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Il debitore può assumere l’iniziativa per la dichiarazione del proprio fallimento

Il debitore può assumere l’iniziativa per la dichiarazione del proprio fallimento

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 16117 del 14/06/2019

Con sentenza del 14 giugno 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in tema di recupero crediti, ha stabilito che il debitore può assumere l’iniziativa per la dichiarazione del proprio fallimento senza ricorrere al ministero di un difensore, se e fino a quando la sua istanza non confligga con l’intervento avanti al tribunale di altri soggetti, portatori dell’interesse ad escludere la dichiarazione di fallimento, ciò implicando lo svolgimento di un contraddittorio qualificato.


 

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 16117 del 14/06/2019

Il debitore può assumere l’iniziativa per la dichiarazione del proprio fallimento

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

G. – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – intimato –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ da __;

udito l’Avvocato;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale __.

Svolgimento del processo

  1. – Con sentenza del __ la Corte d’appello di Campobasso ha respinto il reclamo proposto da G. e D., nei confronti di A. nonché del Fallimento (OMISSIS) S.r.l., contro la sentenza del __ con cui il locale Tribunale aveva dichiarato il fallimento della società.

Ha in particolare ritenuto la Corte territoriale, disattendendo le censure in proposito spiegate dai reclamanti:

– che non occorresse, per la proposizione del ricorso per autofallimento, il rilascio della procura alle liti;

– che il presidente del collegio sindacale in prorogatio, A., fosse legittimato ad instare per la dichiarazione di fallimento, in quanto a ciò espressamente autorizzato dall’assemblea dei soci;

– che non poteva discorrersi di una rinuncia per fatti concludenti al ricorso per autofallimento, giacché tale rinuncia avrebbe richiesto una deliberazione in tal senso dell’organo assembleare;

– che, alla luce del bilancio __, desunto dal successivo bilancio pur non approvato __, neppure essendo stati approvati bilanci successivi, risultavano sussistenti i presupposti per la dichiarazione di fallimento, sia quanto ai requisiti di fallibilità, sia quanto allo stato di insolvenza, visto che la società versava in una situazione di squilibrio finanziario.

  1. – Per la cassazione della sentenza G. ha proposto ricorso per quattro mezzi.

Gli intimati non hanno spiegato difese.

Il Procuratore Generale ha concluso per il parziale accoglimento del quarto motivo del ricorso, nel resto rigettato.

Motivi della decisione

  1. – Il ricorso contiene quattro motivi.

Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 82 c.p.c. nonché dell’art. 6 della legge fallimentare, censurando la sentenza impugnata per aver escluso che il presidente del collegio sindacale della società dichiarata fallita dovesse munirsi, ai fini della proposizione del ricorso per autofallimento, della difesa tecnica.

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L.F., art. 6, censurando la sentenza impugnata laddove aveva ritenuto il presidente del collegio sindacale legittimato ad instare per la dichiarazione di fallimento della società, non avvedendosi che la relativa deliberazione assembleare era stata adottata in difetto assoluto di informazione dei soci non presenti e che quelli presenti non avevano nominato il presidente del collegio sindacale procuratore speciale, ma si erano limitati a dargli un generico mandato a compiere gli atti necessari per l’istanza di fallimento, istanza che, ai sensi dell’art. 24 dello statuto sociale, poteva provenire esclusivamente dal legale rappresentante della società.

Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L.F., artt. 1, 6 e 14, sostenendo che la Corte d’appello non si sarebbe avveduta che il ricorso per dichiarazione di fallimento era stato rinunciato, tanto più che non era stata effettuata la produzione della documentazione richiesta ai fini della dichiarazione di fallimento.

Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L.F., artt. 1, 5 e 14, censurando la sentenza impugnata laddove aveva ritenuto la presenza dei requisiti dimensionali dettati dall’art. 1 della legge, dal momento che, essendo la società inattiva almeno dal __, non era possibile che negli ultimi tre esercizi antecedenti la domanda di fallimento avesse avuto un attivo patrimoniale superiore a Euro __ e ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo superiore a Euro __, tanto più che l’assenza di domande di fallimento dal __ dimostrava sia l’insussistenza di poste debitorie, sia l’insussistenza dello stato di insolvenza; in ogni caso la decisione della Corte d’appello non poteva essere fondata sul bilancio chiuso al __, neppure allegato alla domanda di fallimento; e, ancora, lo stato di insolvenza andava scrutinato non già secondo i parametri adottati dal giudice di merito, ma tenuto conto dello stato di liquidazione della società.

  1. – Il ricorso va accolto nei limiti che seguono.

2.1. – Il primo motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1.

La questione proposta con tale censura, infatti, è stata già scrutinata da questa Corte, la quale ha avuto modo di affermare il principio, che non v’è ragione di rimeditare, secondo cui il debitore può assumere l’iniziativa per la dichiarazione del proprio fallimento senza ricorrere al ministero di un difensore, se e fino a quando la sua istanza non confligga con l’intervento avanti al Tribunale di altri soggetti, portatori dell’interesse ad escludere la dichiarazione di fallimento, ciò implicando lo svolgimento di un contraddittorio qualificato (Cass. 18 agosto 2017, n. 20187), restando soltanto da aggiungere, con riguardo al caso di specie, che il ricorrente non ha neppur dedotto l’insorgenza di un contraddittorio qualificato.

2.2. – Anche il secondo motivo è inammissibile.

In particolare, esso è inammissibile laddove volto a lamentare l’errore commesso dalla Corte d’appello nell’omettere di considerare: a) che la delibera con la quale era stato conferito al presidente del collegio sindacale l’incarico di richiedere il fallimento della società era stata adottata in difetto assoluto di informazione dei soci non presenti; b) che, ai sensi dell’art. 24 dello statuto sociale, il ricorso per autofallimento poteva provenire esclusivamente dal legale rappresentante della società.

Siffatte circostanze, difatti, non sono in alcun modo menzionate nella sentenza impugnata e, per vero, neppure nell’espositiva del ricorso per cassazione, ove non si dà affatto conto né della prospettazione della questione concernente l’esorbitanza della delibera rispetto all’oggetto previamente comunicato, né dell’allegazione dell’impedimento alla proposizione del ricorso per autofallimento da parte di soggetti diversi dal legale rappresentante della società.

Sicché trova applicazione il principio secondo cui, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675).

Il motivo è parimenti inammissibile laddove diretto a sostenere che l’assemblea della società non avrebbe conferito al presidente del collegio sindacale alcuna procura speciale a proporre il ricorso per autofallimento, ma si sarebbe limitata a dargli un generico mandato a compiere gli atti necessari per l’istanza di fallimento.

Ed infatti la Corte d’appello ha affermato che il presidente del collegio sindacale era stato espressamente autorizzato dall’assemblea dei soci al deposito del ricorso per dichiarazione di fallimento, il che trova perfetta conferma nella stessa trascrizione del verbale assembleare contenuto a pagina 10 del ricorso ove si legge: “Il Presidente… ritiene che l’unica soluzione per superare la fase di stallo… è quella di presentare istanza di fallimento al Tribunale competente. I soci presenti sentita la proposta del Presidente all’unanimità approvano danno mandato lo stesso Presidente di procedere agli atti conseguenti”. Sicché non è dato comprendere in che cosa tale mandato sarebbe generico e perché avrebbe precluso all’incaricato di proporre la domanda di autofallimento.

2.3. – Il terzo motivo è inammissibile giacché non attacca la ratio decidendi posta dalla Corte d’appello a fondamento della decisione.

Il giudice di merito ha difatti ritenuto che, una volta deliberata dall’assemblea la proposizione del ricorso per autofallimento, sarebbe occorsa una manifestazione di volontà di segno contrario la parte della stessa assemblea.

A fronte di ciò il ricorrente sostiene che tale motivazione sarebbe “manifestamente illogica in quando confonde la decisione assunta dalla società di presentare istanza di fallimento (attraverso la delibera assembleare) con la condotta processuale mantenuta dalla stessa società che l’ha rinunciata tacitamente non avendola coltivata”: ma tale argomentare non scalfisce affatto la motivazione addotta dalla Corte territoriale, giacché non spiega in qual modo il comportamento tacito della società (non si sa peraltro in qual modo attuato, essendo essa rimasta semplicemente silente) potrebbe mai aver integrato una manifestazione di volontà di segno contrario rispetto a quella risultante dalla deliberazione adottata, né come il presidente del collegio sindacale, incaricato di presentare il ricorso per autofallimento, potesse disattendere la volontà della società che tale incarico aveva conferito.

2.4. – Il quarto motivo, con cui lamenta sia che la Corte d’appello abbia fondato il proprio giudizio in ordine alla sussistenza dei requisiti dimensionali di fallibilità su un risalente bilancio, sia che il giudice di merito abbia apprezzato la sussistenza dello stato di insolvenza in base a criteri non pertinenti alla situazione di liquidazione, è fondato per quanto di ragione.

2.4.1. – Quanto al primo aspetto, non può revocarsi in dubbio, anzitutto, che l’imprenditore il quale proponga ricorso per autofallimento in tanto possa vedere accolto il ricorso, e dichiarato il fallimento, in quanto sia un imprenditore fallibile e versi in stato di insolvenza: la dichiarazione di fallimento, cioè, richiede anche in tal caso, e con tutta evidenza, la sussistenza dei presupposti fissati in via generale dalla L.F., artt. 1 e 5.

Ciò che distingue il ricorso per dichiarazione di fallimento da quello volto all’autofallimento non è dunque la latitudine dei presupposti, che sono i medesimi in entrambi i casi, bensì il riparto degli oneri probatori, che, in caso di autofallimento, si atteggiano diversamente dall’ipotesi consueta di fallimento richiesto dal creditore.

In particolare, sull’autofallimento il legislatore si sofferma alla L.F., art. 14, stabilendo, sotto la rubrica: “Obbligo dell’imprenditore che chiede il proprio fallimento, che: l’imprenditore che chiede il proprio fallimento deve depositare presso la cancelleria del Tribunale le scritture contabili e fiscali obbligatorie concernenti i tre esercizi precedenti ovvero l’intera esistenza dell’impresa, se questa ha avuto una minore durata. Deve inoltre depositare uno stato particolareggiato ed estimativo delle sue attività, l’elenco nominativo dei creditori e l’indicazione dei rispettivi crediti, l’indicazione dei ricavi lordi per ciascuno degli ultimi tre esercizi, l’elenco nominativo di coloro che vantano diritti reali e personali su cose in suo possesso e l’indicazione delle cose stesse e del titolo da cui sorge il diritto”.

La norma si esprime quindi in termini di obbligo di effettuazione di determinate produzioni documentali, sia, espressamente, nella rubrica, che nel testo della disposizione (“… deve depositare… Deve inoltre depositare…”): il che potrebbe far supporre che essa sottoponga il ricorso per autofallimento ad uno speciale requisito di procedibilità. Ritiene tuttavia il Collegio, anche per ragioni di simmetria con la disciplina del riparto dell’onere probatorio in caso di fallimento richiesto dal creditore, che non di obbligo si tratti, bensì di onere: nel senso che il mancato deposito della documentazione prevista può assumere rilievo per i fini della mancata dimostrazione della sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, con conseguente rigetto del ricorso per autofallimento.

In tale prospettiva, è senz’altro da ritenere che, in sede di ricorso per autofallimento, debba essere l’imprenditore a provare la sussistenza dello stato di insolvenza, in ossequio alle regole generali ed altresì in conformità allo scopo di evitare il possibile abuso nell’accesso alla procedura fallimentare, nella misura in cui essa si presenta, dall’angolo visuale dello stesso imprenditore, anche come strumento di soluzione della crisi d’impresa. Di guisa che il Tribunale rigetterà senz’altro il ricorso ove lo stato di insolvenza non risulti comprovato.

Ma è parimenti da ritenere gravante sull’imprenditore, onerato della prova del fatto costitutivo della domanda di autofallimento, la dimostrazione, nel quadro di applicazione del citato art. 14, della sussistenza di almeno uno dei requisiti dimensionali normativamente considerati ai fini della fallibilità. Occorre cioè rilevare, nella materia, che gli artt. 1 e 14 mostrano una formulazione simmetrica, nel senso che nell’un caso, quello del fallimento richiesto da un creditore, è l’imprenditore a dover provare l’inesistenza congiunta di tutti i presupposti dimensionali della fallibilità; nell’altro caso egli deve al contrario provare l’esistenza di almeno uno dei presupposti per la fallibilità. Il che è del resto ovvio, giacché nel primo caso l’imprenditore resiste alla domanda di fallimento, nell’altro caso agisce per ottenere la dichiarazione di fallimento.

In tale prospettiva va richiamata la decisione della Corte costituzionale che, nel dichiarare l’inammissibilità della questione di costituzionalità della L.F., art. 1, comma 2, ha disatteso l’argomento, riferito al caso dell’istanza di autofallimento, “volto a sostenere che, essendo lui stesso istante ed avendo, pertanto, in ipotesi un interesse alla dichiarazione di fallimento, potrebbe, artatamente, sottrarsi all’onere di dimostrare la sua non assoggettabilità al fallimento, conseguendo, in tal modo, la dichiarazione di fallimento anche là dove ne sarebbero mancati i presupposti soggettivi”. In proposito, il Giudice delle leggi ha osservato che “per privare di significato il pur suggestivo rilievo, basti osservare che la L.F., art. 14 prevede, a carico del debitore che chieda il proprio fallimento, degli adempimenti istruttori – significativamente qualificati in sede normativa alla stregua di obblighi e non di oneri – tali da rimuovere le preoccupazioni paventate dal tribunale rimettente” (Corte Cost. 24 giugno 2009, n. 198).

È in definitiva da ritenere che l’omesso deposito della documentazione di cui alla L.F., art. 14 operi in senso inverso rispetto all’art. 1 della stessa legge, e che, dunque, tale omissione comporti la mancata dimostrazione della ricorrenza dei requisiti dimensionali di fallibilità, rimanendo in potere del giudice di attivare, nei limiti in cui il codice di rito lo consente, i propri poteri officiosi.

Ora, è vero che, ai fini della prova della sussistenza dei requisiti di non fallibilità, sono ammissibili strumenti probatori alternativi al deposito dei bilanci degli ultimi tre esercizi di cui alla L.F., art. 15, comma 4, (Cass. 26 novembre 2018, n. 30541); ma è altrettanto vero che gli eventuali strumenti probatori alternativi devono avere ineluttabilmente riferimento, con riguardo ai requisiti dimensionali, al medesimo periodo cui si riferisce la L.F., art. 1: in caso contrario lo stesso scrutinio di detti requisiti ne rimarrebbe stravolto.

Sicché, nel caso in esame, la Corte d’appello è incorsa in errore nell’osservare, puramente e semplicemente, che le immobilizzazioni, nel __, ammontavano a Euro __, giacché ciò non implicava affatto la sussistenza dei requisiti dimensionali in discorso, che andavano invece scrutinati in riferimento all’arco temporale di cui si è detto.

2.4.2. – Con riguardo al secondo aspetto, il motivo è assorbito, dovendosi peraltro osservare che altro è la società in liquidazione -riguardo alla quale la valutazione del giudice, ai fini dell’applicazione della L.F., art. 5, deve essere diretta unitamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali: p. es. Cass. 3 agosto 2017, n. 19414 – altro la società semplicemente inattiva.

  1. – La sentenza impugnata è cassata in relazione al motivo accolto e rinviata alla Corte d’appello di Campobasso in diversa composizione, che si atterrà a quanto dianzi indicato e provvederà anche sulle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

dichiara inammissibili i primi tre motivi ed accoglie il quarto per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese alla Corte d’appello di Campobasso in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della prima sezione civile, il 8 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2019.

 

Cass_civ_Sez_I_Sent_14_06_2019_n_16117

 




L’individuazione tra due tribunali fallimentari, quale giudice competente, di un Tribunale diverso da quello che per primo ha dichiarato il fallimento, non comporta la cassazione della relativa sentenza e la caducazione degli effetti sostanziali della prima dichiarazione di fallimento

L’individuazione tra due tribunali fallimentari, quale giudice competente, di un Tribunale diverso da quello che per primo ha dichiarato il fallimento, non comporta la cassazione della relativa sentenza e la caducazione degli effetti sostanziali della prima dichiarazione di fallimento

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 16116 del 14/06/2019

Con ordinanza del 14 giugno 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in tema di recupero crediti, ha stabilito che la risoluzione del conflitto positivo di competenza (territoriale) tra due tribunali fallimentari e la conseguente individuazione, quale giudice competente, di un Tribunale diverso da quello che per primo ha dichiarato il fallimento, non comporta la cassazione della relativa sentenza e la caducazione degli effetti sostanziali della prima dichiarazione di fallimento, ma solo la prosecuzione del procedimento avanti il Tribunale ritenuto competente presso il quale la procedura prosegue con le sole modifiche necessarie (sostituzione del giudice delegato) o ritenute opportune (sostituzione del curatore), avuto riguardo al principio dell’unitarietà del procedimento fallimentare a far tempo dalla pronuncia del giudice incompetente, enunciato dall’articolo 9-bis della legge fallimentare, ma desumibile anche dal sistema e dai principi informatori della legge fallimentare, nel testo anteriormente vigente. (Nel caso di specie, accogliendo il ricorso incidentale presentato dalla curatela del Fallimento di una S.r.l., la Suprema Corte ha cassato – decidendo nel merito – la pronuncia impugnata con la quale la corte territoriale, accogliendo il reclamo proposto dalla S.r.l. dichiarata fallita, aveva revocato la sentenza di fallimento, dichiarato l’incompetenza del giudice adito e la competenza di diverso tribunale con fissazione del termine per la riassunzione.)


 

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 16116 del 14/06/2019

L’individuazione tra due tribunali fallimentari, quale giudice competente, di un Tribunale diverso da quello che per primo ha dichiarato il fallimento, non comporta la cassazione della relativa sentenza e la caducazione degli effetti sostanziali della prima dichiarazione di fallimento

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

(OMISSIS) S.r.l. – ricorrente –

contro

M., P., S., V. – controricorrente –

e contro

Curatela Fallimento (OMISSIS) S.r.l. in liquidazione – controricorrente – ricorrente incidentale –

contro

(OMISSIS) S.r.l.  – intimato –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Dott. __ udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __.

Svolgimento del processo

  1. – Con sentenza del ____ la Corte d’appello di Napoli ha accolto il reclamo proposto da (OMISSIS) S.r.l. nei confronti di M., P., S., V. e C., nonché del Fallimento (OMISSIS) S.r.l., contro la sentenza con cui il Tribunale di Benevento, il _____, aveva dichiarato il fallimento della società, revocando tale sentenza e dichiarando l’incompetenza territoriale del Tribunale di Benevento e la competenza di quello di Padova, con fissazione del termine per la riassunzione e rimessione alla definizione del giudizio della regolamentazione delle spese di lite.

Ha in breve ritenuto la Corte territoriale che il Tribunale avesse errato nel ritenere superata la presunzione iuris tantum di corrispondenza tra sede legale, nel caso di specie situata in (OMISSIS), ossia nella circoscrizione del Tribunale di Padova, e sede principale, che il primo giudice aveva invece giudicato collocata in (OMISSIS). Dopo di che la stessa Corte ha affermato:

  1. a) che in mancanza di questioni diverse da quella concernente la competenza, a fronte delle quali la riassunzione si sarebbe dovuta disporre alla Corte d’appello competente, ai sensi della L.F., art. 9 bis, comma 4, dovesse disporsi la fissazione del termine per la riassunzione della causa davanti al Tribunale dichiarato competente;
  2. b) che la regolamentazione delle spese di lite dovesse essere rimessa alla definizione del giudizio.
  3. – Per la cassazione della sentenza (OMISSIS) S.r.l. ha proposto ricorso per tre mezzi.

M., P., S., V. e C. hanno resistito con controricorso, deducendo anzitutto l’inammissibilità del ricorso per difetto di procura.

Il Fallimento ha resistito con controricorso e proposto ricorso incidentale per due motivi.

Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del primo motivo del ricorso principale, per l’accoglimento del secondo motivo, assorbito il terzo, nonché per l’accoglimento del primo motivo del ricorso incidentale e rigetto del secondo.

Motivi della decisione

  1. – Il ricorso principale contiene tre motivi.

Il primo motivo denuncia: “Violazione di legge, violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa e contraddittoria motivazione, violazione art. 96 c.p.c.”, censurando la sentenza impugnata per aver omesso di pronunciare condanna dei reclamati per lite temeraria, quantunque essi avessero resistito in sede di reclamo pur consapevoli della legittimità delle argomentazioni svolte dalla società reclamante.

Il secondo motivo denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., anche con riferimento all’art. 96 c.p.c. e richiesta di applicabilità dell’art. 6 della tariffa forense vigente nella parte in cui richiama l’art. 10 c.p.c., della L. 7 novembre 1957, n. 1951, della L. 3 agosto 1949, n. 539, art. 1, nonché del D.M. 13 aprile 1985, che approvava la deliberazione del Consiglio Nazionale Forense del 3 novembre 1984, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Violazione e falsa applicazione degli artt. 10, 12, 14, 15 c.p.c., anche in relazione all’art. 6 della tariffa forense art. 360 c.p.c., n. 3), oltre ad omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia ex art. 360 c.p.c., n. 5”, censurando la sentenza impugnata per aver rimesso alla definizione del giudizio la pronuncia sulle spese di lite.

Il terzo motivo denuncia: “Violazione di legge, violazione art. 112 c.p.c.”, censurando la sentenza impugnata per aver disposto la riassunzione della causa senza che la reclamante avesse svolto alcuna domanda in tal senso.

  1. – Il ricorso incidentale del Fallimento contiene due motivi.

Il primo motivo denuncia violazione della L.F., artt. 9 e 9 bis, non essendo prevista in caso di incompetenza del Tribunale che ha dichiarato il fallimento la revoca della sentenza dichiarativa e la riassunzione del procedimento innanzi al Tribunale dichiarato competente.

Il secondo motivo denuncia violazione della L.F., artt. 9 e 9 bis, per non aver la Corte d’appello riconosciuto che, come già ritenuto dal Tribunale di Benevento, la sede effettiva della società fosse collocata entro l’ambito territoriale di tale Tribunale 3. – I controricorrenti M., P., S., V. e C. hanno formulato eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di procura, essendo quella apposta a margine del ricorso testualmente rilasciata per difendere la società “nel controricorso per cassazione avverso il ricorso per cassazione della sentenza della Corte di appello di Napoli n. 156/15”, tanto che nelle conclusioni dello stesso ricorso per cassazione è chiesta la dichiarazione di inammissibilità e, comunque, il rigetto del ricorso avversario.

  1. – Il ricorso principale è inammissibile.

4.1. – Lo è innanzitutto per difetto di procura.

Il difensore della ricorrente ha difatti agito per (OMISSIS) S.r.l. in forza di procura a margine del ricorso per cassazione, rilasciata per “rappresentarmi e difendermi nel controricorso per cassazione avverso il ricorso per cassazione della sentenza della Corte di appello di Napoli n. 156/15”. Nelle conclusioni formulate a pagina 9 del ricorso si chiede inoltre di “dichiarare inammissibile ed infondato in fatto e in diritto e comunque rigettare il ricorso avversario per le causali di cui in narrativa, emanando ogni consequenziale pronuncia”.

Il Procuratore Generale ha sostenuto che l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di procura speciale potrebbe essere superata alla luce dell’insegnamento secondo cui il mandato apposto in calce o a margine del ricorso per cassazione è per sua natura speciale.

Ritiene però il Collegio che tale principio, che pure è stato più volte ribadito, non possa essere nella specie applicato.

In effetti, quanto al requisito della specialità della procura per il ricorso per cassazione, richiesta dall’art. 365 c.p.c., questa Corte distingue a seconda che la procura sia stata conferita in calce o a margine (art. 83 c.p.c., comma 3) ovvero con atto separato (art. 83 c.p.c., comma 2): nel primo caso, quello qui interessa, non occorre, in generale, il riferimento al giudizio di cassazione, che è insito nella collocazione topografica della procura.

Nondimeno, nel caso della procura in calce o a margine il requisito della specialità, in linea di principio sussistente, è stato in passato in più occasioni escluso. Si è affermato, in particolare, che la specialità della procura può rivelarsi in concreto mancante nel caso che il testo di essa contenga riferimenti tali da evocare non il giudizio di cassazione, ma altra fase di merito di esso, sì da ingenerare il dubbio della riferibilità della procura proprio all’impugnazione per cassazione. È stato così ritenuto che la procura speciale per proporre ricorso per cassazione debba in ogni caso contenere un riferimento almeno implicito alla fase processuale del giudizio di legittimità, riferimento da escludersi quando le espressioni adoperate siano esclusivamente pertinenti ad altre fasi del giudizio, quali quella di merito o di esecuzione: in queste ipotesi, dunque, venendo meno il collegamento logico-giuridico fra la procura e il ricorso, si determina nullità della procura per la sua inidoneità al raggiungimento dello scopo (Cass. 17 dicembre 1998, n. 12653; Cass. 3 aprile 1998, n. 3422; Cass. 23 febbraio 1998, n. 1929; Cass. 10 febbraio 1997, n. 1224; Cass. 14 novembre 1996, n. 9975; Cass. 11 giugno 1996, n. 5516; Cass. 15 marzo 1996, n. 2164; Cass. 15 febbraio 1996, n. 1155; Cass. 18 agosto 1993, n. 8747; Cass. 24 maggio 1995, n. 5700).

L’indirizzo così riassunto, però, è senz’altro ormai superato. Si è detto, infatti, che, nell’ipotesi in cui la procura non espliciti in modo chiaro ed univoco la volontà di proporre ricorso per cassazione, l’incertezza in ordine all’effettiva volontà del conferente non può tradursi in una pronuncia di inammissibilità del ricorso per difetto di procura speciale, dovendosi interpretare l’atto secondo il principio di conservazione di cui all’art. 1367 c.c. (principio richiamato, a proposito degli atti processuali, dall’art. 159 c.p.c.) e perciò attribuendo alla parte conferente la volontà che consenta all’atto di procura di produrre i suoi effetti; nessuna incertezza è invece configurabile nel caso in cui, pur essendosi fatto ricorso ad espressioni generiche (ad esempio per l’uso di timbri predisposti per altre evenienze), la procura sia stata apposta a margine del ricorso già redatto, atteso che tale circostanza esclude in radici ogni dubbio circa la volontà della parte di proporre il suddetto ricorso, quale che sia il tenore dei termini usati sulla redazione della procura (Cass., Sez. Un., 27 ottobre 1995, n. 11178). Insomma, quando la procura al difensore è apposta in calce o a margine del ricorso per cassazione, essa viene a costituire un corpus inscindibile con esso, sicché il requisito della specialità sussiste non soltanto se il testo della procura contenga un espresso riferimento al giudizio di legittimità che la parte intende intraprendere, ma anche se lo stesso nulla dica in proposito ovvero se – in particolare per l’impiego di formulazioni precompilate contenute nella memoria del computer di cui si avvale il professionista – richiami altri gradi o fasi del giudizio, unitamente o meno al ricorso per cassazione (Cass. 6 marzo 2003, n. 3349; Cass. 2 febbraio 2006, n. 2340; Cass. 31 marzo 2007, n. 8060; Cass. 3 luglio 2009, n. 15692; Cass. 17 dicembre 2009, n. 26504; Cass. 5 dicembre 2014, n. 25725; Cass. 10 dicembre 2015, n. 24970). L’inammissibilità viene naturalmente esclusa ove i riferimenti contenuti nella procura alle fasi di merito del giudizio, ovvero alla sentenza impugnata, siano da ascrivere ad un mero errore materiale (Cass. 4 giugno 2008, n. 14793; Cass. 20 dicembre 2005, n. 28227; Cass. 9 maggio 2007, n. 10539).

Orbene, i principi così da ultimo riassunti, e che qui sono integralmente condivisi, valgono senz’altro a risolvere nel senso della sussistenza della procura le situazioni di incertezza sulla sua riferibilità al ricorso per cassazione, non invece quelle in cui debba ritenersi per certo, alla luce della sua espressa formulazione, che la procura non sia in alcun modo riferibile al ricorso per cassazione, ma ad altro. E cioè, l’inserimento della procura nel corpo del ricorso per cassazione, in calce o a margine, può operare al fine di dirimere il dubbio in ordine alla volontà del conferente di affidare al proprio difensore la proposizione del ricorso per cassazione, ma non al diverso fine di ribaltare il senso di una volontà inequivoca di segno diverso: nel qual caso, lungi dal collocarsi entro l’ambito dell’individuazione dei criteri da applicare per il riscontro del requisito della specialità della procura, la Corte di cassazione finirebbe per tradire la volontà del conferente, ponendo a suo carico gli esiti di un giudizio che egli non ha invece inteso proporre. Il che è tanto più vero nel caso in esame, ove si consideri che il ricorso, proprio a mo’ di controricorso, conclude per la dichiarazione di inammissibilità o rigetto del ricorso di controparte, in perfetta coerenza con la procura, sicché i motivi spiegati a fondamento del ricorso risultano del tutto eccentrici rispetto sia alla procura che alle conclusioni.

Così, è stato già affermato che difetta del requisito della specialità la procura rilasciata in calce al ricorso recante uno specifico riferimento ad altro giudizio (Cass. 14 marzo 2016, n. 4980), come pure la procura rilasciata a margine di tale atto contenente la dizione delego a costituirsi P.C. nell’indicato giudizio penale, in quanto la stessa non può considerarsi attributiva ai patrocinatori indicati di alcun mandato ad impugnare una sentenza civile (Cass. 19 ottobre 2006, n. 22496).

In definitiva, il ricorso è stato proposto in mancanza di procura alle liti, tale non potendosi considerare quella conferita per il controricorso a fronte di un ricorso di altra parte al momento inesistente.

4.2. – In ogni caso ciascuno dei tre motivi di ricorso per cassazione è inammissibile.

4.2.1. – Lo è il primo, avanti ad ogni altro profilo, per il difetto, in parte qua, del requisito di cui dell’art. 366 c.p.c., n. 3.

Il ricorrente ha ritenuto di ricostruire lo svolgimento del processo attraverso la trascrizione virgolettata della parte ad esso riferita della sentenza impugnata: ma in detta sentenza non vi è il benché minimo riferimento alla questione dell’applicazione dell’art. 96 c.p.c., né dal motivo di ricorso riesce ad intendersi, tantomeno in modo chiaro, se l’applicazione di detta norma fosse o meno stata sollecitata e se, cioè, vi fosse una domanda in tal senso da parte di (OMISSIS) S.r.l., ovvero se essa si dolga, in questa sede, della mancata applicazione officiosa del vigente comma 3 della disposizione.

Ed è evidente il decisivo rilievo del punto:

– se, difatti, una domanda di condanna per lite temeraria non fosse stata proposta, la censura sarebbe inammissibile giacché il giudice di merito, laddove non si avvalga (diverso è semmai il caso in cui si avvalga) della previsione dell’art. 96 c.p.c., comma 3, il quale stabilisce che egli può altresì condannare, e che può farlo anche d’ufficio, non fa altro che esercitare un potere discrezionale affidatogli dalla legge, potere discrezionale come tale non sindacabile in sede di legittimità;

– se, viceversa, una domanda di condanna per lite temeraria fosse stata proposta, ciò non avrebbe certo determinato una violazione dell’art. 96 c.p.c., norma il cui significato e portata applicativa il giudice non ha neppure preso in considerazione, ma una violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, profilo al quale la censura non fa riferimento alcuno, mentre richiama, nient’affatto a proposito, dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per di più in una formulazione abrogata da anni.

4.2.2. – Lo è il secondo per difetto del requisito di specificità.

La ratio decidendi posta a sostegno della decisione impugnata si riassume in ciò, che, dovendo proseguire il processo, la decisione sulle spese dovesse essere rinviata alla statuizione definitiva.

Occorreva perciò che il ricorrente spiegasse, comprensibilmente, quale fosse l’errore commesso dal giudice di merito, ed in che cosa, cioè, la Corte d’appello fosse incorsa in violazione dell’art. 91 c.p.c., richiamata in rubrica: ma la censura non dice nulla in proposito, ed afferma anzi che la questione essenziale attiene dunque all’individuazione del criterio per la determinazione del valore di una causa di reclamo alla dichiarazione di fallimento (così a pagina 7 del ricorso), questione viceversa del tutto irrilevante per i fini del controllo della correttezza della statuizione adottata in punto di rinvio al giudice ad quem, dichiarato conseguenze, della relativa pronuncia.

Merita aggiungere che nell’esordio del motivo, in riferimento al rinvio della statuizione sulle spese alla definizione del giudizio, è contenuta la frase che segue: “Tuttavia, ancorché tale evento sia da considerare come eventuali ed incerto, va rilevato che non si possa parlare come di definizione del giudizio non potendosi considerare la eventuale riassunzione dell’istanza di fallimento nel Tribunale ritenuto competente, come una prosecuzione del giudizio di reclamo, definito con la revoca del fallimento: ebbene, il significato della frase è per lo più incomprensibile e, laddove assume che non si verserebbe in ipotesi di prosecuzione del giudizio, è inammissibile perché non si misura con il dato normativo di segno espressamente opposto, giacché la L.F., art. 9 bis, stabilisce che: Il tribunale dichiarato competente… dispone la prosecuzione della procedura fallimentare”.

4.2.3. – Lo è il terzo per difetto di autosufficienza.

Sostiene parte ricorrente che il reclamante non avrebbe chiesto disporsi la translatio iudicii: e però non si sa, dalla lettura del ricorso, quali fossero e dove fossero state precisate le conclusioni prese dalla parte.

Ora, le Sezioni Unite di questa Corte hanno ribadito il principio, già più volte affermato, secondo cui, allorquando sia denunciato un error in procedendo, la Corte di cassazione è anche giudice del fatto ed ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa; tuttavia è necessario che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari ad individuare la dedotta violazione processuale. Infatti, il potere-dovere della Corte di esaminare direttamente gli atti processuali non significa che la medesima debba ricercarli autonomamente, spettando, invece, alla parte indicarli (Cass., Sez. Un., 26 febbraio 2019, n. 5640).

  1. – Il ricorso incidentale del Fallimento va accolto.

5.1. – È fondato il primo motivo.

Questa Corte ha già stabilito che l’incompetenza territoriale del Tribunale che ha dichiarato il fallimento non travolge la sentenza. In tal senso è stato affermato che la risoluzione del conflitto positivo di competenza (territoriale) tra due tribunali fallimentari e fa conseguente individuazione, quale giudice competente, di un Tribunale diverso da quello che per primo ha dichiarato il fallimento, non comporta la cassazione della relativa sentenza e la caducazione degli effetti sostanziali della prima dichiarazione di fallimento, ma solo la prosecuzione del procedimento avanti il Tribunale ritenuto competente presso il quale la procedura prosegue con le sole modifiche necessarie (sostituzione del giudice delegato) o ritenute opportune (sostituzione del curatore), avuto riguardo al principio dell’unitarietà del procedimento fallimentare a far tempo dalla pronuncia del giudice incompetente, enunciato dalla L.F., art. 9-bis, ma desumibile anche dal sistema e dai principi informatori della legge fallimentare, nel testo anteriormente vigente (Cass. 31 maggio 2010, n. 13316; Cass. 8 novembre 2010, n. 22710).

5.2. – È fondato il secondo motivo.

Questa Corte ripete che la competenza territoriale per la dichiarazione di fallimento spetta al giudice del luogo in cui l’impresa debitrice ha la sede effettiva, ove cioè si trova il suo centro direttivo, ancorché essa sia diversa dalla sede legale (p. es. Cass. 28 agosto 2012, n. 14676).

La sede principale dell’impresa si identifica con il luogo in cui si svolge prevalentemente l’attività amministrativa e direttiva (Cass. 12 marzo 2002, n. 3655; Cass. 19 luglio 2012, n. 12557). La presunzione iuris tantum di coincidenza della sede effettiva con la sede legale è superabile attraverso prove univoche che dimostrino che il centro direzionale dell’attività di impresa è altrove, e che la sede legale ha carattere soltanto formale o fittizio. Rileva a tal fine in particolare la mancanza di una concreta struttura operativa presso la sede legale, cosicché debba riconoscersi che detta sede sia solo un mero recapito, come avviene nel caso in cui l’impresa sia domiciliata presso uno studio professionale (Cass. 8 febbraio 2011, n. 3081).

Nel caso di specie risulta dal controricorso, in conformità agli atti e documenti ivi richiamati – cui la Corte ha accesso versandosi in ipotesi di error in procedendo -, che la sede legale della (OMISSIS) S.r.l. è collocata presso lo studio di un commercialista e non possiede colà alcuna struttura operativa. Di guisa che il Tribunale di Benevento ha correttamente accertato risultare “presuntivamente raggiunta la prova che gli atti di gestione e le decisioni effettive per la vita dell’impresa siano stati posti in essere nel circondario di questo Tribunale, evidenziando che la sede principale della (OMISSIS) S.r.l. è ubicata in (OMISSIS), perché all’interno di tale unità operativa si svolge effettivamente l’attività imprenditoriale e presso la stessa vi è la concreta struttura operativa della azienda; dalla visura camerale allegata emerge, infatti, che tutte le attività sociali si svolgono presso la sede di Ponte…; invece, la sede della (OMISSIS) S.r.l. sita in (OMISSIS)… costituisce, sostanzialmente, una sede minore e di mera rappresentanza: non a caso essa si trova presso lo studio di un commercialista; infatti, presso la dichiarata sede legale, manca una concreta struttura operativa della società”.

E dunque ha errato la Corte territoriale nel ritenere l’incompetenza del Tribunale di Benevento.

  1. – In definitiva, dichiarato inammissibile il ricorso principale, va accolto quello incidentale con conseguente cassazione, in relazione ai motivi accolti, della sentenza impugnata, sicché, decidendo nel merito, il reclamo originario va respinto.
  2. – Le spese seguono la soccombenza. Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso principale, accoglie quello incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e, decidendo nel merito, rigetta il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, condannando (OMISSIS) S.r.l. al rimborso, in favore, da un lato, di M., P., S. e V., e, dall’altro, della Curatela Fallimento (OMISSIS) S.r.l. in liquidazione, delle spese sostenute per l’intero giudizio, liquidate, con riguardo rispettivamente agli uni e all’altra, quanto al primo grado, in complessivi Euro __, di cui Euro __ per esborsi, quanto al grado di reclamo in complessivi Euro __, di cui Euro __ per esborsi, quando a questo giudizio di legittimità in complessivi Euro __, di cui Euro __ per esborsi, il tutto oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1quater, dichiara inoltre che sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 8 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2019.

 

Cass_civ_Sez_I_14_06_2019_n_16116




Dichiarazione di fallimento del debitore e la fattispecie della prescrizione presuntiva

Dichiarazione di fallimento del debitore e la fattispecie della prescrizione presuntiva

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 16123 del 14/06/2019

Con sentenza del 14 giugno 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in tema di recupero crediti, ha stabilito che le prescrizioni presuntive di cui agli artt. 2954 ss. c.c. sono fenomeni di natura probatoria, sostanziandosi in presunzioni di avvenuto pagamento. Non dà perciò luogo a prescrizione presuntiva la fattispecie in cui una frazione del tempo stabilito dalla norma di legge fondante la stessa sia decorsa dopo la dichiarazione di fallimento del debitore, pur se prima che il creditore abbia presentato domanda di insinuazione nel relativo passivo.


 

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 16123 del 14/06/2019

Dichiarazione di fallimento del debitore e la fattispecie della prescrizione presuntiva

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

A. – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.a.s. e L. – intimati –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Cons. Dott. __;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per l’accoglimento del terzo motivo di ricorso, inammissibili i primi due;

udito, per il ricorrente, l’avv. __, per delega dell’avv. __, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1.- A. ha presentato domanda tardiva di ammissione in rango privilegiato al passivo del fallimento della S.a.s. (OMISSIS) e di L. La domanda è stata titolata nello svolgimento di attività di professione medica (nella specie, medicina del lavoro) nell’interesse della società di poi fallita. La procedura ha respinto la domanda.

Con sentenza del __, il Tribunale di Fermo ha rigettato l’opposizione presentata dalla dottoressa R., ritenendo fondata l’eccezione di prescrizione presuntiva formulata dal curatore.

2.- La Corte di Appello di Ancona, con pronuncia del __, ha poi rigettato l’appello proposto da A.

In proposito, la Corte territoriale ha rilevato, in particolare, che non poteva essere considerato atto idoneo a interrompere la prescrizione (presuntiva) l’invio di due fatture (ciascuna relativa a un certo periodo temporale) da parte della dottoressa, in quanto prive di data certa; che non poteva essere emesso ordine di esibizione in proposito, in quanto la relativa richiesta era esplorativa; che i solleciti di pagamenti inviati dall’Azienda sanitaria, cui faceva riferimento l’attività della dottoressa, erano stati introdotti tardivamente, perché prodotti solo in sede di appello.

3.- Avverso questa sentenza A. ha presentato ricorso per cassazione, articolato in tre motivi.

Il Fallimento (già non costituito in appello) non ha svolto difese.

4.- La controversia è stata chiamata all’adunanza non partecipata della Sesta Sezione civile del __.

Con provvedimento n. __, il Collegio ha rinviato la controversia alla pubblica udienza di questa Sezione.

Motivi della decisione

5.- I motivi di ricorso sono intestati nei termini qui di seguito riportati.

Primo motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 2956 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Secondo motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 2709 c.c., dell’art. 2960 c.c. e dell’art. 210 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Terzo motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, nonché della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 18 e art. 58, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

6.- Il primo motivo muove dalla constatazione che il periodo di tempo preso in considerazione dai giudici del merito per l’identificazione di una prescrizione presuntiva ex art. 2956 c.c., si è, nella specie, formato in parte prima e in parte dopo la dichiarazione di fallimento della società assunta debitrice (le prestazioni professionali essendo state svolte nel corso del __ e il fallimento dichiarato il __, laddove la domanda di insinuazione è stata presentata in data __). Per assumere che la decisione, peraltro neanche esplicitata, di ritenere comunque sussistente la detta prescrizione è da ritenere errata.

La prescrizione presuntiva è ontologicamente diversa da quella ordinaria – così si ragiona – perché fa sorgere una mera presunzione di intervenuta estinzione dell’obbligazione per avvenuta soddisfazione del credito. Sopravvenuto in corso d’opera il fallimento, risulta ontologicamente impossibile ritenere che il credito della Dottoressa R. sia stato soddisfatto: l’apertura della procedura concorsuale è notoriamente incompatibile con qualunque soddisfazione diretta del credito individuale, dato che ogni credito deve trovare collocazione secondo le regole del concorso dettate dalla legge fallimentare.

7.- Il motivo è inammissibile.

Il ricorrente non indica in quali luoghi, e secondo quali modalità, ha sollevato nel giudizio di merito la contestazione relativa al mancato perfezionamento della fattispecie della prescrizione presuntiva prima della dichiarazione di fallimento della società assunta come debitrice. Del resto, lo stesso ricorrente rileva che la Corte di Appello non viene per nulla a considerare la questione. Che, pertanto, deve essere considerata nuova.

8.- Ciò posto, il Collegio reputa nondimeno di doversi soffermare – ai sensi della norma dell’art. 363 c.p.c., comma 3 e quindi nell’interesse della legge – sul merito della questione che è stata presentata dal ricorrente. Che va puntualizzata nei seguenti termini: se la sopravvenuta pendenza della procedura fallimentare sia situazione irrilevante ai fini della formazione di una prescrizione presuntiva o se, per contro, l’insorgenza della procedura sia circostanza che impedisca il completamento del tempo occorrente per la formazione della relativa fattispecie.

Non constano – va subito evidenziato – precedenti di questa Corte in termini. L’elevata frequenza, in cui la situazione sopra descritta può peraltro verificarsi nella pratica, manifesta senz’altro che quella indicata è questione di particolare importanza.

9.- La questione trova il suo nodo fondamentale nell’individuazione della natura da assegnare alla figura della prescrizione presuntiva, come del resto non ha mancato di segnalare il ricorrente.

Se questa debba considerarsi, cioè, istituto di diritto sostanziale e sia dunque partecipe della stessa natura della prescrizione ordinaria, venendo perciò a incidere direttamente sul diritto del creditore (seppur in modo meno incisivo di quanto faccia quest’ultima); o se, invece, venga a fare parte delle figure di carattere processuale, dando in particolare vita a una presunzione (di tratto intermedio, se così si può dire, tra quelle iuris et de iure e quelle iuris tantum) di avvenuto pagamento.

10.- A ritenere quella presuntiva partecipe della stessa natura della prescrizione ordinaria (e solo connotata da minori effetti) non pare dubbio, in effetti, che l’apertura della procedura concorsuale lasci le cose come stavano, non incidendo in alcun modo sul correre del tempo stabilito dalla legge.

La dichiarazione di fallimento non rientra, per sé, tra gli eventi interruttivi richiamati dalla norma dell’art. 2943 c.c. La norma della L.F., art. 69 bis, comma 1, contempla in modo espresso, poi, una prescrizione formata da un segmento temporale anteriore all’avvio della procedura e, insieme, da un segmento a ciò posteriore. Secondo l’orientamento della giurisprudenza di questa Corte, anzi, una volta apertasi la procedura concorsuale, è atto idoneo a interrompere il corso della prescrizione dei crediti verso il fallito unicamente la proposizione della domanda di insinuazione nello stato passivo (Cass., 16 maggio 2018, n. 11966).

11.- Diversamente ove si ritenga invece che la prescrizione presuntiva si sostanzi, ed esaurisca, nel dar vita a una particolare figura di praesumptio legis.

Se la legge suppone avvenuto il pagamento di certi crediti (quali dettagliatamente indicati nelle norme degli artt. 2954, 2955 e 2956 c.c.), perché normalmente così accade allorché sia trascorso un dato periodo di tempo – senza, cioè, che in quel lasso temporale quel certo tipo di creditore sia andato a esigere in modo formale la prestazione dovutagli -, l’apertura del fallimento viene propriamente a bloccare la costruzione di una simile dinamica presuntiva. Posto che comporta, L.F., ex art. 44, l’inefficacia dei pagamenti effettuati dal debitore fallito e posto altresì che rende necessario l’accertamento di ogni credito che aspiri a ricevere pagamenti dal sopravvenuto fallimento del debitore (L.F., artt. 52 e 93 e segg.).

12.- Riguardo alla natura da riconoscere alla presunzione presuntiva la giurisprudenza di questa Corte non ha espresso precedenti del tutto allineati.

Secondo l’orientamento che può dirsi tradizionale – ed è di gran lunga prevalente – “la prescrizione estintiva e la prescrizione sostitutiva sono ontologicamente differenti, logicamente incompatibili e fondate su fatti diversi: elementi costitutivi della prima sono il decorso del tempo e l’inerzia del titolare del diritto”; la “seconda è fondata su una presunzione furis tantum ovvero mista di avvenuto pagamento del debito” (cfr., di recente, Cass., 5 luglio 2017, n. 16486, da cui le frasi appena riportate; cfr. inoltre, tra le altre pronunce, Cass., 14 dicembre 2017, 30058; Cass., 2 febbraio 2005, n. 3443; Cass., 26 agosto 2013, n. 19545; Cass., 29 gennaio 2003, n. 1287; Cass., 31 ottobre 2011, n. 22649, secondo la quale “l’espressa invocazione dell’una non è implicitamente estensibile all’altra, ma è necessaria una formulazione distinta per ciascuna di esse”).

Secondo talune pronunce, che danno vita a un minoritario orientamento, peraltro, “la prescrizione presuntiva, anche se fondata su di una presunzione, è cosa ben diversa dalla presunzione stessa e, a differenza di questa, non è un mezzo di prova, ma incide direttamente sul diritto sostanziale limitandone la protezione giuridica. Questa incidenza sostanziale non è, per sua natura, diversa – anche se più limitata – da quella derivante dalla prescrizione ordinaria, che giunge sino all’estinzione del diritto ed è pertanto regolata dagli stessi principi” (così Cass., 15 maggio 2012, n. 7527, che ne trae la conseguenza dell’applicabilità della norma dell’art. 2937 c.c. all’ipotesi di prescrizione presuntiva; per la medesima impostazione di base v., in particolare, anche Cass., 24 luglio 2015, n. 15570).

13.- Il Collegio ritiene che sia corretta l’opinione tradizionale e prevalente, che stima la prescrizione ordinaria e la prescrizione presuntiva strutture normative separate e distinte, inserendo la seconda nell’ampio ambito del fenomeno della prova presuntiva.

In proposito, vengono a imporsi specialmente due ordini di considerazioni.

Il primo si sostanzia nel rilievo che il tenore della norma dell’art. 2959 c.c., pretende – per la costruzione in concreto di una prescrizione presuntiva – che il comportamento del debitore sia non disforme da quello di un soggetto che ha effettivamente prestato il pagamento dovuto (l’eccezione è rigettata, se chi oppone la prescrizione nei casi indicati dagli artt. 2954, 2955 e 2956, ha comunque ammesso in giudizio che l’obbligazione non è stata estinta). E si alimenta in via ulteriore nel riconoscimento che il disposto della norma viene correntemente interpretato nel senso di esigere, al riguardo, un comportamento del debitore che risulti, in realtà, strettamente coerente in positivo con l’idea base di un già avvenuto pagamento (per il rilievo che la contestazione da parte del debitore dell’esistenza del credito fa cadere la presunzione cfr., ad esempio, la già citata sentenza di Cass., n. 16486/2017; per quello che la proposizione subordinata di un’eccezione di compensazione pure comporta il rigetto di quella di prescrizione v. Cass., 31 gennaio 2019, n. 2970; per quello per cui l’eccezione in discorso non è utilizzabile nel caso in cui il debitore sostenga di avere estinto l’obbligazione mediante il pagamento di una somma minore di quella pretesa in giudizio dal creditore v. Cass., 21 giugno 2010, n. 14927).

L’altra osservazione si condensa nel rilievo che, nella prescrizione presuntiva, la dimensione del tempo non viene in considerazione in quanto (assai) più breve di quella che è propria della prescrizione ordinaria, secondo quanto è invece coerente con la tesi che accomuna la natura delle due figure: con una prospettiva, invero, in cui una così forte differenza dell’elemento tempo potrebbe anche apparire priva di giustificazione oggettiva (anche per la misura della contrazione che risulta apportata).

Viene piuttosto in considerazione come dimensione sufficientemente lunga per far ragionevolmente ritenere che – se nel trascorrere di quel dato periodo di tempo il tipo di creditore, che è specificamente preso in considerazione dalla normativa in discorso (artt. 2954, 2955 2956 c.c.), non ha ancora formulato richieste formali di pagamento o di messa in mora – è perché, presumibilmente, egli ha già ricevuto il pagamento che gli spettava.

Detto questo, è appena il caso di aggiungere che non contrasta con il complesso dei rilievi sin qui svolti la constatazione che pure la prescrizione presuntiva è suscettibile di essere interrotta, ai sensi dell’art. 2943 c.c. (sul punto cfr. Cass., 12 giugno 2012, n. 9509). In effetti, il sopravvenire di una specifica richiesta di pagamento da parte del creditore rende (per sé) ragionevole ipotizzare che – sino a quel momento, almeno – egli non ha ancora ricevuto il pagamento di quanto dovutogli.

14.- In base alle considerazioni esposte è possibile enunciare il seguente principio di diritto: “le prescrizioni presuntive di cui agli artt. 2954 c.c. e segg., sono fenomeni di natura probatoria, sostanziandosi in presunzioni di avvenuto pagamento; non dà perciò luogo a prescrizione presuntiva la fattispecie in cui una frazione del tempo stabilito dalla norma di legge fondante la stessa sia decorsa dopo la dichiarazione di fallimento del debitore, pur se prima che il creditore abbia presentato domanda di insinuazione nel relativo passivo”.

15.- Il secondo motivo di ricorso viene sostanzialmente ad articolarsi in tre separate censure.

15.1.- La prima censura afferma che la “Corte di Appello sembra attribuire una qualche responsabilità in capo alla ricorrente per non avere utilizzato idonee forme di trasmissione delle fatture attestanti il tempo dell’invio: presumibilmente, la Corte di Appello pone riferimento alla spedizione a mezzo posta raccomandata con tanto di avviso di ricevimento”.

Tale forma di trasmissione – questa la critica mossa dal ricorrente non è però prescritta da alcuna norma. Vale, per contro, il principio della libertà nelle forme della spedizione, che trova riscontro anche nella previsione dell’art. 2709 c.c.

15.2.- La seconda censura fa riferimento all’esibizione delle scritture contabili della società fallita, a suo tempo domandata dal ricorrente, ma non secondata dalla Corte di Appello, che ebbe a rilevare il carattere esplorativo della richiesta.

In realtà, tale richiesta non era affatto esplorativa – puntualizza il ricorrente -, in quanto dichiaratamente finalizzata a verificare la contabilità delle fatture emesse dalla ricorrente, con ogni conseguenza in punto dell’eccepita prescrizione presuntiva.

15.3.- L’ultima censura assume che la “Corte di Appello non ha esposto alcuna motivazione al fine di respingere la richiesta di deferimento del giuramento decisorio come formulata dalla dottoressa R. nella propria memoria istruttoria”. A tale assunto il ricorrente fa poi seguire il testo della richiamata memoria (nel cui contesto viene riportato, tra le altre cose, pure il tenore testuale del giuramento di cui venne chiesto fosse deferito al curatore: “Giuro e giurando affermo che il credito di Euro 9.628,00 vantato nel presente giudizio dalla Dott. R. non è stato pagato ovvero giuro e giurando affermo che lo stesso è stato pagato”).

16.- Il Collegio non ritiene di potere condividere nessuna delle censure svolte dal ricorrente nel contesto del secondo motivo di ricorso.

La prima non coglie, in effetti, la ratio decidendi della decisione della Corte territoriale. Che risulta senz’altro focalizzata nella constatazione della mancanza di data certa delle fatture presentate dal ricorrente a prova dell’avvenuta interruzione della prescrizione presuntiva. D’altronde, è orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte che le scritture private – fatture ricomprese – debbano essere munite di data certa, per poter essere opposte al curatore fallimentare (cfr., da ultimo, Cass., 18 gennaio 2019, n. 1389).

Quanto poi alla seconda censura, va segnalato che l’orientamento della giurisprudenza di questa Corte ritiene apprezzamento di mero fatto quello attinente al carattere esplorativo di una richiesta di esibizione documentale e, in quanto tale, non sindacabile in sede di legittimità (Cass. 21 febbraio 2017, n. 4504).

Riguardo all’ultima delle censure mosse è rilievo dirimente quello per cui, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, nel giudizio di opposizione allo stato passivo, al curatore – in quanto terzo rispetto al fallito e privo della capacità di disporre del diritto controverso, non può essere deferito il giuramento decisorio con riferimento a vicende solutorie attinenti all’obbligazione (credito professionale) dedotta in giudizio (cfr., da ultimo, Cass., 3 agosto 2017, n. 19418).

Il secondo motivo di ricorso non merita, in conclusione, di essere accolto.

17.- Con il terzo motivo, il ricorrente censura la pronuncia della Corte di Appello là dove questa ha ritenuto inammissibile la produzione di documenti, probatori dell’avvenuta interruzione del termine di prescrizione in corso, in quanto prodotti solo in grado di appello (trattasi di solleciti di pagamento inviati dall’Azienda sanitaria).

Secondo la Corte territoriale, per i procedimenti instaurati dopo il 30 aprile 1995, l’eventuale indispensabilità dei documenti in tanto può essere valutata in quanto si tratti di documenti nuovi, nel senso che la loro ammissione non sia stata richiesta in precedenza e comunque non si sia verificata la decadenza di cui all’art. 184 c.p.c. Contestando questa ricostruzione, il ricorrente afferma l’estraneità alla fattispecie della normativa dell’art. 184 e la soggezione della stessa alla norma dell’art. 345 c.p.c., che non appare minimamente considerato dalla Corte di merito.

Precisa, altresì, che nella specie trova applicazione la versione dell’art. 345 c.p.c., anteriore all’entrata in vigore della L. 18 giugno 2009, n. 69, che ammetteva senz’altro la produzione di nuovi documenti con l’atto di appello.

18.- Il motivo merita di essere accolto.

Nella specie, il procedimento di primo grado è stato definito con sentenza depositata in data __ e quindi prima dell’entrata in vigore della L. n. 69 del 2009, come fissata alla data del __ (per la rilevazione che, ai fini in discorso, non è da ritenere pendente solo il procedimento a quel tempo definito da sentenza già depositata v. Cass., 20 agosto 2018, n. 20793).

Nel regime applicabile al relativo procedimento di appello, la facoltà di produrre nuovi documenti, se deve ritenersi concentrata e limitata alla fase iniziale del procedimento, non risulta incontrare le decadenze di cui all’allora vigente disposizione dell’art. 184 c.p.c. (Cass., 10 giugno 2011, n. 12731).

19.- In conclusione, va accolto il terzo motivo di ricorso, inammissibili i primi due motivi. Di conseguenza, va cassata la sentenza impugnata con riferimento alla materia fatta oggetto del terzo motivo e la controversia rinviata, in proposito, alla Corte di Appello di Ancona, che, in diversa composizione, provvederà anche alle determinazioni relative alle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, inammissibili il primo e il secondo. Cassa, per quanto di ragione, la sentenza impugnata e rinvia la controversia alla Corte di Appello di Ancona che, in diversa composizione, provvederà anche alle determinazioni relative alle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 8 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2019.

 

Cass_civ_Sez_I_Sent_14_06_2019_n_16123




È doverosa la richiesta, da parte del giudice dell’esecuzione ai fini della vendita forzata, della certificazione attestante la proprietà del debitore esecutato del bene pignorato

È doverosa la richiesta, da parte del giudice dell’esecuzione ai fini della vendita forzata, della certificazione attestante la proprietà del debitore esecutato del bene pignorato

Corte di Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza n. 15597 del 11/06/2019

Con ordinanza del 13 maggio 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione VI – Lavoro, in tema di espropriazione forzata immobiliare, ha stabilito che è doverosa la richiesta, da parte del giudice dell’esecuzione ai fini della vendita forzata, della certificazione attestante che, in base alle risultanze dei registri immobiliari, il bene pignorato appaia di proprietà del debitore esecutato sulla base di una serie continua di trascrizioni d’idonei atti di acquisto riferibili al periodo che va dalla data di trascrizione del pignoramento fino al primo atto di acquisto precedente al ventennio a decorrere dalla stessa. All’ordinanza di richiesta del primo atto di acquisto ultraventennale effettuata dal giudice dell’esecuzione si applica il regime degli artt. 484, 175, 152, 154 c.p.c. e alla mancata produzione del suddetto titolo, imputabile al soggetto richiesto, consegue la dichiarazione di chiusura anticipata del processo esecutivo.


 

Corte di Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza n. 15597 del 11/06/2019

È doverosa la richiesta, da parte del giudice dell’esecuzione ai fini della vendita forzata, della certificazione attestante la proprietà del debitore esecutato del bene pignorato

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

B. S.p.A. – ricorrente –

contro

D. e M. – intimati –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere Dott. __;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

Banca S.p.A., proponeva reclamo ex art. 630 c.p.c., comma 2, avverso l’ordinanza pronunciata il __, con cui il giudice dell’esecuzione immobiliare intrapresa nei confronti di D. e M., aveva dichiarato l’estinzione della procedura coattiva medesima.

Il giudice dell’esecuzione, per quanto qui ancora interessa, aveva rilevato l’incompleta ricostruzione della provenienza di un diritto immobiliare staggito, per carenza della documentazione che certificasse compiutamente le trascrizioni oltre che iscrizioni a favore e contro A., dante causa dei danti causa degli esecutati.

Il tribunale rigettava il reclamo con pronuncia confermata dalla corte di appello secondo cui: le particelle interessate erano giunte alle parti, poi venditrici ai debitori con atto trascritto nel __, per successione ad A., deceduto nel __ con denuncia del __ trascritta nel __; a ritroso, dalla trascrizione del pignoramento, del  __, fino alla prima data disponibile per le verifiche di conservatoria meccanizzata, __, non risultavano altri passaggi, e quindi neppure risultava alcun atto trascritto a favore del “de cuius” che ne attestasse la titolarità; difettando il riscontro del titolo di acquisto anteriore al ventennio, costituiva pertanto mera illazione, priva di riscontro anche solo indiziario, l’acquisto del bene da parte del dante causa A. in data anteriore a __, non potendo presumersi neppure l’intervenuta usucapione rispetto alla quale avrebbero dovuto accertarsi presupposti la cui verifica esorbitava dai poteri del giudice dell’esecuzione.

Avverso questa decisione ricorre per cassazione B. S.p.A. formulando tre motivi.

Non hanno svolto difese gli intimati.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., poiché la corte di appello avrebbe omesso di pronunciarsi sulla censura concernente l’illegittimità della dichiarazione di estinzione della procedura esecutiva siccome assunta in un’ipotesi, quella della mancata produzione di una trascrizione favorevole all’originario dante causa anteriore al ventennio dalla trascrizione del pignoramento, diversa da quelle tassativamente individuate dall’art. 567 c.p.c., comma 2.

Con il secondo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 567 c.p.c., art. 2650 c.c., poiché la corte di appello avrebbe errato omettendo di considerare che al giudice dell’esecuzione non compete un compiuto accertamento della titolarità del bene da porre in vendita forzata, ma una verifica formale inerente alla documentazione relativa al suddetto ventennio, che costituisce indice di appartenenza del bene, per usucapione, sufficiente alla prosecuzione del procedimento esecutivo. Si aggiunge che, come accertato, era stata fatta la verifica nella massima misura possibile, posto che non era documentabile quanto richiesto anteriormente ai dati rinvenuti in conservatoria sino al __, che precedevano di un cinquantennio la trascrizione del pignoramento, fermo restando che il principio di continuità delle trascrizioni avrebbe dovuto ritenersi trovare limitata applicazione al “de cuius” il cui originario atto di acquisto non sia risultato trascritto, non potendo egli più alienare, riprendendo quel principio piena efficacia con riferimento agli eredi.

Con l’ultimo motivo si prospetta la violazione degli artt. 629, 630 e 631 c.p.c., art. 567 c.p.c., comma 3, poiché la corte di appello avrebbe errato nel dichiarare l’estinzione della procedura esecutiva al di fuori dei casi in cui risulta tassativamente prevista dalla legge.

  1. Ai fini della valutazione sulla proponibilità della domanda, possibile in questa sede ex art. 382 c.p.c., comma 3, si osserva che:

– come pacifico e indicato dalla stessa parte ricorrente, il giudice dell’esecuzione ha dichiarato l’estinzione della procedura coattiva, ex art. 567 c.p.c., comma 3, per carenza di una documentazione aggiuntiva rispetto a quella espressamente prevista dal comma 2, della stessa norma (cfr., sia pure con riferimento alla disciplina anteriore alla novellazione del D.L. n. 35 del 2005, convertito con modificazioni, dalla L. n. 80 del 2005, Cass. 03/11/2017, n. 26244);

– ne consegue che non si è trattato in senso proprio di estinzione (tipica), bensì di chiusura anticipata del processo (per sua improseguibilità), descrittivamente spesso qualificata come estinzione atipica, ma ricostruttivamente da considerare fattispecie differente, per quanto appena rilevato (cfr. Cass. 10/05/2016, n. 9501, Cass. 27/01/2017, n. 2043, Cass. 13/11/2018, n. 29026, pag. 8);

– il reclamo risulta essere stato proposto contro una dichiarazione qualificata di “estinzione” e sarebbe stato tempestivo, perché l’ordinanza di estinzione è stata pronunciata a seguito di scioglimento di riserva, con comunicazione del __, mentre il reclamo stesso è stato depositato il __;

– il tribunale non riqualificò né l’estinzione in chiusura anticipata, né il reclamo in opposizione agli atti, al pari di quanto deve dirsi relativamente alla decisione di seconde cure;

– ne deriva che, per il principio dell’apparenza inerente ai rimedi impugnatori e più latamente oppositivi (cfr., di recente, Cass. 09/08/2018, n. 20705), non potrebbe ritenersi ora improponibile il reclamo e inammissibile l’appello qualificando l’originaria doglianza in termini di opposizione esecutiva formale avverso un provvedimento di chiusura anticipata del processo esecutivo.

2.1. Peraltro, al riguardo, rispondendo a una sollecitazione del pubblico ministero di udienza, deve escludersi che la mancata impugnazione ex art. 617 c.p.c., dell’ordine giudiziale d’integrazione della documentazione, abbia precluso la deduzione a mezzo di reclamo.

Si tratta, infatti, di provvedimento di natura interinale e preparatoria rispetto all’eventuale dichiarazione estintiva ovvero preclusiva, poi nel caso effettivamente pronunciata all’esito della verifica dell’incarto complessivamente acquisito: tanto ne esclude un’autonoma opponibilità e, al contempo, impedisce che si consolidino effetti, pregiudizievoli o meno, in dipendenza della sola sua pronuncia non opposta in quanto tale.

  1. Il primo e il terzo motivo possono esaminarsi unitariamente per logica espositiva e per l’evidente loro intima connessione. Essi sono infondati.

La corte territoriale si è pronunciata sull’applicabilità dell’art. 567 c.p.c., commi 2 e 3, e sulle conseguenze della stessa, affermando che seppure l’arco temporale individuato dalla prescrizione normativa, per la produzione dei certificati delle iscrizioni e trascrizioni relative all’immobile staggito, “deponga nel senso che la norma pare rispondere all’esigenza di far accertare al giudice la loro continuità per il periodo necessario a far maturare l’acquisto per usucapione in capo al debitore esecutato, tuttavia è, altresì, evidente come l’eventuale continuità per venti anni anteriori alla trascrizione del pignoramento non sia in grado di garantire al debitore esecutato l’avvenuto acquisto a titolo originario, per il quale… occorrono una serie di presupposti il cui accertamento esorbita dai poteri del giudice dell’esecuzione” (pag. 8 della sentenza gravata).

Di qui, nella prospettiva del collegio di merito, la conferma del rilievo per cui l’acquisto della proprietà del bene in parola, da parte del ricordato dante causa “originario”, in data anteriore alla prima data disponibile per le verifiche meccanizzate di conservatoria, doveva ritenersi costituire “mera illazione…, priva di qualsivoglia riscontro probatorio, anche indiziario” (stessa pag. 8).

Con l’ulteriore corollario per cui, non essendo ragionevolmente inferibile la proprietà del bene pignorato in capo agli esecutati, lo stesso non poteva essere venduto come preteso dal creditore procedente e non poteva essere dichiarata un’illegittimità della pronuncia negativa data dal giudice dell’esecuzione rispetto a questa pretesa, ossia, a mente di alcune ricostruzioni scientifiche, un’illegittimità del rigetto della domanda espropriativa contenuta nell’istanza di vendita.

Quanto esposto dimostra che:

– non c’è stata un’omissione di pronuncia;

– non c’è stata alcuna violazione rilevante del regime dell’estinzione del processo esecutivo, posto che, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla legge per una simile pronuncia, la statuizione di “estinzione atipica” ovvero di “improseguibilità” della procedura (come definita dalla corte territoriale alle pagg. 9 e 11 della sentenza, in adesione a una terminologia utilizzata anche negli studi), deve semplicemente riqualificarsi come “chiusura anticipata” del processo per espropriazione.

Le ipotesi qualificate in dottrina come di chiusura anticipata del processo esecutivo (si pensi, per fare un altro esempio, al perimento del bene) sono da tempo ammesse da questa Corte come anticipato sub 2.

Resta logicamente da verificare la legittimità di questa pronuncia di chiusura della procedura in questione. Ciò che costituisce l’oggetto della seconda censura.

  1. Il secondo motivo è infondato.

L’art. 567 c.p.c., comma 2, è stato modificato dapprima dalla L. 3 agosto 1998, n. 302, e poi dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, con l’indicazione dei documenti da produrre e, secondo quanto anticipato, dell’arco temporale di riferimento.

Anche prima dell’introduzione di questo periodo di tempo rilevante, larga parte della giurisprudenza di merito, come del resto della prassi notarile, richiedeva:

– il deposito della documentazione ventennale inerente alle trascrizioni e iscrizioni: questo termine era enucleato in via interpretativa in rapporto alla possibile sussistenza di ipoteche efficaci e al decorso del tempo per usucapire il bene;

– la documentazione dell’atto di acquisto del debitore anteriore al ventennio.

Quest’ultima documentazione si saldava alla precedente e alle medesime finalità, sostanzialmente per le stesse ragioni esposte dalla sentenza di seconde cure oggetto dell’odierno ricorso per cassazione.

Gli studi registravano un risalente contrasto. Da una parte chi osservava come non fosse prevista una verifica officiosa del diritto reale in capo all’esecutato, per la semplice ragione che quella titolarità non poteva ritenersi costituire presupposto dell’attività esecutiva. Dall’altra chi affermava che non era pensabile non offrire una solida affidabilità alla vendita giudiziaria.

4.1. La novellazione normativa ha offerto ulteriori basi per una compiuta ricostruzione ermeneutica.

È dunque un dato positivo quello per cui è necessario depositare, nel termine perentorio stabilito, per quanto qui rileva, i certificati delle iscrizioni e trascrizioni relative all’immobile pignorato effettuate nei venti anni anteriori alla trascrizione del pignoramento.

Devono di conseguenza esaminarsi quali siano il significato e le implicazioni compiuti e coerenti di questa previsione.

Affinché la vendita giudiziaria sia fruttuosa e la relativa istanza possa essere accolta, i beni oggetto dell’espropriazione devono potersi ragionevolmente rilevare come appartenenti al debitore ovvero al terzo nei confronti del quale, eccezionalmente, può essere intrapresa la procedura (Cass. 26/05/2014, n. 11638, pagg. 6-7), come può evincersi dall’art. 2910 c.c., che contempla i poteri espropriativi del creditore in relazione alla responsabilità sussistente in capo al debitore con i suoi beni ex art. 2740 c.c.

Il principio può desumersi anche dalla disciplina del conflitto tra il terzo proprietario e l’aggiudicatario di bene non appartenente all’esecutato. Questo conflitto andrà risolto a favore del terzo proprietario, come dimostra proprio il regime dell’evizione nella vendita forzata (art. 2921 c.c.): il terzo proprietario può rivendicare il bene nei confronti dell’aggiudicatario anche dopo la chiusura del processo esecutivo, senza che possa operare la “sanatoria” prevista dall’art. 2929 c.c.

Quindi:

– il legislatore del processo espropriativo non ha richiesto che in sede esecutiva si desse luogo a un compiuto accertamento della proprietà (ovvero titolarità) dell’esecutato;

– la verifica della titolarità dei beni è formale, per indici documentali, e non sostanziale, essendo autoevidente che l’accertamento giudiziale dell’appartenenza del bene all’esecutato non costituisce presupposto dell’espropriazione forzata in parola, e il decreto di trasferimento a valle non contiene quell’accertamento (Cass., n. 11638 del 2014, cit., pag. 6), dal che la disciplina della possibile evizione su cui si tornerà;

– lo scopo attribuibile alla norma non può quindi essere che quello di garantire, con un grado di ragionevole probabilità, che l’espropriazione sia condotta su beni dell’esecutato, correttamente individuati quanto ai diritti spettanti sui medesimi all’esecutato stesso, e quanto ai relativi pesi, quali tipicamente le ipoteche, su tali beni (ovvero diritti).

Tale certificazione è riferita dalla norma al bene ma, per l’impianto della conservatoria dei registri immobiliari, la ricerca dev’essere effettuata su base personale.

È necessario considerare cioè che, in carenza di prova che l’ultimo atto antecedente al ventennio fosse idoneamente ovvero prioritariamente trascritto a favore dell’esecutato, i certificati delle iscrizioni e trascrizioni contro la sua persona non avrebbero concludenza: le risultanze della sola documentazione prodotta nel senso della mancanza di ipoteche e pignoramenti o sequestri contro l’esecutato non sarebbero idonee ad escludere che sul bene pignorato insistano ipoteche o altri pignoramenti o sequestri formalizzati contro la persona che aveva a sua volta trascritto il proprio acquisto prima dell’esecutato.

Analogamente se, pur essendo l’atto di acquisto anteriore al ventennio idoneamente trascritto a favore dell’esecutato, questi avesse prima del ventennio, in tutto o in parte, disposto del diritto con idonea trascrizione della disposizione anch’essa anteriore al ventennio, si avrebbe che per i certificati relativi al solo ventennio l’esecutato risulterebbe ancora titolare dell’intero diritto pignorato.

All’ultimo acquisto anteriore al ventennio è necessario risalire anche quando la trascrizione a favore dell’esecutato, o, come nella fattispecie in scrutinio, di un suo dante causa, ricada nel ventennio. Ciò, da un lato, per verificare se vi sia continuità delle trascrizioni e dunque, possibilità di presumere operanti – nella limitata prospettiva della ragionevole affidabilità della vendita – le regole in tema di prescrizione acquisitiva in favore dell’esecutato o di quella estintiva in relazione ad eventuali iscrizioni pregiudizievoli; dall’altra, poiché i nomi dei danti causa dell’esecutato sono necessari in quanto è anche contro di essi che occorrerà verificare se siano trascritte formalità pregiudizievoli ovvero iscritte ipoteche.

È del tutto logico, quindi, che anche il riferimento al regime dell’usucapione è da ritenere oggettivamente sotteso in termini meramente indiziari, potendo cioè soltanto presumersi che a ciascun atto di trasferimento corrisponda un idoneo passaggio di possesso.

In altri termini, la menzione legislativa del ventennio è riferibile, in termini sistematici, a:

– la necessità di verificare formalità pregiudizievoli, tenuto conto dei disposti degli artt. 2847, 2668 bis e ter c.c., e degli avvisi ex art. 498 c.p.c.;

– l’opportunità di “doppiare” (o saldarne le risultanze), si ripete, solo ed esclusivamente nella descritta chiave presuntiva, il titolo derivativo di acquisto con quello originario, nei limiti di quanto ragionevolmente suscettibile di pretesa, e documentale verifica, in sede esecutiva.

Il legislatore del 1998-2005 ha specificato altresì la possibilità, per il creditore, di sostituire i certificati con una certificazione notarile. E nel prevedere un termine perentorio per la produzione della documentazione ipotecaria e la conseguenza dell’estinzione dell’esecuzione, per il caso di mancata o insufficiente produzione, ha rimarcato il fatto che la produzione di tale idonea documentazione deve intendersi onere del creditore (cfr. Cass., n. 11638 del 2014, cit., pag. 6).

Il Collegio, pertanto, non condivide l’opinione ai termini della quale, a seguito delle riforme sopra più volte ricordate, la lettera della legge, per come modificata con il richiamo ai certificati delle iscrizioni e trascrizioni effettuate nei venti anni anteriori, sarebbe tale da indurre a ritenere sufficiente la certificazione ventennale, quale mero presupposto processuale di per sé solo idoneo a consentire di mettere in vendita i beni oggetto di pignoramento.

Atteso quanto ricostruito, risalire all’ultimo acquisto, idoneamente trascritto, anteriore al ventennio, a favore dell’esecutato o dei suoi danti causa, è la necessaria premessa per dare un grado di conducente attendibilità alle risultanze infraventennali cui, per sintesi legislativa, si è riferito il legislatore.

L’interpretazione atomistica e al contempo meramente letterale della norma in parola finirebbe per dare a quel significante un significato sostanzialmente irragionevole, riducendolo a un indizio irrazionalmente equivoco.

Per scelta sistematica l’ordinamento:

– conforma l’acquisto a seguito di vendita forzata come acquisto a titolo derivativo e non a titolo originario (art. 2919 c.c.);

– perimetra la tutela dell’aggiudicatario che subisce l’evizione, possibile anche ad opera dell’acquirente a titolo derivativo con trascrizione prioritaria, in modo diverso da quella che ordinariamente assegna al compratore, indicandola con la sola possibilità di “ripetere il prezzo non ancora distribuito, dedotte le spese” ovvero, nel caso in cui il ricavato della vendita sia stato già distribuito, di ripetere da ciascun creditore la parte di prezzo riscossa e dall’esecutato l’eventuale residuo; salva soltanto la possibilità di chiedere i danni e le spese al creditore procedente, se in colpa.

In questa cornice, risulterebbe inoltre irriducibilmente distonico che, nell’evoluzione della normativa inerente alle espropriazioni coattive, mirata a rendere il più affidabile e così appetibile possibile la vendita forzata e quindi il recupero e la stabilità del credito, il legislatore, con la modifica dell’art. 567 c.p.c., abbia invece indebolito lo “standard” di affidabilità e quindi di attrattività del bene trasferito in ottica di mercato, per di più trasferendo ogni rischio sull’acquirente con la sola garanzia per evizione, nonostante la maggior tutela possibile di quegli sia invece il motivo dominante delle riforme susseguitesi almeno dal 2005.

4.1.1. Consegue da quanto sopra che, anche in termini di ragionevolezza logico-ricostruttiva del sistema prescrittivo, sarà necessario acquisire documentazione che consenta di risalire all’atto di acquisto anteriore al ventennio, in estrinsecazione dei consueti poteri ordinatori del giudice dell’esecuzione (su cui v. già Cass. 27/01/2017, n. 2043) in merito alle verifiche preliminari all’accoglimento dell’istanza di vendita, ma non di quelli tipizzati dall’art. 567 c.p.c.; e tanto al fine di rilevare che:

– non vi sono incidenti trascrizioni opponibili contro il soggetto che, chiudendo l’anello sovrastante della catena, risulta aver acquistato il bene poi da lui trasferito, in ipotesi, senza relative trascrizioni contro in catena, fino al soggetto esecutato;

– quali siano, nel periodo di almeno venti anni in parola, le iscrizioni contro gli stessi soggetti via via succedutisi, relativamente al medesimo bene.

Sarà possibile raggiungere la conclusione in parola solo chiudendo la catena con l’individuazione dell’anello iniziale che permetta di offrire un attendibile indizio documentale riferito a un periodo di almeno venti anni, in tal senso dovendo qualificarsi l’esigenza imposta dalla legge.

Ciò non toglie, come logico e come torna a rimarcarsi, che il giudice dell’esecuzione non accerta la proprietà del bene, sicché restano possibili evizioni; ma l’interpretazione prescelta è la sola che consente di limitare per quanto possibile tale rischio, sulla base di indici formali o presuntivi, ma pur sempre di apprezzabile intensità ed affidabilità.

Resta conclusivamente fermo che:

  1. a) solo se il creditore non fornisca, neppure nel termine fissato ex art. 567 c.p.c., comma 3, la certificazione del ventennio letteralmente richiamata, l’estinzione sarà tipica, mentre;
  2. b) la mancata produzione del primo titolo di acquisto ultraventennale cui deve risalire la certificazione, oggetto di richiesta da iscrivere, di conseguenza, nel perimetro degli artt. 484 e 175 c.p.c., imporrà la chiusura anticipata del processo esecutivo, non essendo possibile porre in vendita il bene;
  3. c) il regime del relativo termine fissato per l’acquisizione documentale indicata sub b) sarà quindi quello ordinatorio di cui agli artt. 152 e 154 c.p.c. (Cass., 27/01/2017, n. 2044);
  4. d) il creditore procedente potrà, come logico e in applicazione dei generali principi in tema di rimessione in termini in ipotesi di causa non imputabile, dimostrare l’impossibilità incolpevole della produzione della documentazione sub b), specie nella prospettiva delle ricerche cartacee di cui si sta per dire al p. che segue (si pensi allo smarrimento dei documenti fisici di conservatoria anteriori alla meccanizzazione).

La ricostruzione effettuata sulla base dei dati positivi, letti secondo la loro collocazione sistematica e la loro finalità, assicura, bilanciando gli oneri dei creditori, un idoneo grado di affidabilità della vendita giudiziaria, e un adeguato contenimento, quale ragionevole da pretendere in sede esecutiva, delle possibilità di evizione. Rende inoltre e come necessario prevedibile, da parte del creditore procedente, l’onere cui si va a correlare, se inevaso, la chiusura anticipata della procedura espropriativa. E, trattandosi di chiusura anticipata ascritta a fatto del creditore e non di estinzione processuale, non opererà la previsione di cui all’art. 2945 c.p.c., comma 3, in tema di prescrizione.

4.2. Né si potrebbe dire, tornando alla fattispecie in scrutinio, che non sarebbero state possibili verifiche anteriori al __, posto che quella è la data della meccanizzazione dei dati di conservatoria, ma ciò non impedisce ricerche precedenti, in particolare in via cartacea, o almeno visto che nessuna impossibilità di più accurata e risalente ricerca nemmeno è stata allegata.

Così come non è venuta in gioco, la questione inerente all’accettazione dell’eredità da parte del dante causa dei danti causa dell’esecutato (Cass., n. 11638 del 2014, cit., pagg. 9 e seguenti), posta la trascrizione della vendita del primo ai secondi, integrante accettazione tacita, precedente lo stesso pignoramento.

  1. Deve formularsi quindi il seguente principio di diritto: “In tema di espropriazione forzata immobiliare, è doverosa la richiesta, da parte del giudice dell’esecuzione ai fini della vendita forzata, della certificazione attestante che, in base alle risultanze dei registri immobiliari, il bene pignorato appaia di proprietà del debitore esecutato sulla base di una serie continua di trascrizioni d’idonei atti di acquisto riferibili al periodo che va dalla data di trascrizione del pignoramento fino al primo atto di acquisto precedente al ventennio a decorrere dalla stessa. All’ordinanza di richiesta del primo atto di acquisto ultraventennale effettuata dal giudice dell’esecuzione si applica il regime degli artt. 484, 175, 152 e 154 c.p.c., e alla mancata produzione del suddetto titolo, imputabile al soggetto richiesto, consegue la dichiarazione di chiusura anticipata del processo esecutivo”.
  2. Non vi è da disporre sulle spese in mancanza di difese svolte dagli intimati. Sussistono i presupposti “ratione temporis” per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, a seguito di riconvocazione, il 2 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2019.

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I debiti concordatari possono fondare la dichiarazione di fallimento dell’impresa

I debiti concordatari possono fondare la dichiarazione di fallimento dell’impresa

Corte di Appello di Firenze, Sezione I Civile, Sentenza del 16/05/2019

Con sentenza del 15 maggio 2019, la Corte di Appello di Firenze, Sezione I Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che i debiti concordatari possono fondare la dichiarazione di fallimento dell’impresa della quale sia stato omologato il concordato preventivo solo a seguito della risoluzione del concordato.


 

Corte di Appello di Firenze, Sezione I Civile, Sentenza del 16/05/2019

I debiti concordatari possono fondare la dichiarazione di fallimento dell’impresa

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La CORTE D’APPELLO di FIRENZE

Sez. I – civile – composta da:

Dott. __ – PRESIDENTE relat.

Dott. __ – Consigliere

DOTT. __ – CONSIGLIERE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa di reclamo avverso sentenza dichiarativa di fallimento promossa da

S. S.r.l. in liquidazione – Reclamante

contro

Curatela Fallimento C. S.r.l. in liquidazione in persona del curatore – Resistente

Pubblico Ministero presso il Tribunale di Arezzo

e nei confronti del

Pubblico Ministero – presso la Corte di Appello

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il Tribunale di Arezzo con sentenza n. __ ha dichiarato il fallimento di C. in liquidazione e in concordato preventivo S.r.l., su istanza del pubblico ministero presso il tribunale.

Il tribunale motivava come segue:

la istanza del PM si basava sulle relazioni ex art. 185 L.F. dei commissari giudiziali del __ e del __ dalle quali emergeva la stato di inattuazione del concordato, a cagione della difficoltà di liquidare i beni aziendali per il complessivo valore di Euro __, fatto che non consentiva il reperimento delle risorse per adempiere al concordato nel termine previsto già scaduto in data __, oltre l’aggravarsi delle perdite nel corso degli anni e l’emergenza costante di un patrimonio netto negativo pari al __ ad Euro __. Si evidenziava altresì che le iniziative dei commissari e del liquidatore per l’incasso dei crediti vantati nei confronti del debitore principale non avevano portato a nessun risultato. La convenuta difendendosi aveva sostenuto l’impossibilità di dichiarare il fallimento di una società sottoposta a concordato preventivo prima della risoluzione dello stesso; che la mancata acquisizione delle risorse necessarie dipendeva dal comportamento del liquidatore giudiziale e dei commissari e eccepiva la insussistenza del presupposto dell’inadempimento di C. e la dannosità della dichiarazione di fallimento.

Sulla scorta degli elementi e delle considerazioni espresse, il Tribunale riteneva che una cosa fosse la risoluzione del concordato ed altra la dichiarazione del fallimento e che non consentire il fallimento di una società in concordato versante in stato di insolvenza creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento con gli altri soggetti imprenditoriali in bonis. Ogni effetto protettivo di cui all’articolo 168 L.F. cessava con la definitività del decreto di omologa.

L’inadempimento della proposta concordataria era manifesto, emergente dalla relazione depositata dai commissari giudiziali; le somme incassate avevano permesso la soddisfazione dei crediti in prededuzione e dei primi gradi del privilegio residuando da soddisfare crediti per circa Euro __. Le prospettive di realizzo del residuo attivo pari a __ erano assai modeste, essendosi evidenziato l’inadempimento di un promittente l’acquisto su un diritto immobiliare, l’inadempimento di E. S.r.l., ed essendo il risultato della riscossione dei crediti inferiore alle previsioni. La tempistica era stata del tutto disattesa.

I. in liquidazione S.r.l., lamentando:

1 – il fallimento non poteva essere dichiarato perché non aveva avuto ad oggetto fatti sopravvenuti o la risoluzione o l’annullamento del concordato. L’unico modo per fare valere l’inadempimento all’originaria obbligazione concordataria passava dalla risoluzione.

2 – in ogni caso l’inadempimento era insussistente quale fatto sopravvenuto. Il concordato era con cessione dei beni senza garanzia di pagamento di una determinata percentuale e con messa a disposizione della procedura dei beni aziendali. La obbligazione era stata assolta e nessun inadempimento era imputabile a C. Lo stato di insolvenza era stato rimosso dall’omologa. Lamentava la responsabilità del liquidatore giudiziario il quale da una parte aveva sostenuto spese non previste e mai autorizzate e dall’altra parte aveva ritardato senza giustificazione l’esecuzione del piano. Si faceva riferimento alle spese legali pagate all’Avvocato già professionista della società in bonis lievitate da Euro __ ad Euro __; la rinuncia di fatto ai crediti ancora da riscuotere pari a circa Euro __. Quanto al rapporto con E., essa aveva effettuato pagamenti diretti a favore della procedura e aveva anticipato somme e si era accollata debiti per l’importo di Euro __ che denotava la volontà della società di non sottrarsi agli impegni assunti. Ugualmente non condivisibile il comportamento della liquidazione con il promittente la vendita.

3 – ditettavano i requisiti di titolarità e i presupposti dell’azione da parte del pubblico ministero. L’unica richiesta in assenza di creditori istanti, era stata formulata dal PM il quale però aveva agito al di fuori della previsione di cui all’art. 7 L.F.

Si è costituita la procedura sostenendo la infondatezza dei motivi di reclamo e la legittimità della sentenza impugnata.

All’udienza del __, la causa veniva trattenuta in decisione sulle conclusioni trascritte in epigrafe.

Ritenuto in diritto:

la preliminare e pregiudiziale questione da affrontare concerne la possibilità di dichiarare il fallimento di società ammessa a concordato preventivo, senza la previa declaratoria di risoluzione del concordato stesso ex art. 186 L.F., cui si lega la questione della legittimazione del PM a avanzare istanza di fallimento ex artt. 6 e 7 L.F.

Trattasi della questione definita da dottrina e giurisprudenza come dichiarazione di fallimento omisso medio, sulla quale di recente è intervenuta la S.C. con sentenza 29632/2017 (che richiama la omologa 17703/2017), ritenendo la pronunciabilità del fallimento a prescindere dalla previa risoluzione del concordato preventivo omologato. Il fulcro della decisione riposa sulla asserita diversità tra crediti precedenti alla istaurazione della procedura di concordato e crediti falcidiati alla cui tutela è volta la declaratoria di fallimento cosicché il nuovo fallimento avrà ad oggetto la insolvenza di tali nuove obbligazioni.

Scaduto l’anno e non risolto il concordato, si riapre la valutazione della insolvenza su istanza dei soggetti legittimati (creditori, vecchi, nuovi e PM ). La tesi opposta si fonderebbe sull’erroneo assunto per cui scaduto il termine dell’anno per la pronuncia di risoluzione si avrebbe l’estinzione di ogni debito concordatario, conseguenza priva di supporto normativo. Né miglior sorte la mediana tesi della residualità delle azioni esecutive individuali a tutela del credito non soddisfatto.

La Corte di Appello esprime dissenso rispetto alla soluzione data al caso di specie dalla S.C. e ritiene sulla base della motivazione che segue, la inammissibilità del fallimento della impresa in concordato preventivo laddove non si sia prima pronunciata la risoluzione ex art. 186 L.F.

1 – La previgente disciplina faceva seguire alla dichiarazione di risoluzione l’automatico fallimento (III. Con la sentenza che risolve o annulla il concordato il tribunale dichiara il fallimento.). La norma è stata riformata dall’art. 17 D.Lgs. 12 Settembre 2007, n. 169 ed ha l’attuale seguente formulazione Art. 186 Risoluzione e annullamento del concordato I. Ciascuno dei creditori può richiedere la risoluzione del concordato per inadempimento. II. Il concordato non si può risolvere se l’inadempimento ha scarsa importanza. III. Il ricorso per la risoluzione deve proporsi entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento previsto dal concordato. IV. Le disposizioni che precedono non si applicano quando gli obblighi derivanti dal concordato sono stati assunti da un terzo con liberazione immediata del debitore. V. Si applicano le disposizioni degli articoli 137 e 138, in quanto compatibili, intendendosi sostituito al curatore il commissario giudiziale.

È stata pertanto abrogata la possibilità del fallimento automatico e di ufficio quale naturale conseguenza della dichiarata risoluzione. La relazione illustrativa alla riforma evidenzia la voluta accentuazione della funzione privatistica riconosciuta al concordato preventivo: “Di notevole importanza è la disposizione che, in coerenza con l’accentuata natura privatistica del concordato preventivo, condiziona la risoluzione del concordato alla non scarsa importanza dell’inadempimento. Si chiarisce, infatti, in aderenza ai principi generali, che il concordato preventivo non si può risolvere se l’inadempimento risulta essere di scarsa importanza Si recuperano, in questo modo, tutti i principi sull’importanza dell’inadempimento contrattuale elaborati con riferimento alla norma generale di cui all’art. 1455 c.c.”. Per quanto vale, anche la riforma destinata ad entrare in vigore nel 2020 mantiene inalterata la previsione (art. 119 codice della crisi e della insolvenza) con la sola aggiunta accanto ai creditori quali unici legittimati, del commissario giudiziale “se richiesto da un creditore”. Deve quindi rilevarsi, d’altra parte in linea con la ratio sottesa all’intera riforma del 2006 2007, corretta ma non superata dalla riforma del 2012, la accentuazione della ricostruzione del concordato come patto tra debitore e creditori, patto sul quale il Tribunale esercita certamente uno stringente controllo di legalità, ma senza sostituzione nelle decisioni che attengono alla sfera della valutazione dell’interesse economico del creditore.

La analisi del percorso giurisprudenziale e normativo a fare data dalla riforma del 2006, 2007, evidenzia infatti una marcata attenzione del giudice all’abuso dello strumento concordatario, a fronte di una sua utilizzazione al di fuori della previsione legale cui era sottesa una precisa scelta normativa volta alla rivalutazione del momento privatistico rispetto al controllo statuale. In tale percorso di maggiore esercizio di controllo di legalità pare alla Corte debbano leggersi le pronunce rese dai Giudici del merito e della legittimità sul controllo in fase di ammissibilità sia della proposta che della attestazione e così le pronunce in tema di abuso dello strumento concordatario – Cass. S.U. 9935/2015 -, la valutazione che il Tribunale è chiamato a compiere sulla causa in concreto del concordato che si spinge oltre la fattibilità giuridica ed investe la fattibilità economica laddove emerga un giudizio di inattuabilità della proposta – Cass. civ. Sez. Unite Sent., 23/01/2013, n. 1521; la valutabilità della attestazione – da ultimo Cass. civ. Sez. I Ord., 26/02/2019, n. 5653 ed anche la modifica del 2012 in tema di percentuale del concordato liquidatorio, oltreché i poteri sostitutivi attribuiti al c.g. dalla riforma del 2015 (art. 185, III comma, L.F.).

Si vuole affermare quindi che l’impianto originario della riforma è stato corretto laddove lo strumento privatistico è stato nella pratica distorto a fini fraudolenti rispetto alla tutela del ceto creditorio, ma non è stato disatteso nei suoi principi fondanti che privilegiano l’aspetto contrattuale all’aspetto statuale.

La lettura che si propone dello sviluppo normativo e giurisprudenziale, soccorre nel ritenere che la risoluzione del concordato è l’unica possibilità di reazione creata dall’ordinamento per l’inadempimento alle obbligazioni assunte con quello specifico concordato omologato, rimettendo esclusivamente ai creditori la valutazione sulla richiedibilità o meno della misura e conseguentemente della possibilità o meno di accedere al fallimento in seconda battuta. D’altra parte nessun ulteriore migliore risultato economico deriva ai creditori dalla procedura concorsuale maggiore atteso che eventuali azioni di responsabilità possono bene essere ceduta ai creditori concorsuali (e il Giudice della fase di ammissibilità ha il controllo sulla valutazione di tale voce dell’attivo) , che la sanzione penale assiste anche il concordato e che verosimilmente si assiste ad un impoverimento delle risorse destinate ai creditori attesa la duplicazione delle spese di giustizia.

Si vuole pertanto affermare in dissonanza con quanto ritenuto dalla Corte di Cassazione che invece la eliminazione del fallimento di ufficio quale automatica conseguenza del fallimento, depone (in uno con le altre considerazioni che si sono sviluppate) proprio per la preclusione alla dichiarazione di fallimento senza previa risoluzione.

2 – Per ritenere possibile procedere a fallimento omisso medio, la Cass, del 2017 ricostruisce i debiti concordatari come nuovi debiti. Tale ricostruzione non è condivisibile. Non si condivide la ricostruzione dei debiti falcidiati come nuove obbligazioni rispetto al debito ammesso al concordato e non si ritiene che la insolvenza al patto concordatario sia nuova insolvenza del debitore imprenditore, rispetto alla insolvenza originaria valutata con la omologa del concordato preventivo. La causa del debito è sempre il titolo originario e la falcidia attiene solo alla quantificazione e non entra a fare parte della causa petendi. L’unico istituto che consentirebbe di parlare di nuova obbligazione sarebbe la novazione ai sensi dell’art. 1230 c.c., ma di esso non viene in luce alcun elemento. Ritenere che vi sia un inadempimento aggiunto all’inadempimento originario significa duplicare la valutazione di una medesima incapacità di fare fronte alle medesime obbligazioni, in una fase inoltre in cui l’imprenditore, almeno nel caso di concordato con liquidazione, non ha più tale qualifica. Il fallimento (senza previa risoluzione) a tenore dell’insegnamento della S.C. è possibile solo per nuovi debiti e nuova insolvenza: così Cass. S.U. 9935 / 2015, la quale, nel ricostruire la disciplina del rapporto tra fase prefallimentare e istaurazione della procedura di concordato ha altresì affermato “Sotto il primo profilo assumono rilievo: 1) la parziale coincidenza dei soggetti, quando l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento è assunta dal creditore, che in quanto tale rientra anche tra i soggetti che sono parti sostanziali della procedura di concordato; 2) la coincidenza della causa petendi, rappresentata dallo stato di insolvenza ; 3) la parziale coincidenza del petitum, rappresentato in entrambi i casi dalla regolazione della crisi (sub specie dello stato di insolvenza), ma secondo le diverse regole delle due procedure, con conseguente incompatibilità tra le istanze: la dichiarazione di fallimento presuppone per quanto sopra detto l’esito negativo della procedura di concordato e non consente la presentazione di ulteriori domande di concordato preventivo mentre l’omologazione del concordato rende improcedibili le istanze di fallimento già presentate e rimuove lo stato di insolvenza, rendendo possibile la presentazione di nuove istanze solo per fatti sopravvenuti o per la risoluzione o l’annullamento del concordato”.

I creditori hanno votato a maggioranza il concordato preventivo loro proposto e in tal senso hanno accettato la regolazione della insolvenza; a loro spetta la valutazione sulla qualità dell’adempimento mentre il Tribunale non può compiere una nuova valutazione sulla medesima situazione debitoria, se non quando l’accordo sia stato rimosso.

Inoltre la ricostruzione privilegiata dalla Corte di cassazione nel 2017 e fatta propria dal Tribunale si pone in contrasto con altra norma di legge, laddove ammette la iniziativa del PM per il fallimento della società in concordato. L’art. 7 limita il potere del PM ai casi in essa previsti, tra i quali non si rinviene neppure estensivamente la possibilità di iniziativa per il caso di inadempimento ad obblighi concordatari, che nel caso di specie risultano esclusivamente dalle relazioni dei CC.GG. e non da segnalazione del Giudice e quindi in nulla sono assimilabili alla ipotesi descritta nella norma. Ammettere il PM alla richiesta di fallimento significa alterare il dettato normativo al di fuori della modifica legislativa o del ricorso alla Consulta.

3 – La ipotesi prospettata è foriera di disparità di trattamento tra creditori, disparità che si sono già manifestate. Cass. civ. Sez. I, 17/10/2018, n. 26002 ha così statuito Nel caso in cui al concordato preventivo segua il fallimento e siano scaduti i termini per chiedere la risoluzione del concordato ai sensi dell’art. 186 L.F., i crediti debbono essere ammessi al passivo nella misura falcidiata prevista nel provvedimento di omologazione. I creditori non sono invece tenuti a sopportare gli effetti esdebitatori e definitivi del concordato omologato, a norma della L.F., art. 184, nell’ipotesi in cui il fallimento venga dichiarato omisso medio, quando ancora sia possibile far dichiarare la risoluzione della prima procedura, in quanto l’attuazione del piano è resa impossibile per l’intervento medio tempore di un evento come il fallimento che, sovrapponendosi al concordato, inevitabilmente lo rende irrealizzabile. Cosicché si otterrà una variegata possibilità di trattamento, assolutamente casuale, per i creditori che hanno visto il fallimento dichiarato prima del decorso dell’anno che saranno ammessi al passivo per l’intero, per i creditori di fallimento dichiarato dopo l’anno omisso medio che saranno ammessi per il credito falcidiato e per i creditori del fallimento previa risoluzione che non subiranno più l’effetto esdebitativo proprio per la declaratoria di inadempimento e la reviviscenza della obbligazione originaria. Devono poi richiamarsi gli argomenti che sono stati ben illustrati da parte della giurisprudenza di merito (in particolare Tribunale Pistoia Decr., 20/12/2017). E ciò laddove si sottolinea la illogicità di una minore resistenza al fallimento dell’accordo concordatario omologato, rispetto alla pendenza della domanda di concordato preventivo; la impossibilità di ricostruire l’ammontare del credito falcidiato nei concordati liquidatori, laddove la misura percentuale non è promessa e garantita ma costituisce misura di valutazione della ammissibilità del concordato che si sostanzia nella messa a disposizione dei beni ai creditori, lasciando del tutto indeterminata la misura del credito falcidiato; la specialità della norma di cui all’art. 186 rispetto alla norma di cui all’art. 6; la asimmetria che si verrebbe a creare con la disciplina dettata in materia di concordato fallimentare ex art. 137 L.F.

Si deve poi sottolineare che la ricostruzione sposata dalla Corte sancisce la possibilità di dichiarare il fallimento di una società in concordato a prescindere dalla valutazione di un grave inadempimento del patto contratto coi creditori ed altresì della possibilità riconosciuta al C.G. di riparare, previo conferimento dei relativi poteri, al detto inadempimento. Tutto ciò si risolve in una soppressione della norma di legge, in dispregio del favore per il concordato, e in ogni caso in una sostanziale irrilevanza della sua applicazione.

La Corte ritiene quindi che non sia possibile dichiarare il fallimento prima e a di fuori della dichiarazione di risoluzione dello stesso ai sensi dell’art. 186 L.F.

In particolare non si ritiene neppure che possa costituire precedente vincolante la decisione della Corte Cost. n. 106 del 2004, pronuncia di rigetto e resa nel vigore della normativa previgente alla riforma 2006/2007, che non contiene principi che possano essere ritenuti cogenti (“…La tesi, pertanto, secondo la quale l’assenza della risoluzione del concordato impedirebbe non soltanto tale dichiarazione di fallimento in consecuzione”), ma anche una autonoma dichiarazione di fallimento – la quale, ferma l’obbligatorietà del concordato per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura, prende data ad ogni effetto dalla dichiarazione stessa – non è affatto imposta dalla legge (e, tanto meno, dal diritto vivente), bensì è frutto di una interpretazione che privilegia un – rispettabile ma opinabile – profilo sistematico, secondo il quale il concordato (se non risolto o annullato) cancellerebbe definitivamente quella insolvenza in ragione della quale fu ammesso e omologato e, pertanto, impedirebbe di attribuire successivamente rilevanza, ai fini di cui all’art. 5 del R.D. n. 267 del 1942, ai debiti esistenti al momento dell’apertura della procedura.” ), consegue che il fallimento dichiarato dal Tribunale di Arezzo deve essere revocato, senza necessità di esame degli ulteriori motivi di reclamo che restano assorbiti nella decisione pregiudiziale.

Le spese di causa attesa la novità della questione, devono essere compensate.

P.Q.M.

La Corte di Appello, definitivamente pronunziando, ogni diversa domanda, eccezione o difesa disattese, accoglie il reclamo ex art. 18 L.F., come in atti proposto avverso la sentenza del Tribunale di Arezzo n. __ e per l’effetto revoca il fallimento di S. S.r.l. in liquidazione in c.p.

Compensa tra le parti le spese di causa.

Così deciso in Firenze, nella camera di consiglio del 29 marzo 2019.

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2019.

Corte_Appello_Firenze_Sez_I_16_05_2019

 

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L’imprenditore che proponga ricorso per autofallimento può vedere accolto il ricorso, e dichiarato il fallimento, in quanto sia un imprenditore fallibile e versi in stato di insolvenza

L’imprenditore che proponga ricorso per autofallimento può vedere accolto il ricorso, e dichiarato il fallimento, in quanto sia un imprenditore fallibile e versi in stato di insolvenza

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 16117 del 14/06/2019

Con sentenza del 14 giugno 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, ha stabilito che l’imprenditore che proponga ricorso per autofallimento può vedere accolto il ricorso, e dichiarato il fallimento, in quanto sia un imprenditore fallibile e versi in stato di insolvenza: la dichiarazione di fallimento richiede anche in tal caso, e con tutta evidenza la sussistenza dei presupposti fissati in via generale agli artt. 1 e 5, legge fallimentare (R.D. n. 267 del 1942). Ciò che distingue il ricorso per dichiarazione di fallimento da quello volto all’autofallimento non è dunque la latitudine dei presupposti, che sono gli stessi in entrambi i casi, bensì il riparto degli oneri probatori, che, in caso di autofallimento, si atteggiano diversamente dall’ipotesi consueta di fallimento richiesto dal creditore. In sede di ricorso per autofallimento, deve essere l’imprenditore a provare la sussistenza dello stato di insolvenza, in ossequio alle regole generali ed altresì in conformità allo scopo di evitare il possibile abuso nell’accesso alla procedura fallimentare, nella misura in cui si presenta, dall’angolo visuale dello stesso imprenditore, anche come strumento di soluzione della crisi d’impresa.


 

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 16117 del 14/06/2019

L’imprenditore che proponga ricorso per autofallimento può vedere accolto il ricorso, e dichiarato il fallimento, in quanto sia un imprenditore fallibile e versi in stato di insolvenza

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

F. – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – intimato –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ da __;

udito l’Avvocato __;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale __.

Svolgimento del processo

  1. – Con sentenza del __ la Corte d’appello di Campobasso ha respinto il reclamo proposto da G. e P., nei confronti di D. nonché del Fallimento (OMISSIS) S.r.l., contro la sentenza del __ con cui il locale Tribunale aveva dichiarato il fallimento della società.

Ha in particolare ritenuto la Corte territoriale, disattendendo le censure in proposito spiegate dai reclamanti:

– che non occorresse, per la proposizione del ricorso per autofallimento, il rilascio della procura alle liti;

– che il presidente del collegio sindacale in prorogatio, D., fosse legittimato ad instare per la dichiarazione di fallimento, in quanto a ciò espressamente autorizzato dall’assemblea dei soci;

– che non poteva discorrersi di una rinuncia per fatti concludenti al ricorso per autofallimento, giacché tale rinuncia avrebbe richiesto una deliberazione in tal senso dell’organo assembleare;

– che, alla luce del bilancio 2016, desunto dal successivo bilancio pur non approvato 2017, neppure essendo stati approvati bilanci successivi, risultavano sussistenti i presupposti per la dichiarazione di fallimento, sia quanto ai requisiti di fallibilità, sia quanto allo stato di insolvenza, visto che la società versava in una situazione di squilibrio finanziario.

  1. – Per la cassazione della sentenza G. ha proposto ricorso per quattro mezzi.

Gli intimati non hanno spiegato difese.

Il Procuratore Generale ha concluso per il parziale accoglimento del quarto motivo del ricorso, nel resto rigettato.

Motivi della decisione

  1. – Il ricorso contiene quattro motivi.

Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 82 c.p.c. nonché dell’art. 6 della legge fallimentare, censurando la sentenza impugnata per aver escluso che il presidente del collegio sindacale della società dichiarata fallita dovesse munirsi, ai fini della proposizione del ricorso per autofallimento, della difesa tecnica.

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 6, censurando la sentenza impugnata laddove aveva ritenuto il presidente del collegio sindacale legittimato ad instare per la dichiarazione di fallimento della società, non avvedendosi che la relativa deliberazione assembleare era stata adottata in difetto assoluto di informazione dei soci non presenti e che quelli presenti non avevano nominato il presidente del collegio sindacale procuratore speciale, ma si erano limitati a dargli un generico mandato a compiere gli atti necessari per l’istanza di fallimento, istanza che, ai sensi dell’art. 24 dello statuto sociale, poteva provenire esclusivamente dal legale rappresentante della società.

Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. Fall., artt. 1, 6 e 14, sostenendo che la Corte d’appello non si sarebbe avveduta che il ricorso per dichiarazione di fallimento era stato rinunciato, tanto più che non era stata effettuata la produzione della documentazione richiesta ai fini della dichiarazione di fallimento.

Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. Fall., artt. 1, 5 e 14, censurando la sentenza impugnata laddove aveva ritenuto la presenza dei requisiti dimensionali dettati dall’art. 1 della legge, dal momento che, essendo la società inattiva almeno dal __, non era possibile che negli ultimi tre esercizi antecedenti la domanda di fallimento avesse avuto un attivo patrimoniale superiore a Euro __ e ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo superiore a Euro __, tanto più che l’assenza di domande di fallimento dal __ dimostrava sia l’insussistenza di poste debitorie, sia l’insussistenza dello stato di insolvenza; in ogni caso la decisione della Corte d’appello non poteva essere fondata sul bilancio chiuso al __, neppure allegato alla domanda di fallimento; e, ancora, lo stato di insolvenza andava scrutinato non già secondo i parametri adottati dal giudice di merito, ma tenuto conto dello stato di liquidazione della società.

  1. – Il ricorso va accolto nei limiti che seguono.

2.1. – Il primo motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1.

La questione proposta con tale censura, infatti, è stata già scrutinata da questa Corte, la quale ha avuto modo di affermare il principio, che non v’è ragione di rimeditare, secondo cui il debitore può assumere l’iniziativa per la dichiarazione del proprio fallimento senza ricorrere al ministero di un difensore, se e fino a quando la sua istanza non confligga con l’intervento avanti al Tribunale di altri soggetti, portatori dell’interesse ad escludere la dichiarazione di fallimento, ciò implicando lo svolgimento di un contraddittorio qualificato (Cass. 18 agosto 2017, n. 20187), restando soltanto da aggiungere, con riguardo al caso di specie, che il ricorrente non ha neppur dedotto l’insorgenza di un contraddittorio qualificato.

2.2. – Anche il secondo motivo è inammissibile.

In particolare, esso è inammissibile laddove volto a lamentare l’errore commesso dalla Corte d’appello nell’omettere di considerare: a) che la delibera con la quale era stato conferito al presidente del collegio sindacale l’incarico di richiedere il fallimento della società era stata adottata in difetto assoluto di informazione dei soci non presenti; b) che, ai sensi dell’art. 24 dello statuto sociale, il ricorso per autofallimento poteva provenire esclusivamente dal legale rappresentante della società.

Siffatte circostanze, difatti, non sono in alcun modo menzionate nella sentenza impugnata e, per vero, neppure nell’espositiva del ricorso per cassazione, ove non si dà affatto conto né della prospettazione della questione concernente l’esorbitanza della delibera rispetto all’oggetto previamente comunicato, né dell’allegazione dell’impedimento alla proposizione del ricorso per autofallimento da parte di soggetti diversi dal legale rappresentante della società.

Sicché trova applicazione il principio secondo cui, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675).

Il motivo è parimenti inammissibile laddove diretto a sostenere che l’assemblea della società non avrebbe conferito al presidente del collegio sindacale alcuna procura speciale a proporre il ricorso per autofallimento, ma si sarebbe limitata a dargli un generico mandato a compiere gli atti necessari per l’istanza di fallimento.

Ed infatti la Corte d’appello ha affermato che il presidente del collegio sindacale era stato espressamente autorizzato dall’assemblea dei soci al deposito del ricorso per dichiarazione di fallimento, il che trova perfetta conferma nella stessa trascrizione del verbale assembleare contenuto a pagina 10 del ricorso ove si legge: “Il Presidente… ritiene che l’unica soluzione per superare la fase di stallo… è quella di presentare istanza di fallimento al Tribunale competente. I soci presenti sentita la proposta del Presidente all’unanimità approvano danno mandato lo stesso Presidente di procedere agli atti conseguenti”. Sicché non è dato comprendere in che cosa tale mandato sarebbe generico e perché avrebbe precluso all’incaricato di proporre la domanda di autofallimento.

2.3. – Il terzo motivo è inammissibile giacché non attacca la ratio decidendi posta dalla Corte d’appello a fondamento della decisione.

Il giudice di merito ha difatti ritenuto che, una volta deliberata dall’assemblea la proposizione del ricorso per autofallimento, sarebbe occorsa una manifestazione di volontà di segno contrario la parte della stessa assemblea.

A fronte di ciò il ricorrente sostiene che tale motivazione sarebbe “manifestamente illogica in quando confonde la decisione assunta dalla società di presentare istanza di fallimento (attraverso la delibera assembleare) con la condotta processuale mantenuta dalla stessa società che l’ha rinunciata tacitamente non avendola coltivata”: ma tale argomentare non scalfisce affatto la motivazione addotta dalla Corte territoriale, giacché non spiega in qual modo il comportamento tacito della società (non si sa peraltro in qual modo attuato, essendo essa rimasta semplicemente silente) potrebbe mai aver integrato una manifestazione di volontà di segno contrario rispetto a quella risultante dalla deliberazione adottata, né come il presidente del collegio sindacale, incaricato di presentare il ricorso per autofallimento, potesse disattendere la volontà della società che tale incarico aveva conferito.

2.4. – Il quarto motivo, con cui lamenta sia che la Corte d’appello abbia fondato il proprio giudizio in ordine alla sussistenza dei requisiti dimensionali di fallibilità su un risalente bilancio, sia che il giudice di merito abbia apprezzato la sussistenza dello stato di insolvenza in base a criteri non pertinenti alla situazione di liquidazione, è fondato per quanto di ragione.

2.4.1. – Quanto al primo aspetto, non può revocarsi in dubbio, anzitutto, che l’imprenditore il quale proponga ricorso per autofallimento in tanto possa vedere accolto il ricorso, e dichiarato il fallimento, in quanto sia un imprenditore fallibile e versi in stato di insolvenza: la dichiarazione di fallimento, cioè, richiede anche in tal caso, e con tutta evidenza, la sussistenza dei presupposti fissati in via generale dalla L. Fall., artt. 1 e 5.

Ciò che distingue il ricorso per dichiarazione di fallimento da quello volto all’autofallimento non è dunque la latitudine dei presupposti, che sono i medesimi in entrambi i casi, bensì il riparto degli oneri probatori, che, in caso di autofallimento, si atteggiano diversamente dall’ipotesi consueta di fallimento richiesto dal creditore.

In particolare, sull’autofallimento il legislatore si sofferma alla L. Fall., art. 14, stabilendo, sotto la rubrica: “Obbligo dell’imprenditore che chiede il proprio fallimento”, che: “L’imprenditore che chiede il proprio fallimento deve depositare presso la cancelleria del Tribunale le scritture contabili e fiscali obbligatorie concernenti i tre esercizi precedenti ovvero l’intera esistenza dell’impresa, se questa ha avuto una minore durata. Deve inoltre depositare uno stato particolareggiato ed estimativo delle sue attività, l’elenco nominativo dei creditori e l’indicazione dei rispettivi crediti, l’indicazione dei ricavi lordi per ciascuno degli ultimi tre esercizi, l’elenco nominativo di coloro che vantano diritti reali e personali su cose in suo possesso e l’indicazione delle cose stesse e del titolo da cui sorge il diritto”.

La norma si esprime quindi in termini di obbligo di effettuazione di determinate produzioni documentali, sia, espressamente, nella rubrica, che nel testo della disposizione (“… deve depositare… Deve inoltre depositare…”): il che potrebbe far supporre che essa sottoponga il ricorso per autofallimento ad uno speciale requisito di procedibilità. Ritiene tuttavia il Collegio, anche per ragioni di simmetria con la disciplina del riparto dell’onere probatorio in caso di fallimento richiesto dal creditore, che non di obbligo si tratti, bensì di onere: nel senso che il mancato deposito della documentazione prevista può assumere rilievo per i fini della mancata dimostrazione della sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, con conseguente rigetto del ricorso per autofallimento.

In tale prospettiva, è senz’altro da ritenere che, in sede di ricorso per autofallimento, debba essere l’imprenditore a provare la sussistenza dello stato di insolvenza, in ossequio alle regole generali ed altresì in conformità allo scopo di evitare il possibile abuso nell’accesso alla procedura fallimentare, nella misura in cui essa si presenta, dall’angolo visuale dello stesso imprenditore, anche come strumento di soluzione della crisi d’impresa. Di guisa che il Tribunale rigetterà senz’altro il ricorso ove lo stato di insolvenza non risulti comprovato.

Ma è parimenti da ritenere gravante sull’imprenditore, onerato della prova del fatto costitutivo della domanda di autofallimento, la dimostrazione, nel quadro di applicazione del citato art. 14, della sussistenza di almeno uno dei requisiti dimensionali normativamente considerati ai fini della fallibilità. Occorre cioè rilevare, nella materia, che gli artt. 1 e 14 mostrano una formulazione simmetrica, nel senso che nell’un caso, quello del fallimento richiesto da un creditore, è l’imprenditore a dover provare l’inesistenza congiunta di tutti i presupposti dimensionali della fallibilità; nell’altro caso egli deve al contrario provare l’esistenza di almeno uno dei presupposti per la fallibilità. Il che è del resto ovvio, giacché nel primo caso l’imprenditore resiste alla domanda di fallimento, nell’altro caso agisce per ottenere la dichiarazione di fallimento.

In tale prospettiva va richiamata la decisione della Corte costituzionale che, nel dichiarare l’inammissibilità della questione di costituzionalità della L. Fall., art. 1, comma 2, ha disatteso l’argomento, riferito al caso dell’istanza di autofallimento, “volto a sostenere che, essendo lui stesso istante ed avendo, pertanto, in ipotesi un interesse alla dichiarazione di fallimento, potrebbe, artatamente, sottrarsi all’onere di dimostrare la sua non assoggettabilità al fallimento, conseguendo, in tal modo, la dichiarazione di fallimento anche là dove ne sarebbero mancati i presupposti soggettivi”. In proposito, il Giudice delle leggi ha osservato che “per privare di significato il pur suggestivo rilievo, basti osservare che la L. Fall., art. 14 prevede, a carico del debitore che chieda il proprio fallimento, degli adempimenti istruttori – significativamente qualificati in sede normativa alla stregua di obblighi e non di oneri – tali da rimuovere le preoccupazioni paventate dal tribunale rimettente” (Corte Cost. 24 giugno 2009, n. 198).

È in definitiva da ritenere che l’omesso deposito della documentazione di cui alla L. Fall., art. 14 operi in senso inverso rispetto all’art. 1 della stessa legge, e che, dunque, tale omissione comporti la mancata dimostrazione della ricorrenza dei requisiti dimensionali di fallibilità, rimanendo in potere del giudice di attivare, nei limiti in cui il codice di rito lo consente, i propri poteri officiosi.

Ora, è vero che, ai fini della prova della sussistenza dei requisiti di non fallibilità, sono ammissibili strumenti probatori alternativi al deposito dei bilanci degli ultimi tre esercizi di cui alla L. Fall., art. 15, comma 4, (Cass. 26 novembre 2018, n. 30541); ma è altrettanto vero che gli eventuali strumenti probatori alternativi devono avere ineluttabilmente riferimento, con riguardo ai requisiti dimensionali, al medesimo periodo cui si riferisce la L. Fall., art. 1: in caso contrario lo stesso scrutinio di detti requisiti ne rimarrebbe stravolto.

Sicché, nel caso in esame, la Corte d’appello è incorsa in errore nell’osservare, puramente e semplicemente, che le immobilizzazioni, nel __, ammontavano a Euro __, giacché ciò non implicava affatto la sussistenza dei requisiti dimensionali in discorso, che andavano invece scrutinati in riferimento all’arco temporale di cui si è detto.

2.4.2. – Con riguardo al secondo aspetto, il motivo è assorbito, dovendosi peraltro osservare che altro è la società in liquidazione -riguardo alla quale la valutazione del giudice, ai fini dell’applicazione della L. Fall., art. 5, deve essere diretta unitamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali: p. es. Cass. 3 agosto 2017, n. 19414 – altro la società semplicemente inattiva.

  1. – La sentenza impugnata è cassata in relazione al motivo accolto e rinviata alla Corte d’appello di Campobasso in diversa composizione, che si atterrà a quanto dianzi indicato e provvederà anche sulle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

dichiara inammissibili i primi tre motivi ed accoglie il quarto per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese alla Corte d’appello di Campobasso in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della prima sezione civile, il 8 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2019

 

Cass_civ_Sez_I_14_06_2019_n_16117




Lo stato d’insolvenza dell’imprenditore commerciale, quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, si realizza in presenza di una situazione d’impotenza strutturale

Lo stato d’insolvenza dell’imprenditore commerciale, quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, si realizza in presenza di una situazione d’impotenza strutturale

Corte di Cassazione Civile, Sezione VI, Sottosezione 1, Ordinanza n. 15572 del 10/06/2019

Con ordinanza del 10 giugno 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione VI, Sottosezione 1, in tema di recupero crediti, ha stabilito che lo stato d’insolvenza dell’imprenditore commerciale, quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, si realizza in presenza di una situazione d’impotenza strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività.


 

Corte di Cassazione Civile, Sezione VI, Sottosezione 1, Ordinanza n. 15572 del 10/06/2019

Lo stato d’insolvenza dell’imprenditore commerciale, quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, si realizza in presenza di una situazione d’impotenza strutturale

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __proposto da:

F. S.r.l. – ricorrente –

contro

B. S.p.A. – controricorrente –

contro

Curatela del fallimento della (OMISSIS) S.r.l. – intimata –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del __ dal Consigliere relatore Dott. __.

Svolgimento del processo

CHE:

Con sentenza depositata il __ il Tribunale di Salerno, accogliendo il ricorso proposto da B. S.p.A., dichiarò il fallimento della (OMISSIS) s.r.l. con sentenza impugnata da quest’ultima con reclamo; nel relativo procedimento rimase contumace la curatela fallimentare, mentre si costituì il creditore procedente.

Con sentenza del __, la Corte d’appello di Salerno rigettò il reclamo, osservando che: la società debitrice non aveva contestato il credito fatto valere da B. S.p.A., facendo un generico riferimento alla ultima crisi economica e al carattere stagionale della sua attività, evidenziando altresì le sue capacità di ripresa e rimarcando il fatto che la banca non avesse intrapreso azioni esecutive prima del ricorso per fallimento; non era emersa alcuna mala fede del creditore istante per la sola pendenza di una trattativa conclusasi con la riduzione del debito da pagare; lo stato d’insolvenza era desumibile sia dal mancato pagamento del debito della banca, in misura ridotta rispetto a quella originariamente dovuta, sia dalla condotta della società che aveva dismesso il suo patrimonio rendendo vane le azioni esecutive dei creditori; non erano state dimostrate le ragioni giustificatrici dell’inattività sociale.

Ricorre in cassazione la (OMISSIS) s.r.l. formulando un unico motivo.

Resiste B. S.p.A. con controricorso.

Non si è costituita la curatela fallimentare della (OMISSIS) s.r.l.

Il Consigliere delegato ha formulato la proposta ex art. 380 bis c.p.c.

Motivi della decisione

CHE:

Con l’unico motivo di ricorso è denunziata violazione e falsa applicazione degli artt. 5 e 7 L. Fall., nonché degli artt. 2727 e 2729 c.c., in ordine all’insussistenza dello stato d’insolvenza. Al riguardo, il ricorrente si duole del fatto che l’inadempimento di un’unica obbligazione non costituiva elemento univoco di giudizio per valutare l’insolvenza.

Il ricorso è infondato.

La Corte d’appello, nel confermare la pronuncia del Tribunale, ha scrutinato la sussistenza dello stato d’insolvenza argomentando sia dal mancato pagamento del credito fatto valere da B. S.p.A., sia dalla dismissione del patrimonio della stessa società debitrice, con conseguente rilevante eccedenza del passivo sull’attivo, in conformità del consolidato orientamento di questa Corte (v. Cass., n. 29913/18; n. 26217/05)- cui il collegio intende dare continuità- secondo cui lo stato d’insolvenza dell’imprenditore commerciale quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, si realizza in presenza di una situazione d’impotenza strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida nella somma di euro __ di cui Euro __ per esborsi, oltre alla maggiorazione del 15% quale rimborso forfettario delle spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi de D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 5 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2019

 

Cass_civ_Sez_VI_1_Ord_10_06_2019_n_15572




Omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti: il sindacato del tribunale comporta una verifica di legalità sostanziale compresa quella circa l’effettiva esistenza della garanzia del pagamento integrale dei creditori estranei all’accordo

Omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti: il sindacato del tribunale comporta una verifica di legalità sostanziale compresa quella circa l’effettiva esistenza della garanzia del pagamento integrale dei creditori estranei all’accordo

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 12064 del 08/05/2019

Con ordinanza del 13 maggio 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione VI – Lavoro, in tema di recupero crediti, ha stabilito che in sede di omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, il sindacato del tribunale non è limitato ad un controllo formale della documentazione richiesta, ma comporta anche una verifica di legalità sostanziale compresa quella circa l’effettiva esistenza, in termini di plausibilità e ragionevolezza, della garanzia del pagamento integrale dei creditori estranei all’accordo nei tempi previsti per legge.

 


 

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 12064 del 08/05/2019

Omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti: il sindacato del tribunale comporta una verifica di legalità sostanziale compresa quella circa l’effettiva esistenza della garanzia del pagamento integrale dei creditori estranei all’accordo

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

C. S.r.l. – ricorrente –

contro

A. – controricorrente – contro

E. S.p.a. – controricorrente – contro

I. – controricorrente – contro

Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Salerno, Pubblico Ministero presso il Tribunale di Salerno – intimati –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositato il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal cons. Dott. __;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo, il rigetto del settimo motivo, assorbimento del resto;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato __ che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito, per il controricorrente I., l’Avvocato __ che ha chiesto il rigetto.

Svolgimento del processo

  1. S.r.l. ha proposto ricorso per cassazione, in otto motivi, contro il decreto della corte d’appello di Salerno, depositato il __ e non notificato, col quale era stato rigettato il suo reclamo avverso il diniego di omologazione di un accordo di ristrutturazione formulato, ai sensi della L. Fall., art. 182-bis, in base a due transazioni, una fiscale (con A.), l’altra previdenziale (con I.).

Il decreto della corte d’appello è stato motivato sotto i profili attinenti: (i) al non avvenuto rispetto degli adempimenti pubblicitari previsti dalla norma; (ii) al mancato impegno dell’istante a pagare i creditori non aderenti entro il termine di legge; (iii) all’inattendibilità della relazione dell’esperto in quanto anteriore alla conclusione dell’accordo; (iv) alla carenza del ricorso della società per mancanza di un elenco nominativo dei creditori e dei titolari di diritti reali sui beni posseduti; (v) all’omessa considerazione delle posizioni dei soci, creditori postergati; (vi) all’inattitudine in ogni caso della relazione dell’esperto, considerato che la veridicità dei dati aziendali era stata attestata esclusivamente in base a documentazione contabile offerta in visione dalla società, e considerato che il soddisfacimento dei creditori estranei all’accordo era stato ancorato a un dato non rassicurante, quale la riscossione – dai tempi del tutto incerti – di un credito della società nei confronti di AS.

Hanno replicato con controricorsi A., E. S.p.A. e I.

Motivi della decisione

I. – La ricorrente censura la decisione della corte d’appello di Salerno formulando, nell’ordine, i seguenti motivi:

(i) violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 182-bis nella parte in cui è stato ritenuto che la società non avesse rispettato gli adempimenti previsti dalla norma quanto all’onere di pubblicazione nel registro delle imprese anche della relazione dell’esperto, oltre che dell’accordo;

(ii) nullità della sentenza (rectius del decreto) per violazione degli artt. 112 e 739 c.p.c. e L. Fall., art. 183 per avere la corte d’appello pronunciato su un fatto (l’impegno della società a pagare i creditori non aderenti) già positivamente accertato dal tribunale e non oggetto di censura;

(iii) violazione e falsa applicazione della L. Fall., artt. 182-bis, e omesso esame di fatto decisivo, nella parte in cui il decreto ha ritenuto che il ricorso e la relazione dell’esperto non avessero specificato che il pagamento dei creditori non aderenti sarebbe avvenuto entro centoventi giorni dall’omologazione, quando invece il requisito dell’integrale pagamento dei creditori non aderenti nel termine massimo suddetto ben poteva ritenersi soddisfatto col riferimento al termine contenuto nella relazione, nel ricorso e nei documenti allegati;

(iv) violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 182-bis, e omesso esame di fatto decisivo, nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto la relazione non conforme al dettato normativo in quanto anteriore al perfezionamento dell’accordo, mentre tale fatto si doveva considerare ininfluente dinanzi ai dati della relazione comunque infine conformi a quelli contenuti nell’accordo;

(v) nullità della sentenza (rectius del decreto) per violazione degli artt. 112 e 793 c.p.c. e L. Fall., art. 183 nella parte in cui il ricorso per omologazione è stato ritenuto carente per l’asserita mancanza dell’elenco nominativo dei creditori e di quello dei titolari di diritti reali sui beni di proprietà (o nel possesso) della ricorrente, mentre tale circostanza era stata positivamente accertata dal tribunale e non era stata oggetto di censura;

(vi) violazione e falsa applicazione della L. Fall., artt. 182-bis e 182-ter, nonché nullità del decreto per motivazione solo parvente (artt. 156 e 132 c.p.c.), nella parte in cui è stata ritenuta necessaria, negli accordi di ristrutturazione, l’assicurazione della par condicio tra creditori appartenenti a classi omogenee, anche a fronte di transazioni fiscali e previdenziali comportanti la naturale decurtazione del relativo credito;

(vii) violazione della L. Fall., art. 182-bis nella parte in cui la corte d’appello ha scrutinato nel merito la relazione attestativa travalicando i limiti del sindacato riconosciuto al giudice in sede di omologazione, mediante una valutazione di fattibilità economica;

(viii) violazione o falsa applicazione della L. Fall., artt. 182-bis, artt. 2467 e 1343 c.c. per avere la corte territoriale negato l’omologazione dell’accordo sul presupposto che la debitrice non avesse specificato il pagamento dei crediti postergati come gradato rispetto ai chirografari estranei all’accordo, a fronte invece della sufficienza della previsione del pagamento regolare, e nel termine previsto dalla legge, di tutti i creditori estranei.

II – Allo scrutinio dei motivi di ricorso è bene far precedere la considerazione che segue.

Il giudice del merito ha accertato che l’accordo era stato concretizzato da due transazioni, la prima fiscale, la seconda previdenziale, donde ha ritenuto che, al di là dello specifico oggetto degli atti in questione, essi dovevano esser qualificati, tenuto conto del concreto contenuto, giustappunto come accordi di ristrutturazione. Ha messo in evidenza che, però, era mancato il contestuale deposito dell’accordo e della relazione dell’esperto al registro delle imprese, e che oggetto di pubblicazione erano stati solo i due contratti di transazione fiscale e transazione previdenziale stipulati, rispettivamente, con A. E I.

Tale rilievo, immediatamente conseguito all’altro per cui la normativa in materia non impone che la pubblicazione dell’accordo, e non anche del ricorso per omologazione e degli allegati, postula un’evidente contraddizione, giustamente criticata dal primo motivo di ricorso.

Tuttavia nella corrispondente parte la motivazione del decreto va semplicemente corretta, poiché, per le ragioni che seguono, la pur fondata critica di parte ricorrente su questo punto non legittima la pronuncia di cassazione.

III. – la L. Fall., art. 182-bis prevede che l’imprenditore in stato di crisi possa domandare, depositando la documentazione di cui all’art. 161, l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti stipulato con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti, unitamente a una relazione redatta da un professionista (designato dal debitore, in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, comma 3, lett. d) sulla veridicità dei dati aziendali e sull’attuabilità dell’accordo stesso, con particolare riferimento alla sua idoneità ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei nel rispetto dei previsti termini (centoventi giorni dall’omologazione, in caso di crediti già scaduti a quella data; centoventi giorni dalla scadenza, in caso di crediti non ancora scaduti alla data dell’omologazione).

L’accordo deve essere pubblicato nel registro delle imprese e acquista efficacia dal giorno della sua pubblicazione.

Oggetto della prevista pubblicità è dunque, in base alla L. Fall., art. 182-bis, l’accordo, non la relazione o gli allegati; e tale accordo la corte d’appello ha nella specie previamente ritenuto integrato, nel contenuto concreto, proprio dagli atti transattivi in questione.

Ne consegue che nel contesto di simile accertamento è errata giuridicamente l’affermazione di necessaria pubblicazione al registro delle imprese della relazione, oltre che dell’accordo così individuato.

IV – Tuttavia deve anche osservarsi che la corte d’appello ha ritenuto – come del resto già il tribunale – che la richiesta di omologazione dell’accordo era generica e indeterminata nel contenuto, poiché non aveva individuato con precisione l’accordo da omologare. Difatti, sebbene vi fosse stato in ciascuno dei menzionati atti transattivi l’espresso richiamo della debitrice alla volontà di addivenire a un accordo di ristrutturazione dei debiti con almeno il sessanta per cento dei creditori, così che i creditori aderenti avevano avuto da ciò (e dalla relazione dell’esperto) informazioni sufficienti sulla vicenda unitaria in cui si inserivano (o si sarebbero dovuti inserire) i contratti de quibus, vi era che infine non era stato allegato (al ricorso) uno specifico atto qualificabile come accordo di ristrutturazione dei debiti” che si fosse presentato come distinto e autonomo rispetto ai contratti di transazione. Né era stato specificato un qualche riferimento ai creditori non aderenti, salvo che in via incidentale, nell’ambito di un passaggio riservato agli adempimenti formali assolti dalla società in funzione di accesso all’omologazione.

Da questo punto di vista non v’era traccia, in particolare, dell’impegno a pagare i creditori estranei nei termini di legge, né della postergazione del credito vantato dal socio finanziatore; e tanto non risultava neppure dalla relazione del professionista, che si era limitata ad attestare – oltre tutto in via anticipata rispetto alla formazione dei due contratti – la idoneità della proposta, se accettata, ad assicurare il regolare pagamento dei creditori con i quali erano in corso trattative, senza espressa menzione dei termini imposti per il pagamento, né della distinzione tra crediti scaduti o a termine.

In tal guisa la corte d’appello, a prescindere dal profilo formale della pubblicazione al registro delle imprese, ha dunque ritenuto che sia la domanda di omologazione, sia la relazione del professionista non fossero in linea col dettato normativo, in quanto difettavano dell’indicazione, l’una, e dell’attestazione, l’altra, del rispetto dei termini imposti dalla L. Fall., art. 182-bis, comma 1 per il pagamento integrale dei creditori non aderenti e difetta(va)no altresì della precisazione se trattavasi di crediti scaduti o a termine.

V – Ora tali argomentazioni sono censurate dalla ricorrente nei motivi da uno a tre e in parte nel quinto. Ma infondatamente visto che, al di là di talune incongruenze lessicali, non appaiono esattamente colte le specificità di quelle argomentazioni.

VI – La corte d’appello, difatti, al netto di altri non certamente perspicui passaggi, ha censurato il contenuto del ricorso e del corredo documentale con specifico riferimento alle riscontrate carenze dell’attestazione, oltre che dell’accordo. E la motivazione implica in tal senso una valutazione in fatto.

Rispetto a tale valutazione è inconferente l’obiezione di cui al secondo motivo di ricorso incentrata su un ipotetico vizio di ultrapetizione.

L’ultrapetizione attiene invero al rapporto tra il chiesto e il pronunciato, e dunque tra la domanda e la pronuncia, non a quello tra le pronunce (di prime cure e di reclamo).

Occorre dire che il secondo motivo è inammissibile anche se lo si volesse considerare come finalizzato a eccepire, sebbene con improprio riferimento all’ultrapetizione, un giudicato interno ostativo alla decisione della corte territoriale. Invero lo stesso ricorso evidenzia che il tribunale aveva rigettato la domanda di omologazione ritenendo l’accordo generico e incompleto, per avere la debitrice omesso di depositare un atto denominato accordo e per non aver riportato nel ricorso la previsione del pagamento integrale dei creditori postergati.

Non può sostenersi – poiché il ricorso non è autosufficiente sul punto – che il tribunale avesse altresì positivamente accertato l’impegno a pagare i creditori non aderenti. Il diniego di omologazione – come tutte le decisioni di rigetto – può difatti ben basarsi su una ragione più liquida. Né la ricorrente ha assolto al fine di autosufficienza, visto che essa stessa ha indicato il decreto del tribunale come composto di (almeno) sette pagine, a fronte della trascrizione di sole poche righe del relativo contenuto. La trascrizione non è neppure autoevidente nel senso sostenuto nel ricorso, visto che l’inciso riportato a pag. 22 del ricorso medesimo – quanto alla disamina dell’elenco dei creditori – si presta a interpretazione polivalente, potendo considerarsi nella sua effettiva portata come semplicemente riferito all’omessa indicazione delle opportune differenziazioni tra creditori estranei il cui credito fosse scaduto o sottoposto a termine.

In tale quadro è assertiva l’affermazione per cui il tribunale non aveva messo in discussione l’esistenza e la modalità dell’impegno della società a pagare i creditori estranei; è assertiva ed è anche inutile, poiché la sottolineatura di un giudicato al riguardo comunque non pertiene al reclamo di cui all’art. 182-bis, che è strumento ampiamente devolutivo e che, in ipotesi di diniego di omologazione, attribuisce al giudice del reclamo la materia del contendere nella sua interezza.

VII. – Il terzo motivo, sotto spoglie di censura in iure, si sostanzia in un sindacato di fatto, atteso che si limita a postulare che la valutazione della corte d’appello, in ordine al mancato riferimento al soddisfacimento integrale dei creditori non aderenti nel termine di legge, sarebbe in contrasto col contenuto della relazione e con le implicite indicazioni del ricorso – che si dice aveva menzionato la soddisfazione integrale e regolare dei creditori detti pur in mancanza di una espressa indicazione del termine.

Merita aggiungere che in rubrica è stato eccepito, a tal riguardo, anche un vizio della motivazione. Ma la deduzione è risolta a mero simulacro poiché, tenuto conto dei limiti in cui tale vizio è ancora deducibile in cassazione (v. Cass. Sez. U n. 8053-14), nessun concreto fatto storico, diverso da quelli già differentemente valutati dal giudice del merito, appare specificamente menzionato a corredo dell’addebito di omesso esame ex art. 360 c.p.c., n. 5 sicché il terzo motivo si rivela infine del tutto inammissibile.

VIII. – Possono essere esaminati unitariamente, per connessione, il quarto e il settimo motivo.

Il quarto motivo è inammissibile ove parametrato alla effettiva ratio decidendi del decreto.

Non rileva infatti indagare se la relazione del professionista debba essere necessariamente successiva alla conclusione dell’accordo – cosa peraltro in certo qual modo logica, considerando la funzione dell’attestazione – ovvero se, come sostenuto nel motivo, possa anche essere redatta anteriormente ove i dati siano conformi a quelli contenuti nell’accordo medesimo.

Quel che unicamente rileva è che, nel caso concreto, il giudice del merito ha accertato che la relazione presentava carenze di tipo contenutistico, non solo perché mancante di alcune pagine (e ciò non risulta neppure contestato dalla ricorrente), ma anche perché del tutto generica con riguardo ai termini di pagamento dei creditori estranei e alla indicazione delle singole afferenti tipologie di crediti, se cioè scaduti o a termine. E ancora (pag. 15 e seg. del decreto) che l’effettivo integrale pagamento dei creditori estranei all’accordo nel termine previsto non poteva evincersi neppure dall’attestazione, la quale non conteneva indicazioni specifiche in proposito. Invero le risorse all’uopo necessarie erano state, nella relazione, in massima parte individuate in virtù della riscossione di somme dovute dall’Asl di Salerno, con tempistiche peraltro variabili in un arco di circa 1/3 anni. Il che, considerando che il credito vantato verso AS era quello di maggior consistenza, rendeva evidente, a dire della corte territoriale, che giammai i creditori estranei avrebbero potuto aspirare a veder soddisfatte le loro pretese nei confronti di C. S.r.l. entro centoventi giorni dall’omologa dell’accordo di ristrutturazione.

Il settimo mezzo è invece infondato.

Si sostiene che la suddetta valutazione della corte d’appello sarebbe avvenuta in violazione dei limiti dello scrutinio di legalità, con invasione della sfera del sindacato di attuabilità o di fattibilità economica.

La tesi non ha pregio, visto che nel modo dianzi detto si è concretata una valutazione di tipo giuridico. Non essendo stato l’accordo congegnato in modo da consentire – tenuto conto delle effettive risultanze della relazione attestativa – il rispetto del termine massimo di pagamento (integrale) dei creditori non aderenti, difettavano in vero le condizioni giuridiche dell’omologazione.

Va qui ribadito che l’accordo di ristrutturazione partecipa della comune natura di procedura concorsuale propria del concordato preventivo (v. Cass. n. 1182-18, Cass. n. 9087-18, Cass. n. 16347-18). E in coerenza con quanto questa Corte ha già affermato a proposito dell’analogo tema dei limiti del sindacato giurisdizionale sulla fattibilità del piano concordatario (v. Cass. n. 9071-17, Cass. n. 5825-18, Cass. 21175-18), deve essere affermato il principio secondo cui nell’accordo di ristrutturazione il giudice, nella sede dell’omologa, non è limitato dalla sola verifica di regolarità formale degli adempimenti previsti per legge, ma è tenuto a verificare tutti gli aspetti di legalità sostanziale e tra questi anche quelli inerenti all’effettiva garanzia di soddisfacimento dei creditori estranei all’accordo nei tempi previsti per legge. Tale verifica va fatta in termini di plausibilità e ragionevolezza, cosicché è ben possibile negare l’omologazione ove l’accordo, per come formulato, renda di per sé irragionevole e irrealistica l’affermazione di integrale pagamento in quei termini. Cosa che questa Corte ha in qualche modo anticipato allorché si è occupata del similare profilo del sindacato giurisdizionale sulle istanze di misure protettive. Anche in quel caso, difatti, il provvedimento, reso in esito a cognizione sommaria avente natura cautelare, con il quale il tribunale, ai sensi della L. Fall., art. 182-bis, comma 7, si pronuncia sull’istanza di divieto di iniziare o proseguire le azioni cautelari o esecutive, è stato ritenuto non conseguente a un controllo solo formale della documentazione richiesta, ma presupponente, da parte del giudice, una verifica anche sostanziale sulla ricorrenza dei presupposti per pervenire a un accordo di ristrutturazione con le maggioranze di cui all’art. 182-bis, comma 1, oltre che delle condizioni per l’integrale pagamento dei creditori con i quali non sono in corso trattative o che hanno comunque negato la propria disponibilità a trattare (Cass. n. 16161-18).

È ovvio che un’identica potestà di verifica deve riconoscersi al giudice nella sede di merito, pienamente deputata a omologare l’accordo.

IX – Tanto rende ininfluente l’esame dei motivi restanti, il quinto, il sesto e l’ottavo, essendo il diniego di omologazione suscettibile di rimanere saldo in base alla riferita ratio decidendi, sottratta a valida censura.

Il ricorso è rigettato.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, che liquida A. in __ euro oltre le spese prenotate a debito, e per ciascuna delle restanti parti costituite in __ euro, di cui __ euro per esborsi, oltre accessori e rimborso forfetario di spese generali nella percentuale di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 7 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2019

 

Cass_civ_Sez_I_Sent_08_05_2019_n_12064




I crediti da ammettere al passivo in prededuzione ex art. 111 legge fallimentare

I crediti da ammettere al passivo in prededuzione ex art. 111 legge fallimentare

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 15415 del 06/06/2019

Con ordinanza del 6 giugno 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in tema di recupero crediti, ha stabilito che l’indennità supplementare prevista dall’Accordo sulla risoluzione del rapporto di lavoro nei casi di crisi aziendale allegato al CCNL dei dirigenti aziendali, rappresenta, a prescindere dalla sua natura retributiva od indennitaria, un credito da ammettere al passivo in prededuzione ex art. 111 legge fallimentare (R.D. n. 267 del 1942), per i dirigenti di imprese sottoposte ad amministrazione straordinaria che siano cessati dal rapporto di lavoro solo successivamente al provvedimento di ammissione alla procedura, essendo la sua prosecuzione indubitabilmente funzionale alle esigenze di continuazione dell’attività di impresa.


 

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 15415 del 06/06/2019

I crediti da ammettere al passivo in prededuzione ex art. 111 legge fallimentare

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. __ r.g. proposto da:

P. – ricorrente –

contro

A. S.p.A. – controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso il decreto del Tribunale di Roma, depositato in data __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal Consigliere Dott. __.

Svolgimento del processo

1.Con il decreto impugnato il Tribunale di Roma – decidendo sull’opposizione allo stato passivo avanzata da P. nei confronti di A. S.p.A. in a.s. in relazione al provvedimento di diniego del g.d. di ammissione della richiesta, L. Fall., ex art. 111 bis, per il credito da indennità supplementare ai sensi dell’accordo del 27 aprile 1995 – ha parzialmente accolto la predetta opposizione, ammettendo il creditore istante per Euro __ (anziché nella misura richiesta di Euro 80.000) in via privilegiata, ai sensi dell’art. 2751 bis c.c. (anziché in via prededuttiva, come richiesto).

Il ricorrente aveva allegato già innanzi al g.d. di aver lavorato alle dipendenze di A. S.p.A. sino al __, con la qualifica di dirigente e di essere stato licenziato per il termine dell’attività aziendale; di essere rimasto disoccupato dopo il licenziamento; di avere pertanto diritto alla corresponsione dell’indennità supplementare prevista dall’accordo integrativo al c.c.n.l. dei dirigenti dell’industria del 27 aprile 1995.

Il tribunale, in sede di giudizio di opposizione, ha ritenuto non fondata l’eccezione di improcedibilità e inammissibilità dell’opposizione, in quanto, nel giudizio di opposizione allo stato passivo, la mancata produzione della copia autentica del provvedimento impugnato non costituisce causa di improcedibilità, non applicandosi la disciplina dettata dagli artt. 339 c.p.c. e segg.; nel merito, ha ricostruito la disciplina dettata dall’accordo integrativo sopra ricordato, ribadendone l’applicabilità anche alle amministrazioni straordinarie; ha ritenuto fondata la domanda volta al riconoscimento economico della reclamata indennità supplementare per aver il ricorrente provato il suo stato di disoccupazione successivo al licenziamento tramite idonea certificazione INPS; ha, inoltre, evidenziato che l’indennità in esame ha una funzione indennitaria supplementare in favore del dirigente involontariamente disoccupato, con finalità compensativa e natura giuridica di penale, non incidente in alcun modo sull’effetto estintivo determinato dal licenziamento. Il tribunale ha, poi, ricordato che, ai sensi del D.L. 23 dicembre 2003, n. 347, art. 5, comma 2 ter, nel caso di ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria di imprese di cui all’art. 2, comma 2, il commissario ed il cessionario possono concordare il trasferimento solo parziale di complessi aziendali o attività produttive in precedenza unitari, con l’individuazione di lavoratori alle dipendenze del cessionario, potendo tali passaggi di lavoratori alle dipendenze del cessionario intervenire anche previa collocazione in cassa integrazione guadagni straordinaria o cessazione del rapporto di lavoro e assunzione da parte del cessionario. Il tribunale ha, inoltre, chiarito in termini generali che non era possibile accordare, nell’ipotesi del riconoscimento della predetta indennità supplementare, la reclamata prededuzione, in quanto, ai sensi del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, art. 20, nell’ambito della procedura di amministrazione straordinaria, affinché un credito sia prededucibile, non è sufficiente che esso sia sorto in occasione o in funzione della procedura, ma deve essere sorto “per la continuazione dell’esercizio dell’impresa e la gestione del patrimonio del debitore”. Il tribunale ha, infine, precisato che la domanda di ammissione doveva essere accolta limitatamente alla somma di Euro __, in quanto la documentazione relativa all’ultima retribuzione non era leggibile e dunque non poteva essere accordata l’ulteriore maggiorazione contrattualmente prevista.

  1. Il decreto, pubblicato il __, è stato impugnato da P. con ricorso per cassazione, affidato a due motivi, cui A. S.p.A. in a.s. ha resistito con controricorso, con il quale ha anche proposto ricorso incidentale fondato su tre motivi di censura.

Il ricorrente ha depositato controricorso al ricorso incidentale.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo la parte ricorrente principale articola vizio di violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, artt. 20 e 52, della L. Fall., art. 111, comma 1, n. 1, e dell’accordo interconfederale del 27.4.1995. Si osserva che le condizioni per il riconoscimento della reclamata prededuzione nella procedura di amministrazione straordinaria sono le medesime previste dall’art. 111 per la procedura concorsuale principale, con la conseguenza che anche l’indennità supplementare deve essere ammessa in prededuzione, rappresentando un emolumento retributivo sorto in funzione dell’amministrazione straordinaria.
  2. Con il secondo motivo la parte ricorrente principale lamenta, invece, violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. Si evidenzia l’erroneità della decisione impugnata laddove la stessa non aveva accolto la domanda di ammissione anche in relazione alla maggiorazione contrattualmente prevista, in ragione della mancata prova da parte del ricorrente dell’entità della ultima retribuzione percepita per la non leggibilità della documentazione versata in atti. Osserva il ricorrente che l’entità dello stipendio percepito era stato allegato nel ricorso in opposizione e che l’amministrazione straordinaria opposta non aveva mai contestato tale allegazione, con la conseguenza che tale ammontare doveva ritenersi un fatto non controverso e, dunque, provato in giudizio. Osserva, inoltre, il ricorrente che il tribunale non avrebbe neanche dovuto arrestare il suo esame al solo documento ritenuto non leggibile, ma al contrario estenderlo a tutta la documentazione versata in atti, da cui emergeva pacificamente l’entità della retribuzione mensile.
  3. Con il ricorso incidentale A. S.p.A. in a.s. propone tre motivi di censura.

3.1 Con il primo – lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, violazione e falsa applicazione dell’accordo sulla “risoluzione del rapporto di lavoro nei casi di crisi aziendale” del 27.4.1995 – si duole della erronea interpretazione della disciplina contrattuale che diversamente da quanto ritenuto dal tribunale ricorso – subordina l’attribuzione della indennità supplementare al motivo di recesso collegato alle situazioni di crisi aziendale o amministrazione straordinaria.

3.2 Con il secondo motivo si declina, ai sensi dell’art. 360 c.p.p., comma 1, n. 5, vizio di omesso esame di fatti decisivi legati alla dimostrazione della prosecuzione dell’attività aziendale successivamente all’ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria e alla riconducibilità del recesso alla determinazione del commissario avente ad oggetto la chiusura dell’attività produttiva locale.

3.3 Con il terzo motivo si articola, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 111 Cost., comma 6, e art. 118 disp. att. c.p.c. per illogicità della motivazione in ordine alla spettanza dell’indennità supplementare, a fronte di un recesso motivato con la cessazione dell’attività produttiva e comunque, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, nullità della sentenza per mancanza di motivazione sul medesimo punto.

  1. Va esaminato per primo il ricorso incidentale per evidenti ragioni di pregiudizialità logico-giuridiche delle questioni prospettate.

4.1 Il ricorso incidentale è inammissibile, per due concorrenti ragioni.

Si prospetta da parte del ricorrente incidentale – sotto le diverse declinazioni del vizio di violazione di norme contrattuali, di omessa decisione e di vizio di motivazione – la medesima questione, e cioè la mancata motivazione del recesso datoriale, come collegato alle situazioni di crisi aziendali e non già come ritenuto dal tribunale capitolino – alla chiusura dell’attività produttiva.

4.1.1 Sotto un primo preliminare profilo di esame delle censure, osserva il Collegio come il Tribunale di Roma abbia in realtà ritenuto non contestata l’applicazione dell’accordo sopra menzionato e come la società in a.s. non abbia in alcun modo censurato detta statuizione, rendendo le ulteriori censure così formulate non ammissibili.

4.1.2 Ma non può neanche essere sottaciuto come la questione, così come sopra prospettata (e cioè collegata all’articolazione delle motivazioni del recesso datoriale), rappresenti una deduzione difensiva nuova, perché proposta per la prima volta in questo giudizio di cassazione e non dedotta nel dibattito processuale nel corso delle precedenti fasi di merito.

Ciò determina l’inammissibilità delle censure articolate nei tre motivi di censura contenuti nel ricorso incidentale.

  1. Prima dell’esame del ricorso principale, va esaminata l’eccezione di inammissibilità (rectius, di improcedibilità) del ricorso sollevata dalla parte ricorrente in relazione all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4.

Essa è in realtà infondata.

Occorre ricordare che, secondo il maggioritario orientamento espresso da questa Corte di legittimità (cui anche questo Collegio intende fornire continuità applicativa), l’onere gravante sul ricorrente, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, di depositare, a pena di improcedibilità, copia dei contratti o degli accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda, può essere adempiuto, in base al principio di strumentalità delle forme processuali – nel rispetto del principio di cui all’art. 111 Cost., letto in coerenza con l’art. 6 della CEDU, in funzione dello scopo di conseguire una decisione di merito in tempi ragionevoli – anche mediante la riproduzione, nel corpo dell’atto d’impugnazione, della sola norma contrattuale collettiva sulla quale si basano principalmente le doglianze, purché il testo integrale del contratto collettivo sia stato prodotto nei precedenti gradi di giudizio e, nell’elenco degli atti depositati, posto in calce al ricorso, vi sia la richiesta, presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, di trasmissione del fascicolo d’ufficio che lo contiene, risultando forniti in tal modo alla Suprema Corte tutti gli elementi per verificare l’esattezza dell’interpretazione offerta dal giudice di merito (cfr. anche Sez. L, Sentenza n. 15437 del 07/07/2014).

Ciò posto, osserva la Corte come, nel caso in esame, la parte ricorrente abbia integralmente richiamato nel ricorso introduttivo la norma contrattuale di cui si richiede l’esatta interpretazione e abbia, del pari, evidenziato in atti la richiesta di trasmissione del fascicolo d’ufficio vistato dalla cancelleria, così adempiendo agli oneri allegatori sopra indicati e necessari a fornire, in tal modo, a questa Corte tutti gli elementi per verificare l’esattezza dell’interpretazione offerta dal giudice di merito.

6.1 Il primo motivo del ricorso principale è invece fondato.

Sul punto occorre ricordare l’orientamento recentemente espresso da questa Corte di legittimità nella materia di esame (cfr. Cass., Sez. 1, Sentenza n. 29735 del 19/11/2018), secondo il quale, verbatim, “L’indennità supplementare prevista dall’Accordo sulla risoluzione del rapporto di lavoro nei casi di crisi aziendale allegato al CCNL dei dirigenti aziendali, costituisce – a prescindere dalla sua natura retributiva o indennitaria – un credito da ammettere al passivo in prededuzione L. Fall., ex art. 111, per i dirigenti di imprese sottoposte ad amministrazione straordinaria che siano cessati dal rapporto di lavoro solo successivamente al provvedimento di ammissione alla procedura, essendo la sua prosecuzione indubitabilmente funzionale alle esigenze di continuazione dell’attività di impresa”. Orientamento quest’ultimo cui anche questo Collegio intende fornire continuità applicativa, condividendone la ratio decidendi.

Va pertanto riconosciuta la reclamata prededuzione.

6.2 Il secondo motivo di doglianza è invece inammissibile, atteso che, per un verso, la censura non è autosufficiente nella parte in cui non ha specificatamente indicato in quale atto l’amministrazione straordinaria non aveva contestato (se non genericamente) l’entità della retribuzione mensile (così rendendo – come assume il ricorrente – il fatto non controverso tra le parti) e che, per altro verso, il mero richiamo alla documentazione versata in atti, senza la specifica indicazione nel ricorso introduttivo, di quale sia la documentazione idonea a suffragare la prova del fatto costitutivo del diritto alla maggiore retribuzione rende ugualmente inammissibile la censura così prospettata.

Senza contare che la parte ricorrente pretenderebbe, sotto l’egida formale della violazione di legge, una rivisitazione probatoria da parte di questa Corte del contenuto della documentazione versata in atti.

  1. Alla luce dei principi sopra riaffermati, la causa può essere dunque decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, non occorrendo ulteriori accertamenti di fatto.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

accoglie il primo motivo del ricorso principale; dichiara inammissibile il secondo motivo del ricorso principale; dichiara inammissibile il ricorso incidentale; cassa il decreto impugnato e, decidendo la causa nel merito, riconosce la prededuzione al credito ammesso; condanna A. S.p.A. in a.s. al pagamento, in favore del ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro __ per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi per Euro __ e agli altri accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per ricorso incidentale, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 7 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 6 giugno 2019

 

Cass_civ_Sez_I_Ord_06_06_2019_n_15415




Recupero crediti: finanziamenti e domanda di ammissione in via privilegiata al passivo del fallimento

Recupero crediti: finanziamenti e domanda di ammissione in via privilegiata al passivo del fallimento

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 14915 del 31/05/2019

Con ordinanza del 31 maggio 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in tema di recupero crediti, ha stabilito che il termine finanziamento, come espresso dalla norma dell’art. 9, comma 5, del D.Lgs. n. 123 del 1998, non risulta assumere, nel contesto del diritto vigente, un significato unico e costante; soprattutto, non viene di certo a ridursi a formula equivalente di quella di “contratti di credito”. La normativa del citato D.Lgs. n. 123 non detta, o contiene, una definizione ad hoc del lemma “finanziamento”, con la conseguenza che il significato di questo termine, lungi dal porsi come strumento per risolvere i problemi applicativi della relativa disciplina, si manifesta frutto di una necessaria attività ricostruttiva. Le diverse forme di intervento pubblico di sostegno alle attività produttive individuate dal D.Lgs. n. 123 appaiono espressione di un disegno di impianto unitario, come inteso alla “razionalizzazione” e riorganizzazione dell’intero settore. In riferimento al privilegio di cui all’art. 9, comma 5, non sembrano profilarsi ragioni giustificatrici di trattamenti normativi differenziati a seconda delle diverse forme di intervento previste. In tutti i casi in cui divenga operativo il sistema di “revoca” e “restituzione” previsto dal predetto art. 9, si tratta comunque di assorbire, di “recuperare” il sacrifico patrimoniale che il sostegno pubblico ha in concreto sopportato in funzione dello sviluppo delle attività produttive.

 


 

Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 14915 del 31/05/2019

Recupero crediti: finanziamenti e domanda di ammissione in via privilegiata al passivo del fallimento

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

E. S.p.A. – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ANCONA, depositato il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal consigliere Dott. __.

Svolgimento del processo

1.- E. S.p.A. ha presentato domanda di ammissione in via privilegiata D.Lgs. n. 123 del 1998, ex art. 9, comma 5 al passivo del fallimento della s.r.l. (OMISSIS).

A fondamento della domanda la richiedente ha enunciato di avere prestato garanzia personale – quale gestore del Fondo di garanzia per le PMI (istituito con L. n. 662 del 1996) per conto del Ministero dello Sviluppo Economico – per un finanziamento erogato da B. in favore della S.r.l. in bonis. Successivamente, la debitrice principale si è resa inadempiente agli assunti obblighi restitutori; la Banca ha quindi escusso la garanzia, con conseguente pagamento da parte del garante. Ha precisato che, pertanto, la domanda di ammissione viene a sostanziarsi come atto di esercizio della rivalsa spettante al garante che ha pagato l’altrui debito.

2.- Il giudice delegato ha ammesso la domanda al chirografo, così rilevando: “si esclude il privilegio… in quanto il privilegio invocato è stato solo successivamente introdotto dalla L. n. 33 del 2015, art. 8 bis”; “tale norma non ha valore di interpretazione autentica; inoltre le norme che disciplinano i privilegi non hanno efficacia retroattiva in quanto soggette al generale principio di cui all’art. 11 preleggi”.

3.- E. ha proposto opposizione ex art. 98 L. Fall. avverso l’esclusione del privilegio avanti al Tribunale di Ancona. Che la ha respinta con decreto depositato in data __.

4.- In proposito, la pronuncia ha osservato che “il dato letterale della norma istitutiva del privilegio”, quale costituita dal D.Lgs. n. 123 del 1998, art. 9, comma 5, “è preciso: il credito a cui si attribuisce la prelazione è quello da restituzione di un finanziamento erogato alla impresa beneficiaria del sostegno, a seguito della revoca del beneficio”. “Nessun riferimento è invece operato al caso del credito del garante pubblico che, dopo essere stato escusso dal finanziatore dell’impresa divenuta inadempiente, si rivalga sulla PMI per le somme pagate”. La struttura della norma è incompatibile con il caso di un intervento pubblico in funzione di garanzia ed è “anche in contrasto con il meccanismo della surroga legale ex art. 1203 c.c. richiamato dal D.M. 20 giugno 2005, perché comporterebbe che il garante escusso acquisisca una posizione più favorevole rispetto a quella del creditore garantito”.

Ha poi rilevato che “il principio di tassatività dei privilegi impedisce il ricorso all’applicazione analogica di norme: come ricordato dalla giurisprudenza del Supremo Collegio, i privilegi integrano una deroga rispetto al principio generale della par conditio creditorum”.

Ha altresì aggiunto che la norma della L. n. 33 del 2015, art. 8 bis – che riconosce espressamente il privilegio anche ai terzi prestatori di garanzie – non può trovare applicazione nella fattispecie concreta, essendo entrata in vigore il 26 marzo 2015. “Come si evince dal testo della norma, non vi è alcuna previsione di deroga al principio di irretroattività della legge, né alcun segnale dell’intento interpretativo autentico del legislatore”.

5.- Avverso questa pronuncia è insorta E., che ha presentato ricorso, affidato a un motivo di cassazione.

Ha resistito il fallimento, con controricorso.

Motivi della decisione

6.- Il motivo di ricorso è stato intestato “violazione e falsa applicazione di norma – art. 360 c.p.c., n. 3: L. n. 662 del 1996, in particolare art. 2, comma 100; D.Lgs. n. 123 del 1998, in particolare art. 7, comma 1 e art. 9, commi 4 e 5; D.M. 20 giugno 2005, in particolare art. 2 comma 4; R.D. 16 marzo 1942, n. 262 (preleggi), art. 12; R.D. 16 marzo 1942 (Legge fallimentare), in particolare artt. 1 e 52; c.c., art. 2741; L. n. 33 del 2015, in particolare art. 8 bis”.

7.- Ad avviso del ricorrente, il Tribunale ha errato nell’adottare una non giustificata interpretazione riduttiva del D.Lgs. n. 123 del 1998, art. 9, comma 5.

Nel contesto di tale legge – così si sostiene – il privilegio viene concesso “per le restituzioni di cui al comma 4; il quale comma 4 recita testualmente che nei casi di restituzione dell’intervento in conseguenza della revoca… comunque disposta per azioni o fatti addebitati all’impresa beneficiaria… l’impresa stessa versa il relativo importo; con un percorso logico ermeneutico a ritroso, la norma va dunque interpretata nel senso che il privilegio è concesso ai crediti per le restituzioni dei benefici (qualsiasi), conseguenti alla revoca degli interventi (di qualunque genere)”.

La restituzione di somme cui è tenuta per legge la PMI inadempiente – così si prosegue – non può essere interpretata introducendo una illogica e certamente non voluta distinzione derivante dalla diversa causa del credito; il creditore della PMI può essere tale in virtù dell’obbligo di restituire sia un finanziamento, sia un contributo, sia una somma versata dal suo garante. Unica essendo la finalità del legislatore sia nella concessione dei benefici, sia nell’attribuire strumenti privilegiati per il ristoro delle somme erogate ai beneficiari ingrati, a prescindere dalla diversità del titolo del credito.

“Sarebbe parimenti contrario a ogni logica, non solo giuridica – si aggiunge in via ulteriore – privilegiare senza motivo alcuno creditori rispetto ad altri solo perché hanno erogato somme fin dall’inizio e non, ad esempio, successivamente, per effetto dell’escussione della garanzia prestata”.

A ciò segue pure – così si viene a concludere – che la L. n. 33 del 2015, art. 8 bis comma 3 “non deve ritenersi norma innovativa, né retroattiva (dunque, da applicarsi solo dopo la sua entrata in vigore), ma piuttosto una conferma interpretativa di un privilegio già in precedenza concesso”.

8.- Il motivo di ricorso dev’essere accolto, secondo i termini che qui di seguito si vengono ad illustrare.

Non può condividersi – va osservato prima di ogni altra cosa – l’assunto di fondo, da cui muove il decreto impugnato, che consiste nell’assegnare al termine finanziamento – come espresso dalla norma del D.Lgs. n. 123 del 1998, art. 9, comma 5;

– il significato pregnante di indicare in via esclusiva la tipologia negoziale dei c.d. contratti di credito; e quindi di designare – ai fini del privilegio di cui alla norma – solo gli interventi pubblici caratterizzati dall’erogazione diretta di una somma di danaro nelle mani del soggetto tenuto a restituirle.

In effetti, quest’assunto non risulta per nulla giustificato. La giurisprudenza di questa Corte ha rilevato, invero, che il termine finanziamento non risulta assumere, nel contesto del diritto vigente, un significato unico e costante; soprattutto, non viene a senz’altro a ridursi a formula equivalente di quella di contratti di credito (cfr., in particolare, Cass. 31 gennaio 2019, n. 3017, ove pure l’analisi dei dati normativi di riferimento; Cass., 30 gennaio 2019, n. 2664; Cass., 15 maggio 2018, n. 11878).

D’altro canto, la normativa dettata nel D.Lgs. n. 123 del 1998 non detta, o contiene, una definizione ad hoc del lemma finanziamento. Sì che, nello specifico contesto in discorso, il significato di questo termine, lungi dal porsi come strumento per risolvere i problemi applicativi della relativa disciplina, si manifesta frutto di una necessaria attività ricostruttiva (cfr., ancora, Cass., n. 2664/2019).

9.- Il D.Lgs. n. 123 del 1998 prevede, secondo quanto descritto nella disposizione dell’art. 7, un set articolato di forme di intervento pubblico: credito d’imposta, bonus fiscale, concessione di garanzia, contributo in conto capitale, contributo in conto interessi, finanziamento agevolato.

Ora, come ha puntualizzato la già citata pronuncia di Cass., n. 2664/2019, tutte queste diverse forme di intervento pubblico di sostegno alle attività produttive individuate dal D.Lgs. n. 123 del 1998 appaiono espressione di un disegno di impianto unitario, come inteso alla razionalizzazione e riorganizzazione dell’intero settore (cfr., tra l’altro, la norma dell’art. 1 del decreto legislativo in discorso). E, soprattutto, di un segno portatore di una disciplina di tratto unitario delle diverse forme di intervento pur nel rispetto delle differenze rilevanti che tra le stesse possano eventualmente manifestarsi.

“Con specifico riferimento al tema del privilegio di cui all’art. 9 comma 5 – prosegue la richiamata pronuncia non sembrano profilarsi ragioni giustificatrici di trattamenti normativi differenziati a seconda delle diverse forme di intervento previste. In tutti i casi in cui divenga operativo il sistema di revoca e restituzione previsto dalla norma dell’art. 9, infatti, si tratta comunque di assorbire, di recuperare il sacrifico patrimoniale che il sostegno pubblico ha in concreto sopportato in funzione dello “sviluppo delle attività produttive” (cfr. Cass., 20 settembre 2017, n. 21841); in tutti i casi si tratta, in pari tempo, di procurare la provvista per lo svolgimento di ulteriori e futuri sostegni allo sviluppo delle attività produttive, secondo quanto significativamente dispone il comma 6 del medesimo art. 9 (le somme restituite ai sensi del comma 4 sono versate all’entrata del bilancio dello Stato per incrementare la disponibilità di cui all’art. 10, comma 2; l’importanza di questa disposizione si trova segnalata dalla giurisprudenza di questa Corte: cfr. Cass., 24 agosto 2015, n. 17111; Cass., 20 aprile 2018, n. 9926).

10.- Nemmeno condivisibile si manifesta l’idea – che il decreto impugnato viene a svolgere in via ulteriore – per cui la struttura della norma dell’art. 9, comma 5 sarebbe “incompatibile… con il caso del garante che agisce in surroga”.

In realtà, la norma in questione non discorre proprio di surroga, né in qualche modo richiama la relativa ipotesi (questo il testo della disposizione del comma 5 dell’art. 9: per le restituzioni di cui al comma 4 i crediti nascenti dai finanziamenti erogati ai sensi del presente decreto legislativo sono preferiti a ogni altro titolo di prelazione da qualsiasi causa derivante, ad eccezione del privilegio per spese di giustizia e di quelli previsti dall’art. 2751 bis c.c. e fatti salvi i diritti preesistenti dei terzi; per completezza è bene aggiungere che neppure il successivo L. n. 33 del 2015, art. 8 bis fa riferimento a una surroga).

Né si vede perché mai la surroga dovrebbe essere – in sé – un medio (logicamente o strutturalmente) necessario per potersi legare il privilegio all’intervento pubblico di sostegno in forma di garanzia.

11.- Secondo il principio espresso dalla norma dell’art. 2745 c.c., infatti, il privilegio trova comunque fonte nella legge, in ragione della peculiare causa che lo viene a sorreggere, per via del fatto, cioè, che l’ordinamento assume – in conformità ai valori espressi dalla Costituzione – una data ragione di credito come portatrice di interessi particolarmente meritevoli di tutela e protezione.

Nel caso concreto, fonte del privilegio è la norma di legge di cui all’art. 9, comma 5. Che lo riconosce appunto in ragione del sostegno pubblico che viene dato alle attività produttive, consegnandolo al garante, che ha pagato la banca garantita, in ragione del credito che questi vanta verso il debitore principale, in quanto destinatario finale del depauperamento patrimoniale connesso all’estinzione della relativa obbligazione.

È bene puntualizzare altresì: nella fattispecie tipo, che risponde al caso concretamente in esame, la banca creditrice, se si avvantaggia dell’intervento pubblico – della garanzia così prestata potendo appunto profittare – non prende in alcun modo parte allo svolgimento di quest’intervento.

Non avrebbe perciò nessun senso che del privilegio in questione venisse a beneficiare, per l’ipotesi in qualche modo occorrente, (anche) la banca creditrice. Il che appunto comporta – senza peraltro produrre alcun tipo di stortura – ciò che il garante, che interviene nell’interesse pubblico, viene a godere di una posizione diversa da quella del creditore garantito (per quanto nel complesso non più favorevole di quella del creditore garantito, come sembra per contro opinare il Tribunale marchigiano).

12.- Non condivisibili si manifestano, del resto, neppure il rilievo fondante e la lettura che il decreto impugnato intende consegnare alla norma del D.M. 20 giugno 2005, art. 2, comma 4, (per cui, in caso di inadempimento delle piccole e medie imprese, i soggetti richiedenti possono rivalersi sul Fondo per gli importi da esso garantiti, anziché continuare a perseguire il debitore principale. Ai sensi dell’art. 1203 c.c., nell’effettuare il pagamento, il Fondo acquisisce il diritto a rivalersi sulle piccole e medie imprese inadempienti per le somme da esso pagate).

Si tratta, in effetti, di una norma di rango secondario e di tratto meramente attuativo. In quanto tale, si tratta di disposizione priva della stessa capacità di produrre degli interventi di taglio innovativo e che, piuttosto, va interpretata e ricostruita alla luce, e in sintonia, con la normativa primaria che viene a completare.

13.- D’altra parte, questa disposizione, se richiama la norma elencativa delle ipotesi di surroga legale, qualifica la posizione del garante, che ha pagato, in termini di semplice rivalsa (ovvero di regresso, si può anche dire). Così facendo generico riferimento alla posizione del garante che ha pagato: e che, in quanto tale, ha comunque diritto di recuperare dal debitore finale quanto per lui pagato (posto appunto che è su quest’ultimo – non già sul garante solvens – che non può non ricadere il depauperamento patrimoniale conseguente alla rilevata sussistenza di un debito).

È appena il caso di aggiungere, poi, che il richiamo alla norma dell’art. 1203 c.c. (che in questa prospettiva può anche completarsi con l’indicazione del n. 3 della disposizione) non potrebbe mai far cadere un diritto proprio del solvens, perché estraneo alla posizione del creditore accipiens. La norma dell’art. 1203 c.c. è univoca nel dichiararsi a vantaggio, e non già a danno, del solvens: la stessa, perciò, non potrebbe comunque togliere a questi dei vantaggi, che risultano connessi alla propria posizione di questo (per il rilievo che il senso finale della figura della surroga è quello di dar vita a uno strumento idoneo a apportare al solvens eventuali vantaggi e tutele ulteriori rispetto a quelli propriamente connessi al regresso, v. Cass., n. 2664/2019).

14.- Come correttamente ha rilevato il ricorrente, la norma della L. n. 33 del 2015, art. 8 bis non va considerata né come una disposizione di interpretazione autentica, e dunque retroattiva, né come disposizione innovativa. Si tratta, semplicemente, di una disposizione ripetitiva, e confermativa, del regime già vigente.

15.- In conclusione, il ricorso va accolto.

All’accoglimento del ricorso segue che il decreto impugnato dev’essere cassato e la controversia rinviata al Tribunale di Ancona, che, in diversa composizione, provvederà pure alle determinazioni relative alle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso. Cassa il decreto impugnato e rinvia la controversia al Tribunale di Ancona che, in diversa composizione, provvederà pure alle determinazioni relative alle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile, il 25 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2019

 

Cass_civ_Sez_I_Ord_31_05_2019_n_14915




Sono ammessi al passivo con riserva i crediti accertati con sentenza del giudice ordinario o speciale, non passata in giudicato, pronunziata prima della dichiarazione di fallimento

Sono ammessi al passivo con riserva i crediti accertati con sentenza del giudice ordinario o speciale, non passata in giudicato, pronunziata prima della dichiarazione di fallimento

Corte di Cassazione Civile, Sezione III, Ordinanza n. 14768 del 30/05/2019

Con ordinanza del 30 maggio 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione VI – Lavoro, in tema di recupero crediti, ha stabilito che a norma dell’art. 95 della L.F., nella nuova formulazione, sono ammessi al passivo con riserva i crediti accertati con sentenza del giudice ordinario o speciale, non passata in giudicato, pronunziata prima della dichiarazione di fallimento. II curatore può proporre o proseguire il giudizio di impugnazione. La sentenza di primo grado, dunque, ove intervenuta prima della dichiarazione di fallimento, è titolo per insinuarsi al passivo.


 

Corte di Cassazione Civile, Sezione III, Ordinanza n. 14768 del 30/05/2019

Sono ammessi al passivo con riserva i crediti accertati con sentenza del giudice ordinario o speciale, non passata in giudicato, pronunziata prima della dichiarazione di fallimento

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

A.P. – ricorrente –

contro

A., M., L., P., S., I.;

FALLIMENTO (OMISSIS) SRL    – controricorrenti –

e contro

G., U. S.P.A.    – intimati –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO SEZ. DIST. di TARANTO, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal Consigliere Dott. __.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il giorno __ il sig. C., dipendente della (OMISSIS) di (OMISSIS), uscendo dal posto di lavoro, a bordo della sua vettura, è precipitato in acqua perdendo la vita.

I familiari hanno citato in giudizio A. P.  e la società (OMISSIS) srl, che aveva allestito in quei giorni un evento sul posto, lasciandovi incustodite alcune transenne.

Entrambi i convenuti hanno ottenuto la chiamata in causa delle rispettive compagnie di assicurazione.

Il Tribunale, ritenendo una imprudenza del conducente nel fatto di non aver moderato la velocità, come lo stato dei luoghi imponeva, ha attribuito un concorso di colpa a quest’ultimo nella misura dell’80%, ponendo a carico sia di A. P. che della società la rimanente parte di responsabilità.

Il Giudice di appello ha confermato in parte questa decisione, riducendo il concorso di responsabilità del conducente dal 80% al 20% e, atteso che nelle more era intervenuto il fallimento della società (OMISSIS), ha dichiarato l’improcedibilità della domanda nei suoi confronti e nei riguardi della compagnia di assicurazione.

Per conseguenza ha posto a carico di A.P. l’intera quota di responsabilità (80%), che prima era divisa con la società fallita.

Ora A.P. ricorre con tre motivi, con cui denuncia, in primo luogo, l’errore nella decisione di dichiarare improcedibile la domanda verso la società in seguito fallita.

Si sono costituti gli eredi di P., ed hanno chiesto il rigetto del ricorso.

1.- Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione della L. Fall., artt. 52 e 95 sostenendo che il fallimento della società non giustifica la dichiarazione di improcedibilità della domanda, per via del fatto che la società era obbligata in solido insieme alla ricorrente, e che la sentenza è utile per l’insinuazione al passivo.

Il motivo è fondato.

La L. Fall., art. 95, nella nuova formulazione, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, prevede che sono ammessi al passivo con riserva “i crediti accertati con sentenza del giudice ordinario o speciale non passata in giudicato, pronunziata prima della dichiarazione di fallimento. Il curatore può proporre o proseguire il giudizio di impugnazione”.

La sentenza di primo grado, nel caso presente, è intervenuta prima della dichiarazione di fallimento, cosi che essa è titolo per insinuarsi al passivo. E non può essere dunque travolta da una dichiarazione di improcedibilità della domanda, pena la violazione dell’art. 96 suddetto che invece consente di avvalersi della decisione ottenuta per insinuarsi al passivo, salva la facoltà del curatore di proseguire nella impugnazione (che dunque è procedibile anche per tale ragione).

In sostanza, l’improcedibilità della domanda vuol dire caducazione del titolo ottenuto e necessità di iniziare una nuova richiesta di risarcimento verso il fallimento, e ciò è espressamente contraddetto dalla norma fallimentare che invece non impone un simile esito, consentendo, piuttosto, a chi ha ottenuto sentenza favorevole di poterla usare per insinuarsi al passivo e rimettendo al curatore la scelta se contrastare quel titolo con una impugnazione.

Inoltre, A.P. ha interesse ad ottenere una pronuncia verso la società fallita, per due motivi. In primo luogo, in quanto ritiene quest’ultima interamente responsabile del danno, cosi contestando la stessa solidarietà ritenuta dal giudice di merito. In secondo luogo, in quanto, in subordine rispetto alla richiesta di ritenere esclusivamente responsabile del danno la società cui aveva concesso l’area, A.P. contesta la ripartizione interna della solidarietà come decisa dal giudice di merito. In pratica, l’interesse ad impugnare la pronuncia sulla solidarietà, che è da escludersi quando non sia effettuato riparto interno, in ragione del fatto che il debitore è tenuto per l’intero e la misura della sua obbligazione non è stabilita (Cass. 21744/2015), qui è fondata sul fatto che la decisione di merito ha ripartito la solidarietà facendola prevalentemente gravare su A.P., che dunque, opponendosi a tale ripartizione, ha interesse ad una riforma della decisione sul punto (arg. Ex Cass. 25168/ 2018).

La circostanza che la domanda verso (OMISSIS) srl sia stata dichiarata improcedibile ha impedito una pronuncia nel merito su queste domande.

Con la conseguenza che l’annullamento di tale statuizione comporta il rinvio della causa al giudice di merito affinché provveda alla decisione mancata.

Gli altri motivi sono di conseguenza assorbiti, riguardando per l’appunto la responsabilità della società, per come richiesto da A.P., nonché la connessa questione del concorso di colpa del danneggiato.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri. Cassa e rinvia alla Corte di Appello di Lecce, in diversa composizione anche per le spese.

Così deciso in Roma, il 14 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2019

 

Cass_civ_Sez_III_Ord_30_05_2019_n_14768




Il terzo, o il socio, è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione, di natura aquiliana, per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale

Il terzo, o il socio, è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione, di natura aquiliana, per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale

Corte di Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza n. 14778 del 30/05/2019

Con ordinanza del 30 maggio 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione VI – Lavoro, in tema di recupero crediti, ha stabilito che a norma dell’art. 2395 c.c., il terzo, o il socio, è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione, di natura aquiliana, per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall’amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l’ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, dovendosi proporre, altrimenti, l’azione contrattuale di cui all’art. 2394 c.c., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore, ai sensi dell’art. 146 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267.


 

Corte di Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza n. 14778 del 30/05/2019

Il terzo, o il socio, è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione, di natura aquiliana, per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

M. – ricorrente –

contro

L., B., F. – controricorrenti –

e contro

G., ISEI S.R.L. – intimati –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere Dott. __;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato __.

Svolgimento del processo

  1. ha agito nei confronti di L., B., F., G., per vedersi riconosciuti i danni conseguenti ad attività di mala gestio che questi ultimi avevano causato nell’amministrazione della società ISEI S.r.l., di cui il M. era socio.

Il ricorrente, in passato, aveva tentato la costituzione di parte civile nei procedimenti penali iniziati a carico dei convenuti, che, in alcuni casi, si erano conclusi con la dichiarazione di prescrizione, ed in altri con l’assoluzione.

Il Tribunale in primo grado ha ritenuto prescritta l’azione, in difetto di atti interruttivi idonei, relativamente ai fatti accaduti tra il __ ed il __, mentre ha stimato come infondata la domanda di risarcimento dei danni derivanti dalle false fatturazioni e dalle alterazioni del bilancio, in quanto avente ad oggetto danni indiretti non risarcibili ex art. 2395 c.c.

La sentenza di primo grado è stata integralmente, e con le medesime argomentazioni, confermata in appello.

  1. propone ricorso per Cassazione con tre motivi, con cui denuncia contraddittorietà della motivazione, omesso esame di un fatto interruttivo della prescrizione, ed erronea interpretazione dell’art. 2395 c.c.

V’è costituzione delle controparti, che depositano controricorso e successiva memoria.

Motivi della decisione

1.- V’è da tenere conto del fatto che la decisione di secondo grado ha sostanzialmente ritenuto infondata la domanda sul presupposto che il ricorrente chiede il risarcimento di danni indiretti, ossia di un tipo di danni che l’art. 2395 c.c., esclude possa esser fatto valere dal socio personalmente.

È solo in quanto l’eccezione di prescrizione era stata riprodotta in appello, che la corte di secondo grado la prende in considerazione ritenendola tuttavia “del tutto assorbita” alla luce della infondatezza nel merito della domanda.

Ciò incide necessariamente sull’esame dei motivi di ricorso.

1.- Con i primi due motivi il ricorrente censura proprio il capo di sentenza relativo alla prescrizione. Con il primo motivo assume nullità della sentenza per contraddittorietà evidente della motivazione (art. 360 c.p.c., n. 4).

Secondo il ricorrente la contraddizione starebbe nel fatto che, mentre nella parte motiva la sentenza ritiene che l’atto interruttivo della prescrizione, consistente nella costituzione di parte civile, non sia stato fatto per i danni patrimoniali (p. 11), ma solo per quelli morali, nella parte in fatto, invece (p. 3), dà atto che la richiesta di risarcimento riguarda anche quelli non patrimoniali.

Questa contraddizione sarebbe rilevante perché, secondo la corte di merito, la pretesa di pagamento di un tipo di danni (non patrimoniali) non vale ad interrompere la prescrizione per altro tipo (danni patrimoniali).

Il motivo tuttavia è infondato, intanto, per quanto si è già detto: la decisione contiene una pronuncia sulla prescrizione solo quale obiter, mentre la vera ratio è nella statuizione secondo cui l’azione per danni indiretti non è proponibile, e che in ciò sta il difetto del diritto, a prescindere dalla sua prescrizione.

Con la conseguenza che, se anche si potesse ritenere la sentenza contraddittoriamente motivata, il vizio riguarderebbe un capo di decisione assolutamente irrilevante, posto che, nella ratio della sentenza di merito, ciò che fonda il rigetto della domanda è che essa riguarda danni indiretti non risarcibili, per via del disposto dell’art. 2395 c.c.

Ma, soprattutto, l’eccezione è infondata, in quanto a prescindere dal tipo di danno per cui era fatta domanda di risarcimento, la decisione impugnata tiene conto del fatto che la costituzione di parte civile non è stata ammessa, con la conseguenza che l’atto di costituzione ha efficacia interruttiva istantanea e non permanente (come sarebbe stato se fosse stata ammessa), così che il corso della prescrizione riprende dal momento del provvedimento che, non ammettendo la detta costituzione di parte civile, priva di efficacia interruttiva o sospensiva la relativa richiesta di risarcimento.

Infondato è anche il secondo motivo, con il quale il ricorrente si duole di una omessa pronuncia (violazione dunque dell’art. 112 c.p.c.) sulla prospettata esistenza di un atto interruttivo del __, di cui la corte non si sarebbe occupata. Si tratta in realtà di un vizio di omesso esame di un fatto controverso, più che di omessa pronuncia, che però ha la sorte del precedente, proprio perché attiene ad un capo di sentenza non rilevante per la decisione.

Ma, a prescindere da ciò, il fatto invocato dal ricorrente non è rilevante per la decisione, nel senso che non avrebbe portato, anche se esaminato, ad una soluzione diversa.

Infatti, con quell’atto, il ricorrente esercitava un’azione surrogatoria per conto di una creditrice della società, e dunque quella pretesa, facendo valere un diritto altrui, non poteva utilmente servire ad interrompere la prescrizione di un diritto proprio.

3.- Con il terzo motivo il ricorrente si duole di una erronea interpretazione dell’art. 2395 c.c.

La tesi dominante in giurisprudenza è che in tema di azioni nei confronti dell’amministratore di società, a norma dell’art. 2395 c.c., il terzo (o il socio) è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione (di natura aquiliana) per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall’amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l’ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, dovendosi proporre, altrimenti, l’azione, contrattuale, di cui all’art. 2394 c.c., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore, ai sensi della L. Fall., art. 146 (Cass. 8458/2014; Cass. 2157/2016).

La regola costituisce specificazione del principio per cui i soci di una società di capitali non hanno titolo al risarcimento dei danni che costituiscano mero riflesso del pregiudizio arrecato da terzi alla società, in quanto siano una mera porzione di quello stesso danno subito dalla (e risarcibile in favore della) stessa, con conseguente reintegrazione indiretta a favore del socio. (Cass. 27733/ 2013).

Ciò nel senso che delle condotte che arrecano danno alla società è quest’ultima (o la sua curatela) a doversi dolere, e che la reintegrazione della società nel valore perduto è conseguentemente reintegrazione del socio, per la sua parte.

La corte di appello ha fatto applicazione di tale regola, ritenendo infondata la richiesta di risarcimento in quanto relativa a danni fatti dagli altri soci alla società, attraverso le false fatturazioni e le falsità in bilancio, che solo indirettamente potrebbero costituire pregiudizio per il socio.

Il ricorrente si duole della mancata rivisitazione da parte della corte di appello di un tale consolidato orientamento.

Ma il fatto che la corte lo abbia invece seguito non è di certo censurabile come violazione di legge.

Il ricorso va respinto e le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese di lite nella misura di __ Euro, oltre __ Euro per spese generali.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento del doppio del contributo unificato.

Così deciso in Roma, il 28 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2019

 

Cass_civ_Sez_III_30_05_2019_n_14778




Nel giudizio di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi, il terzo pignorato non può ritenersi parte necessaria

Nel giudizio di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi, il terzo pignorato non può ritenersi parte necessaria

Tribunale Ordinario di Caltanissetta, Sezione Civile, Sentenza del 27/03/2019

Con sentenza del 27 marzo 2019, il Tribunale Ordinario di Caltanissetta, Sezione Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che nel giudizio di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi, il terzo pignorato non può, in linea di principio, ritenersi parte necessaria perché, per assumere tale qualità, deve avere interesse all’accertamento della estinzione del suo debito per non esser costretto a pagare di nuovo al creditore del suo debitore.


Tribunale Ordinario di Caltanissetta, Sezione Civile, Sentenza del 27/03/2019

Nel giudizio di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi, il terzo pignorato non può ritenersi parte necessaria

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI CALTANISSETTA

in composizione monocratica, nella persona del giudice dott. __, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. __ R.G.

TRA

F., D., G. e P. – Creditori procedenti

CONTRO

C. S.R.L. – Debitore esecutato

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

  1. Con atto di citazione in riassunzione regolarmente notificato F., D., G. e P., chiedevano dichiararsi l’illegittimità del provvedimento di sospensione dell’esecuzione emesso dal Giudice dell’Esecuzione del Tribunale di Caltanissetta in data __ nel procedimento per espropriazione presso terzi iscritto al n. __ R.G.E.

L’odierna vicenda può ricostruirsi come di seguito. I creditori procedenti avevano effettuato atto di pignoramento presso terzi, il Comune di Siracusa, a sua volta debitore della società esecutata C. Il titolo azionato era la sentenza n. __ emessa dal Tribunale di Caltanissetta, che aveva statuito l’obbligo, in capo alla società esecutata, di restituire delle somme di denaro agli odierni creditori procedenti, a seguito di risoluzione di contratti di compravendita per decorrenza del termine essenziale.

C. s.r.l. aveva proposto opposizione alla esecuzione, ed il G.E. aveva concesso la sospensione della procedura esecutiva, assegnando termine per l’introduzione della presente fase di merito.

I creditori procedenti provvedevano dunque a instaurare l’odierno giudizio, lamentando:

– l’erroneità del predetto provvedimento giudiziale laddove aveva sospeso l’esecuzione negando l’efficacia esecutiva del titolo azionato, una sentenza di I grado non ancora passata in giudicato, che, ad avviso dei creditori, aveva natura di sentenza di condanna, avendo statuito l’obbligo, in capo alla società esecutata, di restituire delle somme di denaro;

– l’insussistenza dei requisiti per concedere la sospensione della esecuzione, non essendo stato provato il periculum derivante dalla prosecuzione della procedura esecutiva.

I creditori procedenti chiedevano quindi dichiararsi l’illegittimità del provvedimento reso dal G.E. del Tribunale di Caltanissetta del __ ed il loro diritto a procedere esecutivamente nei confronti della società C. in virtù della sentenza n. __ emessa dal Tribunale di Caltanissetta.

La C. s.r.l. si costituiva in giudizio sostenendo:

– l’inammissibilità dell’opposizione all’esecuzione per disintegrità del contraddittorio, non essendo stati citati i terzi pignorati:

– l’infondatezza nel merito, essendo il titolo azionato privo di efficacia esecutiva, trattandosi di sentenza costitutiva i cui capi di condanna alla restituzione di somme di denaro erano solo conseguenza della pronuncia di risoluzione dei contratti di compravendita.

Chiedeva dunque il rigetto delle domande proposte dai creditori, la declaratoria di estinzione del procedimento esecutivo e la liberazione delle somme pignorate.

All’udienza del __ le parti concludevano come in atti e la causa veniva posta in decisione.

  1. Preliminarmente occorre affrontare la questione di inammissibilità posta dal debitore esecutato.

La questione di disintegrità del contradditorio per la mancata citazione del terzo pignorato, Comune di Siracusa, a sua volta debitore della C. S.r.l., in relazione ad un appalto, è infondata.

Ed infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità “nel giudizio di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi il terzo pignorato non può in linea di principio, ritenersi parte necessaria perché, per assumere tale qualità, deve avere interesse all’accertamento della estinzione del suo debito per non esser costretto a pagare di nuovo al creditore del suo debitore” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 11360 del 16/05/2006 – Rv. 589801 – 01; conf. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 11585 del 19/05/2009 – Rv. 607948 – 01). Applicando il principio di diritto sopra enucleato al caso in esame, ci si avvede agevolmente che il Comune di Siracusa, terzo pignorato, non assume veste di parte necessaria nel presente giudizio.

  1. Tanto premesso, deve ora esaminarsi il merito.

La censura rivolta dai creditori procedenti al provvedimento di sospensione dell’esecuzione emesso dal Giudice dell’Esecuzione del Tribunale di Caltanissetta in data __ è infondata e va rigettata.

Deve infatti ritenersi che il titolo azionato, la sentenza n. __ emessa dal Tribunale di Caltanissetta, sia priva di efficacia esecutiva.

Con la sentenza in esame, infatti, il Giudice di merito aveva dichiarato la risoluzione di contratti preliminari di compravendita per decorrenza del termine essenziale, condannando C. s.r.l. a restituire ai creditori procedenti le somme versate a titolo di acconto, per un ammontare complessivo pari ad Euro __. Trattasi di sentenza avente natura dichiarativa, cui seguono i relativi obblighi restitutori.

Orbene, tanto dottrina che in giurisprudenza si è dipanato – e prosegue tuttora- un lungo dibattito sulla provvisoria esecutività ex art. 282 c.p.c. delle sentenze dichiarative e costitutive non ancora passate in giudicato. Secondo recenti approdi della giurisprudenza di legittimità, in tema di sentenze dichiarative e costitutive, deve escludersi che le stesse siano provvisoriamente esecutive ai sensi dell’art. 282 c.p.c.

La Corte di Cassazione, infatti, ha avuto modo di statuire che “l’azione di accertamento dell’avvenuta risoluzione del contratto per effetto d’una clausola risolutiva espressa, ex art. 1456 c.c., tende ad una pronuncia dichiarativa, perché implica l’accertamento dell’inadempienza, con la conseguenza che non ha l’idoneità, con riferimento all’art. 282 c.p.c., all’efficacia anticipata rispetto al momento del passaggio in giudicato; pertanto fino al momento della definitività della sentenza di accertamento – che in quanto tale deve acquisire quel grado di stabilità che si identifica con il giudicato – il rapporto contrattuale permane e con esso, nel caso di contratto a prestazioni corrispettive, qual è quello di locazione, l’obbligo del conduttore di continuare a corrispondere il canone” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 25743 del 15/11/2013 – Rv. 629082 – 01; conf., Cass., Sez. 2, Sentenza n. 7369 del 26/03/2009 – Rv. 607307 – 01; sul tema, si veda altresì Cass., Sez. Un., Sentenza n. 4059 del 22/02/2010 – Rv. 611643 – 01). Il principio enucleato, avente ad oggetto una ipotesi di risoluzione per effetto dell’operatività di una clausola risolutiva espressa, appare esportabile alla vicenda in esame, ove si controverte sulla efficacia di una sentenza che ha dichiarato la risoluzione del contratto per decorrenza del termine essenziale.

Seguendo tale impostazione, dovrà negarsi efficacia provvisoriamente esecutiva ai capi della sentenza del Tribunale di Caltanissetta n. __ relativi alla condanna alle restituzioni, poiché strettamente consequenziali alla declaratoria della risoluzione per decorrenza del termine essenziale, che non ha idoneità “all’efficacia anticipata rispetto al momento del passaggio in giudicato”. A ragionare diversamente, si perverrebbe alla conclusione, poco congrua sul piano logico, di riconoscere la provvisoria esecutività ai capi della sentenza relativi alla condanna alle restituzioni, pur negandola al capo (che dichiara la risoluzione del contratto) che ne costituisce il necessario antecedente logico-giuridico.

La soluzione qui accolta, peraltro, è stata anche fatta propria dalla Corte d’Appello nissena con D.P. del __, confermato in sede collegiale con ordinanza resa il __, nel procedimento ex art. 351 c.p.c., iscritto al n. __ r.g.a.c., promosso dalla C., volto alla sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza del Tribunale di Caltanissetta n. __, secondo cui “…le pronunce restitutorie poste a carico della società istante sono strettamente consequenziali alla declaratoria di risoluzione del contratto per inadempimento, declaratoria che, integrando una pronuncia costitutiva, è insuscettibile di esecuzione, necessariamente anche nei suoi effetti restitutori, fino al suo passaggio in giudicato”.

Sulla scorta delle argomentazioni che precedono, le domande svolte dai creditori devono essere rigettate.

Le domande proposte dalla società debitrice volte alla declaratoria di estinzione del procedimento esecutivo e alla liberazione delle somme non possono in questa sede essere esaminata, poiché di competenza del G.E. (art. 632 c.p.c.), e devono dichiararsi inammissibili.

  1. In considerazione dell’esito del giudizio, alla luce della complessità delle questioni giuridiche trattate e della peculiarità della controversia, devono ritenersi sussistenti gravi ragioni (cfr. Corte Cost., sentenza n. __) per disporre l’integrale compensazione, fra le parti costituite, delle spese di lite.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando, disattesa ogni diversa domanda eccezione o difesa, così provvede:

  1. rigetta le domande svolte dai creditori procedenti;
  2. dichiara l’inammissibilità delle domande svolte dal debitore di declaratoria di estinzione del procedimento esecutivo e di liberazione delle somme pignorate;
  3. compensa le spese di lite.

Così deciso in Caltanissetta, il 26 marzo 2019.

Depositata in Cancelleria il 27 marzo 2019.

 

Tribunale_Caltanissetta_Sent_27_03_2019

 

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Opposizione a precetto ex art. 615 c.p.c.

Opposizione a precetto ex art. 615 c.p.c.

Corte di Cassazione Civile, Sezione VI – Lavoro, Ordinanza n. 10415 del 12/04/2019

Con ordinanza del 13 maggio 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione VI – Lavoro, in tema di recupero crediti, ha stabilito che sussiste litispendenza, e non continenza né connessione, tra una opposizione a precetto, proposta ai sensi dell’art. 615, comma 1, c.p.c., ed un’opposizione all’esecuzione, successivamente proposta ai sensi dell’art. 615, comma 2, c.p.c., avverso il medesimo titolo esecutivo e fondate su fatti costitutivi dell’inesistenza del diritto di procedere all’esecuzione forzata identici.


 

Corte di Cassazione Civile, Sezione VI – Lavoro, Ordinanza n. 10415 del 12/04/2019

Opposizione a precetto ex art. 615 c.p.c.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. __ proposto da:

M. – ricorrente –

contro

U. S.p.A. – controricorrente –

per regolamento di competenza avverso l’ordinanza n. R.G. __ del TRIBUNALE di ROMA, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del __ dal Consigliere Relatore Dott. __;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __ che visto l’art. 380 ter c.p.c., chiede che la Corte di Cassazione respinga il proposto regolamento di competenza.

Svolgimento del processo

che il Tribunale di Roma, pronunciando sulla domanda di opposizione alla esecuzione proposta dal M. avverso U. S.p.A. ha dichiarato la litispendenza ed ordinato la cancellazione della causa dal ruolo;

che a fondamento della decisione il Tribunale ha rilevato che, come eccepito da U. S.p.A., pendeva in grado di appello un identico giudizio, introdotto come opposizione a precetto (e definito in primo grado con il rigetto della opposizione).

che avverso la ordinanza ha proposto ricorso il M., cui ha opposto difese U. S.p.A.;

che il PM ha chiesto respingersi il ricorso;

che il decreto di fissazione della adunanza camerale è stata comunicato alle parti – unitamente alle conclusioni del PM – ai sensi dell’art. 380 ter c.p.c.;

che il M. ha depositato memoria.

Motivi della decisione

che il M. in questa sede ricorrente ha assunto non esservi identità tra il presente giudizio ed il giudizio di opposizione a precetto pendente in grado di appello, in quanto:

– quel giudizio, pendente presso la Corte d’Appello di Roma, ha ad oggetto la dichiarazione di inefficacia della somma precettata, pari ad Euro __;

– il presente procedimento di opposizione avverso il pignoramento ha quale ragione di contestazione la minor somma di Euro __, di cui esso M. assume il pagamento (avvenuto in sede esecutiva in favore della società che aveva ceduto il credito ad U.).

Ha comunque dedotto che il giudizio di cui all’art. 615 c.p.c., comma 1, e quello del successivo comma 2 della norma hanno un petitum diverso giacché nel primo si chiede accertarsi la inefficacia del precetto e con il secondo si contesta la legittimità del pignoramento;

tra le due cause vi è, tutt’al più, un rapporto di pregiudizialità – dipendenza che potrebbe giustificare la sospensione, ex art. 295 c.p.c., del giudizio instaurato successivamente (Cass. ordinanza n. 302/2017) che ritiene il Collegio si debba rigettare il ricorso;

che va in limine rilevato che, come chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. civ., SS.UU., sentenza 12 dicembre 2013 n. 27846), la dichiarazione di litispendenza deve essere compiuta – qualora una stessa causa venga proposta davanti a giudici diversi – anche se la controversia iniziata in precedenza sia stata già decisa in primo grado e penda ormai davanti al giudice dell’impugnazione, come avvenuto nella fattispecie di causa;

che vengono in questa sede in discussione due diverse questioni:

– la prima relativa alla effettiva identità delle ragioni e delle conclusioni della opposizione a precetto pendente dinanzi alla Corte di Appello di Roma rispetto al petitum ed alla causa petendi della presente opposizione avverso il successivo atto di pignoramento;

– la seconda, in punto di diritto, sulla eventuale differenza ontologica della opposizione proposta avverso il precetto rispetto alla opposizione proposta dopo l’inizio della esecuzione, questione questa, la cui rilevanza presuppone la positiva verifica della identità in fatto dei due giudizi in considerazione.

Nella fattispecie di causa si osserva quanto al fatto processuale che la ordinanza dichiarativa della litispendenza ha correttamente rilevato la identità delle domande svolte dal Ministero nei due giudizi di opposizione al precetto e di opposizione al pignoramento.

Le due cause hanno causa petendi identica.

Il ricorso ex art. 615 c.p.c., comma 2, riproduce integralmente (e non solo In parte, come assunto dal M.) il contenuto del ricorso in opposizione al precetto deducendo, poi, il ricorrente “che l’iniziativa esecutiva di cui trattasi è oltremodo erronea ed iniquamente gravatoria degli interessi pubblici di titolarità del Ministero opponente per le motivazioni già dedotte da questo Patrocinio nell’atto di opposizione avverso l’atto di precetto, testé sopra riportato nel presente atto” (così a pagina 14 del ricorso ex art. 616 c.p.c.).

Del pari identico è il petitum: il M., opponendosi al precetto, ha chiesto al Tribunale di “statuire che la Soc. Unicredit Factoring non ha il diritto a procedere ad esecuzione forzata per gli importi erroneamente quantizzati in atto di precetto”; nell’attuale opposizione avverso il pignoramento ha chiesto “statuire che la predetta società Unicredit Factoring non ha diritto di procedere esecutivamente nei confronti del Ministero qui deducente per gli importi contestati”.

Stante la effettiva identità della causa petendi e delle conclusioni deve, dunque, verificarsi in punto di diritto se la diversità dei due giudizi possa ex se derivare dalla diversità degli atti opposti, rispettivamente il precetto ed il pignoramento, come il Ministero sostiene, anche nella memoria difensiva.

L’assunto è infondato.

Occorre in questa sede dare conto del precedente di questa Corte di cui all’ordinanza 10 gennaio 2017 n. 302; per quanto si evince dal provvedimento anche in tale fattispecie la questione riguardava l’eventuale rapporto di litispendenza tra un giudizio di opposizione al precetto pendente in appello ed il giudizio di opposizione avverso il pignoramento (nel quale in primo grado era stata dichiarata la litispendenza). Tuttavia vi era una identità solo parziale di causa petendi: ne dà atto l’ordinanza e si legge nelle conclusioni del PM riportate nella epigrafe (la identità riguardava solo un punto di causa petendi).

In ogni caso, non si ritiene in questa sede di condividere la affermazione, contenuta nella motivazione della ordinanza, secondo cui “i procedimenti in parola hanno petitum diversi, essendo relativi l’uno ad opposizione a precetto e l’altro ad opposizione a pignoramento”.

Si intende invece dare continuità al principio, affermato da altra giurisprudenza di questa Corte (Cass. sez. III 20 luglio 2010 nr 17037; Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 25926 del 2018, sent. n. 755/2014; 19876/2013; 15727/2011) secondo cui vi è litispendenza tra opposizione a precetto proposta ex art. 615 c.p.c., comma 1, ed opposizione alla esecuzione proposta avverso il medesimo titolo esecutivo e fondata su fatti costitutivi identici.

Ed invero l’oggetto della opposizione alla esecuzione- sia essa proposta avverso il precetto, ex art. 615 c.p.c., comma 1, sia essa proposta ad esecuzione già iniziata, ex art. 615 c.p.c., comma 2 – è identico e consiste nell’accertamento della esistenza/inesistenza del diritto del creditore a procedere ad esecuzione forzata (o, se si preferisce, della esistenza/inesistenza del titolo esecutivo).

L’atto in relazione al quale si propone la opposizione è dunque irrilevante, a parità di petitum e di causa petendi, poiché non è in discussione la legittimità di detto atto (come nella opposizione agli atti esecutivi) ma, piuttosto, il titolo esecutivo, che sta a monte tanto degli atti propedeutici alla esecuzione tanto dell’esecuzione.

che, pertanto, il ricorso deve esse respinto;

che, le spese del presente regolamento si compensano, essendo il ricorso fondato sul principio espresso nel precedente di questa Corte n. 302/2017;

che non può trovare applicazione nei confronti dell’Amministrazione dello Stato, pur soccombente, il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, atteso che questa, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, è esentata dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (cfr. Cass. n. 1778/2016).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della NON sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 23 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2019

Cass._civ_Sez_VI_Lavoro_Ord_12_04_2019_n_10415




È necessario procedere al deposito della documentazione che occorre al creditore procedente (oltre al titolo esecutivo) per sottoporre ad esecuzione forzata immobiliare i beni del debitore

È necessario procedere al deposito della documentazione che occorre al creditore procedente (oltre al titolo esecutivo) per sottoporre ad esecuzione forzata immobiliare i beni del debitore

Tribunale Ordinario di Nocera Inferiore, Sezione I Civile, Sentenza del 03/04/2019

Con sentenza del 3 aprile 2019, il Tribunale Ordinario di Nocera Inferiore, Sezione I Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che nel giudizio di scioglimento della comunione ereditaria al fine di consentire la verifica della qualità di comunista in capo a chi formula la domanda, nonché dell’integrità del contraddittorio con riguardo a tutti i possibili litisconsorti necessari, è necessario procedere al deposito della medesima documentazione che occorre al creditore procedente (oltre al titolo esecutivo) per sottoporre ad esecuzione forzata immobiliare i beni del debitore alla stregua di quanto previsto dall’art. 567 c.p.c., ovvero l’estratto del catasto, nonché i certificati delle iscrizioni e trascrizioni relative all’immobile o, alternativamente, un certificato notarile attestante le risultanze delle visure catastali e dei registri immobiliari. Detta documentazione è, invero, necessaria a verificare che le parti stiano dividendo beni effettivamente ed oggettivamente propri (e non semplicemente beni tra le parti incontestatamente propri) e che non vi siano altri soggetti titolari della qualità di litisconsorti necessari.


Tribunale Ordinario di Nocera Inferiore, Sezione I Civile, Sentenza del 03/04/2019

È necessario procedere al deposito della documentazione che occorre al creditore procedente (oltre al titolo esecutivo) per sottoporre ad esecuzione forzata immobiliare i beni del debitore

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI NOCERA INFERIORE

Sezione Prima Civile

in persona del giudice, dott.ssa __, ha emesso la seguente

SENTENZA

Assunta in decisione ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., nella causa civile di primo grado iscritta al n. __ R.G., vertente

TRA

V. – parte attrice

E

C. – parte convenuta

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il giudizio è stato introdotto da parte attrice al fine di ottenere pronuncia giudiziale di scioglimento della comunione venutasi a creare, in conseguenza della morte del genitore R.

Dalla documentazione depositata da parte attrice emerge che il patrimonio si compone di vari beni immobili.

La natura immobiliare dei beni da dividere impone, in via pregiudiziale, di verificare sia l’attuale esistenza del diritto di proprietà sugli immobili in capo ai condividenti, sia l’assenza di trascrizioni o iscrizioni pregiudizievoli.

Tali accertamenti, da effettuare d’ufficio in quanto indispensabili al fine di verificare sia la legittimazione attiva e passiva delle parti sia l’integrità del contraddittorio, richiedono necessariamente l’esame dei documenti catastali e, soprattutto, dei certificati delle iscrizioni e trascrizioni eseguite presso i registri immobiliari, i quali costituiscono l’unico strumento di pubblicità previsto dall’ordinamento in relazione ai diritti reali sui beni immobili.

Conseguentemente, la rituale produzione, nei termini perentori di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c. dei certificati storici catastali e, soprattutto, della documentazione dei registri immobiliari concernente le iscrizioni e trascrizioni (ovvero di relazione notarile sostitutiva), è indispensabile per verificare la sussistenza delle condizioni dell’azione di divisione, quali l’effettiva esistenza del diritto dominicale in capo alle parti del giudizio e l’esistenza o meno di altri eventuali litisconsorti necessari ex artt. 1113 c.c. e 784 c.p.c.

In tal senso si pone la consolidata giurisprudenza di merito secondo la quale la documentazione che deve necessariamente depositarsi al fine di consentire la verifica della qualità di comunista in capo a chi formula la domanda nonché dell’integrità del contraddittorio con riguardo a tutti i possibili litisconsorti necessari è la medesima documentazione che occorre al creditore procedente (oltre al titolo esecutivo) per sottoporre ad esecuzione forzata immobiliare i beni del debitore alla stregua di quanto previsto dall’art. 567 c.p.c., ossia l’estratto del catasto, nonché i certificati delle iscrizioni e trascrizioni relative all’immobile o, alternativamente, un certificato notarile attestante le risultanze delle visure catastali e dei registri immobiliari; documentazione, quella indicata, per l’appunto necessaria a verificare che le parti stiano dividendo beni effettivamente ed oggettivamente propri (e non semplicemente beni tra le parti incontestatamente propri) e che non vi siano altri soggetti titolari della qualità di litisconsorti necessari (cfr. App. Roma, 1.6.2011, n. 2480 nonché Trib. Roma 14121/2008, 14618/2008, 16584/2008, 19371/2008, 2075/2009, 2746/2009, 11745/2009, 12063/2009, 14022/2009, 15743/2009, 24123/2009, 25823/2009, 2924/2010, 5387/2010, 12065/2010, 2399/2011).

“La documentazione necessaria alla esatta individuazione e proprietà del bene ed all’accertamento della eventuale esistenza di iscrizioni e/o trascrizioni pregiudizievoli, anche ai fini e per gli effetti di cui all’art. 1113 c.c., acquista particolare rilevanza, altresì, per l’individuazione delle modalità esecutive della divisione e, segnatamente, per l’accertamento sulla eventuale commerciabilità dei beni. E, in definitiva, in assenza di certezza sulla proprietà degli stessi e sull’assenza di vincoli o pregiudizi, conseguibile solo attraverso idonea documentazione, non è possibile dunque adottare alcuna statuizione in merito, sicché la domanda va dichiarata improcedibile” (cfr. la già citata sentenza App. Roma, 1.6.2011, n. 2480).

In particolare, per quanto riguarda la verifica dell’integrità del contraddittorio, deve osservarsi che essa va operata non già con riferimento ai creditori ipotecari ex art. 1113, comma 3, c.c. quanto, piuttosto, con riguardo ai creditori opponenti di cui all’art. 784 c.p.c. Ed invero, mentre la questione relativa alla qualità di litisconsorti necessari dei creditori titolari di ipoteca, pur essendo ancora dibattutissima in dottrina e giurisprudenza, sembra essere stata risolta dal più recente orientamento dei giudici di legittimità nel senso dell’esclusione di tale qualità, essendo la chiamata in giudizio dei predetti soggetti una mera condizione di opponibilità nei loro confronti della decisione giudiziale (cfr. Cass., 9.11.2012, n. 19529), non può esservi alcun dubbio, stante l’espressa previsione legislativa in tal senso, che i creditori che abbiano trascritto ai sensi dell’art. 2646, comma 2, c.p.c. l’atto di opposizione di cui al secondo comma dell’art. 1113 c.c. siano litisconsorti necessari nel giudizio di divisione sicché la sentenza resa in assenza della loro chiamata in causa sarebbe inutiliter data e, per l’effetto, radicalmente nulla.

Sotto altro profilo, si deve sottolineare che il giudizio di divisione ha un duplice oggetto: l’accertamento del diritto di ciascun condividente allo scioglimento della comunione e l’attuazione di quel diritto attraverso la determinazione delle concrete modalità della stessa. La duplicità dell’oggetto non esclude tuttavia l’unitarietà del giudizio, stante la strumentalità della fase volta ad accertare l’an dividendum sit rispetto a quella finalizzata alla determinazione del quomodo dividendum sit (v. Cass., 8.11.1983, n. 6591). La natura parzialmente esecutiva della seconda fase del giudizio divisorio, che come noto può concludersi con la vendita all’incanto dei beni (art. 720, ult. parte, c.c.), ne giustifica la sottoposizione alla disciplina di cui all’art. 567 c.p.c. che appunto condiziona l’ammissibilità della domanda alla produzione della già più volte menzionata documentazione ipo-catastale o del certificato notarile sostitutivo (sulla possibilità di applicazione analogica delle norme processuali cfr. Cass. Sez. Un., 22.2.2007, n. 4109).

Nel caso in esame la parte costituita non ha provveduto ad assolvere in modo completo l’onere di produzione della predetta documentazione; onere che gravava sulla parte interessata alla decisione della causa nel merito e quindi, considerata la natura del giudizio, sulla parte costituita in giudizio.

Di conseguenza, in difetto della suddetta tempestiva e completa produzione documentale, è improcedibile in radice la domanda di scioglimento proposta.

Le spese di lite vanno compensate alla luce della natura delle questioni trattate, in presenza di giusti motivi.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda, istanza od eccezione disattesa, così provvede:

  1. dichiara improcedibile la domanda di scioglimento della comunione;
  2. compensa le spese di lite tra le parti.

Così deciso in Nocera Inferiore, il 3 aprile 2019.

Depositata in Cancelleria il 3 aprile 2019.

 

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L’ipoteca ex art. 77, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, può essere iscritta senza necessità di procedere a notifica dell’intimazione ad adempiere

L’ipoteca ex art. 77, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, può essere iscritta senza necessità di procedere a notifica dell’intimazione ad adempiere

Tribunale Ordinario di Velletri, Sezione Lavoro, Sentenza del 04/04/2019

Con sentenza del 4 aprile 2019, il Tribunale Ordinario di Velletri, Sezione Lavoro, in tema di recupero crediti, ha stabilito che l’ipoteca prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 77 può essere iscritta senza necessità di procedere a notifica dell’intimazione ad adempiere di cui all’art. 50, comma 2, del medesimo D.P.R., prescritta per il caso che l’espropriazione forzata non sia iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento, poiché l’iscrizione ipotecaria non può essere considerata un atto dell’espropriazione forzata, bensì un atto riferito ad una procedura alternativa all’esecuzione forzata vera e propria.


Tribunale Ordinario di Velletri, Sezione Lavoro, Sentenza del 04/04/2019

L’ipoteca ex art. 77, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, può essere iscritta senza necessità di procedere a notifica dell’intimazione ad adempiere

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI VELLETRI

SEZIONE LAVORO

in persona del giudice, dott. __, all’udienza del __, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. __ R.G. pendente

TRA

C. – ricorrente –

E

A. – convenuta –

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ricorso depositato in data __ la parte ricorrente C. ha chiamato in giudizio la parte convenuta indicata in epigrafe e – premessi i fatti costitutivi delle proprie domande – ha presentato le seguenti conclusioni, integralmente riportate e trascritte appresso “IN VIA PRINCIPALE: dichiarare nulla l’ISCRIZIONE IPOTECARIA impugnata in ordine alle pretese creditorie di competenza del Tribunale adito, e tutti gli atti ad essa presupposti, per tutti i motivi esposti in narrativa, ordinandone la cancellazione a cura di Equitalia presso il Competente Ufficio dell’Agenzia del Territorio, e per l’effetto dichiarare l’intervenuta prescrizione dei crediti previdenziali sottesi all’atto impugnato, compresi interessi sanzioni e compensi di riscossione. Con vittoria di spese, competenze ed onorari. Sentenza esecutiva ex lege. IN VIA SUBORDINATA: dichiarare nulla l’ISCRIZIONE IPOTECARIA impugnata in ordine alle pretese creditorie di competenza del Tribunale adito, per tutti i motivi esposti in narrativa, ordinandone la cancellazione a cura di Equitalia presso il Competente Ufficio dell’Agenzia del Territorio, e determinare l’esatto importo del credito vantato, alla luce dello sgravio parziale già ottenuto ed esclusi in ogni caso interessi, sanzioni e compensi di riscossione, in quanto prescritti – cfr. sentenza Cass. ord. n. 12715 del 20/6/16”.

Nel dettaglio, la parte ricorrente ha dedotto:

– che in data __ il ricorrente riceveva la notifica di avvenuta iscrizione di ipoteca (fascicolo n. (…)), su un immobile di sua proprietà, da parte di E. SPA, per un importo complessivo di Euro __, pari al doppio del credito asseritamente iscritto a ruolo e scaduto;

– che i crediti sottesi a tale iscrizione di ipoteca erano quelli portati dalle seguenti cartelle di pagamento:

1) n. (…), asseritamente notificata il __ (competenza anni ____), dell’importo di Euro __ (totale tributi), sgravata per un importo di Euro __, con un residuo asseritamente dovuto di Euro __, al netto di diritti di notifica/compensi/aggio, interessi di mora e spese per procedure esecutive.

2) n. (…) asseritamente notificata il __ (competenza anno __), dell’importo di Euro __ (totale tributi), totalmente sgravata;

3) n. (…) asseritamente notificata il __ (competenza anno __), dell’importo di Euro __ (totale tributi), sgravata per un importo di Euro __, con un residuo asseritamente dovuto di Euro __, al netto di diritti di notifica/compensi/aggio, interessi di mora e spese per procedure esecutive;

4) n. (…) asseritamente notificata il __ (competenza anno__), dell’importo di Euro __ (totale tributi), al netto di diritti di notifica/compensi/aggio, interessi di mora e spese per procedure esecutive, non oggetto di sgravio.

5) n. (…) asseritamente notificata il __ (competenza anni __), dell’importo di Euro __ (totale tributi), al netto di diritti di notifica/compensi/aggio, interessi di mora e spese per procedure esecutive, non oggetto di sgravio;

6) n. (…) asseritamente notificata il __ (competenza anno __), dell’importo di competenza I. pari ad Euro __ (totale tributi), al netto di diritti di notifica/compensi/aggio, interessi di mora e spese per procedure esecutive, non oggetto di sgravio.

– che l’iscrizione ipotecaria di cui sopra sarebbe illegittima sia per mancata notifica del relativo preavviso ex art. 50 D.P.R. n. 602 del 1973 sia per mancanza dei crediti sottesi, in quanto parzialmente sgravati;

– che i crediti in questione sarebbe comunque estinti per prescrizione, non essendo stati notificati atti interruttivi della stessa.

Si è costituita (tardivamente) in giudizio la parte convenuta, contestando le affermazioni della parte ricorrente e chiedendo il rigetto del ricorso.

La causa è stata istruita con l’acquisizione dei documenti prodotti.

Concesso termine per il deposito di note scritte, la controversia – assegnata a questo giudice in data __ – è stata decisa all’udienza odierna.

Va preliminarmente rigettata l’eccezione di improcedibilità del ricorso per violazione dell’art. 415 co. 4 c.p.c.

La giurisprudenza ha chiarito che il termine previsto da tale disposizione la natura meramente ordinatoria – differentemente da quello previsto dal successivo comma 5 del medesimo articolo – e pertanto la tardività della notifica del ricorso, dopo l’emissione del decreto di fissazione della prima udienza, non comporta di per sé alcuna invalidità.

Va altresì rigettata l’eccezione d’inammissibilità del ricorso, sollevata dalla parte convenuta, per asserita tardività dello stesso ex art. 617 c.p.c. ed art. 24 del D. Lgs. n. 46 del 1999.

L’azione proposta dalla parte ricorrente ha per oggetto l’accertamento della (in)esistenza dei crediti sottesi all’iscrizione di ipoteca e alle cartelle di pagamento di cui sopra e, dunque, dell’assenza del diritto delle parti convenute a procedere alla riscossione coattiva a mezzo ruolo.

Ne consegue che l’azione in questione va qualificata, in parte qua, come opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., non assoggettata al termine di 20 giorni di cui all’art. 617 c.p.c.

L’eccezione di decadenza dall’azione ex art. 24, co. 5, del D. Lgs. n. 46 del 1999, sollevata dalle parti convenute è anch’essa infondata.

L’art. 24 del D. Lgs. n. 46 del 1999 (in materia di Iscrizioni a ruolo dei crediti degli enti previdenziali) prevede che “1. I contributi o premi dovuti agli enti pubblici previdenziali non versati dal debitore nei termini previsti da disposizioni di legge o dovuti in forza di accertamenti effettuati dagli uffici sono iscritti a ruolo, unitamente alle sanzioni ed alle somme aggiuntive calcolate fino alla data di consegna del ruolo al concessionario, al netto dei pagamenti effettuati spontaneamente dal debitore. 2. L’ente ha facoltà di richiedere il pagamento mediante avviso bonario al debitore. L’iscrizione a ruolo non è eseguita, in tutto o in parte, se il debitore provvede a pagare le somme dovute entro trenta giorni dalla data di ricezione del predetto avviso. Se, a seguito della ricezione di tale avviso, il contribuente presenta domanda di rateazione, questa viene definita secondo la normativa in vigore e si procede all’iscrizione a ruolo delle rate dovute. Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 25, l’iscrizione a ruolo è eseguita nei sei mesi successivi alla data prevista per il versamento. 3. Se l’accertamento effettuato dall’ufficio è impugnato davanti all’autorità giudiziaria, l’iscrizione a ruolo è eseguita in presenza di provvedimento esecutivo del giudice. 4. In caso di gravame amministrativo contro l’accertamento effettuato dall’ufficio, l’iscrizione a ruolo è eseguita dopo la decisione del competente organo amministrativo e comunque entro i termini di decadenza previsti dall’articolo 25. 5. Contro l’iscrizione a ruolo il contribuente può proporre opposizione al giudice del lavoro entro il termine di quaranta giorni dalla notifica della cartella di pagamento. Il ricorso va notificato all’ente impositore. 6. Il giudizio di opposizione contro il ruolo per motivi inerenti al merito della pretesa contributiva è regolato dagli articoli 442 e seguenti del codice di procedura civile. Nel corso del giudizio di primo grado il giudice del lavoro può sospendere l’esecuzione del ruolo per gravi motivi. 7. Il ricorrente deve notificare il provvedimento di sospensione al concessionario. …”.

All’accertamento dell’omissione contributiva segue quindi, a seconda della disciplina applicabile ratione temporis, un (eventuale) avviso bonario, poi l’iscrizione a ruolo e, ancora poi, la notifica della cartella di pagamento – o, in alternativa, l’emissione di un avviso di addebito immediatamente esecutivo – a loro volta seguiti dagli opportuni atti interruttivi, cioè dalle intimazioni di pagamento, e/o dagli atti dell’esecuzione forzata.

La giurisprudenza ha chiarito, riguardo al comma 5 dell’art. 24 del D. Lgs. n. 46 del 1999 cit., che “Contro l’iscrizione a ruolo di contributi previdenziali, il contribuente può proporre opposizione al giudice del lavoro, ai sensi dell’art. 24, comma 5 D. Lgs. n. 46 del 1999, nel termine perentorio di quaranta giorni dalla notifica della cartella di pagamento. Infatti, l’inosservanza di tale termine ha l’effetto di rendere inammissibile, nel merito, l’opposizione, dal momento che lo stesso non ha la semplice funzione di regolare la sola azione esecutiva, essendo l’opposizione al ruolo funzionale all’accertamento nel merito della sussistenza dello stesso credito iscritto a ruolo” (Cassazione civile sez. lav. 27 febbraio 2007 n. 4506).

La giurisprudenza ha inoltre chiarito, in una prospettiva più ampia, che “Relativamente alle contestazioni concernenti la riscossione dei crediti contributivi non tributari, il contribuente può avvalersi di tre diversi strumenti di tutela giurisdizionale: a) proporre opposizione al ruolo esattoriale ex art. 24, c. 6, D. Lgs. n. 46 del 1999 per motivi attinenti al merito della pretesa contributiva entro il termine di 40 giorni dalla notifica della cartella di pagamento davanti al giudice del lavoro; b) proporre opposizione ex art. 615 c.p.c. per questioni attinenti non solo alla pignorabilità dei beni, ma anche a fatti estintivi del credito sopravvenuti alla formazione del titolo (quali la prescrizione del credito, la morte del contribuente, l’intervenuto pagamento della somma precettata), davanti al giudice del lavoro nel caso in cui l’esecuzione non sia ancora iniziata ovvero davanti al giudice dell’esecuzione nel caso in cui la stessa sia invece già iniziata; c) proporre opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. per i vizi attinenti la regolarità formale del titolo costituito dalla cartella esattoriale e degli atti di esecuzione (attinenti, ad esempio, alla notifica ed alla motivazione) entro il termine di 20 giorni dalla notifica del titolo o del precetto (costituito, nel caso dell’esecuzione mediante ruolo, dalla cartella di pagamento), davanti al giudice dell’esecuzione o del lavoro a seconda che l’esecuzione sia o meno già iniziata” (Tribunale Roma sez. lav. 04 maggio 2017 n. 4076), e che “Secondo il condiviso orientamento interpretativo di questa Corte, nella disciplina della riscossione mediante iscrizione a ruolo dei crediti previdenziali, di cui al D. Lgs. n. 46 del 1999, l’opposizione agli atti esecutivi è prevista dall’art. 29, comma 2, che, per la relativa regolamentazione, rinvia alle forme ordinarie, e non dall’art. 24, del citato D. Lgs. n. 46 del 1999, che si riferisce, invece, all’opposizione sul merito della pretesa di riscossione, con la conseguenza che l’opposizione agli atti esecutivi prima dell’inizio dell’esecuzione deve proporsi entro cinque giorni ora 20 giorni, n.d.a. dalla notificazione del titolo esecutivo, che, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 49, si identifica nella cartella esattoriale; quest’ultima, infatti, essendo un estratto del ruolo, costituisce titolo esecutivo ai sensi del suddetto D.P.R. n. 602 del 1973, art. 49, come modificato dal D. Lgs. n. 46 del 1999, art. 16, (cfr, Cass., n. 21863/2004). La tempestività dell’opposizione agli atti esecutivi deve essere controllata pregiudizialmemte d’ufficio, anche in sede di legittimità, in base alla lettura degli atti (cfr, Cass., nn. 9912/2001; 11251/1996). … in ordine alle censure inerenti il merito della pretesa … trova applicazione al riguardo il termine perentorio (cfr, ex plurimis, Cass., n. 14692/2007) di quaranta giorni di cui al D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24”.

La giurisprudenza ha pure precisato che il termine di prescrizione del diritto vantato dagli enti previdenziali – per i quali è in corso una procedura di riscossione a mezzo ruolo – è quinquennale, e tale rimane anche in caso di mancata o tardiva opposizione a cartella esattoriale: in tal senso cfr. Cassazione civile sez. VI 04 aprile 2017 n. 8752, che ha chiarito che “La prescrizione dei contributi previdenziali, nel caso di mancata o tardiva opposizione a cartella esattoriale, rimane quinquennale· e non si converte in decennale ai sensi dell’art. 2953 c.c.”, nonché Tribunale Roma sez. lav. 25 maggio 2017 n. 4934, secondo cui “la scadenza del termine (perentorio) per proporre opposizione avverso la cartella di pagamento di cui all’art. 24, comma 5, del D. Lgs. n. 46 del 1999, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo senza determinare anche la cd. “conversione” del termine di prescrizione breve (nella specie: quinquennale, secondo l’art. 3, commi 9 e 10, della L. n. 335 del 1995) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell’art. 2953 c.c.; tale ultima disposizione, infatti, si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la cartella esattoriale, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato”.

Tale principio è stato ribadito dalle Sezioni Unite della Cassazione, che hanno (definitivamente) stabilito che “La scadenza del termine – pacificamente perentorio – per proporre opposizione a cartella di pagamento di cui all’art. 24, comma 5, D. Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione , produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo senza determinare anche l’effetto della c.d. conversione del termine di prescrizione breve (nella specie, quinquennale secondo l’ art. 3, commi 9 e 10, L. n. 335 del 1995) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell’ art. 2953 c.c. Tale ultima disposizione, infatti, si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la suddetta cartella, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato. Lo stesso vale per l’avviso di addebito dell’INPS, che dal 1° gennaio 2011 ha sostituito la cartella di pagamento per i crediti di natura previdenziale di detto Istituto (art. 30, D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito dalla L. n. 122 del 2010). È di applicazione generale il principio secondo il quale la scadenza del termine perentorio stabilito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito ma non determina anche l’effetto della c.d. conversione del termine di prescrizione breve eventualmente previsto in quello ordinario decennale, ai sensi dell’art. 2953 c.c. Tale principio, pertanto, si applica con riguardo a tutti gli atti – comunque denominati – di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali ovvero di crediti relativi ad entrate dello Stato, tributarie ed extratributarie, nonché di crediti delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri Enti locali nonché delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie o amministrative e così via. Con la conseguenza che, qualora per i relativi crediti sia prevista una prescrizione (sostanziale) più breve di quella ordinaria, la sola scadenza del termine concesso al debitore per proporre l’opposizione, non consente di fare applicazione dell’art. 2953 c.c., tranne che in presenza di un titolo giudiziale divenuto definitivo” (Cassazione civile SS. UU. 17 novembre 2016 n. 23397).

In sintesi: qualora la cartella esattoriale – o l’avviso di addebito – siano stati validamente notificati al destinatario e non tempestivamente impugnati da quest’ultimo, tale soggetto decade dalla possibilità di far valere tanto i vizi formali della cartella o dell’avviso di addebito (e degli altri atti antecedenti non autonomamente e tempestivamente impugnati), sia dalla possibilità di eccepire l’eventuale prescrizione maturata prima ancora della notifica della cartella di pagamento o dell’avviso di addebito.

Anche in tal caso, tuttavia, rimangono tuttavia aperte talune possibilità per l’esecutando:

a di far valere l’eventuale prescrizione sopravvenuta dopo la notificazione della cartella di pagamento (o dell’avviso di addebito) – per decorso di un ulteriore quinquennio, dopo la notificazione della cartella, in assenza di ulteriori atti interruttivi (o di atti esecutivi) – tramite l’impugnazione, per tale motivo, del successivo atto della procedura esecutiva o del successivo atto interruttivo posti in essere dall’agente di riscossione o dall’ente creditore;

b di esperire una azione giudiziale (di accertamento negativo), anche senza attendere la notifica di ulteriori atti interruttivi o il compimento di atti esecutivi, per accertare l’eventuale prescrizione sopravvenuta dopo la notificazione (per decorso di un ulteriore quinquennio, dopo la notificazione della cartella, in assenza di ulteriori atti interruttivi);

c di esperire una azione giudiziale (di accertamento negativo), anche senza attendere la notifica di ulteriori atti del procedimento di riscossione o di ulteriori atti interruttivi, per accertare la nullità o l’inesistenza della notificazione della cartella esattoriale e quindi (non operando, in caso di nullità o inesistenza della notifica della cartella, la decadenza e la preclusione ex art. 24, comma 5, D. Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46) per far accertare l’eventuale prescrizione intervenuta prima ancora della inesistente o invalida notificazione della cartella o dell’avviso.

Nel caso di specie, la parte ricorrente ha dedotto – in riferimento a talune cartelle di pagamento – che i crediti contributivi vantati dalle parti convenute si sarebbero prescritti, anche in ragione della omissione e/o della invalidità delle (asserite) notificazioni effettuate nei confronti della parte ricorrente.

A tal proposito occorre ricordare – in linea generale – che, secondo la giurisprudenza, “Il giudice ha il potere-dovere di esaminare i documenti prodotti dalla parte solo nel caso in cui la parte interessata ne faccia specifica istanza esponendo nei propri scritti difensivi gli scopi della relativa esibizione con riguardo alle sue pretese, derivandone altrimenti per la controparte l’impossibilità di controdedurre e per lo stesso giudice impedita la valutazione delle risultanze probatorie e dei documenti ai fini della decisione. Infatti, poiché nel vigente ordinamento processuale, caratterizzato dall’iniziativa della parte e dall’obbligo del giudice di rendere la propria pronuncia nei limiti delle domande delle parti, al giudice è inibito trarre dai documenti comunque esistenti in atti determinate deduzioni o indicazioni, necessarie ai fini della decisione, ove queste non siano specificate nella domanda, o – comunque – sollecitate dalla parte interessata” (Cassazione civile SS.UU. 1° febbraio 2008 n. 2435).

Ne deriva che al giudice è precluso ricercare all’interno dei fascicoli delle parti i documenti a cui queste hanno fatto riferimento esplicito o implicito nelle proprie deduzioni, se le parti medesime non hanno indicato espressamente lo scopo di tali documenti ai fini delle domande presentate; a maggior ragione al giudice è precluso ricercare dei fascicoli delle parti documenti a cui le parti non hanno fatto alcun riferimento, né esplicito né implicito, al fine di corroborare la tesi della parte attrice o ricorrente, oppure, all’opposto, la tesi della parte convenuta.

Inoltre, quanto al riparto dell’onere della prova in riferimento alla prescrizione delle pretese creditorie in materia contributiva, secondo la giurisprudenza – trattandosi di azione di accertamento negativo (volta ad accertare l’inesistenza originaria o la sopravvenuta estinzione per prescrizione della pretesa vantata dall’ente creditore) – l’onere di dimostrare l’esistenza del credito e/o la sua mancata estinzione per decorso del tempo grava, rispettivamente, sull’ente creditore e sull’agente di riscossione.

La giurisprudenza ha chiarito che “L’eccezione di interruzione della prescrizione, configurandosi come eccezione in senso lato, può essere rilevata anche d’ufficio dal giudice in qualsiasi stato e grado del processo, sulla base di allegazioni e di prove, incluse quelle documentali, ritualmente acquisite al processo. Ne consegue che, a fronte di una eccezione di prescrizione, colui nei cui confronti viene sollevata non ha l’onere di proporre una contro eccezione di interruzione della prescrizione, ma di allegare e provare la sussistenza dell’atto interruttivo, qualora detta prova non risulti già acquisita, nel primo passaggio processuale successivo alla formulazione dell’eccezione di prescrizione. Tale momento coincide, con riferimento al processo del lavoro, con la prima udienza, dovendo il convenuto formulare l’eccezione di prescrizione, che costituisce eccezione in senso stretto, costituendosi ai sensi dell’art. 416 c.p.c., mediante il deposito, almeno dieci giorni prima dell’udienza, di memoria difensiva” (Cassazione civile sez. lav. 12 agosto 2009 n. 18250).

Nel caso concreto, dall’esame della documentazione acquisita al giudizio (vd. documentazione attestante le notificazioni effettuate nei confronti della parte ricorrente dalle parti convenute) è emerso che:

1) la cartella di pagamento n. (…) è stata effettivamente notificata in data __;

2) la cartella di pagamento n. (…) è stata effettivamente notificata il __;

3) la cartella di pagamento n. (…) è stata effettivamente notificata il __;

4) la cartella di pagamento n. (…) è stata effettivamente notificata il __;

Non vi è prova, invece, dell’avvenuta notifica delle cartelle di pagamento n. (…) (asseritamente notificata il __) e n. (…) (asseritamente notificata il __).

Inoltre è pacifico che la parte convenuta abbia notificato in data __ l’avvenuta iscrizione di ipoteca (fascicolo n. …).

Ad eccezione che per la cartella di pagamento n. (…) (notificata il __) – riguardo alla quale si dirà più avanti -, essendo decorso, per le altre, un periodo maggiore di un quinquennio tra il momento della notificazione di ciascuna singola cartella di pagamento e il successivo atto interruttivo della prescrizione (comunicazione di avvenuta iscrizione di ipoteca) tutti i crediti contributivi previdenziali portati dalle suindicate cartelle risultano estinti per decorso della prescrizione quantomeno quinquennale (cfr. Cassazione civile SS. UU. 17 novembre 2016 n. 23397; Cassazione civile sez. VI 04 aprile 2017 n. 8752), non avendo la parte convenuta dedotto e provato l’esistenza di ulteriori atti interruttivi (infra quinquennali) validamente portati a conoscenza della parte ricorrente.

Ciò vale, a maggior ragione, per i crediti portati dalle cartelle di pagamento per cui non vi è prova dell’avvenuta notificazione.

A tal proposito va sottolineato che l’estratto di ruolo, in quanto documento redatto unilateralmente dall’agente di riscossione, non prova alcunché circa l’effettiva esistenza delle singole notificazioni ivi indicate, essendo l’agente di riscossione onerato della prova rigorosa dell’esistenza e del buon esito delle notificazioni in questione (sia per quanto riguarda la notifica delle cartelle di pagamento sia per quanto riguarda la notifica dei successivi atti interruttivi).

In riferimento ai suddetti crediti va quindi rigettata anche l’eccezione di decadenza ex art. 24, co. 5, del D. Lgs. n. 46 del 1999 sollevata dalle parti convenute, essendo l’estinzione (per prescrizione) dei crediti suddetti avvenuta in data successiva al verificarsi della decadenza prevista dalla disposizione in parola in riferimento alle singole cartelle di pagamento regolarmente notificate.

L’intervenuta prescrizione dei crediti contributivi previdenziali di cui sopra determina la parziale inefficacia dell’ipoteca fondata (anche) su tali crediti: pertanto essa va ridotte in proporzione.

A tal proposito va sottolineato che l’eventuale nullità della iscrizione di ipoteca derivante dall’omessa notifica del relativo preavviso – pur determinando l’invalidità dell’ipoteca – non incide comunque sull’efficacia interruttiva della prescrizione della (notificazione della) comunicazione di avvenuta iscrizione di ipoteca.

Per quanto riguarda la domanda di accertamento dell’invalidità, per vizi procedimentali (e, in particolare, per omessa notifica del preavviso di ipoteca), delle iscrizioni di ipoteche effettuate dalla parte convenuta nei confronti della parte ricorrente, appare opportuno riportare i passaggi più significativi della più recente giurisprudenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte formatasi sul punto: “l’ipoteca prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 77 può essere iscritta senza necessità di procedere a notifica dell’intimazione ad adempiere di cui all’art. 50, comma 2, del medesimo d.P.R., prescritta per il caso che l’espropriazione forzata non sia iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento, poiché l’iscrizione ipotecaria non può essere considerata un atto dell’espropriazione forzata, bensì un atto riferito ad una procedura alternativa all’esecuzione forzata vera e propria. Nella medesima prospettiva, e non a caso, questa Corte ha ritenuto che il concessionario, non essendo il fermo amministrativo inserito come tale nella sequenza procedimentale dell’espropriazione forzata, non deve provvedere alla preventiva notifica dell’avviso contenente l’intimazione ad adempiere l’obbligazione risultante dal ruolo D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, ex art. 50, comma 2, disposizione, questa, applicabile solo nel circoscritto ambito dell’esecuzione forzata (Cass. ord. n. 26052 del 2011). L’affermata inapplicabilità all’iscrizione ipotecaria D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 77 della previsione di cui all’art. 50, comma 2, del medesimo decreto non significa tuttavia che l’iscrizione ipotecaria possa essere eseguita per così dire insciente domino, senza che la stessa debba essere oggetto di alcuna comunicazione al contribuente. Proprio in quanto atto impugnabile innanzi al giudice tributario l’iscrizione ipotecaria presuppone una specifica comunicazione al contribuente: il D. Lgs. n. 546 del 1992, art. 21 prescrive, infatti, che gli atti impugnabili, elencati nell’art. 19 del medesimo decreto (e tra questi, come già visto, è enumerata anche l’iscrizione ipotecaria), debbano essere impugnati entro sessanta giorni dalla relativa notificazione. Non solo. La L. n. 241 del 1990, art. 21 prevede un obbligo generalizzato di comunicazione dei provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei destinatari, e l’iscrizione ipotecaria costituisce fuor di dubbio un atto che limita fortemente la sfera giuridica del contribuente. L’art. 6 dello Statuto del contribuente, a sua volta, prevede che debba essere garantita l’effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti a lui destinati. Tali previsioni normative impongono che l’iscrizione di ipoteca debba essere comunicata al contribuente. Ciò sulla base di un principio generale, caratterizzante qualsiasi sistema di civiltà giuridica, che assume la doverosità della comunicazione di tutti gli atti lesivi della sfera giuridica del cittadino, comunicazione che costituisce il presupposto imprescindibile per la stessa impugnabilità dell’atto, in particolare nel processo tributario che è strutturato come processo di impugnazione di atti in tempi determinati rigidamente (e solo la “notifica” dell’atto impugnato può costituire rassicurante prova dell’effettivo rispetto del termine di impugnazione). La comunicazione della quale si discute deve necessariamente precedere la concreta effettuazione dell’iscrizione ipotecaria, e ciò perché tale comunicazione è strutturalmente funzionale a consentire e a promuovere, da un lato, il reale ed effettivo esercizio del diritto di difesa del contribuente a tutela dei propri interessi e, dall’altro, l’interesse pubblico ad una corretta formazione procedimentale della pretesa tributaria e dei relativi mezzi di realizzazione. Siffatto orientamento costituisce anche una specifica attuazione del principio generale emergente dalla L. n. 241 del 1990, art. 7 il quale impone l’obbligo della comunicazione dell’avvio del procedimento ai soggetti nei cui confronti il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti. La ricordata previsione normativa dell’obbligo di comunicazione (previa) di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 7 è espressione del principio costituzionale di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.) ed ha come ratto fondante: 1) la tutela dell’interesse – giuridicamente protetto – dei soggetti destinatari del procedimento: a) ad aver conoscenza di quest’ultimo; b) a poter controdedurre agli assunti su cui si basa l’iniziativa procedimentale dell’Amministrazione; c) ad inserire nel complesso delle valutazioni procedimentali anche quelle attinenti ai legittimi interessi del privato destinatario; 2) la tutela dell’interesse pubblico al buon procedimento, interesse pubblico garantito da quell’apporto alla piena valutazione giuridico-fattuale che solo l’intervento procedimentale dei soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti può fornire; 4) altresì, la tutela dell’affidamento (anche al fine di consentire tempestive misure difensive o riparatorie) di soggetti incolpevolmente estranei alla scaturigine del procedimento lesivo, ed ignari di essa; 5) la medesima comunicazione dell’inizio del procedimento (v. TAR Lazio, Sez. 1, 4 settembre 2009, n. 8373). Non rende meno valida questa ricostruzione esegetica il fatto che la L. n. 241 del 1990, art. 13, comma 2, escluda i procedimenti tributari dall’applicazione degli istituti partecipativi previsti dall’art. 7 della stessa legge, in quanto non si tratta di una esclusione tout court dei predetti istituti, bensì solo di un rinvio per la concreta regolamentazione dei medesimi alle norme speciali che disciplinano il procedimento tributario. Da questo complesso di norme emerge chiaramente che la pretesa tributaria trova legittimità nella formazione procedimentalizzata di una decisione partecipata mediante la promozione del contraddittorio (che sostanzia il principio di leale collaborazione) tra amministrazione e contribuente (anche) nella fase precontenziosa o endoprocedimentale, al cui ordinato ed efficace sviluppo è funzionale il rispetto dell’obbligo di comunicazione degli atti imponibili. Il diritto al contraddicono, ossia il diritto del destinatario del provvedimento ad essere sentito prima dell’emanazione di questo, realizza l’inalienabile diritto di difesa del cittadino, presidiato dall’art. 24 Cost., e il buon andamento dell’amministrazione, presidiato dall’art. 97 Cost.. Ma v’è di più. Il rispetto dei diritti della difesa e del diritto che ne deriva, per ogni persona, di essere sentita prima dell’adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi, costituisce un principio fondamentale del diritto dell’Unione, come afferma – ricordando la propria precedente sentenza del 18 dicembre 2008, in causa C-349/07 Sopropè – la Corte di Giustizia nella sua recentissima sentenza del 3 luglio 2014 in cause riunite C-129/13 e C-130/13, K.I.L. BV e D.H.W. BV. 15.2.1. Il diritto al contraddittorio in qualsiasi procedimento afferma la Corte di Giustizia, è attualmente sancito non solo negli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che garantiscono il rispetto dei diritti della difesa nonché il diritto ad un processo equo in qualsiasi procedimento giurisdizionale, bensì anche nell’art. 41 di quest’ultima, il quale garantisce il diritto ad una buona amministrazione. Il citato art. 41, par. 2 prevede che tale diritto a una buona amministrazione comporta, in particolare, il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale lesivo. Conclude la Corte che in forza di tale principio, che trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo, i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione, mediante una previa comunicazione del provvedimento che sarà adottato, con la fissazione di un termine per presentare eventuali difese od osservazioni. Tale obbligo, ad avviso della Corte, incombe sulle amministrazioni degli Stati membri ogniqualvolta esse adottano decisioni che rientrano nella sfera d’applicazione del diritto dell’Unione, quand’anche la normativa comunitaria applicabile non preveda espressamente siffatta formalità. Dal complesso delle considerazioni fin qui svolte si deve concludere che l’iscrizione ipotecaria prevista dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 77 in quanto atto destinato ad incidere in modo negativo sui diritti e gli interessi del contribuente, deve essere a quest’ultimo comunicata prima di essere eseguita, in ragione del dovuto rispetto del diritto di difesa mediante l’attivazione del contraddittorio endoprocedimentale, che costituisce un principio fondamentale immanente nell’ordinamento cui dare attuazione anche in difetto di una espressa e specifica previsione normativa. Quanto al consequenziale termine da fissare al destinatario per la presentazione di eventuali osservazioni (o, dato il caso specifico, per il pagamento del dovuto) anch’esso può trarsi, in difetto di espressa previsione scritta, dal sistema e determinarlo in trenta giorni sulla base delle prescrizioni che prevedono analogo termine con l’art. 6, comma 5, dello Statuto del contribuente o il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-ter, comma 4. Nel quadro delineato, il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 77, comma 2 introdotto con D.L. n. 70 del 2011, che obbliga l’agente della riscossione a notificare al proprietario dell’immobile una comunicazione preventiva contenente l’avviso che, in mancanza del pagamento delle somme dovute entro il termine di trenta giorni, sarà iscritta l’ipoteca di cui al comma 1, non innova (soltanto) – se non sul piano formale – la disciplina dell’iscrizione ipotecaria, ma ha (anche e prima ancora) una reale valenza interpretativa, in quanto esplicita in una norma positiva il precetto imposto dal rispetto del principio fondamentale immanente nell’ordinamento tributario che prescrive la tutela del diritto di difesa del contribuente mediante l’obbligo di attivazione da parte dell’amministrazione del contraddittorio endoprocedimentale ogni volta che debba essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente medesimo. Principio il cui rispetto è dovuto da parte dell’amministrazione indipendentemente dal fatto che ciò sia previsto espressamente da una norma positiva e la cui violazione determina la nullità dell’atto lesivo che sia stato adottato senza la preventiva comunicazione al destinatario. Tuttavia, nel caso specifico, stante la natura reale dell’ipoteca, l’iscrizione per avventura eseguita senza che sia stato rispettato dall’amministrazione l’obbligo della preventiva comunicazione al contribuente conserva la propria efficacia fino a quando il giudice non ne abbia ordinato la cancellazione, accertandone l’illegittimità, salvo in ogni caso la responsabilità dell’amministrazione ai fini dell’eventuale risarcimento del danno. Sicché può affermarsi ti seguente principio di diritto: Anche nel regime antecedente l’entrata in vigore dell’art. 77, comma 2 bis, D.P.R., introdotto con D.L. n. 70 del 2011, l’amministrazione prima di iscrivere ipoteca ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 77 deve comunicare al contribuente che procedere alla predetta iscrizione sui suoi beni immobili, concedendo a quest’ultimo un termine – che, per coerenza con altre analoghe previsioni normative presenti nel sistema, può essere fissato in trenta giorni – perché egli possa esercitare il proprio diritto di difesa, presentando opportune osservazioni, o provveda al pagamento del dovuto. L’iscrizione di ipoteca non preceduta dalla comunicazione al contribuente è nulla, in ragione della violazione dell’obbligo che incombe all’amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, mediante la preventiva comunicazione al contribuente della prevista adozione di un atto o provvedimento che abbia la capacità di incidere negativamente, determinandone una lesione, sui diritti e sugli interessi del contribuente medesimo. Tuttavia in ragione della natura reale dell’ipoteca, l’iscrizione eseguita in violazione del predetto obbligo conserva la propria efficacia fino a quando il giudice non ne abbia ordinato la cancellazione, accertandone l’illegittimità” (Cass. civ. Sez. Unite, 18-09-2014, n. 19667).

La parte ricorrente ha dedotto che la suddetta iscrizione di ipoteca effettuata dalla parte convenuta nei suoi confronti sarebbe invalida in quanto non preceduta dal preavviso di ipoteca.

La parte convenuta non ha fornito la prova di aver effettuato il preavviso di ipoteca, prima di procedere all’iscrizione della stessa.

In applicazione dei principi di diritto sopra illustrati, va pertanto dichiarata la nullità della iscrizione di ipoteca qui impugnata, per violazione del diritto al contraddittorio endoprocedimentale.

Come già ricordato, la declaratoria di invalidità dell’iscrizione ipotecaria in parola non determina il venire meno del suo effetto interruttivo della prescrizione: pertanto tale effetto risulta validamente prodotto in riferimento alla cartella di pagamento n. (…) (notificata il __), della quale non può essere dunque dichiarata l’invalidità per intervenuta prescrizione dei crediti ivi portati (anche in ragione dell’intervenuta irretrattabilità di tali crediti, ai sensi dell’art. 24 co. 5 del D. Lgs. n. 46 del 1999).

L’accoglimento del ricorso nei termini – e nei limiti – di cui sopra comporta l’assorbimento di ogni altra questione sollevata dalle parti.

Le spese di lite seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., e si liquidano come in dispositivo.

Si precisa che sono determinate tenuto conto 1) delle caratteristiche, dell’urgenza e del pregio dell’attività prestata, 2) dell’importanza, della natura, delle difficoltà e del valore dell’affare, 3) delle condizioni soggettive del cliente, 4) dei risultati conseguiti, 5) del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate, nonché delle previsioni delle tabelle allegate al decreto del Ministro della Giustizia n. 55 del 10.3.2014, nel loro valore medio (per controversie in materia di previdenza e aventi valore compreso tra Euro __ ed Euro __: nel caso di specie, all’esito del bilanciamento operato da questo giudice tra i criteri suddetti (in particolare i risultati conseguiti e la natura dell’affare), si ritiene che l’importo medio delle spese di lite vada diminuito dall’importo medio indicato dal medesimo D.M. (__) all’importo di Euro __.

Ai compensi si aggiunge il rimborso forfetario delle spese generali pari al 15% degli stessi (espressamente reintrodotto dall’art. 2 del D.M.), oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge.

P.Q.M.

– dichiara l’estinzione, per intervenuta prescrizione, dei crediti di natura contributiva previdenziale portati dalle seguenti cartelle di pagamento (nella misura in cui non siano state già sgravate dagli enti creditori):

n. (…), n. (…), n. (…), n. (…), n. (…);

– dichiara la nullità dell’iscrizione ipotecaria effettuata dalla parte convenuta nei confronti della parte ricorrente e, per l’effetto, ordina la cancellazione della stessa, a spese della parte convenuta;

– rigetta la domanda di accertamento della prescrizione in riferimento ai crediti di cui alla cartella n. (…);

– condanna la parte convenuta al pagamento, in favore della parte ricorrente, delle spese di lite, nella misura di Euro __, oltre accessori (spese generali al 15%, IVA e CPA);

– respinge ogni altra domanda o eccezione.

Così deciso in Velletri, il 4 aprile 2019.

Depositata in Cancelleria il 4 aprile 2019.

 

Tribunale_Velletri_Sez_lavoro_Sent_04_04_2019

 

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Il processo esecutivo: opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., opposizione alla esecuzione ex art. 615 c.p.c. e opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c.

Il processo esecutivo: opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., opposizione alla esecuzione ex art. 615 c.p.c. e opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c.

Tribunale Ordinario di Nuoro, Sezione Civile, Sentenza del 28/03/2019

Con sentenza del 28 marzo 2019, il Tribunale Ordinario di Nuoro, Sezione Civile, in tema di esecuzione civile, ha stabilito che di regola il processo esecutivo non preceduto dalla notificazione o dalla valida notificazione del titolo esecutivo e/o del precetto è viziato da una invalidità formale, il cui rimedio è individuabile nell’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., se l’esecuzione sia intrapresa in forza di un titolo costituito da decreto ingiuntivo, il debitore deve proporre opposizione alla esecuzione ex art. 615 c.p.c., ove deduca l’inesistenza della notifica del provvedimento monitorio, oppure l’opposizione tardiva di cui all’art. 650 c.p.c., qualora denunci un vizio della notificazione non riconducibile all’inesistenza.


Tribunale Ordinario di Nuoro, Sezione Civile, Sentenza del 28/03/2019

Il processo esecutivo: opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., opposizione alla esecuzione ex art. 615 c.p.c. e opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE ORDINARIO DI NUORO

SEZIONE CIVILE

in persona del dott. __, in funzione di Giudice unico,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. __ R.G. promossa da:

L. e M. – attori opponenti

contro

B. S.P.A. – convenuta opposta

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

  1. L. e M., con atto di citazione spedito per la notifica in data __ e intitolato “opposizione a decreto ingiuntivo ed all’esecuzione ex art. 615 c.p.c.”, hanno esposto di non aver mai ricevuto la notificazione del decreto n. __ del Tribunale di Nuoro e del precetto in data __, ma di averne avuto notizia solo in esito alla notificazione del pignoramento in data __.

A sostegno delle opposizioni hanno sostenuto che la somma pretesa dalla banca e portata dal decreto ingiuntivo, corrispondente allo scoperto dei conti correnti numero (…) e (…) nonché del debito maturato in relazione al contratto di finanziamento del __ stipulati con B. S.p.A. era frutto di applicazione di clausole nulle correlate all’usurarietà dei tassi d’interesse pattuiti, all’indebita capitalizzazione d’interessi, all’applicazione dell’ammortamento alla francese e alla stipula di commissione di massimo scoperto in violazione dei requisiti di legge.

  1. L’opposta si è costituita chiedendo il rigetto dell’opposizione. Ha sostenuto la regolarità della notificazione del decreto ingiuntivo e del precetto nonché contestato la sussistenza delle nullità dedotte dagli opponenti.
  2. In corso di causa parte opponente ha proposto querela di falso avverso le sottoscrizioni apposte sugli avvisi di ricevimento della notifica del ricorso e del decreto ingiuntivo e il G.I. ha dichiarato inammissibile la querela di falso proposta in via incidentale per irrilevanza della stessa ai fini del decidere.
  3. Il decreto ingiuntivo è il ricorso risultano notificati agli opponenti in data __.

In ordine alla regolarità di tali notifiche la querela di falso è stata dichiarata inammissibile e gli opponenti, nel precisare le conclusioni, pur rassegnando conclusioni dettagliate a mezzo deposito foglio di precisazione, non hanno riproposto la questione.

La querela si deve dunque ritenere abbandonata atteso che nelle difese successive la parte non ha più fatto alcuna menzione della questione, né a verbale, né nelle difese conclusive, sviluppando argomentazioni e difese relative ad altri e diversi profili.

  1. Anche a ritenere non abbandonata la querela di falso, si deve in ogni caso confermare il giudizio d’irrilevanza della querela ai fini del presente giudizio.

In ordine ai casi di opposizione all’esecuzione e di opposizione tardiva a decreto ingiuntivo la giurisprudenza ha avuto modo di osservare che: “In tema di opposizioni esperibili dal debitore esecutato, mentre, di regola, il processo esecutivo non preceduto dalla notificazione o dalla valida notificazione del titolo esecutivo e/o del precetto è viziato da una invalidità formale, il cui rimedio è individuabile nell’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., se l’esecuzione sia intrapresa in forza di un titolo costituito da decreto ingiuntivo, il debitore deve proporre opposizione alla esecuzione ex art. 615 c.p.c., ove deduca l’inesistenza della notifica del provvedimento monitorio, oppure l’opposizione tardiva di cui all’art. 650 c.p.c., qualora denunci un vizio della notificazione non riconducibile all’inesistenza” (Cass. civ. Sez. III Sent., 31/08/2015, n. 17308).

Nel presente caso gli attori hanno prospettato la mancata notificazione del decreto ingiuntivo e poi del precetto, ma gli atti in questione, stando a quanto riportato sulle relazioni di notifica, risultano notificati presso le loro residenze e presso il luogo ove era esercitata l’impresa.

In ordine a tali relazioni di notifica gli opponenti si sono limitati a contestare in citazione che le firme non risultavano riconducibili agli opponenti o che comunque erano state apposte da persone con loro non conviventi ed in sede di proposizione della querela di falso, in linea con l’iniziale prospettazione, hanno indicato quale oggetto della querela le sottoscrizioni apposte sulle relazioni (e sul libro giornale delle poste).

La deduzione di non riconducibilità delle sottoscrizioni agli opponenti ovvero a persone con loro conviventi si sostanzia tuttavia in una deduzione di nullità e non d’inesistenza della notifica, perché le stesse avvennero, a prescindere dall’individuazione dei soggetti che ritirarono materialmente gli atti, in luoghi pacificamente riconducibili agli opponenti (cfr. sul punto, tra le altre, Cass. civ. Sez. II Sent., 02/12/2009, n. 25350: “La notificazione è inesistente quando sia stata effettuata in un luogo o con riguardo ad una persona che non presentino alcun riferimento con il destinatario dell’atto, risultando a costui del tutto estranei, mentre è affetta da nullità (sanabile con effetto “ex tunc” attraverso la costituzione del convenuto, ovvero attraverso la rinnovazione della notifica cui la parte istante provveda spontaneamente o in esecuzione dell’ordine impartito dal giudice), quando, pur eseguita mediante consegna a persona o in luogo diversi da quello stabilito dalla legge, un simile collegamento risulti tuttavia ravvisabile, così da rendere possibile che l’atto, pervenuto a persona non del tutto estranea al processo, giunga a conoscenza del destinatario.”; Cass. civ. Sez. VI – 1 Ord., 20/07/2017: “L’inesistenza della notificazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Orbene, tali elementi consistono nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, “ex lege”, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, ovvero, in definitiva, omessa. Di talché, le diverse modalità di notifica, in un luogo diverso da quello previsto, comportano un’ipotesi di nullità”.

Ne consegue che l’opposizione all’esecuzione proposta sarebbe comunque inammissibile anche laddove fosse dichiarata la falsità delle sottoscrizioni, perché in concreto è stata dedotta una nullità e non un’inesistenza della notifica.

L’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo è invece comunque inammissibile perché proposta oltre il termine di dieci giorni dal primo atto di esecuzione (o meglio dalla conoscenza avutane dagli esecutati) e cioè dal pignoramento del __, momento dal quale gli stessi attori fanno risalire la conoscenza del titolo.

Si richiamano, in riferimento a tali questioni, Cass. civ. Sez. III, 28/09/1996, n. 8582: “Nel caso in cui la nullità di notifica del decreto ingiuntivo abbia impedito alla parte intimata di proporre opposizione nel termine ordinario, il solo rimedio idoneo per far valere detta nullità e la conseguente inefficacia del provvedimento, quale titolo per l’esecuzione forzata, è l’opposizione tardiva prevista dall’art. 650 c.p.c. e non le opposizioni regolate dagli artt. 615 e 617 stesso codice, sicchè divenuta improponibile l’opposizione tardiva per la scadenza del termine previsto dal comma 3 del cit. art. 650, la nullità di notifica diviene irrilevante ed il decreto valido ed efficace” e Cass. civ. Sez. III Sent., 09/07/2008, n. 18847: “L’ingiunto, ai sensi dell’art. 650 cod. proc. civ., è legittimato a proporre, entro il termine di cui al terzo comma della norma citata, l’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo se prova di non averne avuto tempestiva conoscenza per irregolarità della notificazione, in essa ricomprendendosi tutti i vizi che inficiano la notificazione e, quindi, anche la sua nullità, da qualsiasi causa determinata; il predetto non può, invece, proporre opposizione all’esecuzione se, a causa dell’irregolarità della notifica del decreto ingiuntivo, non ha di quest’ultimo avuto conoscenza né l’opposizione all’esecuzione proposta, fondata su detta irregolarità, può convertirsi in opposizione tardiva al medesimo decreto ove non ricorrano tutti i presupposti di cui all’art. 650 cod. proc. civ.”.

  1. Le considerazioni sino ad ora espresse sono a maggior ragione valide in esito alla mancata ammissione della querela di falso, con conseguente necessità di ritenere attendibili sotto ogni profilo le relazioni di notifica.

L’articolo 650 terzo comma c.p.c. impedisce comunque di considerare tempestiva l’opposizione in ragione dell’intervenuta notificazione dell’atto di pignoramento il __ e gli opponenti non hanno provato di non aver avuto conoscenza della notificazione per irregolarità della stessa o per caso fortuito o forza maggiore.

  1. Le opposizioni vanno dunque dichiarate inammissibili e il decreto dichiarato definitivamente esecutivo.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo in misura intermedia tra i valori minimi e medi previsti dal D.M. n. 55 del 2014 per le cause di valore corrispondente, tenuto conto dell’attività defensionale esplicata e di quella effettivamente necessaria.

Le spese di CTU devono essere poste, nei rapporti interni, interamente a carico di parte opponente.

P.Q.M.

Il giudice, definitivamente pronunciando, respinta ogni contraria domanda, istanza ed eccezione,

DICHIARA inammissibili l’opposizione al decreto ingiuntivo n. __ del Tribunale di Nuoro e l’opposizione all’esecuzione.

DICHIARA definitivamente esecutivo il D.I. opposto.

Condanna parte opponente a rimborsare all’opposta le spese di lite, che liquida in ed Euro __ per onorari oltre 15% per rimborso spese generali, CPA e IVA come per legge.

Pone in via definitiva le spese di CTU, nei rapporti interni, interamente a carico degli opponenti.

Così deciso in Nuoro, il 28 marzo 2019.

Depositata in Cancelleria il 28 marzo 2019.

 

Tribunale_Nuoro_Sent_ 28_03_2019

 

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L’azione con la quale il contribuente contesti la regolarità formale del titolo esecutivo deve essere qualificata come opposizione agli atti esecutivi

L’azione con la quale il contribuente contesti la regolarità formale del titolo esecutivo deve essere qualificata come opposizione agli atti esecutivi

Tribunale Ordinario di Catania, Sezione Lavoro, Sentenza del 26/03/2019

Con sentenza del 26 marzo 2019, il Tribunale Ordinario di Catania, Sezione Lavoro, in tema di recupero crediti, ha stabilito che deve essere qualificata come opposizione agli atti esecutivi l’azione con la quale il contribuente contesti la regolarità formale del titolo esecutivo, dell’intimazione di pagamento e degli atti propedeutici all’esecuzione forzata (nullità della cartella o dell’intimazione per omessa motivazione, omessa notifica della cartella, nullità della notifica della cartella o dell’intimazione di pagamento, notifica della cartella di pagamento oltre il termine fissato dall’art. 25 del D.P.R. n. 602 del 1973).


 

Tribunale Ordinario di Catania, Sezione Lavoro, Sentenza del 26/03/2019

L’azione con la quale il contribuente contesti la regolarità formale del titolo esecutivo deve essere qualificata come opposizione agli atti esecutivi

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI CATANIA

Sezione Lavoro

in persona del G.O.T. dottor __, in funzione di giudice del lavoro, dando pubblica lettura del dispositivo e delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, all’udienza del __, ha emesso la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. R.G. __ promossa da

L. -ricorrente-

contro

I. -resistente-

R. S.p.A. già S. S.p.A. sede di C. in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa per procura calce alla memoria di costituzione e risposta dall’Avvocato Maria Grazia Erbicella

-convenuta –

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Prima di esplicitare le ragioni della decisione appare opportuno premettere quanto segue.

Con ricorso depositato in data __ il ricorrente in epigrafe indicato chiedeva che il Tribunale dichiarasse la decadenza ed in ogni caso l’intervenuta prescrizione del credito recato dall’avviso di pagamento n. (…) e dalle cartelle di pagamento n. (…) dell’I., relativa a contributi, premi e sanzioni, magg. ed interessi per gli anni __ e __ per un totale complessivo di Euro __; n. (…) dell’I., relativa a contributi, premi e sanzioni, magg. ed interessi per l’anno __ per un totale complessivo di Euro __.

Deduceva di essere venuto a conoscenza dell’esistenza delle cartelle esattoriali, in seguito alla notifica della detta intimazione di pagamento avvenuta il giorno __ e di non aver mai ricevuto, nessuna notifica delle indicate cartelle di pagamento.

Nel merito e in via principale eccepiva, ai sensi dell’art. 3 comma 9 e 10 della L. n. 335 del 1995, l’estinzione per prescrizione della pretesa contributiva per essere decorso il termine quinquennale in relazione alle indicate cartelle esattoriali, senza aver ricevuto alcun atto interruttivo.

Eccepiva inoltre la irricevibilità dei crediti contributivi ed assistenziali prescritti, oltre alla violazione dei principi fissati dalla L. n. 212 del 2000, in materia di motivazione, chiarezza, conoscenza collaborazione, informazione, affidamento, buona fede ed integrità patrimoniale del contribuente da parte dell’agente della riscossione, oltre che della violazione della normativa a tutela dei consumatori (Codice del Consumo)

Si costituiva in giudizio l’Inail contestando, in primo luogo, la fondatezza delle ragioni del ricorso, eccependo il suo difetto di legittimazione passiva, ed evidenziando che la fattispecie in esame è regolata dall’art. 24 del D.Lgs. n. 46 del 1999 e dunque il ricorrente avrebbe dovuto impugnare i ruoli entro il termine di 40 giorni dalla notifica delle cartelle regolarmente notificate da anni.

Concludeva, in via pregiudiziale di dichiarare il proprio difetto di legittimazione passiva, ed in via subordinata di rigettarsi il ricorso per i motivi esplicitati in narrativa.

Si costituiva, anche, R. S.p.A., deducendo l’inammissibilità e l’improcedibilità della domanda in quanto il ricorso era stato depositato tardivamente oltre il termine di quaranta giorni dalla notifica della cartella regolarmente effettuata, e dunque nessuna eccezione nel merito avrebbe potuto essere proposta dal ricorrente.

Deduceva che il ricorrente avendo presentato dichiarazione di definizione agevolata per i carichi riportati dalle cartelle impugnate, aveva riconosciuto il credito sotteso alle stesse.

Deduceva che i debiti portati dalla cartella n. (…), risultano essere di importo residuo fino a Euro __ e dunque in forza del D.L. 23 ottobre 2018 art. 4 automaticamente annullati, di talché avrebbe potuto essere dichiarata la parziale cessazione della materia del contendere.

Eccepiva l’insussistenza della generica eccezione di prescrizione successiva alla notifica delle cartelle, essendo la stessa peraltro decennale, evidenziando che in relazione alla cartella n. (…) erano stati notificati successivamente alla stessa oltre all’avviso impugnato con il ricorso anche un preavviso di fermo e pignoramento immobiliare.

Infine eccepiva la sua carenza della legittimazione passiva in quanto esso agente è estranea alla formazione dei ruoli ed alle vicende successive.

All’udienza odierna, sulle conclusioni delle parti, la causa veniva decisa con la presente sentenza dando lettura del dispositivo e delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.

Tanto premesso e allo scopo di delineare – in ragione delle doglianze formulate dal ricorrente- la natura della spiegata opposizione, appare opportuno premettere, in generale, che nella materia oggetto di causa quante volte si facciano valere motivi che attengono al merito della pretesa contributiva (contestazioni sull’an e sul quantum, eventi estintivi, impeditivi o modificativi del credito: ad es., prescrizione ex L. n. 335 del 1995, riduzioni per sgravi ed agevolazioni in genere; eventi che incidono sull’esigibilità: ad es., rimessione in termini per eventi sismici, etc.; eventi che impediscono l’iscrizione al ruolo, impugnazione di verbale di accertamento antecedente l’iscrizione al ruolo non ancora rigettata in primo grado, etc.), l’opposizione va qualificata come opposizione all’iscrizione a ruolo e che, ove si facciano valere questioni che riguardino il difetto originario o sopravvenuto del titolo esecutivo (ad es., inesistenza giuridica della cartella, sospensione del ruolo da parte del giudice del lavoro, fatti estintivi della pretesa successivi alla formazione del titolo esecutivo: ad es., prescrizione o pagamento successivi alla notifica della cartella di pagamento), l’opposizione va qualificata come opposizione all’esecuzione ex art. 29 del D.Lgs. n. 46 del 1999. Va inoltre precisato che deve essere qualificata come opposizione agli atti esecutivi l’azione con la quale il contribuente contesti la regolarità formale del titolo esecutivo, dell’intimazione di pagamento e degli atti propedeutici all’esecuzione forzata (nullità della cartella o dell’intimazione per omessa motivazione, violazioni del c.d. statuto del contribuente, omessa notifica della cartella, nullità della notifica della cartella o dell’intimazione di pagamento, notifica della cartella di pagamento oltre il termine fissato dall’art. 25 del D.P.R. n. 602 del 1973, etc.).

Nella specie il ricorrente ha dedotto motivi che possono essere fatti valere sia attraverso il rimedio dell’opposizione all’esecuzione sia mediante l’opposizione agli atti esecutivi

Per come si è detto, attraverso il rimedio dell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., il debitore contesta la legittimità della iscrizione al ruolo per la mancanza di un titolo legittimante l’iscrizione stessa ovvero adduce fatti estintivi sopravvenuti alla formazione del titolo esecutivo (Cass. 18/7/2005 n. 15149).

Inoltre tale opposizione non è soggetta ad alcun termine, se non quello rappresentato dal compimento dell’esecuzione (Cass. n. 8061 del 2007).

In primo luogo deve essere valutata la richiesta di dichiarare la parziale cessazione della materia del contendere avuto riguardo alla cartella di pagamento n. (…).

Si osserva come la detta cartella contenga tutte partite di ruolo affidate all’Agente della riscossione nel periodo previsto dalla suddetta norma, con importo residuo (comprensivo di capitale, interessi per ritardata iscrizione a ruolo e sanzioni) fino a __ Euro e quindi trattasi di cartella rientrante nella casistica prevista dall’art. 4, comma 1, del D.L. n. 119 del 2018, convertito in legge dalla L. 17 dicembre 2018, n. 136

Al riguardo si osserva come tale articolo prevede, infatti, che “I debiti di importo residuo, alla data di entrata in vigore del presente decreto, fino a mille euro, comprensivo di capitale, interessi per ritardata iscrizione a ruolo e sanzioni, risultanti dai singoli carichi affidati agli agenti della riscossione dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2010, ancorché riferiti alle cartelle per le quali è già intervenuta la richiesta di cui all’articolo 3, sono automaticamente annullati. L’annullamento è effettuato alla data del 31 dicembre 2018 per consentire il regolare svolgimento dei necessari adempimenti tecnici e contabili. Ai fini del conseguente discarico, senza oneri amministrativi a carico dell’ente creditore, e dell’eliminazione dalle relative scritture patrimoniali, l’agente della riscossione trasmette agli enti interessati l’elenco delle quote annullate su supporto magnetico, ovvero in via telematica, in conformità alle specifiche tecniche di cui all’allegato 1 del decreto direttoriale del Ministero dell’economia e delle finanze del 15 giugno 2015, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 142 del 22 giugno 2015. Si applicano le disposizioni di cui all’articolo 1, comma 529, della L. 24 dicembre 2012, n. 228”.

Va dato atto che R. S.p.A. ha in ricorso dichiarato e documentato che tale cartella contiene tutte le partite di ruolo affidate all’Agente di Riscossione nel periodo previsto dall’art. 4 comma 1 (“Stralcio dei debiti fino a __ euro affidati agli agenti della riscossione dal __ al __”) del D.L. n. 119 del 2018, recante “Disposizioni urgenti in materia fiscale e finanziaria” convertito in legge dalla L. 17 dicembre 2018, n. 136, per cui il debito portato dalla predette cartelle è stato automaticamente annullato in forza della legge sopra indicata, per come risulta dall’estratto di ruolo prodotto dal concessionario della riscossione.

Pertanto, deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere in relazione a tale cartella stante il venir meno della posizione di contrasto tra le parti e, con essa, il loro interesse alla prosecuzione del giudizio.

Come precisato dalla giurisprudenza, infatti, la cessazione della materia del contendere si ha per effetto della sopravvenuta carenza d’interesse della parte alla definizione del giudizio, postulando che siano accaduti nel corso del giudizio fatti tali da determinare il venir meno delle ragioni di contrasto tra le parti e da rendere incontestato l’effettivo venir meno dell’interesse sottostante alla richiesta pronuncia di merito (Tra le molte, Cassazione Civile n. 10553 del 7.5.2009).

A questo punto, deve essere valutata l’eccezione di estinzione per prescrizione della pretesa contributiva relativa alle cartelle di pagamento n.(…), la quale ha importo che non rientrano nell’ambito dell’art. 4, comma 1, del D.L. n. 119 del 2018, convertito in legge dalla L. 17 dicembre 2018, n. 136

Ebbene dalla documentazione prodotta in copia da R. S.p.A. risulta che la cartella di pagamento in oggetto è stata notificata a mani di L. in data __ e successivamente è stata notificato l’atto di preavviso di fermo (…), notificato a tale V., ancora dopo l’ atto di pignoramento immobiliare in data __ a mani del ricorrente e l’intimazione di pagamento n. (…) in data __ a mani del ricorrente; inoltre risulta che in data __ il ricorrente abbia proposto istanza di ammissione alla definizione agevolata ex art. 1 della L. n. 172 del 2017.

Ebbene, mentre la notifica della cartella di pagamento e dell’atto di intimazione è regolare e dunque rispetto agli stessi non può dubitarsi della loro validità, la stessa valutazione non può essere fatta in relazione al preavviso di fermo e al pignoramento immobiliare.

Infatti tali due atti non contengono alcun riferimento alla cartella di pagamento n. (…), e dunque non possono avere alcun effetto interruttivo della prescrizione mancando di uno dei requisiti dell’atto interruttivo: l’espresso riferimento al debito di cui si chiede il pagamento; inoltre in relazione al preavviso di fermo lo stesso risulta notificato a tale V., la quale non è dato sapere in quale relazione si trova con il destinatario dell’atto L.

Avuto riguardo alla domanda di definizione agevolata proposta da L. in data __, la stessa è intervenuta a distanza di oltre dieci anni dalla notifica della cartella di pagamento, avvenuta in data __, e pertanto dopo che la prescrizione era maturata, dunque anche se la domanda in questione ha natura di riconoscimento del debito, e quindi di rinuncia implicita alla prescrizione maturata, essendo la materia in esame di natura previdenziale, il regime della prescrizione maturata è sottratto alla disponibilità delle parti, sicché deve escludersi l’esistenza di un diritto soggettivo degli assicurati a versare contributi previdenziali prescritti, mentre per contro l’ente previdenziale non può rinunciare all’irricevibilità dei contributi prescritti ( per tutte Corte Appello di Catania Sez. Lavoro Sent. N. 1105/2018 e Cass. Civile n. 31345/2018)

Pertanto per la cartella n. (…) deve essere dichiarata prescritta la pretesa sottesa alla stessa.

Appare giusto compensare, tra le parti le spese del giudizio, in ragione della sostanziale buona fede della parte e della complessità delle questioni di fatto e di diritto trattate.

P.Q.M.

Il Tribunale di Catania, in persona del G.O.T. __, in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando nella causa iscritta al n. __ R.G., ogni diversa domanda, istanza ed eccezione disattese, così statuisce:

Dichiara la cessazione della materia del contendere in relazione alla cartella n. (…), per i motivi di cui in parte motiva.

Dichiara la prescrizione in relazione alla pretesa creditoria contenuta nella cartella di pagamento n. (…), per i motivi di cui in parte motiva.

Compensa integralmente le spese del giudizio.

Così deciso in Catania, il 26 marzo 2019.

Depositata in Cancelleria il 26 marzo 2019.

 

Tribunale_Catania_Sez_lavoro_Sent_26_03_2019

 

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Il precetto deve contenere l’indicazione delle parti, della data di notifica del decreto ingiuntivo, nonché del provvedimento che ha disposto l’esecutorietà e l’apposizione della formula esecutiva

Il precetto deve contenere l’indicazione delle parti, della data di notifica del decreto ingiuntivo, nonché del provvedimento che ha disposto l’esecutorietà e l’apposizione della formula esecutiva

Tribunale Ordinario di Genova, Sezione Fallimentare, Sentenza del 25/03/2019

Con sentenza del 25 marzo 2019, il Tribunale Ordinario di Genova, Sezione Fallimentare, in tema di recupero crediti, ha stabilito che nell’espropriazione forzata promossa in forza di ingiunzione esecutiva, il precetto deve contenere l’indicazione delle parti, della data di notifica del decreto ingiuntivo, nonché del provvedimento che ha disposto l’esecutorietà e l’apposizione della formula esecutiva, in quanto la completa identificazione del titolo sostituisce, in forza dell’art. 654 c.p.c., la notifica dello stesso, sicché, in assenza di tali indicazioni, l’atto è viziato ex art. 480 c.p.c., producendosi una nullità equivalente a quella che colpisce il precetto non preceduto dalla notifica del titolo esecutivo, non suscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo con la mera proposizione dell’opposizione agli atti esecutivi.


Tribunale Ordinario di Genova, Sezione Fallimentare, Sentenza del 25/03/2019

Il precetto deve contenere l’indicazione delle parti, della data di notifica del decreto ingiuntivo, nonché del provvedimento che ha disposto l’esecutorietà e l’apposizione della formula esecutiva

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI GENOVA

SEZIONE SETTIMA FALLIMENTARE CIVILE

In persona del Giudice Unico dott. __ ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. __ promossa da:

L. – OPPONENTE

CONTRO

B. – OPPOSTA

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

L’opponente, L., ha proposto atto di citazione in opposizione agli atti esecutivi, chiedendo la dichiarazione di nullità del precetto in quanto:

– in data __, le è stato notificato un atto di precetto per l’importo di Euro __, sulla base del decreto ingiuntivo n. __, per il pagamento della somma di Euro __, oltre interessi legali, a decorrere dal __, spese di procedimento (Euro __), esborsi per compensi professionali (Euro __) e accessori di legge;

– tale atto non contiene la data di notifica del titolo esecutivo, né indica se il decreto ingiuntivo sia mai divenuto esecutivo.

La parte opposta, B., chiede il rigetto dell’opposizione, evidenziando che:

– il decreto ingiuntivo azionato con l’atto di precetto oggi opposto era stato notificato all’opponente in data __;

– già con un primo atto di precetto, datato __, veniva intimato il pagamento del debito di cui al decreto ingiuntivo: nel precetto era stata indicata la data di notifica dello stesso;

– seguiva un pignoramento presso terzi, esperito in data __, per un ricavato di soli Euro __, poi divenuto inefficace;

– il precetto qui opposto, in quanto notificato in rinnovazione, consentirebbe al debitore di individuare chiaramente il titolo esecutivo azionato.

Occorre in primo luogo rilevare che l’atto di precetto, notificato all’opponente in data __ e oggetto dell’odierna opposizione, non indica la data di notifica del titolo esecutivo con esso azionato (nella specie, il decreto ingiuntivo n. __): l’art. 480, 2 c., c.p.c. ricomprende tale indicazione tra gli elementi che costituiscono il contenuto essenziale dell’atto di precetto, sanzionando l’omissione con la nullità del precetto stesso.

La parte opposta fa presente che l’omessa o inesatta indicazione della data di notifica del titolo esecutivo all’interno dell’atto di precetto non inficerebbe la validità dello stesso, in quanto si tratterebbe di precetto in rinnovazione.

Fa notare l’opponente, tuttavia, che non si tratterebbe di precetto in rinnovazione e che, comunque, neppure il precedente precetto indicava la data di notifica del titolo.

Tale ultima osservazione è corretta, in quanto il precedente precetto (datato __ e notificato a mezzo raccomandata spedita in parii data) non conteneva alcuna indicazione della data di notifica del titolo esecutivo.

Era infatti in esso indicato il decreto ingiuntivo con il n. __, ma non era indicata né la data di emissione né quella di notifica del decreto ingiuntivo. (vedi doc. 3 di parte convenuta).

La Corte di Cassazione ha circoscritto la possibilità di sanare l’atto di precetto privo della data di notifica del titolo esecutivo alle sole ipotesi in cui l’atto di precetto viziato fosse stato notificato in reitera e la data del titolo esecutivo risultasse dal precedente atto di precetto.

Si legge, infatti, che “l’omessa indicazione del titolo esecutivo azionato non determina la nullità del precetto ai sensi dell’art. 480, comma 2, c.p.c., quando l’esigenza di individuazione del titolo risulti comunque soddisfatta attraverso altri elementi contenuti nel precetto stesso, la cui positiva valutazione da parte del giudice di merito – insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata – può essere utilmente ancorata al successivo comportamento del debitore. (Nella specie, il precetto impugnato era stato notificato in rinnovazione di un precedente precetto e conteneva una precisa indicazione degli estremi della sentenza di condanna, notificata assieme al primo precetto, sulla base della quale sia il primo che il secondo precetto erano stati intimati” (Cass. n. 15316/2017). Non è possibile, pertanto, ritenere sanato il vizio nel caso in esame, in quanto neppure nel primo atto di precetto, notificato all’opponente in data __, era stata indicata la data di notifica del decreto ingiuntivo.

La mancata indicazione della data di notifica del titolo esecutivo nell’atto di precetto ne comporta la nullità. La Corte di Cassazione, infatti, ha stabilito che “nell’espropriazione forzata promossa in forza di ingiunzione esecutiva, il precetto deve contenere l’indicazione delle parti, della data di notifica del decreto ingiuntivo, nonché del provvedimento che ha disposto l’esecutorietà e l’apposizione della formula esecutiva, in quanto la completa identificazione del titolo sostituisce, in forza dell’art. 654 cod. proc. civ., la notifica dello stesso, sicché, in assenza di tali indicazioni, l’atto è viziato ex art. 480 cod. proc. civ., producendosi una nullità equivalente a quella che colpisce il precetto non preceduto dalla notifica del titolo esecutivo, non suscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo con la mera proposizione dell’opposizione agli atti esecutivi”.

È, altresì, fondata la doglianza dell’opponente secondo cui dall’atto di precetto opposto non risulta neppure se il decreto ingiuntivo n. __ sia mai stato spedito in forma esecutiva, né quando ciò sia avvenuto. Tale eccezione non deve ritenersi tardiva, in quanto, l’opponente, già nell’atto di citazione, affermava che “dato atto di precetto è nullo ai sensi dell’art. 480, 2 c., c.p.c., in quanto non è stata indicata la data di notifica del titolo esecutivo ed, anzi, neppure è stato indicato se il decreto ingiuntivo n. __ del Tribunale di Genova sia mai divenuto esecutivo. La parte opposta si è limitata ad asserire genericamente che l’atto di precetto recava l’indicazione della data di notifica del titolo esecutivo, non assolvendo l’onere della prova a suo carico: peraltro, la parte opposta ha prodotto il decreto ingiuntivo (prod. 2) emesso il __ e notificato a mezzo posta elettronica certificata a L. il __, come da attestazioni di notifica allegate. Si trattava di un decreto ingiuntivo ancora non definitivo e non munito della clausola di provvisoria esecutorietà. È inoltre allegato al doc. 2, quale ultimo foglio della produzione, il decreto di apposizione della formula esecutiva, emesso in data __. Si tratta, con ogni evidenza, di un atto per sua natura venuto ad esistenza dopo la notifica del decreto ingiuntivo (avvenuta il __): soltanto dopo l’apposizione della formula esecutiva il decreto ingiuntivo, a seguito della notifica del 6 ottobre e della mancata opposizione, è divenuto esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c. Il titolo esecutivo, che è costituito dal decreto divenuto definitivo ed esecutivo (e non certo del decreto ingiuntivo inizialmente notificato), non risulta quindi essere mai stato notificato alla parte debitrice (che ha ricevuto soltanto la prima notifica, quella del decreto in vista della sua possibile opposizione).

In proposito, l’opposta ha evidenziato che, nel caso di decreto ingiuntivo, non è necessaria una nuova notifica del decreto già notificato che acquista esecutorietà, con ciò richiamando il disposto dell’art. 654 c.p.c.: si deve peraltro osservare che tale norma espressamente recita: “ai fini dell’esecuzione non occorre una nuova notificazione del decreto esecutivo; ma nel precetto deve farsi menzione del provvedimento che ha disposto l’esecutorietà e dell’apposizione della formula”. Nel caso in esame, invece e come lamentato dalla parte opponente, tale menzione del provvedimento che ha disposto l’esecutorietà e della formula risulta mancante.

Anche sotto questo profilo l’opposizione deve essere accolta.

La parte opposta è soccombente e deve essere condannata alle spese che si liquidano come da nota spese depositata il __.

P.Q.M.

Dichiara la nullità dell’atto di precetto notificato da B. a L. in data __.

Condanna B. a rifondere a L. le spese di lite che liquida in Euro __ per compenso ed Euro __ per spese, oltre spese generali, IVA e cpa.

Così deciso in Genova, il 25 marzo 2019.

Depositata in Cancelleria il 25 marzo 2019.

 

Tribunale_Genova_Sez_fall_Sent_25_03_2019

 

Recupero crediti  a Genova con ROSSI & MARTIN studio legale




Opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c.: mancanza di un titolo legittimante l’iscrizione a ruolo o fatti estintivi sopravvenuti alla formazione del titolo

Opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c.: mancanza di un titolo legittimante l’iscrizione a ruolo o fatti estintivi sopravvenuti alla formazione del titolo

Corte d’Appello Trento Bolzano, Sezione lavoro, Sentenza del 29/03/2019

Con sentenza del 29 marzo 2019, la Corte d’Appello di Trento Bolzano, Sezione lavoro in tema di recupero crediti, ha stabilito che l’opposizione all’esecuzione, ai sensi dell’art. 615 c.p.c. è quella con cui si contesta la mancanza di un titolo legittimante l’iscrizione a ruolo, o si adducano fatti estintivi sopravvenuti alla formazione del titolo.


 

Corte d’Appello Trento Bolzano, Sezione lavoro, Sentenza del 29/03/2019

Opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c.: mancanza di un titolo legittimante l’iscrizione a ruolo o fatti estintivi sopravvenuti alla formazione del titolo

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La Corte d’Appello di Trento

Sezione Distaccata di Bolzano

Sezione per le controversie di lavoro e previdenza

riunita in Camera di Consiglio nelle persone dei Signori Magistrati:

dott. __ – Presidente

dott. __ – Consigliere estensore

dott. __ – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di II grado iscritta sub n. __ R.G.P. promossa da

L. S.r.l. – appellante –

contro

I. – appellato –

Oggetto: Appello avverso sentenza del Giudice del Lavoro di Bolzano n. __ di data __ – obbligo contributivo del datore di lavoro –

Causa decisa all’udienza del __ con lettura del dispositivo di sentenza sulle seguenti

Svolgimento del processo

L’oggetto della vertenza nell’esordio della motivazione della sentenza impugnata si trova descritto come segue:

“Col ricorso ex art. 24 comma 5 del D.Lgs. n. 46 del 1999 introduttivo della causa n. __, alla quale è stata riunita la causa n. __, la ricorrente società L. S.r.l. propone opposizione all’avviso di addebito n. (…) del __ per l’importo complessivo di Euro __ afferente contributi della Gestione Aziende con Lavoratori Dipendenti Commercianti relativi al periodo __ – __, domandando l’accertamento della nullità dell’avviso medesimo per nullità del verbale ispettivo (…) del __ che ha originato l’avviso di addebito e che sarebbe implicata dalla mancata conoscenza della lingua italiana da parte dei lavoratori interrogati dagli ispettori e per infondatezza della pretesa contributiva dell’I.

Col ricorso ex art. 618 bis c.p.c. introduttivo della causa __ la società ricorrente deduce nuovamente la nullità del citato verbale ispettivo per la ragione anzidetta, deducendo che ciò comporterebbe l’assenza di un titolo legittimante l’iscrizione a ruolo e domanda per tale ragione l’accertamento dell’inesistenza, o in via subordinata, l’annullamento ex art. 618 bis c.p.c. dell’avviso di addebito impugnato col ricorso introduttivo della causa __”.

L’adito Tribunale di Bolzano in funzione di Giudice del lavoro definiva il procedimento con la sentenza n. __ del __, con la quale dichiarava inammissibili entrambe le opposizioni proposte dalla società ricorrente, che veniva condannata a rifondere a I. le spese di lite.

Contro la sentenza L. S.r.l. interponeva appello con ricorso depositato il __ adducendo i seguenti motivi di impugnazione:

“Motivo I: violazione ed erronea applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 615, 618 bis c.p.c., 24, 29 D.Lgs. n. 46 del 26 febbraio 1999. Illegittimità della sentenza impugnata dalla pagina 5 (dalle parole “Entrambe le opposizioni”) alla  pagina 7 (fino alle parole “causa 859/2016”)”

La società impugnante esponeva di avere proposto due diversi mezzi di impugnazione, ovvero un ricorso volto a far valere l’assoluta mancanza del titolo esecutivo da proporsi nelle forme e nei termini di cui all’art. 615 c.p.c. e 618 c.p.c. e un ricorso ex art. 24 D.Lgs. n. 46 del 1999, per far valere l’infondatezza nel merito della pretesa contributiva, quest’ultimo solo sottoposto ai termini ed alle condizioni previste da detta norma.

Deduceva che nel ricorso proposto ai sensi degli artt. 618 bis c.p.c. e 29 comma 2 D.Lgs. n. 46 del 1999 essa aveva chiesto di “dichiarare, previa sospensione dell’esecutività del ruolo, l’inesistenza o in via subordinata, annullare ex art. 618 bis c.p.c. l’avviso di addebito indicato in epigrafe per mancanza di titolo legittimante l’iscrizione a ruolo” proponendo argomentazioni difensive dirette a dimostrare non l’infondatezza della pretesa di I., bensì l’inesistenza del potere dell’Istituto appellato di agire in via esecutiva in ragione della mancanza di un valido accertamento ispettivo.

L’esistenza del valido accertamento ispettivo era dunque da considerare requisito di validità del titolo esecutivo, nel caso di specie dell’avviso di addebito, in assenza del quale nessun titolo esecutivo poteva dirsi validamente formato. In particolare gli ispettori si erano fondati quasi esclusivamente sulle dichiarazioni rese da X., giovane ragazza di nazionalità cinese, legale rappresentante della società, senza la necessaria previa verifica della comprensione dell’italiano da parte della medesima nonché da parte dei cinesi sottoscrittori delle altre dichiarazioni. Per il mancato rispetto delle prescrizioni di cui al D.M. 15 gennaio 2014 e relativa circolare attuativa era viziato l’accertamento ispettivo e, di conseguenza, invalido l’avviso di addebito.

“Motivo II: erronea applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 615, 618 bis c.p.c., 24, 29 D.Lgs. n. 46 del 26 febbraio 1999. Illegittimità della sentenza impugnata dalla pagina 7 (dalle parole “deve d’altra parte”) alla pagina 8 (fino alle parole “L. n. 122 del 2010”)”.

Contrariamente a quanto scritto nella sentenza di prime cure nessuna valida notifica dell’avviso di addebito era stata eseguita in data __ nei confronti di L. S.r.l. L’avviso di addebito allegato alla pec spedita da I. il __ era sprovvisto dei requisiti di integrità e delle garanzie sulla provenienza del documento, trattandosi di file con estensione “.pdf senza ulteriore estensione .p7m” – la sola che garantiva l’immodificabilità del documento informatico e l’identificabilità del suo autore – come già rilevato nelle Note autorizzate del __. Il primo giudice avrebbe pertanto dovuto rilevare la nullità della notifica dell’avviso di addebito e respingere l’eccezione di inoppugnabilità formulata dalla difesa avversaria. In via subordinata il Tribunale avrebbe dovuto sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30 co. 4 del D.L. n. 78 del 2010 in relazione agli artt. 3, 24 e 97 Cost. ovvero, in via di ulteriore subordine, accogliere l’istanza di rimessione in termini formulata dalla società opponente.

L’avviso di addebito era pervenuto nella disponibilità di L. S.r.l. solo il giorno __ a seguito di una comunicazione via email da parte del proprio commercialista. La precedente comunicazione, nel mese di __, via pec alla casella di posta elettronica certificata “(…)” non era idonea a far decorrere il termine decadenziale, in quanto inviata a indirizzo non riferibile alla società, dal momento che gli unici accessi alla casella di posta suddetta erano stati effettuati dagli indirizzi IP dello studio del commercialista e solo in data __ L. S.r.l. era venuta in possesso delle credenziali (login e password) per accedere alla casella medesima. Peraltro la legale rappresentante della società era straniera e non comprendeva la lingua italiana. Al momento dell’avvio della sua attività essa aveva delegato gli adempimenti contabili e fiscali al commercialista dott. __, il quale non la aveva mai informata dell’apertura di una casella di posta elettronica certificata. Era dunque da ritenersi provato l’inadempimento incolpevole della legale rappresentante della società rispetto all’obbligo di tempestiva conoscenza dell’avviso di addebito opposto.

Motivo III: sulla insussistenza del debito contributivo (ricorso ai sensi dell’art. 24 D.Lgs. n. 46 del 1999)

Era illegittimo il metodo di accertamento utilizzato dagli ispettori, i quali, da un lato, avevano esaminato e raffrontato le esigenze lavorative ed i dati relativi al momento dell’accertamento (____) e, dall’altro, avevano esteso arbitrariamente l’esito di tale confronto al periodo __, senza tuttavia verificare se in tale distinto lasso temporale la società avesse avuto esigenze lavorative o forza occupazionale diverse rispetto a quella riscontrata nel __. Gli ispettori avevano, poi, ritenuto la sussistenza della pretesa omissione contributiva riferendola genericamente a tutti i lavoratori impiegati presso la società, senza dunque accertare la quantità della prestazione lavorativa da ciascuno svolta. Non era altresì condivisibile l’accertamento degli ispettori, laddove aveva ravvisato l’omissione contributiva sulla base di un ragionamento per induzione, basato cioè sull’assunto che la forza occupazionale in essere presso L. S.r.l. non fosse sufficiente a soddisfare le ipotizzate esigenze lavorative. Rilevava inoltre l’impugnante che tutti i lavoratori avevano regolarmente fruito dei permessi retribuiti prescritti.

Motivo IV: la condanna della società al pagamento delle spese di lite

Anche in ipotesi di soccombenza della società, era ingiusta la condanna della medesima alla integrale rifusione delle spese di lite.

Nel precisare le conclusioni in epigrafe riportate la società impugnante chiedeva altresì la sospensione dell’efficacia esecutiva dell’avviso di addebito.

Si costituiva in giudizio per resistere I. che contestava la sussistenza del periculum in mora per la richiesta sospensione evidenziando “tutte le possibilità di rateizzazione ovvero di adesione agevolata presso il concessionario” (memoria difensiva depositata il __, pag. 21).

All’udienza di discussione, svoltasi il __, L. S.r.l. chiedeva un rinvio della stessa con concessione di un “termine per note”. Con successiva istanza depositata il __ l’appellante insisteva sulla proposta istanza di sospensione. Questa veniva disattesa con provvedimento reso all’udienza del 23.05.2018 sul rilievo che, ai sensi dell’art. 24 co. 6 D.Lgs. n. 46 del 1999 invocato dall’istante, era consentito al solo giudice di primo grado di sospendere l’esecuzione del ruolo e che, sotto il profilo del periculum in mora, la documentazione prodotta a dimostrazione della sua ricorrenza, era stata depositata tardivamente, solo il __.

All’udienza del __ la Corte definiva la causa come da dispositivo in calce riportato, di cui veniva data lettura.

Motivi della decisione

  1. Il Giudice del lavoro ha dichiarato inammissibili entrambi gli strumenti processuali azionati da L. S.r.l. avverso l’avviso di addebito n. (…) del __, ovvero sia l’opposizione ex art. 24 comma 5 del D.Lgs. n. 46 del 1999 (iscritta sub n. __ RG), sia il ricorso ex art. 618 bis (iscritto sub n. __ RG).

Sulla premessa che entrambi i procedimenti instaurati dall’odierna appellante sono da qualificarsi quali giudizi di opposizione all’avviso di addebito, la sentenza gravata ha evidenziato che quest’ultimo è stato notificato via pec in data __ all’indirizzo di posta elettronica della società, indicato quale indirizzo pec nella visura camerale prodotta da I., mentre i due ricorsi proposti da L. S.r.l. sono stati depositati in Cancelleria solo in data __, quindi ben oltre il termine di 40 giorni dalla suddetta notifica.

Nel disattendere l’istanza di L. S.r.l. di rimessione in termini ex art. 153 co. 2 c.p.c., il giudice di prime cure ha osservato che, risultando il predetto indirizzo di posta elettronica indicato nella predetta visura camerale, è del tutto ininfluente – rispetto alle risultanze della medesima su cui I. ha fatto legittimamente affidamento ai fini della notifica via pec dell’avviso di addebito, conformemente a quanto previsto dall’art. 30 co. 4 del D.L. n. 78 del 2010 – il rapporto tra la società ed il suo commercialista.

  1. Con il primo motivo di impugnazione L. S.r.l. imputa al primo giudice di non avere considerato che dei due strumenti processuali da essa azionati per contestare la pretesa di I., vale a dire l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. ed il ricorso ex art. 24 D.Lgs. n. 46 del 1999, solo quest’ultimo andava proposto nel termine di 40 giorni dalla notifica dell’avviso di addebito.

La censura investe evidentemente la statuizione di inammissibilità dell’opposizione di cui al “Ricorso ai sensi degli artt. 618 bis C.P.C. e 29, 2 comma, D.Lgs. n. 46 del 1999” introduttiva del procedimento iscritto sub RG n. 859/2016, che L. S.r.l. afferma di avere proposto al fine di dimostrare l’inesistenza del potere di I. di agire in via esecutiva avendo ivi richiesto di “dichiarare l’inesistenza o in via subordinata, annullare ex art. 618 bis c.p.c. l’avviso di addebito indicato in epigrafe per mancanza del titolo legittimante l’iscrizione a ruolo” (come ricordato in atto di appello, pag. 5 e pag. 12).

Fa valere, in particolare, l’impugnante la “assoluta mancanza del titolo esecutivo per ragioni non inerenti al merito della pretesa ma alla inesistenza del presupposto stesso del titolo” in “ragione della mancanza di un valido accertamento ispettivo (nullità del verbale) per violazione della procedura di acquisizione di dati/fatti” (atto cit., pagg. 11 e 12).

A tale riguardo L. S.r.l. allega (atto cit., pagg. 13 e ss.) che l’accertamento compiuto dagli ispettori estensori del “Verbale Unico di accertamento e notificazione” del __ n. (…) (doc. 6 di I.) sarebbe consistito nell’acquisire le dichiarazioni sia della legale rappresentante della società, sig. ra X., che dei lavoratori, senza previa verifica della comprensione dell’italiano da parte dei medesimi, tutte persone di nazionalità cinese, e senza avvalersi di un interprete. All’accertamento dell’invalidità del verbale conseguirebbe, prosegue la società appellante, “il venir meno del presupposto di validità dell’avviso di addebito” (atto cit. pag. 19). L’impostazione dell’impugnante non è condivisibile.

Preliminarmente va ricordato che il vigente sistema di tutela giurisdizionale per le entrate previdenziali (ed in genere per quelle non tributarie) prevede le seguenti possibilità di tutela per il contribuente:

  1. a) proposizione di opposizione al ruolo esattoriale per motivi attinenti al merito della pretesa contributiva ai sensi dell’art. 24 del D.Lgs. n. 46 del 1999, ovverosia nel termine di giorni 40 dalla notifica della cartella di pagamento, davanti al giudice del lavoro e con il rispetto degli artt. 442 e ss. c.p.c.;
  2. b) proposizione di opposizione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. per questioni attinenti non solo alla pignorabilità dei beni, ma anche a fatti estintivi del credito sopravvenuti alla formazione del titolo (quali ad esempio la prescrizione del credito contenuto nella cartella esattoriale ritualmente notificata, la morte del contribuente, l’intervenuto pagamento della somma precettata) sempre davanti al giudice del lavoro nel caso in cui l’esecuzione non sia ancora iniziata (art. 615, comma 1, c.p.c.) ovvero davanti al giudice dell’esecuzione se la stessa sia invece già iniziata (art. 615, comma 2, e art. 618-bis c.p.c.). Questa opposizione non è soggetta ad alcun termine, se non quello rappresentato dal compimento dell’esecuzione;
  3. c) proposizione di una opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell’art. 617 c.p.c., ovverosia “nel termine perentorio di venti giorni dalla notifica del titolo esecutivo o del precetto” per i vizi formali del titolo (quali ad esempio quelli attinenti la notifica e la motivazione) ovvero della cartella di pagamento, anche in questo caso davanti al giudice dell’esecuzione o a quello del lavoro a seconda che l’esecuzione stessa sia già iniziata (art. 617, comma 2 c.p.c.) o meno (art. 617, comma 1 c.p.c.): il suddetto termine, originariamente di cinque giorni, è stato elevato a venti giorni per effetto delle modifiche apportate dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito in L. 14 maggio 2005, n. 80.

I motivi di opposizione che attengono al merito dell’iscrizione a ruolo (quali contestazioni sull’an e sul quantum; eventi estintivi, impeditivi o modificativi del credito avvenuti prima della notifica della cartella o dell’avviso di addebito; eventi che impediscono l’iscrizione al ruolo) vanno qualificati come motivi di opposizione all’iscrizione a ruolo, soggetti al termine di cui all’art. 24 D.Lgs. n. 46 del 1999 ed aventi quale unico legittimato passivo l’ente impositore. I motivi che riguardano il difetto originario o sopravvenuto del titolo esecutivo (ad esempio inesistenza giuridica della cartella, sospensione del ruolo da parte del giudice del lavoro, fatti estintivi della pretesa successivi alla formazione del titolo esecutivo quali prescrizione o pagamento successivi alla notifica alla notifica della cartella di pagamento o dell’avviso di addebito) vanno qualificati come motivi di opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. (in virtù del richiamo alle forme ordinarie di opposizione contenuto nell’art. 29 D.Lgs. n. 46 del 1999), non sottoposti a termini decadenziali. I motivi inerenti la regolarità formale del titolo esecutivo, degli atti della riscossione e della stessa procedura di riscossione vanno qualificati come motivi di opposizione agli atti esecutivi ex art. 29 D.Lgs. n. 46 del 1999 (come tali sottoposti al termine decadenziale di cui all’art. 617 c.p.c.).

Ciò premesso non convince il tentativo dell’appellante di sottrarsi alle conseguenze della rilevata mancanza di un’opposizione tempestiva ai sensi dell’art. 24 D.Lgs. n. 46 del 1999 attraverso la prospettazione della tesi, secondo cui la contestazione della validità del “Verbale Unico di accertamento e notificazione” del 10.11.2015 n. (…) non atterrebbe al merito della pretesa contributiva.

Se, infatti, l’opposizione all’esecuzione, ai sensi dell’art. 615 c.p.c. è quella con cui si contesta la legittimità dell’iscrizione a ruolo per omessa notifica della stessa cartella, e quindi per la mancanza di un titolo legittimante l’iscrizione a ruolo, o si adducano fatti estintivi sopravvenuti alla formazione del titolo (Cassazione civile sez. lav., 03/07/2018, n.17361; Cassazione civile sez. lav., 19/01/2016, n.835; Cassazione civile sez. III, 17/11/2009, n.24215; Cassazione civile sez. lav., 26/03/2004, n.6119), deve rilevarsi che le questioni sollevate in ordine alla validità della procedura di accertamento configurano vizi che introducono un’opposizione al ruolo, diretta alla verifica del diritto alla pretesa contributiva e, quindi, non possono non far parte del merito della causa.

A conferma di tale conclusione si richiama l’insegnamento di Cassazione civile sez. III, 18/10/2012, n.17903: “La pretesa esecutiva fatta valere dal creditore può essere neutralizzata soltanto con la deduzione di fatti modificativi o estintivi del rapporto sostanziale consacrato dal giudicato, fatti che si siano verificati successivamente alla formazione dello stesso, e non anche sulla base di quelle circostanze che, in quanto verificatisi in epoca precedente, avrebbero potuto essere dedotte nel giudizio di cognizione preordinato alla costituzione del titolare del titolo giudiziale e che, risulterebbero conseguentemente in contrasto con l’accertamento ivi contenuto. Peraltro, al fine di paralizzare un titolo giudiziario formatosi nel 1995 non può invocarsi il fatto modificativo sopravvenuto costituito dalla promulgazione della L. n. 108 del 1996 in tema di interessi usurari. Gli interessi pretesi in forza del titolo giudiziario in questione, infatti, non sono suscettibili di alcuna valutazione in termini di usurarietà alla stregua dei parametri fissati dalla legge sopravvenuta” (conformi Cassazione civile sez. lav., 14/02/2013, n.3667; Cassazione civile sez. lav., 22/07/2015, n.15392).

In definitiva non vi è ragione di discostarsi dalla valutazione del primo giudice, per cui l’esame delle contestazioni riguardanti il verbale di accertamento deve considerarsi precluso dalla rilevata definitività della posizione debitoria contributiva dell’appellante per effetto del mancato esercizio nei termini della relativa opposizione ex art. 24 D.Lgs. n. 46 del 1999.

  1. Con il secondo motivo di impugnazione L. S.r.l. fa valere che, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza gravata, la notifica eseguita via pec in data __ alla casella di posta elettronica certificata “(…)” non sarebbe idonea a far decorrere il termine decadenziale.

Da un lato, sostiene l’impugnante, la notifica sarebbe stata effettuata ad indirizzo non riferibile alla società, trattandosi della casella di posta elettronica “(…)”, predisposta a sua insaputa dal commercialista della società dott. __ “al solo fine di svolgere gli adempimenti contabili-tributari” (atto di appello, pag. 26), mentre solo in data __ essa sarebbe venuta in possesso delle credenziali (login e password) per accedervi. Dall’altro lato, in difetto dell’estensione “.p7m, il file inviato – con estensione .pdf” – non potrebbe considerarsi immodificabile e garantire l’identificabilità del suo autore.

La sentenza di primo grado si sottrae anche a tali critiche.

Quanto al vizio di notificazione via pec dell’avviso di addebito oggetto di opposizione, perché avvenuta tramite messaggio di posta elettronica certificata contenente il file della cartella con estensione “.pdf anziché .p7m”, deve preliminarmente osservarsi che, inerendo la questione la regolarità formale del titolo esecutivo (afferma l’appellante riguardo all’avviso di addebito allegato alla pec, spedita il __ e pervenuta al suo commercialista, che “trattavasi di file non firmato digitalmente”), l’opposizione pare doversi qualificare come opposizione agli atti esecutivi ex art. 29 D.Lgs. n. 46 del 1999, con conseguente applicabilità del termine decadenziale di cui all’art. 617 c.p.c. e non impugnabilità della sentenza sulla stessa pronunciata (art. 618 c.p.c., co. 3).

Anche in disparte tale aspetto, la stessa società impugnante dà atto di avere dedotto l’argomento tardivamente, appena “a pag. 19 delle Note autorizzate del __” (atto di appello, pag. 24).

Neppure nel merito, in ogni caso, la doglianza coglie nel segno, essendo la tesi di L. S.r.l. smentita dalla pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 27/04/2018, n.10266, per le quali: “Secondo il diritto dell’UE e le norme, anche tecniche, di diritto interno, le firme digitali di tipo CAdES e di tipo PAdES, sono entrambe ammesse ed equivalenti, sia pure con le differenti estensioni ‘.p7m’ e ‘.pdf’, e devono, quindi, essere riconosciute valide ed efficaci, anche nel processo civile di cassazione, senza eccezione alcuna” (letteralmente conforme Cassazione civile sez. II, 29/11/2018, n.30927; v, inoltre, con riferimento all’orientamento della giurisprudenza tributaria, fortemente valorizzata da parte appellante, Comm. trib. reg., (Lombardia) sez. XIX, 06/11/2018, n.4754: “La notifica della cartella di pagamento via pec, ricevuta regolarmente dal contribuente, deve ritenersi perfezionata in piena aderenza al disposto di cui all’art. 26 D.P.R. n. 602 del 1973. Infatti, l’art. 3 del D.P.R. n. 68 del 2005 stabilisce che l’atto trasmesso per via telematica si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all’indirizzo elettronico da questi dichiarato. Nella fattispecie, trattandosi di notifica della cartella di pagamento, è del tutto irrilevante anche l’estensione del file pdf, non essendo prevista la necessità del formato p7m, la cui obbligatorietà riguarda le sole ipotesi di notificazione di atti giudiziari”.

Ritiene, ad ogni buon conto, il Collegio che le disposizioni del Codice dell’Amministrazione Digitale richiamate dall’appellante non possano certamente valere ad innovare al regime dell’atto in punto di necessità e di regime della sottoscrizione. Con specifico riferimento alle cartelle esattoriali, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, dal quale non si rinvengono valide ragioni per discostarsi (tra le altre, Cassazione civile sez. trib., 05/12/2014, n.25773): “In tema di riscossione delle imposte sul reddito, l’omessa sottoscrizione della cartella di pagamento da parte del funzionario competente non comporta l’invalidità dell’atto, la cui esistenza non dipende tanto dall’apposizione del sigillo o del timbro o di una sottoscrizione leggibile, quanto dal fatto che tale elemento sia inequivocabilmente riferibile all’organo amministrativo titolare del potere di emetterlo, tanto più che, a norma dell’art. 25 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, la cartella, quale documento per la riscossione degli importi contenuti nei ruoli, deve essere predisposta secondo il modello approvato con decreto del Ministero competente, che non prevede la sottoscrizione dell’esattore, ma solo la sua intestazione e l’indicazione della causale, tramite apposito numero di codice”. Nel caso di specie, L. S.r.l. non contesta la provenienza dall’organo titolare del potere di formare il ruolo, indicato nell’avviso di addebito notificato. La validità della stessa, allora, non può essere revocata in dubbio sulla base dell’omessa sottoscrizione.

Si duole poi l’impugnante del rigetto, da parte del primo giudice, della propria istanza di rimessione in termini per la proposizione di tempestiva opposizione ex art. 24 D.Lgs. n. 46 del 1999, fondata sul rilievo che, per causa ad essa non imputabile, solo il __ essa era venuta a conoscenza dell’avviso di addebito di cui si discute.

La decisione del Giudice del lavoro va confermata.

È la stessa società appellante a spiegare di avere “delegato gli adempimenti contabili e fiscali al Dott. ­­” (atto di appello, pag. 31), commercialista della società, che aveva attivato la casella di posta elettronica certificata “(…)” (atto cit., pag. 32), indirizzo risultante anche dalla visura della Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Bolzano (doc. 3 I.).

Ciò premesso non è possibile sostenere che il predetto indirizzo di posta elettronica (presso il quale si è pacificamente perfezionata la notifica dell’avviso di addebito in data __, come ricostruito nella sentenza di primo grado) non sia riferibile a L. S.r.l., trattandosi di dato comunicato da parte della stessa società – o, comunque del professionista di sua fiducia – al Registro delle Imprese (v. la visura citata, sub “Dati anagrafici- Indirizzo PEC”).

Indubbia dunque la conoscibilità dell’indirizzo pec da parte dell’impugnante ed incontestata la possibilità di ottenere, in ogni momento, le credenziali di accesso, perde consistenza la tesi della decadenza involontaria.

  1. Rimangono assorbite, per effetto del mancato accoglimento delle precedenti censure, le successive contestazioni mosse nel merito avverso la pretesa contributiva di I.
  2. Gli argomenti già sopra spesi possono essere richiamati anche a confutazione del motivo di appello afferente le spese di lite di primo grado.
  3. L’appello deve essere così disatteso, con le sequele di legge del raddoppio del contributo unificato e della condanna dell’appellante alla rifusione all’appellato delle ulteriori spese del grado.

P.Q.M.

La Corte d’Appello di Trento, Sezione distaccata di Bolzano, definitivamente pronunciando sull’appello proposto da L. S.r.l. contro I. avverso la sentenza del Giudice del Lavoro di Bolzano n. __ di data __, così provvede:

disattende l’appello;

condanna l’appellante L. S.r.l. alla rifusione a parte appellata I. delle spese di lite, liquidate in Euro __ per la fase di studio, Euro __ per quella introduttiva ed Euro __ per quella decisionale nonché Euro __ per spese generali, complessivamente quindi in Euro __, oltre cpa ed iva sulle poste soggette;

dà atto che sotto il profilo della soccombenza sussistono i presupposti per il versamento da parte dell’appellante L. S.r.l. ai sensi del co. 1-quater dell’art. 13 D.P.R. n. 115 del 2002, inserito con l’art. 1 co. 17 L. 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione proposta.

Così deciso in Bolzano, il 13 marzo 2019.

Depositata in Cancelleria il 29 marzo 2019.

 

Corte_Appello_Trento_Bolzano_Sez_lavoro_Sent_29_03_2019

 

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