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Il ricorso per la dichiarazione di fallimento, nel caso in cui si tratti di una società, deve essere presentato dall’amministratore, dotato del potere di rappresentanza legale, senza necessità della preventiva autorizzazione dell’assemblea o dei soci

Il ricorso per la dichiarazione di fallimento, nel caso in cui si tratti di una società, deve essere presentato dall’amministratore, dotato del potere di rappresentanza legale, senza necessità della preventiva autorizzazione dell’assemblea o dei soci

Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 10523 del 15/04/2019

Con ordinanza del 15 aprile 2019, la Corte di Cassazione, Sezione I Civile, in tema di fallimento, ha stabilito che il ricorso per la relativa dichiarazione, nel caso in cui si tratti di una società, deve essere presentato dall’amministratore, dotato del potere di rappresentanza legale, senza necessità della preventiva autorizzazione dell’assemblea o dei soci, non trattandosi di un atto negoziale, né di un atto di straordinaria amministrazione, ma di una dichiarazione di scienza, peraltro doverosa, in quanto l’omissione risulta penalmente sanzionata. In proposito, il potere-dovere di presentare istanza di auto-fallimento deve essere riconosciuto anche al liquidatore, il quale, ai sensi dell’art. 2489, comma 1 c.c., è investito del potere di compiere ogni atto utile per la liquidazione della società.


Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 10523 del 15/04/2019

Il ricorso per la dichiarazione di fallimento, nel caso in cui si tratti di una società, deve essere presentato dall’amministratore, dotato del potere di rappresentanza legale, senza necessità della preventiva autorizzazione dell’assemblea o dei soci

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

I. S.r.l. e B. S.r.l. – ricorrenti –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. in Liquidazione – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, del __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal cons. Dott. __;

lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha chiesto che la Corte dichiari inammissibile il ricorso, o in subordine che lo rigetti, con le conseguenze di legge.

Svolgimento del processo

  1. – La liquidatrice di (OMISSIS) S.r.l. formulava istanza di fallimento della società per lo stato di insolvenza in cui la stessa versava: istanza che il Tribunale di Reggio Calabria accoglieva.
  2. – La sentenza era impugnata da I. S.r.l. e da B. S.r.l., socie di (OMISSIS). Nella resistenza della curatela, il reclamo era respinto. La Corte di appello di Reggio Calabria, dopo aver rilevato che la liquidatrice era pienamente legittimata a presentare domanda di fallimento per la società da lei rappresentata, senza necessità di essere a ciò specificamente autorizzata dall’assemblea dei soci, ha ritenuto sussistente lo stato di insolvenza di (OMISSIS) osservando: che la disponibilità dei soci di maggioranza a sostenere la fallita non aveva trovato alcuna concretizzazione; che per il contratto di leasing cui era vincolata la società non era pervenuta alcuna offerta di subingresso; che, contrariamente a quanto affermato dai reclamanti, non si ravvisavano i presupposti per il concordato preventivo di (OMISSIS), tanto più che l’elemento maggiormente consistente dell’attivo della società – un asserito credito per Euro __ – era stato contestato in sede giudiziale.
  3. – Contro la pronuncia della Corte reggina I. S.r.l. e B. S.r.l. hanno proposto un ricorso per cassazione basato su due motivi. Resiste con controricorso la curatela fallimentare. Sono state depositate memorie. Il pubblico ministero ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o respinto.

Motivi della decisione

  1. – Col primo motivo si deduce la violazione ed errata applicazione dell’art. 2479 c.c. e dei principi di diritto societario in tema di competenze gestorie. Secondo le società istanti i soci avevano avocato a loro stessi la decisione circa l’istanza di auto-fallimento, sicché la Corte di appello aveva disatteso la regola, desumibile dall’attuale disciplina, per cui sono i soci a decidere sulle materie loro “auto-attribuite” da una minoranza qualificata.

Il motivo è inammissibile.

Nel ricorso per cassazione le ricorrenti hanno conferito rilievo a due circostanze: il fatto che “più volte posta all’ordine del giorno, la questione relativa alla dichiarazione di fallimento (era) stata sempre denegata dai soci”; il fatto per cui questi ultimi “avevano richiesto che la questione della presentazione dell’istanza fosse trattata a livello assembleare”. Di quest’ultima deduzione non è traccia nella sentenza impugnata; le ricorrenti spiegano che essa sarebbe stata dedotta in sede di reclamo, ma non riproducono lo stralcio dell’atto di impugnazione rilevante a tal fine: sicché non risulta chiaro quale fosse il preciso contenuto dell’allegazione. In tal senso la censura non può avere ingresso in questa sede. È invece incontestabile che la prima deduzione fosse stata fatta valere col reclamo, giacché la Corte distrettuale l’ha richiamata espressamente (pag. 3 della sentenza). Ciò detto, ove avessero voluto dolersi della mancata considerazione dell’evenienza in esame, siccome rappresentativa della riserva espressa dai soci quanto alla decisione di far fallire (OMISSIS), le società ricorrenti avrebbero dovuto proporre la censura di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, evidenziando come la Corte di appello avesse mancato di apprezzare la medesima. Ciò non è accaduto: e del resto, quanto all’obiettiva configurabilità di siffatta censura, deve sottolinearsi come le ricorrenti non abbiano nemmeno chiarito se avanti alla Corte di merito avessero dedotto che, attraverso la descritta condotta, avessero inteso attribuirsi, anche per il futuro, la decisione di domandare il fallimento della società (e che, in definitiva, esse avessero specificamente prospettato che il quadro fattuale consegnato all’esame del giudice del reclamo fosse rappresentativo della volontà dei soci di privare il liquidatore della facoltà di richiedere il fallimento); né, per la verità, le istanti hanno spiegato se le decisioni menzionate fossero state adottate da soci che rappresentavano un terzo del capitale sociale.

Peraltro, il profilo inerente alla volontà – da parte dei soci titolari di una tale quota di partecipazione – di sottoporre alla approvazione dei soci stessi, ex art. 2479 c.c., comma 1, la decisione circa la presentazione della domanda di fallimento della società è in sé priva di decisività.

Non pare dubbio, infatti, che il liquidatore, al pari dell’amministratore, possa (e anzi debba) assumere in autonomia una siffatta determinazione, senza soggiacere al deliberato della maggioranza dei soci. Diversi argomenti sorreggono un tale assunto. Anzitutto i liquidatori, al pari degli amministratori, sono responsabili penalmente, a norma della L. Fall., art. 224, per aver aggravato il dissesto, laddove si siano astenuti dal richiedere il fallimento (L. Fall., art. 217, comma 1, n. 4). In secondo luogo, l’art. 2484 c.c. non annovera più tra le cause di scioglimento della società il fallimento (come invece faceva l’art. 2448 c.c., u.c., nella versione anteriore alla introduzione della riforma del diritto societario attuatasi col D.Lgs. n. 6 del 2003): onde non può sostenersi, come in passato, che la decisione dell’amministratore o del liquidatore di richiedere il fallimento della società incida sulla vitalità dell’ente e sia conseguentemente riservata alla competenza dell’assemblea dei soci. Da ultimo, va rimarcato che sono venuti meno alcuni indici normativi ritenuti in passato particolarmente significativi da parte di chi conferiva centralità alla volontà assembleare. Non sono infatti più in vigore le previsioni, contenute nella vecchia versione della L. Fall., artt. 152, 161 e 187, che assegnavano all’assemblea straordinaria il potere di assumere una deliberazione circa la sottoposizione della società alle c.d. procedure minori del concordato fallimentare, del concordato preventivo e dell’amministrazione controllata: previsioni da cui era stato desunto, con l’argomento a fortiori, che nemmeno l’istanza di auto-fallimento sfuggisse alla competenza dell’organo deliberativo. Di contro, oggi l’art. 152, comma 2, lett. b), in tema di concordato fallimentare, richiamato dalla L. Fall.,art. 161, comma 4, per il concordato preventivo, precisa che la proposta di concordato sia sottoscritta da coloro che hanno la rappresentanza della società e che nelle società per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata, nonché nelle società cooperative, essa sia deliberata dagli amministratori, salva diversa disposizione dell’atto costitutivo o dello statuto: ed è stato precisato, di recente, che l’iniziativa dell’avvio della procedura concordataria possa essere attualmente autonomamente assunta, di norma, anche dal liquidatore, il quale è investito, giusta l’art. 2489 c.c., comma 1, del potere di compiere ogni atto utile per la liquidazione della società (cfr. Cass. 1 giugno 2017, n. 13867).

Questa S.C. si è già espressa, in passato, sul tema che qui interessa, avendo particolare riguardo alla posizione dell’amministratore: è stato difatti affermato che il ricorso per la dichiarazione di fallimento del debitore, nel caso in cui si tratti di una società, deve essere presentato dall’amministratore, dotato del potere di rappresentanza legale, senza necessità della preventiva autorizzazione dell’assemblea o dei soci, non trattandosi di un atto negoziale né di un atto di straordinaria amministrazione, ma di una dichiarazione di scienza, peraltro doverosa, in quanto l’omissione risulta penalmente sanzionata (Cass. 16 settembre 2009, n. 19983): alla stregua di quanto sopra osservato non vi è ragione per perorare una soluzione diversa con riguardo al caso in cui l’istanza di auto-fallimento promani dal liquidatore, piuttosto che dall’amministratore della società.

In conclusione, il liquidatore non può essere privato, ad opera dei soci, del potere-dovere di richiedere il fallimento della società che versi in stato di insolvenza. Può solo dibattersi, come è naturale, di una responsabilità del detto soggetto per aver domandato l’apertura della procedura concorsuale in una situazione in cui ne difettavano le condizioni. Ma tale ipotesi è del tutto estranea all’odierna materia del contendere: sia perché in questa sede non si controverte delle conseguenze di una tale responsabilità; sia perché, a monte, tale responsabilità è comunque da escludere, visto che il fallimento è stato validamente dichiarato da parte del Tribunale, con sentenza che la Corte di appello ha correttamente confermato.

  1. – Il secondo motivo oppone l’insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia, con particolare riguardo al tema dell’accertata insolvenza. Le ricorrenti, in sintesi, sostengono: che la disponibilità, affermata in sentenza, circa il fatto che la disponibilità dei soci di maggioranza a sostenere (OMISSIS) avrebbe integrato una “mera dichiarazione di intenti” era inveritiera e sconfessata da quanto accertato dal Tribunale di Catanzaro nel procedimento di revoca della liquidatrice; che, con riferimento al rilievo della Corte di appello secondo cui non risultava che altri soggetti avessero presentato offerte quanto al subentro nel contratto di leasing di cui era parte la fallita, la documentazione prodotta evidenziava che l’assenza di tali offerte non era dipesa da esse istanti, ma dalla liquidatrice; che competeva ai creditori esprimersi sulla proposta di concordato di (OMISSIS), non già alla Corte di appello, la quale aveva apoditticamente rilevato la mancanza dei presupposti per l’apertura di tale procedura concorsuale; che (OMISSIS) godeva di credito, avendo le sue socie espressamente dichiarato essere disponibili a un aumento del capitale; che la Corte di merito aveva omesso di considerare che il passivo sociale era suscettibile di un ridimensionamento.

Anche tale censura è inammissibile.

La motivazione posta a fondamento dell’accertata insolvenza non presenta alcuno dei vizi radicali che assumono rilevanza nella presente sede; non integrano cioè l’anomalia motivazionale che si traduce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054). Tali vizi, d’altronde, dovrebbero risultare dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali, nel mentre il motivo di impugnazione in esame veicola, in tutti i casi da esso menzionati – ad eccezione di quello concernente la proposta di concordato – censure basate su evidenze probatorie che si asseriscono trascurate. Quanto alla motivazione spesa con riguardo alla sussistenza dei presupposti per l’accesso alla procedura concordataria, è evidente che la stessa non sia affatto contraddittoria, giacché la Corte di appello, lungi dal sostituirsi ai creditori nella valutazione circa la convenienza della proposta formulata dalla società (OMISSIS), si è limitata a dare atto dell’esistenza di una situazione di insolvenza che in sé giustificava la dichiarazione di fallimento, di cui il Tribunale, prima, ed essa Corte, poi, erano stati investiti.

  1. – In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile.
  2. – Per le spese del presente giudizio di legittimità vale il principio di soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE dichiara inammissibile il ricorso; condanna le società ricorrenti al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro __ per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro __, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima civile della Corte Suprema di Cassazione, il 20 novembre 2018 e, in seguito a riconvocazione, il 13 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2019

Cass_civ_Sez_I_Ord_15_04_2019_n_10523