I debiti concordatari possono fondare la dichiarazione di fallimento dell’impresa
Corte di Appello di Firenze, Sezione I Civile, Sentenza del 16/05/2019
Con sentenza del 15 maggio 2019, la Corte di Appello di Firenze, Sezione I Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che i debiti concordatari possono fondare la dichiarazione di fallimento dell’impresa della quale sia stato omologato il concordato preventivo solo a seguito della risoluzione del concordato.
Corte di Appello di Firenze, Sezione I Civile, Sentenza del 16/05/2019
I debiti concordatari possono fondare la dichiarazione di fallimento dell’impresa
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La CORTE D’APPELLO di FIRENZE
Sez. I – civile – composta da:
Dott. __ – PRESIDENTE relat.
Dott. __ – Consigliere
DOTT. __ – CONSIGLIERE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa di reclamo avverso sentenza dichiarativa di fallimento promossa da
S. S.r.l. in liquidazione – Reclamante
contro
Curatela Fallimento C. S.r.l. in liquidazione in persona del curatore – Resistente
Pubblico Ministero presso il Tribunale di Arezzo
e nei confronti del
Pubblico Ministero – presso la Corte di Appello
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Il Tribunale di Arezzo con sentenza n. __ ha dichiarato il fallimento di C. in liquidazione e in concordato preventivo S.r.l., su istanza del pubblico ministero presso il tribunale.
Il tribunale motivava come segue:
la istanza del PM si basava sulle relazioni ex art. 185 L.F. dei commissari giudiziali del __ e del __ dalle quali emergeva la stato di inattuazione del concordato, a cagione della difficoltà di liquidare i beni aziendali per il complessivo valore di Euro __, fatto che non consentiva il reperimento delle risorse per adempiere al concordato nel termine previsto già scaduto in data __, oltre l’aggravarsi delle perdite nel corso degli anni e l’emergenza costante di un patrimonio netto negativo pari al __ ad Euro __. Si evidenziava altresì che le iniziative dei commissari e del liquidatore per l’incasso dei crediti vantati nei confronti del debitore principale non avevano portato a nessun risultato. La convenuta difendendosi aveva sostenuto l’impossibilità di dichiarare il fallimento di una società sottoposta a concordato preventivo prima della risoluzione dello stesso; che la mancata acquisizione delle risorse necessarie dipendeva dal comportamento del liquidatore giudiziale e dei commissari e eccepiva la insussistenza del presupposto dell’inadempimento di C. e la dannosità della dichiarazione di fallimento.
Sulla scorta degli elementi e delle considerazioni espresse, il Tribunale riteneva che una cosa fosse la risoluzione del concordato ed altra la dichiarazione del fallimento e che non consentire il fallimento di una società in concordato versante in stato di insolvenza creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento con gli altri soggetti imprenditoriali in bonis. Ogni effetto protettivo di cui all’articolo 168 L.F. cessava con la definitività del decreto di omologa.
L’inadempimento della proposta concordataria era manifesto, emergente dalla relazione depositata dai commissari giudiziali; le somme incassate avevano permesso la soddisfazione dei crediti in prededuzione e dei primi gradi del privilegio residuando da soddisfare crediti per circa Euro __. Le prospettive di realizzo del residuo attivo pari a __ erano assai modeste, essendosi evidenziato l’inadempimento di un promittente l’acquisto su un diritto immobiliare, l’inadempimento di E. S.r.l., ed essendo il risultato della riscossione dei crediti inferiore alle previsioni. La tempistica era stata del tutto disattesa.
I. in liquidazione S.r.l., lamentando:
1 – il fallimento non poteva essere dichiarato perché non aveva avuto ad oggetto fatti sopravvenuti o la risoluzione o l’annullamento del concordato. L’unico modo per fare valere l’inadempimento all’originaria obbligazione concordataria passava dalla risoluzione.
2 – in ogni caso l’inadempimento era insussistente quale fatto sopravvenuto. Il concordato era con cessione dei beni senza garanzia di pagamento di una determinata percentuale e con messa a disposizione della procedura dei beni aziendali. La obbligazione era stata assolta e nessun inadempimento era imputabile a C. Lo stato di insolvenza era stato rimosso dall’omologa. Lamentava la responsabilità del liquidatore giudiziario il quale da una parte aveva sostenuto spese non previste e mai autorizzate e dall’altra parte aveva ritardato senza giustificazione l’esecuzione del piano. Si faceva riferimento alle spese legali pagate all’Avvocato già professionista della società in bonis lievitate da Euro __ ad Euro __; la rinuncia di fatto ai crediti ancora da riscuotere pari a circa Euro __. Quanto al rapporto con E., essa aveva effettuato pagamenti diretti a favore della procedura e aveva anticipato somme e si era accollata debiti per l’importo di Euro __ che denotava la volontà della società di non sottrarsi agli impegni assunti. Ugualmente non condivisibile il comportamento della liquidazione con il promittente la vendita.
3 – ditettavano i requisiti di titolarità e i presupposti dell’azione da parte del pubblico ministero. L’unica richiesta in assenza di creditori istanti, era stata formulata dal PM il quale però aveva agito al di fuori della previsione di cui all’art. 7 L.F.
Si è costituita la procedura sostenendo la infondatezza dei motivi di reclamo e la legittimità della sentenza impugnata.
All’udienza del __, la causa veniva trattenuta in decisione sulle conclusioni trascritte in epigrafe.
Ritenuto in diritto:
la preliminare e pregiudiziale questione da affrontare concerne la possibilità di dichiarare il fallimento di società ammessa a concordato preventivo, senza la previa declaratoria di risoluzione del concordato stesso ex art. 186 L.F., cui si lega la questione della legittimazione del PM a avanzare istanza di fallimento ex artt. 6 e 7 L.F.
Trattasi della questione definita da dottrina e giurisprudenza come dichiarazione di fallimento omisso medio, sulla quale di recente è intervenuta la S.C. con sentenza 29632/2017 (che richiama la omologa 17703/2017), ritenendo la pronunciabilità del fallimento a prescindere dalla previa risoluzione del concordato preventivo omologato. Il fulcro della decisione riposa sulla asserita diversità tra crediti precedenti alla istaurazione della procedura di concordato e crediti falcidiati alla cui tutela è volta la declaratoria di fallimento cosicché il nuovo fallimento avrà ad oggetto la insolvenza di tali nuove obbligazioni.
Scaduto l’anno e non risolto il concordato, si riapre la valutazione della insolvenza su istanza dei soggetti legittimati (creditori, vecchi, nuovi e PM ). La tesi opposta si fonderebbe sull’erroneo assunto per cui scaduto il termine dell’anno per la pronuncia di risoluzione si avrebbe l’estinzione di ogni debito concordatario, conseguenza priva di supporto normativo. Né miglior sorte la mediana tesi della residualità delle azioni esecutive individuali a tutela del credito non soddisfatto.
La Corte di Appello esprime dissenso rispetto alla soluzione data al caso di specie dalla S.C. e ritiene sulla base della motivazione che segue, la inammissibilità del fallimento della impresa in concordato preventivo laddove non si sia prima pronunciata la risoluzione ex art. 186 L.F.
1 – La previgente disciplina faceva seguire alla dichiarazione di risoluzione l’automatico fallimento (III. Con la sentenza che risolve o annulla il concordato il tribunale dichiara il fallimento.). La norma è stata riformata dall’art. 17 D.Lgs. 12 Settembre 2007, n. 169 ed ha l’attuale seguente formulazione Art. 186 Risoluzione e annullamento del concordato I. Ciascuno dei creditori può richiedere la risoluzione del concordato per inadempimento. II. Il concordato non si può risolvere se l’inadempimento ha scarsa importanza. III. Il ricorso per la risoluzione deve proporsi entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento previsto dal concordato. IV. Le disposizioni che precedono non si applicano quando gli obblighi derivanti dal concordato sono stati assunti da un terzo con liberazione immediata del debitore. V. Si applicano le disposizioni degli articoli 137 e 138, in quanto compatibili, intendendosi sostituito al curatore il commissario giudiziale.
È stata pertanto abrogata la possibilità del fallimento automatico e di ufficio quale naturale conseguenza della dichiarata risoluzione. La relazione illustrativa alla riforma evidenzia la voluta accentuazione della funzione privatistica riconosciuta al concordato preventivo: “Di notevole importanza è la disposizione che, in coerenza con l’accentuata natura privatistica del concordato preventivo, condiziona la risoluzione del concordato alla non scarsa importanza dell’inadempimento. Si chiarisce, infatti, in aderenza ai principi generali, che il concordato preventivo non si può risolvere se l’inadempimento risulta essere di scarsa importanza Si recuperano, in questo modo, tutti i principi sull’importanza dell’inadempimento contrattuale elaborati con riferimento alla norma generale di cui all’art. 1455 c.c.”. Per quanto vale, anche la riforma destinata ad entrare in vigore nel 2020 mantiene inalterata la previsione (art. 119 codice della crisi e della insolvenza) con la sola aggiunta accanto ai creditori quali unici legittimati, del commissario giudiziale “se richiesto da un creditore”. Deve quindi rilevarsi, d’altra parte in linea con la ratio sottesa all’intera riforma del 2006 2007, corretta ma non superata dalla riforma del 2012, la accentuazione della ricostruzione del concordato come patto tra debitore e creditori, patto sul quale il Tribunale esercita certamente uno stringente controllo di legalità, ma senza sostituzione nelle decisioni che attengono alla sfera della valutazione dell’interesse economico del creditore.
La analisi del percorso giurisprudenziale e normativo a fare data dalla riforma del 2006, 2007, evidenzia infatti una marcata attenzione del giudice all’abuso dello strumento concordatario, a fronte di una sua utilizzazione al di fuori della previsione legale cui era sottesa una precisa scelta normativa volta alla rivalutazione del momento privatistico rispetto al controllo statuale. In tale percorso di maggiore esercizio di controllo di legalità pare alla Corte debbano leggersi le pronunce rese dai Giudici del merito e della legittimità sul controllo in fase di ammissibilità sia della proposta che della attestazione e così le pronunce in tema di abuso dello strumento concordatario – Cass. S.U. 9935/2015 -, la valutazione che il Tribunale è chiamato a compiere sulla causa in concreto del concordato che si spinge oltre la fattibilità giuridica ed investe la fattibilità economica laddove emerga un giudizio di inattuabilità della proposta – Cass. civ. Sez. Unite Sent., 23/01/2013, n. 1521; la valutabilità della attestazione – da ultimo Cass. civ. Sez. I Ord., 26/02/2019, n. 5653 ed anche la modifica del 2012 in tema di percentuale del concordato liquidatorio, oltreché i poteri sostitutivi attribuiti al c.g. dalla riforma del 2015 (art. 185, III comma, L.F.).
Si vuole affermare quindi che l’impianto originario della riforma è stato corretto laddove lo strumento privatistico è stato nella pratica distorto a fini fraudolenti rispetto alla tutela del ceto creditorio, ma non è stato disatteso nei suoi principi fondanti che privilegiano l’aspetto contrattuale all’aspetto statuale.
La lettura che si propone dello sviluppo normativo e giurisprudenziale, soccorre nel ritenere che la risoluzione del concordato è l’unica possibilità di reazione creata dall’ordinamento per l’inadempimento alle obbligazioni assunte con quello specifico concordato omologato, rimettendo esclusivamente ai creditori la valutazione sulla richiedibilità o meno della misura e conseguentemente della possibilità o meno di accedere al fallimento in seconda battuta. D’altra parte nessun ulteriore migliore risultato economico deriva ai creditori dalla procedura concorsuale maggiore atteso che eventuali azioni di responsabilità possono bene essere ceduta ai creditori concorsuali (e il Giudice della fase di ammissibilità ha il controllo sulla valutazione di tale voce dell’attivo) , che la sanzione penale assiste anche il concordato e che verosimilmente si assiste ad un impoverimento delle risorse destinate ai creditori attesa la duplicazione delle spese di giustizia.
Si vuole pertanto affermare in dissonanza con quanto ritenuto dalla Corte di Cassazione che invece la eliminazione del fallimento di ufficio quale automatica conseguenza del fallimento, depone (in uno con le altre considerazioni che si sono sviluppate) proprio per la preclusione alla dichiarazione di fallimento senza previa risoluzione.
2 – Per ritenere possibile procedere a fallimento omisso medio, la Cass, del 2017 ricostruisce i debiti concordatari come nuovi debiti. Tale ricostruzione non è condivisibile. Non si condivide la ricostruzione dei debiti falcidiati come nuove obbligazioni rispetto al debito ammesso al concordato e non si ritiene che la insolvenza al patto concordatario sia nuova insolvenza del debitore imprenditore, rispetto alla insolvenza originaria valutata con la omologa del concordato preventivo. La causa del debito è sempre il titolo originario e la falcidia attiene solo alla quantificazione e non entra a fare parte della causa petendi. L’unico istituto che consentirebbe di parlare di nuova obbligazione sarebbe la novazione ai sensi dell’art. 1230 c.c., ma di esso non viene in luce alcun elemento. Ritenere che vi sia un inadempimento aggiunto all’inadempimento originario significa duplicare la valutazione di una medesima incapacità di fare fronte alle medesime obbligazioni, in una fase inoltre in cui l’imprenditore, almeno nel caso di concordato con liquidazione, non ha più tale qualifica. Il fallimento (senza previa risoluzione) a tenore dell’insegnamento della S.C. è possibile solo per nuovi debiti e nuova insolvenza: così Cass. S.U. 9935 / 2015, la quale, nel ricostruire la disciplina del rapporto tra fase prefallimentare e istaurazione della procedura di concordato ha altresì affermato “Sotto il primo profilo assumono rilievo: 1) la parziale coincidenza dei soggetti, quando l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento è assunta dal creditore, che in quanto tale rientra anche tra i soggetti che sono parti sostanziali della procedura di concordato; 2) la coincidenza della causa petendi, rappresentata dallo stato di insolvenza ; 3) la parziale coincidenza del petitum, rappresentato in entrambi i casi dalla regolazione della crisi (sub specie dello stato di insolvenza), ma secondo le diverse regole delle due procedure, con conseguente incompatibilità tra le istanze: la dichiarazione di fallimento presuppone per quanto sopra detto l’esito negativo della procedura di concordato e non consente la presentazione di ulteriori domande di concordato preventivo mentre l’omologazione del concordato rende improcedibili le istanze di fallimento già presentate e rimuove lo stato di insolvenza, rendendo possibile la presentazione di nuove istanze solo per fatti sopravvenuti o per la risoluzione o l’annullamento del concordato”.
I creditori hanno votato a maggioranza il concordato preventivo loro proposto e in tal senso hanno accettato la regolazione della insolvenza; a loro spetta la valutazione sulla qualità dell’adempimento mentre il Tribunale non può compiere una nuova valutazione sulla medesima situazione debitoria, se non quando l’accordo sia stato rimosso.
Inoltre la ricostruzione privilegiata dalla Corte di cassazione nel 2017 e fatta propria dal Tribunale si pone in contrasto con altra norma di legge, laddove ammette la iniziativa del PM per il fallimento della società in concordato. L’art. 7 limita il potere del PM ai casi in essa previsti, tra i quali non si rinviene neppure estensivamente la possibilità di iniziativa per il caso di inadempimento ad obblighi concordatari, che nel caso di specie risultano esclusivamente dalle relazioni dei CC.GG. e non da segnalazione del Giudice e quindi in nulla sono assimilabili alla ipotesi descritta nella norma. Ammettere il PM alla richiesta di fallimento significa alterare il dettato normativo al di fuori della modifica legislativa o del ricorso alla Consulta.
3 – La ipotesi prospettata è foriera di disparità di trattamento tra creditori, disparità che si sono già manifestate. Cass. civ. Sez. I, 17/10/2018, n. 26002 ha così statuito Nel caso in cui al concordato preventivo segua il fallimento e siano scaduti i termini per chiedere la risoluzione del concordato ai sensi dell’art. 186 L.F., i crediti debbono essere ammessi al passivo nella misura falcidiata prevista nel provvedimento di omologazione. I creditori non sono invece tenuti a sopportare gli effetti esdebitatori e definitivi del concordato omologato, a norma della L.F., art. 184, nell’ipotesi in cui il fallimento venga dichiarato omisso medio, quando ancora sia possibile far dichiarare la risoluzione della prima procedura, in quanto l’attuazione del piano è resa impossibile per l’intervento medio tempore di un evento come il fallimento che, sovrapponendosi al concordato, inevitabilmente lo rende irrealizzabile. Cosicché si otterrà una variegata possibilità di trattamento, assolutamente casuale, per i creditori che hanno visto il fallimento dichiarato prima del decorso dell’anno che saranno ammessi al passivo per l’intero, per i creditori di fallimento dichiarato dopo l’anno omisso medio che saranno ammessi per il credito falcidiato e per i creditori del fallimento previa risoluzione che non subiranno più l’effetto esdebitativo proprio per la declaratoria di inadempimento e la reviviscenza della obbligazione originaria. Devono poi richiamarsi gli argomenti che sono stati ben illustrati da parte della giurisprudenza di merito (in particolare Tribunale Pistoia Decr., 20/12/2017). E ciò laddove si sottolinea la illogicità di una minore resistenza al fallimento dell’accordo concordatario omologato, rispetto alla pendenza della domanda di concordato preventivo; la impossibilità di ricostruire l’ammontare del credito falcidiato nei concordati liquidatori, laddove la misura percentuale non è promessa e garantita ma costituisce misura di valutazione della ammissibilità del concordato che si sostanzia nella messa a disposizione dei beni ai creditori, lasciando del tutto indeterminata la misura del credito falcidiato; la specialità della norma di cui all’art. 186 rispetto alla norma di cui all’art. 6; la asimmetria che si verrebbe a creare con la disciplina dettata in materia di concordato fallimentare ex art. 137 L.F.
Si deve poi sottolineare che la ricostruzione sposata dalla Corte sancisce la possibilità di dichiarare il fallimento di una società in concordato a prescindere dalla valutazione di un grave inadempimento del patto contratto coi creditori ed altresì della possibilità riconosciuta al C.G. di riparare, previo conferimento dei relativi poteri, al detto inadempimento. Tutto ciò si risolve in una soppressione della norma di legge, in dispregio del favore per il concordato, e in ogni caso in una sostanziale irrilevanza della sua applicazione.
La Corte ritiene quindi che non sia possibile dichiarare il fallimento prima e a di fuori della dichiarazione di risoluzione dello stesso ai sensi dell’art. 186 L.F.
In particolare non si ritiene neppure che possa costituire precedente vincolante la decisione della Corte Cost. n. 106 del 2004, pronuncia di rigetto e resa nel vigore della normativa previgente alla riforma 2006/2007, che non contiene principi che possano essere ritenuti cogenti (“…La tesi, pertanto, secondo la quale l’assenza della risoluzione del concordato impedirebbe non soltanto tale dichiarazione di fallimento in consecuzione”), ma anche una autonoma dichiarazione di fallimento – la quale, ferma l’obbligatorietà del concordato per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura, prende data ad ogni effetto dalla dichiarazione stessa – non è affatto imposta dalla legge (e, tanto meno, dal diritto vivente), bensì è frutto di una interpretazione che privilegia un – rispettabile ma opinabile – profilo sistematico, secondo il quale il concordato (se non risolto o annullato) cancellerebbe definitivamente quella insolvenza in ragione della quale fu ammesso e omologato e, pertanto, impedirebbe di attribuire successivamente rilevanza, ai fini di cui all’art. 5 del R.D. n. 267 del 1942, ai debiti esistenti al momento dell’apertura della procedura.” ), consegue che il fallimento dichiarato dal Tribunale di Arezzo deve essere revocato, senza necessità di esame degli ulteriori motivi di reclamo che restano assorbiti nella decisione pregiudiziale.
Le spese di causa attesa la novità della questione, devono essere compensate.
P.Q.M.
La Corte di Appello, definitivamente pronunziando, ogni diversa domanda, eccezione o difesa disattese, accoglie il reclamo ex art. 18 L.F., come in atti proposto avverso la sentenza del Tribunale di Arezzo n. __ e per l’effetto revoca il fallimento di S. S.r.l. in liquidazione in c.p.
Compensa tra le parti le spese di causa.
Così deciso in Firenze, nella camera di consiglio del 29 marzo 2019.
Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2019.
Corte_Appello_Firenze_Sez_I_16_05_2019
Recupero crediti a Firenze con ROSSI & MARTIN studio legale
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