attengono all’esercizio della funzione di controllo circa l’utilizzo, da parte del curatore, del potere di amministrazione del patrimonio del fallito, sicché tale provvedimento non è impugnabile con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., potendo, invero, i terzi interessati contestare nelle sedi ordinarie gli effetti che dall’attività così esercitata si pretendono far derivare.

Nel caso di specie, in applicazione dell’enunciato principio, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto avverso il decreto con cui il tribunale, adito in sede di reclamo, aveva confermato il decreto con il quale il giudice delegato aveva respinto il reclamo proposto ex art. 36, comma 1, L.F. contro l’atto del curatore contenente la decisione di sciogliersi dal contratto di cessione del credito concluso con una società di capitali.


Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI, Sottosezione 1, Ordinanza n. 775 del 16/01/2020

Il decreto con il quale il tribunale fallimentare, ai sensi dell’art. 26 L.F., respinge il reclamo

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

S. S.p.A. – ricorrente –

contro

FALLIMENTO (OMISSIS) S.r.l. – controricorrente –

avverso il decreto __ R.G. del TRIBUNALE di CAGLIARI, depositato il __;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del __ dal Consigliere Relatore Dott. __.

Svolgimento del processo

– che in data __ il G.D. del fallimento (OMISSIS) S.r.l. ha respinto il reclamo proposto ex art. 36, comma 1, L.F. contro l’atto del curatore contenente la decisione di sciogliersi dal contratto di cessione del credito concluso con la S. S.p.A. nel __;

– che con decreto del __ il Tribunale di Cagliari ha respinto il reclamo, proposto alla società ai sensi dell’art. 36, comma 1, L.F.;

– che avverso tale decreto viene proposto ricorso ex art. 111 Cost.;

– che resiste con controricorso la procedura;

– che la ricorrente ha depositato una memoria.

Motivi della decisione

– che il primo motivo deduce la falsa applicazione dell’art. 72 L.F., in quanto il curatore non avrebbe potuto sciogliersi dal contratto di cessione di credito, non residuando prestazioni ineseguite tra le parti;

– che il secondo motivo deduce la falsa applicazione dell’art. 72 L.F., in quanto il curatore non avrebbe potuto sciogliersi dal contratto di cessione di credito, non essendo un contratto ancora pendente;

– che il terzo motivo deduce la falsa applicazione dell’art. 72 L.F., in quanto il tribunale non ha ritenuto esistente un collegamento negoziale tra tre contratti di leasing;

– che il ricorso è inammissibile;

– che, infatti, il decreto impugnato con l’attuale ricorso straordinario non ha natura decisoria, in quanto afferente ad un atto di amministrazione del patrimonio, assunto dal curatore: onde il decreto del tribunale, che ha provveduto ai sensi dell’art. 36 L.F. avverso il provvedimento del giudice delegato che era stato adito contro l’atto di amministrazione del curatore non può dirsi risolutore di una controversia su diritti soggettivi;

– che questa Corte ha invero già chiarito come “Il decreto con il quale il tribunale fallimentare, ai sensi dell’art. 26 L.F., respinge il reclamo avverso l’atto con cui il curatore ha esercitato, giusta l’art. 72 la facoltà di scioglimento dal contratto pendente non ha natura decisoria, in quanto non risolve una controversia su diritti soggettivi, ma rientra tra i provvedimenti che attengono all’esercizio della funzione di controllo circa da parte del curatore, del potere di amministrazione del patrimonio del fallito, sicché tale provvedimento non è impugnabile con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., potendo, invero, i terzi interessati contestare nelle sedi ordinarie gli effetti che dall’attività così esercitata si pretendono far derivare” (Cass. 25 maggio 2017, n. 13167; nonché Cass. 18622/2010; Cass. 8870/2012; Cass. 17520/2015; ed ancora Cass. 16 maggio 2018, n. 11948, non massimata; Cass. 29 luglio 2016, n. 15949, non massimata): si tratta, infatti, di provvedimenti concernenti atti interni alla procedura fallimentare, di carattere ordinatorio ed inerenti alla gestione del patrimonio del debitore, neppure definitivi e non revocabili e che quindi non sono impugnabili con ricorso per Cassazione, neppure ai sensi dell’art. 111 Cost., dovendosi, in definitiva, al decreto anzidetto negare la natura decisoria;

– che, come questa Corte ha già chiarito, il principio predetto non è contraddetto dall’affermazione, richiamata dalla ricorrente, secondo cui “Il decreto confermativo della legittimità dell’operato del curatore (nella specie scioltosi, ex art. 72 L.F., da un contratto di licenza per l’uso di tecnologia software, stipulato dalla società fallita quando era in bonis), reso dal collegio adito dall’altro contraente ex art. 36, 2 comma, L.F, ove non impugnalo per cassazione, è definitivo, rendendo così successivamente inoppugnabile la giurisdizione italiana sulla domanda concernente la sussistenza del suddetto potere del curatore, nonché su quelle dipendenti o connesse” (Cass., sez. un., 23 luglio 2013, n. 17866): invero, questa decisione non ha, in tal modo, affatto inteso riconoscere la impugnabilità per cassazione del “decreto confermativo della legittimità dell’operalo del curatore”, ma solo escludere la possibilità di porre in discussione la giurisdizione italiana nel caso in cui quel decreto non risultasse contestato neppure con un, pur inammissibile, ricorso per cassazione; onde la ratio decidendi delle Sezioni unite attiene all’incontestabilità della giurisdizione italiana, non all’impugnabilità del decreto pronunciato ex art. 36 L.F. (così già Cass. 14 gennaio 2016, n. 511, non massimata);

– che le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in complessivi Euro 6.100, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori come per legge.

Dichiara che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, sussistono i presupposti processuali per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello richiesto per il ricorso, se dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2020

Cass. civ. Sez. VI _1 Ord. 16_01_2020 n. 775