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Revocatoria fallimentare per atti sproporzionati: disequilibrio sostanziale delle attribuzioni patrimoniali compiute o promesse

Revocatoria fallimentare per atti sproporzionati: disequilibrio sostanziale delle attribuzioni patrimoniali compiute o promesse

Cassazione Civile, Sezione VI, Sottosezione 1, Ordinanza n. 12700 del 13/05/2019

Con ordinanza del 13 maggio 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in materia di procedure concorsuali, ai fini della rilevazione del carattere sproporzionato, ex art. 67 comma 1 della L.F. di una vendita, bisogna far riferimento al rapporto tra l’insieme di quanto dato e/o promesso dal soggetto poi fallito e quanto, nel complesso, ricevuto in cambio. Del resto, nella logica della figura di revocatoria relativa agli atti sproporzionati rientra proprio il disequilibrio sostanziale delle attribuzioni patrimoniali compiute o promesse che risultano discendere dall’operazione intercorsa tra il soggetto poi fallito ed il contraente in bonis.


 

Cassazione Civile, Sezione VI, Sottosezione 1, Ordinanza n. 12700 del 13/05/2019

Revocatoria fallimentare per atti sproporzionati: disequilibrio sostanziale delle attribuzioni patrimoniali compiute o promesse

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

CURATELA FALLIMENTO (OMISSIS) SRL – ricorrente –

contro

D. – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del __ dal Consigliere Relatore Dott. __.

Svolgimento del processo

1.- Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c., il Fallimento della S.r.l. (OMISSIS) ha convenuto avanti al Tribunale di Napoli D., per chiedere ai sensi della norma della L. Fall. art. 67, comma 1, n. 1 (c.d. revocatoria degli sproporzionati) la revoca della vendita immobiliare dalla società di poi fallita posta in essere in data __ con detta acquirente.

Con ordinanza del __, il Tribunale ha accolto la richiesta formulata dal Fallimento.

2.- È seguita l’impugnazione da parte di D. avanti alla Corte di Appello di Napoli. Che la ha accolta, con sentenza depositata il __ e ha così rigettato la domanda revocatoria presentata dalla procedura fallimentare.

3.- La Corte ha in particolare rilevato che, secondo “la relazione di stima dell’arch. S.”, “su incarico del curatore del fallimento”, il “più probabile valore di mercato dei beni immobili venduti” dalla società poi fallita “era, all’epoca della compravendita e senza considerare l’ipoteca che la D.M. ha documentalmente dimostrato che su detti immobili ancora gravava, complessivamente pari a Euro __”. Per subito aggiungere che, peraltro, “non è a questo valore che andava rapportato il prezzo di Euro __ pagato”, ma all’inferiore valore di mercato che avevano gli immobili in oggetto, “tenendo conto dell’ipoteca che vi era ancora iscritta al momento della conclusione della compravendita in questione e specificamente indicata nel relativo atto notarile”.

In effetti – ha rilevato la Corte territoriale -, “non par dubbio che un immobile, se ipotecato, ha in concreto un valore di mercato in qualche misura inferiore a quello di un immobile identico, ma non gravato da ipoteche e che la stima del suo effettivo valore può e deve essere ragionevolmente fatta considerando i costi che l’acquirente dovrà presumibilmente in definitiva sopportare per ottenere la sua liberazione dalle ipoteche da cui è gravato”.

Perciò – ha proseguito la pronuncia – “nella specie era onere della curatela attrice provare che i beni venduti dalla (OMISSIS) s.r.l. alla D.M. al prezzo di Euro __, sebbene gravati da un’ipoteca, avevano un valore di mercato di oltre un quarto superiore”. “Invece la curatela non solo non ha fornito questa prova”, ma “non ha nemmeno tempestivamente contestato che la D.M., come da costei invece tempestivamente e specificamente allegato, aveva pagato Euro __ alla creditrice ipotecaria per ottenerne il consenso alla cancellazione dell’ipoteca iscritta sugli immobili acquistati, limitandosi ad adombrare dei generici sospetti sulla veridicità di tale pagamento e del suo scopo definendoli ripetutamente presunti”.

4.- Avverso tale pronuncia è insorto il Fallimento, che ha presentato ricorso affidato a un motivo di cassazione.

Ha resistito, con controricorso, D.

Il Fallimento ha anche depositato memoria.

Motivi della decisione

5.- Il motivo di ricorso assume, nella sua intestazione, violazione dell’artt. 2697 c.c. e anche degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché vizio di omesso esame di fatto decisivo e controverso.

Nei suoi contenuti il motivo, che non risulta possedere uno svolgimento propriamente lineare, risulta muovere quattro diverse censure alla sentenza della Corte territoriale.

5.1.- La prima consiste in ciò che la sentenza “ha operato un’autonoma valutazione della vicenda senza tenere in considerazione tutti gli elementi istruttori allegati dalle parti”. Non ha tenuto conto, in particolare, della perizia estimativa del tecnico nominato dal giudice delegato, arch. S., e del fatto che D. non ha provveduto a contestare tale perizia (il corpo del ricorso e quello della memoria difensiva riproducono entrambi, per tale proposito, una parte del testo della comparsa di costituzione e risposta di primo grado della convenuta).

5.2.- La seconda censura è che la sentenza impugnata “appare aver omesso la corretta valutazione del tenore delle difese delle parti, ai fini dell’art. 115 c.p.c., delle risultanze documentali e delle presunzioni allegate in atti”.

5.3.- La terza censura assume che, ai fini dell’azione revocatoria, rileva solo il “prezzo pattuito e versato” per l’acquisto del bene. E che la “presenza di un’iscrizione ipotecaria non incide sul valore del bene poiché non rappresenta una modalità di determinazione del prezzo, ma solo (attraverso l’accollo del debito) una delle modalità di pagamento dello stesso”.

5.4.- La quarta censura si sostanzia nell’affermare che ha errato la Corte napoletana, nel ritenere che il Fallimento non abbia adempiuto gli oneri probatori che gravavano: secondo il ricorrente, “la curatela ha assolto l’onere probatorio”, “incombendo all’acquirente l’onere di dimostrare che tale ulteriore pagamento” (come relativo all’estinzione dell’ipoteca) “ha attinenza cronologica e causale col negozio in questione”.

6.- Il motivo non merita di essere accolto, in nessuna delle articolazioni di cui si compone.

7.- La prima e la seconda censura, che propongono un’unica questione, come riflessa nel vizio di legge (n. 5.1.) e nel vizio di omesso esame (n. 5.2.), non si confrontano con la ratio decidendi del provvedimento impugnato.

Il quale propriamente muove, anzi, proprio dalle risultanze della relazione tecnica redatta dall’arch. S. (cfr. sopra, n. 3, primo capoverso), per indicare il valore di mercato di base dell’immobile in discussione; e altresì espressamente aggiunge che tale valore di base “è in sostanza riconosciuto dalla stessa appellante” D. Per proseguire osservando che, peraltro, tale perizia non ha tenuto conto – nell’indicare appunto il “valore dell’immobile” – dell’esistenza di un’ipoteca a gravare l’immobile, del resto specificamente riportata dal relativo atto notarile di vendita. E per concludere, poi, che dalla sussistenza di un simile peso non si può comunque prescindere.

8.- La terza censura – per cui per la rilevazione del carattere sproporzionato L. Fall. ex art. 67 comma 1, n. 1, di una vendita, si deve fare riferimento unicamente al prezzo della stessa – si manifesta senz’altro scentrata.

La citata norma fa espresso richiamo, infatti, al rapporto tra l’insieme di quanto dato e/o promesso dal soggetto di poi fallito e quanto, nel complesso, ricevuto in cambio (“gli atti… in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano di oltre un quarto ciò che a lui è stato dato o promesso”). Secondo quanto si inscrive coerentemente, del resto, nella logica della figura di revocatoria relativa agli atti sproporzionati: che si focalizza proprio sul disequilibrio sostanziale delle attribuzioni patrimoniali (compiute o promesse) che risultano discendere dall’operazione intercorsa tra il soggetto poi fallito e il contraente in bonis.

9.- La quarta censura pure non si confronta con la motivazione specificamente adottata dalla sentenza della Corte napoletana. Che incide sulla ripartizione dell’onere della prova, come per contro ritiene il ricorrente. Ma procede, per contro, alla valutazione delle prove in concreto offerte dalle parti: rilevando, in particolare, come a fronte della specifica indicazione del versamento fatto da D. per estinguere l’ipoteca, il Fallimento si sia limitato ad “adombrare generici sospetti” (sopra, n. 3, ult. capoverso) Del resto, ai fini del riscontro dei presupposti della revocatoria degli atti sproporzionati, determinante risulta essere, per sé, il valore – come determinato dall’essere nel concreto gravato dal peso di un’ipoteca – da assegnare al bene compravenduto; e non già la sopravvenuta estinzione del diritto del creditore che dell’ipoteca si giova.

10.- In conclusione, il ricorso va respinto.

Le spese seguono la regola della soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida nella somma di Euro __ (di cui Euro __ per esborsi).

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, secondo il disposto dell’art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione civile, il 5 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2019

 

Cass_civ_Sez_VI_1_Ord_13_05_2019_n_12700




Revocatoria fallimentare: gli estratti conto comunicati dalla banca al cliente e non impugnati hanno efficacia di prova tra le parti

Revocatoria fallimentare: gli estratti conto comunicati dalla banca al cliente e non impugnati hanno efficacia di prova tra le parti

Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 12046 del 08/05/2019

Con sentenza dell’8 maggio 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in tema di azione revocatoria fallimentare, ha stabilito che gli estratti conto comunicati dalla banca al cliente e non impugnati, se utilizzati in giudizio dal curatore del fallimento, hanno efficacia di prova tra le parti, non già quali scritture contabili dell’impresa, a norma dell’art. 2709 c.c., bensì a norma dell’art. 1832 c.c., richiamato dall’art. 1857 c.c., ossia con riguardo all’effettività ed alla completezza delle operazioni annotate, con la conseguenza che non si tratta di scritture contabili ex artt. 2214 – 2217 c.c. e non trova dunque applicazione il principio della inscindibilità del loro contenuto.


 

Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 12046 del 08/05/2019

Revocatoria fallimentare: gli estratti conto comunicati dalla banca al cliente e non impugnati hanno efficacia di prova tra le parti

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __- Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

B. S.c.a.r.l. – ricorrente –

contro

Curatela Fallimento (OMISSIS) S.r.l.  – intimato –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal consigliere Dott. __.

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata il __ la Corte d’Appello di Roma, in accoglimento dell’appello proposto dalla Curatela del fallimento (OMISSIS) S.r.l., ha condannato B. S.c.a.r.l. a pagare a favore della stessa Curatela la somma di Euro __ (somma da cui andava detratto quanto già pagato in esecuzione della sentenza di primo grado) oltre interessi legali dalla domanda, a titolo di revoca di ulteriori pagamenti solutori ricevuti dall’istituto di credito nell’anno antecedente alla dichiarazione di fallimento, versamenti che il giudice di primo grado non aveva qualificato come solutori, ritenendone la natura di partite bilanciate.

La Corte d’Appello di Roma ha altresì rigettato l’appello incidentale proposto dall’istituto di credito con il quale era stata contestata la prova della scientia decoctionis.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione B. S.c.a.r.l. mentre la curatela non ha svolto difese.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo l’istituto di credito ha dedotto violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 67, comma 2 (ante riforma) nonché del D.Lgs. 1.0.1993, n. 385 e relativi regolamenti attuativi e istitutivi della Centrale Rischi in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta la ricorrente che la sentenza impugnata ha richiamato le norme del T.U. bancario e regolamenti attuativi non vigenti all’epoca dei fatti di causa in quanto emanati solo successivamente, tenuto conto che i versamenti ritenuti solutori sono avvenuti nel periodo novembre 1992-aprile 1993.

  1. Il motivo è infondato.

Nonostante la sentenza impugnata, nella propria premessa, abbia effettivamente fatto riferimento a testi normativi che sono stati emanati dal settembre 1993 in poi e quindi in un periodo successivo all’esecuzione delle rimesse solutorie di cui è causa, tuttavia, gli elementi sintomatici della scientia decoctionis non sono stati ricavati dal giudice di secondo grado dalle risultanze della Centrale Rischi, ma dall’analisi di indici presuntivi (deposizioni testimoniali di contenuto ritenuto evidenziante la consapevolezza dell’insolvenza, protesti, procedimenti esecutivi mobiliari) che la giurisprudenza di questa Corte ha sempre valorizzato – come ha dato atto la stessa ricorrente – in epoca ben anteriore all’entrata in vigore del T.U.B. e dei regolamenti attuativi.

Peraltro, che B. S.c.r.a.l. sia un operatore professionale, capace di meglio cogliere i sintomi dell’insolvenza rispetto a qualsiasi altro creditore, costituisce un dato incontestabile che prescinde dai particolari obblighi posti a carico degli istituti bancari dai testi normativi sopra menzionati.

Nessun rilievo decisivo hanno quindi avuto le norme primarie e secondarie indicate dalla ricorrente nel percorso argomentativo seguito dalla Corte d’Appello di Roma.

  1. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione ed erronea applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 2727, 2728 e 2729 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta la ricorrente che la sentenza impugnata ha violato il principio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c. rilevando che dovesse essere la banca a provare la normale capacità della T.B. s.r.l. a far fronte ai debiti scaduti.

La Corte d’appello aveva violato il divieto di doppia presunzione atteso che la conclusione cui era giunta era frutto di una presunzione (la conoscenza dello stato di insolvenza) basata su un’altra presunzione (che l’insolvenza fosse conoscibile prima del manifestarsi dei suoi sintomi), a sua volta non nascente da un fatto certo.

  1. Il motivo sarà esaminato, per una questione di priorità logica, all’esito della trattazione del quinto motivo, attenendo entrambi al profilo soggettivo dell’azione revocatoria fallimentare.
  2. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione ed erronea applicazione dell’art. 2709 c.c. e degli artt. 1823, 1842, 1843, 1845 e 1852 c.c. e della L. Fall., art. 67 ante riforma in relazione alla L. Fall., art. 360, comma 1, n. 3.

Lamenta la ricorrente che la Corte d’Appello, nell’affermare che il saldo negativo del conto corrente si configurava come credito della banca scaduto ed immediatamente esigibile, avrebbe disapplicato la disciplina codicistica del conto corrente e dell’apertura di credito (nonché delle condizioni generali stabilite dall’ABI allora vigenti), da cui emerge che i crediti derivanti da reciproche rimesse sono inesigibili e indisponibili fino alla chiusura.

Peraltro, nel corso del giudizio era stato provato dalla banca, attraverso gli estratti di conto corrente, che tali rimesse si inserivano in un rapporto vigente e movimentato con partite di debiti e crediti e, comunque, con riferimento alla prova delle operazioni bilanciate, in caso di apertura di credito in conto corrente, la legge presume che il versamento abbia una funzione ripristinatoria e non solutoria.

La ricorrente ha, altresì, osservato che dall’esame degli estratti di conto corrente era emerso che ad ogni versamento della società erano corrispondenti nella medesima giornata altrettanti prelevamenti o disposizioni di pagamento di importo complessivo anche superiore alla rimessa.

  1. Con il quarto motivo è stata dedotta “violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 – Erronea motivazione e valutazione dei presupposti di fatto e di diritto nonché degli elementi istruttori emersi in corso di causa. Erronea e/o illogica motivazione sulle censure della CTU. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2709 c.c. – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Lamenta la ricorrente che la sentenza impugnata ha omesso di considerare le effettive risultanze del giudizio non valutando la prova costituita dal libro giornale della banca, avente efficacia di prova piena e certa del saldo giornaliero, insufficiente solo per la ricostruzione del saldo infragiornaliero, che costituisce, tuttavia, onere a carico della curatela.

Essendosi la curatela avvalsa ai fini del giudizio degli estratti delle scritture contabili della banca, a tali documenti deve applicarsi il principio di cui all’art. 2709 c.c., secondo cui chi dalle scritture contabili vuole trarre vantaggio non può scinderne il contenuto.

  1. Sia il terzo che il quarto motivo, da esaminare unitariamente affrontando questioni strettamente collegate, sono infondati.

Va preliminarmente osservato che la banca, nell’invocare la violazione dell’art. 1823 c.c., ha fatto riferimento alla disciplina del contratto di conto corrente ordinario, nell’ambito del quale i reciproci crediti delle parti sono effettivamente inesigibili fino alla chiusura del conto. Tuttavia, nel caso di specie, si è in presenza in un conto corrente bancario, nel quale, come il cliente, a norma dell’art. 1852 c.c., può disporre immediatamente delle somme risultanti a credito, allo stesso modo, la banca, ove non risulti stipulato un contratto di apertura di credito in conto corrente ed il saldo sia negativo, è titolare di un credito liquido ed immediatamente esigibile (sulle differenze tra conto corrente ordinario e bancario vedi più diffusamente Sez. 1, Sentenza n. 6558 del 17/07/1997).

Il riferimento al contratto di conto corrente ordinario è quindi del tutto inconferente.

Va, inoltre, osservato che la banca ha dedotto la violazione degli artt. 1842, 1843 e 1845 c.c., norme relative all’apertura di credito in conto corrente, mentre la pronuncia dà per pacifico che la società non godesse di alcun tipo di affidamento o apertura di credito e tale questione non è stata fatta valere dalla Banca, che ha contestato la revocabilità delle rimesse, adducendo unicamente la natura di operazioni bilanciate.

È quindi evidente che, in difetto di un rapporto di apertura di credito in conto corrente, fosse la banca onerata della prova che la rimessa non avesse la funzione di rientro dell’esposizione debitoria, ma di creazione di apposita provvista per un’operazione speculare a debito (partita bilanciata).

L’istituto di credito ha, inoltre, invocato la violazione dell’art. 2709 c.c. senza considerare che questa Corte ha già affermato che, in tema di azione revocatoria fallimentare, gli estratti conto comunicati dalla banca al cliente e non impugnati, se utilizzati in giudizio dal curatore del fallimento, hanno efficacia di prova tra le parti, non già quali scritture contabili dell’impresa, a norma dell’art. 2709 c.c., bensì a norma dell’art. 1832 c.c., richiamato dall’art. 1857 c.c., cioè con riguardo all’effettività e alla completezza delle operazioni annotate, con la conseguenza che non si tratta di scritture contabili ex art. 2214-2217 c.c. e non trova dunque applicazione il principio della inscindibilità del loro contenuto (Sez. 1, Sentenza n. 16971 del 21/07/2009).

La banca ha, altresì, censurato la valutazione delle risultanze istruttorie effettuata dalla Corte d’Appello, invocando la violazione anche dell’art. 132 c.p.c., n. 4, con doglianze che si appalesano inammissibili in quanto finalizzate a sollecitare un diverso apprezzamento del materiale probatorio esaminato dal giudice di secondo grado e ad accreditare una diversa ricostruzione della vicenda processuale.

In proposito, la sentenza impugnata, con un giudizio di fatto di cui ha dato contezza con una motivazione che non può considerarsi omessa o apparente o perplessa o frutto del contrasto irriducibile di affermazioni inconciliabili e come tali incomprensibili (secondo i principi di cui alla sentenza del Supremo Collegio n. 8053/2014) sul punto, non è stata neppure denunciata la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – ha evidenziato che, quanto alle rimesse oggetto di causa, non era emerso alcun indice della natura di partite bilanciate, non avendo né il CTU, né il giudice di primo grado, nella sentenza riformata, indicato quali fossero, quale ammontare avessero le singole operazioni, non esistendo materiale alcuno su cui effettuare la valutazione. Il giudice di secondo grado aveva stigmatizzato che lo stesso CTU, che pure aveva concluso per l’esistenza di partite bilanciate, aveva esplicitamente ammesso che la documentazione prodotta dalla banca era “insufficiente” ed aveva richiesto ulteriore documentazione che non gli era mai stata fornita, concludendo per l’individuazione di partite bilanciate con il solo ausilio del giornale contabile della banca.

Anche tale apprezzamento in fatto, argomentato nei termini sopra illustrati, non è sindacabile in sede di legittimità.

  1. Con il quinto motivo è stato dedotto l’omesso esame, a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione, ovvero il dato temporale della effettiva conoscenza dello stato di insolvenza da parte della Banca.

Lamenta la ricorrente che già nella comparsa di costituzione in appello aveva rilevato l’errore in cui era incorso il giudice di primo grado nel collocare i sintomi di insolvenza (procedure esecutive) dieci anni prima del fallimento, mentre così non era risultando i protesti dell’aprile 1993 e la sentenza di fallimento del novembre 1993. Tale dato era stato, tuttavia, ignorato dalla Corte d’Appello.

Le rimesse erano avvenute in un periodo in cui non vi era alcun protesto o procedura esecutiva.

  1. Il motivo è fondato.

Va preliminarmente osservato che dall’esame della sentenza impugnata, nella quale sono state ricostruite con precisione le domande, le eccezioni e le difese reciprocamente formulate dalle parti, emerge che il giudice d’appello era ben consapevole che l’istituto di credito ha sempre contestato la propria scientia decoctionis, ovvero che al momento in cui sono state eseguite le rimesse revocabili (periodo ottobre ’92- aprile ’93) si fossero manifestati i sintomi dell’insolvenza della società poi fallita.

Tale questione è stata senz’altro oggetto di discussione nel giudizio di appello, tanto è vero che, sul punto, la banca ha proposto appello incidentale.

La questione relativa al momento del manifestarsi degli indici di insolvenza costituisce quindi senz’altro un fatto decisivo – attenendo ai fatti costitutivi del diritto rivendicato dalla curatela – sul quale si è instaurato il contraddittorio tra le parti.

Orbene, tale punto è stato completamente omesso nella motivazione della sentenza impugnata, che, nel fare riferimento agli elementi dalla medesima valorizzati nell’accertamento della consapevolezza dello stato di insolvenza, non ha fatto alcun cenno nonostante che tale aspetto fosse sempre stato contestato dalla Curatela anche in appello – al dato temporale in cui i vari sintomi si fossero manifestati.

In particolare, è stata, in primo luogo, presa in esame la deposizione del teste T., all’epoca vice direttore della filiale interessata della banca ricorrente, che aveva dichiarato che già prima che l’istituto di credito intimasse alla società poi fallita il rientro immediato dallo scoperto esisteva una situazione di “continuo sconfinamento” da parte della cliente.

In ordine a tale punto, va osservato che la Corte di merito ha completamente omesso di indicare (tenuto conto che, come anticipato, le rimesse revocabili si collocano nel periodo ottobre ’92 aprile ’93) quando l’istituto di credito avesse inviato la diffida di rientro prima di decidere di revocare gli affidamenti.

La sentenza ha riassunto anche la deposizione della teste F., secondo cui “c’erano telefonate di funzionari che tutti giorni sollecitavano pagamenti in genere degli assegni presentati”, senza, tuttavia, una seppur minima indicazione temporale del periodo di effettuazione di tali telefonate.

Infine, anche con riferimento ai protesti ed alle procedure esecutive, non si fa minimamente riferimento alla loro collocazione temporale al cospetto delle rimesse revocabili.

Il quinto motivo deve essere dunque accolto.

  1. Il secondo motivo è, conseguentemente, assorbito.
  2. Con il motivo 5.1. è stato dedotto l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 per avere la Corte d’Appello omesso la circostanza, di estrema rilevanza, attinente al quantum delle somme revocabili, comprendendovi anche quelle versate dai fideiussori.

Lamenta la ricorrente che il CTU, nel corso del giudizio di primo grado, aveva potuto constatare l’esistenza di pagamenti da parte dei fideiussori per Lire __ (Euro __), ovvero rimesse effettuate da terzi e non riconducibili alla fallita, e, come tali, sottratte all’azione revocatoria.

  1. Il motivo è inammissibile.

Dall’esame della sentenza impugnata emerge che della questione che forma oggetto del presente motivo non vi è traccia nella medesima. Ne consegue che la ricorrente, allo scopo di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, in ossequio al principio di specificità del motivo, avrebbe dovuto non solo allegare l’avvenuta sua deduzione innanzi al giudici di merito, ma indicare in quale atto del giudizio lo avesse eventualmente fatto, onde consentire alla Suprema Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della questione (vedi Sez 6-1, n. 15430 del 13/06/2018).

Deve pertanto cassarsi la sentenza impugnata, con riferimento al motivo accolto, con rinvio alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, per nuovo esame ed anche per le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il primo, terzo ed il quarto motivo, accoglie il quinto, assorbito il secondo, e dichiara inammissibile il motivo 5.1., e, per l’effetto, cassa la sentenza impugnata con riferimento al motivo accolto, con rinvio alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, per nuovo esame ed anche per le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2019

 

Cass_civ_Sez_I_Ord_08_05_2019_n_12046




Procedimento di revoca del concordato: non è necessario che il decreto di convocazione delle parti rechi l’indicazione che il procedimento è volto all’accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento

Procedimento di revoca del concordato: non è necessario che il decreto di convocazione delle parti rechi l’indicazione che il procedimento è volto all’accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento

Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 5584 del 26/02/2019

Con sentenza del 26 febbraio 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in materia di procedure concorsuali, ha stabilito che nel procedimento di revoca ex art. 173 L. Fall., non è necessario che il decreto di convocazione delle parti rechi l’indicazione che il procedimento è volto all’accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, ai sensi dell’art. 15, comma 4, L. Fall., atteso che, da un lato, il rinvio contenuto nella L. Fall., art. 173, comma 2, alla menzionata norma deve intendersi nei limiti della compatibilità e, dall’altro, in siffatta ipotesi, il contraddittorio tra creditore istante e debitore si è già instaurato e quest’ultimo è già a conoscenza che, in caso di convocazione ex art. 173 L. Fall., l’accertamento del tribunale e, correlativamente, l’ambito della sua difesa attengono ad una fattispecie più complessa di quella della sola revocabilità dell’ammissione al concordato, rappresentando la revoca uno dei presupposti per la dichiarazione di fallimento.


 

Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 5584 del 26/02/2019

Nel procedimento di revoca del concordato, non è necessario che il decreto di convocazione delle parti rechi l’indicazione che il procedimento è volto all’accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

(OMISSIS) S.r.l. – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – ricorrente –

contro

Pubblico Ministero Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo – intimato –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Cons. Dott. __;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per il rigetto.

Svolgimento del processo

  1. Con la sentenza impugnata, la Corte d’Appello di Brescia ha respinto il reclamo proposto dalla (OMISSIS) S.r.l. avverso il fallimento dichiarato dal Tribunale di Bergamo previa revoca dell’ammissione al concordato preventivo, ai sensi della L. Fall., art. 173, a causa di alcune criticità, quali: 1) il compimento di operazioni con società riconducibili ai soci e agli amministratori della famiglia L. (compensazioni di crediti della debitrice con debiti inesistenti di terzi; irregolari contabilizzazioni di finanziamenti dei soci); 2) l’insufficienza dell’attivo concordatario a consentire il pagamento integrale delle spese di procedura e dei creditori privilegiati; 3) la sussistenza di uno stato di insolvenza rilevabile dal difetto di fattibilità giuridica del piano concordatario.
  2. Per quanto ancora rileva in questa sede, la Corte d’appello ha osservato che: 1) vi era stata rituale audizione della debitrice all’udienza fissata ai sensi della L. Fall., art. 173, in cui il P.M. aveva formulato richiesta di fallimento sulla quale la debitrice medesima era stata posta in condizione di difendersi; 2) agli analitici rilievi del commissario, circa il compimento di operazioni riferite a tre società di pertinenza dei membri della famiglia L., la reclamante aveva opposto argomentazioni inidonee a scalfire la conclusione, fatta propria anche dal collegio dei curatori, che “una larga fetta dell’attivo risulterebbe distribuita in famiglia tramite la serie di operazioni (rectius appostazioni) sulle quali il commissario ebbe a richiamare l’attenzione”; 3) sebbene l’insufficienza dei beni offerti atteneva al giudizio di merito (o convenienza) spettante ai creditori, tuttavia essa rilevava “sotto il diverso profilo della conferma della concreta esistenza di una situazione di insolvenza manifestamente irreversibile e del resto neppure negata dalla reclamante”.
  3. Avverso detta sentenza la (OMISSIS) S.r.l. ha proposto ricorso affidato a due motivi, cui la curatela fallimentare ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo, rubricato “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto”, la società ricorrente “si duole di non essere mai stata convocata ai sensi della L. Fall., art. 10 (recte 15), prima di subire la dichiarazione di fallimento”, avendo la Corte d’appello ritenuto sufficiente che all’udienza fissata per la decisione sull’istanza di revoca dell’ammissione al concordato L. Fall., ex art. 173, in cui il P.M. ha formulato una richiesta di fallimento, peraltro non motivata, la debitrice, “presente nella circostanza, bene avrebbe potuto difendersi o legittimamente invocare termine per controdedurre”; così trascurando il mancato rispetto delle formalità prescritte dalla L. Fall., art. 15, costituente “un paradigma organizzativo generale di tutte le istruttorie prefallimentari”.

1.1. La censura è infondata.

1.2. Questa Corte ha più volte chiarito che nel procedimento di revoca L. Fall., ex art. 173, “non è necessario che il decreto di convocazione delle parti rechi l’indicazione che il procedimento è volto all’accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, ai sensi della L. Fall., art. 15, comma 4, atteso che, da un lato, il rinvio contenuto nella L. Fall., art. 173, comma 2, alla menzionata norma deve intendersi nei limiti della compatibilità e, dall’altro, in siffatta ipotesi, il contraddittorio tra creditore istante e debitore si è già instaurato e quest’ultimo è già a conoscenza che, in caso di convocazione L. Fall., ex art. 173, l’accertamento del tribunale e, correlativamente, l’ambito della sua difesa attengono ad una fattispecie più complessa di quella della sola revocabilità dell’ammissione al concordato, rappresentando la revoca uno dei presupposti per la dichiarazione di fallimento” (Sez. 1, 06/03/2018 n. 5273; conf. Cass. 07/12/2016, n. 25165; Cass. 31/01/2014, n. 2130). In effetti, la richiesta di fallimento formulata in udienza dal P.M. non avrebbe dovuto cogliere impreparato il debitore, stante l’attività da questi già svolta nell’allestimento della proposta e del piano di concordato, ai sensi della L. Fall., artt. 160 e 161; ed invero la Corte d’appello ha sottolineato la mancata richiesta di termine a difesa da parte della società concordataria.

1.3. Il motivo presenta inoltre un profilo di inammissibilità laddove prospetta, quale error in procedendo, “la radicale nullità della sentenza di fallimento, nonché della sentenza di decisione del reclamo (…) sostanziatasi nella lesione del diritto di difesa della società ricorrente”. Questa Corte ha infatti più volte segnalato che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), nel consentire la denuncia di vizi di attività del giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce soltanto l’eliminazione del pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza del denunciato error in procedendo; sicché, quando il ricorrente non chiarisca in concreto quale pregiudizio sia derivato alla sua difesa dal provvedimento viziato, l’impugnazione è radicalmente inammissibile (Sez. 1, 06/03/2018 n. 5273; conf. Cass. 09/07/2014, n. 15676; Cass. 22/04/2013, n. 9722; Cass. 12/09/2011, n. 18635).

  1. Il secondo mezzo prospetta la “Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, lamentandosi che “le motivazioni in ordine alla natura fraudolenta delle operazioni de quibus appaiono puramente assertive e completamente slegate da un’autonoma analisi delle operazioni stesse”.

2.1. La censura è inammissibile, perché formulata secondo il paradigma vigente anteriormente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), che consente ora la denunzia per cassazione dei soli vizi motivazionali relativi “all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), con conseguente onere del ricorrente, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), di indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” (Sez. U, 07/04/2014 n. 8053; conf. Sez. 1, 23/02/2017 n. 7472; Sez. 6-3, 10/08/2017 n. 19887). In altri termini, per le sentenze pubblicate come quella in esame – dopo l’11 settembre 2012, non è più denunziabile il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, avendo la nuova disposizione attribuito rilievo solo all’omesso esame di un determinato e ben individuato fatto storico decisivo che sia stato oggetto di discussione tra le parti (Sez. U, 23/01/2015 n. 1241; conf. ex plurimis, Cass. n. 13928 del 2015 e n. 19761 del 2016).

2.2. Anche l’adombrata (più radicale) nullità della motivazione va disattesa, poiché, dopo la menzionata novella dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), il sindacato di legittimità sulla motivazione deve intendersi ridotto – alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi – al minimo costituzionale, nel senso che “l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053; conf. Sez. U., n. 22232 del 2016) per cui è apparente la motivazione che, “benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture”); casi, questi, che non ricorrono nella doglianza in esame, ove l’addebito si riduce al rilievo per cui la motivazione sulla “intenzionalità distrattiva” delle operazioni poste in essere dalla società fosse “costituita dal mero richiamo delle argomentazioni formulate da una parte”.

  1. Il ricorso va quindi rigettato, con condanna del ricorrente a rifondere alla curatela controricorrente le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro __ per compensi, oltre a Euro __ per esborsi ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 9 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 26 febbraio 2019

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Il tribunale nel valutare l’ammissibilità della domanda di concordato preventivo non può controllare direttamente la regolarità e l’attendibilità delle scritture contabili del proponente

Il tribunale nel valutare l’ammissibilità della domanda di concordato preventivo non può controllare direttamente la regolarità e l’attendibilità delle scritture contabili del proponente

Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 5653 del 26/02/2019

Con ordinanza del 26 febbraio 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in tema di concordato preventivo, ha stabilito che il tribunale nel valutare l’ammissibilità della domanda non può controllare direttamente la regolarità e l’attendibilità delle scritture contabili del proponente, ma soltanto svolgere un sindacato sulla corretta predisposizione dell’attestazione del professionista designato ai sensi dell’art. 161, comma 2, l.fall., in termini di completezza dei dati aziendali e di comprensibilità dei criteri di giudizio adottati, rientrando tale attività nella verifica della regolarità della procedura indispensabile per garantire la corretta formazione del consenso dei creditori.


 

Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 5653 del 26/02/2019

Il tribunale nel valutare l’ammissibilità della domanda di concordato preventivo non può controllare direttamente la regolarità e l’attendibilità delle scritture contabili del proponente

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. __ R.G. proposto da:

M., in proprio e nella qualità di socio illimitatamente responsabile della (OMISSIS) S.A.S.  – ricorrente –

contro

FALLIMENTO DELLA (OMISSIS) S.A.S. E DI M.M.  – controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. __ depositata il __.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del __ dal Consigliere Dott. __.

Svolgimento del processo

  1. Con sentenza del __, la Corte d’appello di Napoli ha rigettato il reclamo proposto da M., in proprio e nella qualità di socio accomandatario della (OMISSIS) S.a.s., avverso il decreto e la sentenza emessi il __, con cui il Tribunale di Napoli aveva dichiarato il fallimento dei reclamanti, previa revoca dell’ammissione al concordato preventivo.

A fondamento della decisione, la Corte ha rilevato che la proposta concordataria era fondata su dati aziendali incompleti, inattendibili, non veritieri e comunque inidonei a fornire ai creditori un quadro preciso della situazione patrimoniale della società debitrice, precisando che tale opacità non era stata eliminata neppure con il deposito di una proposta modificativa e di documentazione integrativa. In proposito, ha attribuito valore decisivo alla genericità della posta “prelievi del titolare”, osservando che non erano stati chiariti né il momento genetico della stessa né il responsabile dei prelievi, ed aggiungendo che nel corso della procedura fallimentare erano emerse anche la divergenza tra le risultanze dei bilanci civilistici e quelle delle dichiarazioni fiscali e l’inattendibilità della contabilità della società debitrice. Ha rilevato inoltre che la contabilità, inizialmente depositata soltanto in parte, era stata interamente posta a disposizione degli organi della procedura soltanto a seguito di una prima relazione negativa dei commissari e della fissazione dell’udienza per la revoca del concordato, concludendo pertanto per l’insussistenza delle condizioni di ammissibilità di quest’ultimo: ha osservato infatti che, mentre la proposta ed il piano sono sempre modificabili, in modo da incrementare le possibilità di accoglimento dell’offerta da parte dei creditori, la situazione patrimoniale, finanziaria ed economica rappresentata nei dati aziendali dev’essere pienamente attendibile fin dall’inizio, dal momento che ogni valutazione, ed in particolare quelle riguardanti la fattibilità anche economica, presuppone che ai creditori sia stata fornita una piena e leale informazione sulla reale situazione dell’impresa in crisi. Ha precisato che nella specie qualsiasi valutazione di convenienza della proposta risultava impedita, dal momento che circa il 40% dell’attivo patrimoniale era costituito da una voce dai contorni oscuri, peraltro considerata irrecuperabile, in quanto non presa neppure in considerazione come parte del patrimonio da liquidare, senza che ne fossero spiegate le ragioni.

Pertanto, pur ricordando che il giudizio sulla fattibilità economica del concordato è riservato ai creditori, la Corte ha concluso che, alla luce delle carenze informative emerse in ordine alla predetta posta e degli accertamenti poco tranquillizzanti compiuti dai curatori del fallimento, i dati aziendali non potevano considerarsi veritieri. Ha ritenuto conseguentemente inutile un approfondimento in ordine alla configurabilità dei predetti prelievi come atti di frode ed all’ammissibilità di una modifica della proposta dopo l’attivazione del procedimento di revoca, reputando comunque ammissibile tale modifica, in quanto non avente finalità dilatoria, ma volta a recepire i rilievi sollevati dai commissari giudiziali in ordine alla collocazione privilegiata di un credito vantato da C. S.p.A. Ha affermato quindi che il Tribunale avrebbe dovuto esaminare nel merito le modifiche, e prendere atto del venir meno delle ragioni d’inammissibilità della proposta collegate alla collocazione del predetto credito, a condizione che ulteriori profili d’inammissibilità non emergessero dalle modalità di formazione del credito, derivante da versamenti sul conto sociale effettuati da un terzo che aveva ceduto i propri diritti sull’azienda. Ha aggiunto che le modifiche della proposta avrebbero consentito di superare anche le ragioni d’inammissibilità legate all’iniziale omissione dei beni personali del socio accomandatario, mentre, per quanto riguardava la stima della farmacia, la piena informazione resa in ordine ai dati aziendali di riferimento, consentendo di determinarne l’effettivo valore di mercato e rendendo possibile la valutazione della fattibilità economica del concordato da parte dei creditori, avrebbe impedito di ritenere preclusa l’approvazione della proposta soltanto perché i commissari giudiziali avevano attribuito all’azienda un valore diverso da quello indicato dal debitore.

  1. Avverso la predetta sentenza il M. e la (OMISSIS) S.A.S. hanno proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, illustrati anche con memoria. I curatori del fallimento hanno resistito con controricorso, proponendo a loro volta ricorso incidentale condizionato, per un solo motivo, anch’esso illustrato con memoria.

Motivi della decisione

  1. Preliminarmente, va dichiarata l’inammissibilità della memoria fatta pervenire dalla difesa dei ricorrenti, in quanto depositata in Cancelleria in data successiva al decimo giorno anteriore a quello dell’adunanza in camera di consiglio, e quindi dopo la scadenza del termine di cui all’art. 380-bis.1 c.p.c.
  2. Con il primo motivo d’impugnazione, i ricorrenti denunciano, anche in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2215 c.c. e della L. 18 ottobre 2001, n. 383, osservando che, nel rilevare l’irregolarità delle scritture contabili depositate da essa ricorrente, in quanto prive di bollatura e vidimazione, nonché della difformità tra le stesse e le dichiarazioni fiscali, la sentenza impugnata non ha tenuto conto dell’intervenuta modificazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 39 e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 22, che ha comportato la soppressione dell’obbligo di bollatura dei registri tenuti ai fini dell’IVA e delle imposte sui redditi, fermo restando quello della numerazione progressiva delle pagine.
  3. Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono, anche in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la violazione e la falsa applicazione del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, artt. 161 e segg., sostenendo che, nel ritenere inadeguata l’informazione fornita ai creditori in ordine all’esatta situazione contabile della società, la Corte distrettuale non ha tenuto conto dell’avvenuta indicazione fin dall’origine di tutti i crediti ed i debiti della stessa, ed in particolare della posta “prelievi titolare”, nonché del successivo deposito di una nuova relazione asseverata e delle scritture contabili, da cui si evinceva che la predetta posta, originata dalla precedente gestione della (OMISSIS) S.A.S., era stata iscritta per la prima volta nel bilancio di apertura della nuova gestione affidata alla società ricorrente. Nel rilevare la mancata individuazione del momento genetico e del responsabile dei prelievi, la sentenza impugnata non ha valutato le indicazioni contenute nella relazione del tecnico asseveratore, omettendo altresì di spiegare le ragioni per cui ha ritenuto non veritieri i bilanci, il libro giornale e le scritture contabili di riferimento; essa, inoltre, non ha considerato che in sede di votazione per l’approvazione del concordato non era stata sollevata alcuna contestazione in ordine al predetto credito, e che i dati contabili esposti nella domanda di ammissione al concordato, oltre ad aver trovato conferma nello stato passivo del fallimento, risultavano certificati dal professionista asseveratore, il quale aveva dichiarato di aver preso in esame tutte le scritture contabili della società. Il deposito di tali scritture non è obbligatorio in sede di concordato, e non poteva quindi costituire motivo di rigetto della domanda o di esclusione dell’attendibilità dei dati nella stessa riportati.
  4. Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentano l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, osservando che, nel ritenere non veritiere le risultanze delle scritture contabili, la sentenza impugnata ha attribuito una portata decisiva ai rilievi sollevati dai curatori fallimentari, le cui dichiarazioni, non avendo ad oggetto accertamenti ai quali gli stessi avevano partecipato ma valutazioni, avevano valore di meri indizi, privi di efficacia probatoria in quanto provenienti da una parte processuale e comunque contrastati da altri elementi.
  5. I tre motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto riflettenti questioni intimamente connesse, sono in parte infondati, in parte inammissibili.

Nel disporre la revoca dell’ammissione al concordato preventivo, la Corte distrettuale si è infatti attenuta correttamente al principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la relativa valutazione, tanto in sede di revoca quanto in sede di ammissione o omologazione del concordato, non consente di procedere direttamente al controllo della regolarità ed attendibilità delle scritture contabili, ma soltanto di verificare la completezza dei dati aziendali e la comprensibilità dei criteri di giudizio attestati nella relazione redatta dal professionista designato ai sensi della L. Fall., art. 161, comma 2, in modo tale da assicurare la rispondenza di tale atto alla finalità cui è preordinato, consistente nel fornire una corretta informazione ai creditori, ai fini dell’espressione di un voto libero e consapevole in sede di approvazione della proposta avanzata dal debitore (cfr. Cass., Sez. 6, 9/03/2018, n. 5825; Cass., Sez. 1, 28/03/2017, n. 7959; 31/01/2014, n. 2130). Tale limitazione trova fondamento nell’accentuazione della natura contrattuale del concordato, derivante dalle modifiche normative introdotte dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, le quali hanno riservato ai creditori la valutazione del merito della proposta avanzata dal debitore, ovverosia della convenienza e della probabilità di successo economico del piano, restringendo l’ambito del sindacato spettante al tribunale alla c.d. fattibilità giuridica, da intendersi come compatibilità della proposta con le norme inderogabili e con la causa concreta dell’accordo, avente come finalità il superamento della situazione di crisi dell’imprenditore da un lato, e la assicurazione di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori dall’altro (cfr. Cass., Sez. Un., 23/01/2013, n. 1521; Cass., Sez. 1, 4/07/2014, n. 15345; 25/09/2013, n. 21901; 9/05/2013, n. 11014).

È in quest’ottica che, dovendo procedere al riscontro degli elementi necessari a far sì che la relazione allegata alla domanda di ammissione al concordato fosse effettivamente riconducibile al tipo prefigurato dal legislatore, dunque aggiornata e recante l’illustrazione delle verifiche effettuate, della metodologia e dei criteri seguiti, la sentenza impugnata ha rilevato l’inattendibilità della rappresentazione della situazione aziendale emergente tanto dalla medesima relazione quanto dalla proposta modificativa e dalla documentazione integrativa depositate nel corso del procedimento, ponendo in risalto l’inidoneità dei dati esposti a fornire un quadro preciso della situazione patrimoniale della società debitrice, ed in particolare l’oscurità della posta rappresentata dai “prelievi del titolare”, la cui incidenza percentuale sull’attivo patrimoniale, piuttosto rilevante, è stata ritenuta di per sé sufficiente a far dubitare della veridicità dell’intera situazione contabile, così come descritta dal professionista asseveratore. Tale conclusione non è inficiata dal riferimento alle risultanze della relazione depositata dai curatori nominati nella procedura fallimentare apertasi a seguito della revoca del concordato, la cui utilizzabilità ai fini della formazione del libero convincimento del giudice non può essere esclusa per il solo fatto che alle stesse non possa attribuirsi efficacia di atto pubblico, almeno per quanto riguarda le operazioni non compiute dai curatori o alla loro presenza, o le dichiarazioni da loro raccolte (cfr. Cass., Sez. 1, 2/09/1998, n. 8704). Le predette risultanze, richiamate a conforto di quanto riferito dai commissari giudiziali nella relazione depositata ai sensi della L. Fall., art. 172, hanno trovato d’altronde conferma nella condotta successiva degli stessi ricorrenti, i quali, proprio allo scopo di venire incontro ai rilievi formulati dai commissari, hanno provveduto a modificare la proposta originariamente avanzata e a depositare documentazione integrativa, senza tuttavia riuscire ad evitare la revoca del concordato. Nessuna rilevanza può assumere, a fronte di tali considerazioni, il riferimento al difetto di bollatura e vidimazione delle scritture contabili, il cui contrasto con la formulazione vigente dell’art. 2215 c.c., nel testo modificato dalla L. n. 383 del 2001, art. 8, non pregiudica la correttezza giuridica del ragionamento complessivamente seguito dalla Corte distrettuale, trattandosi di un rilievo emergente dalla relazione dei curatori e fatto proprio dalla sentenza impugnata soltanto ad ulteriore conforto della ritenuta inattendibilità dei dati riportati nella relazione del professionista. Parimenti ininfluente è la circostanza, fatta valere dai ricorrenti, che tali dati non avessero costituito oggetto di contestazioni in sede di approvazione del concordato, non potendosi attribuire all’approvazione un effetto preclusivo di ulteriori indagini in ordine alla sussistenza delle condizioni prescritte per l’accesso alla procedura, la cui ammissibilità trova espressa conferma della L. Fall., art. 173, comma 3, nella parte in cui consente la revoca, oltre che nel caso del compimento di atti non autorizzati o comunque diretti a frodare le ragioni dei creditori, anche nell’ipotesi in cui si accerti la mancanza originaria o sopravvenuta delle predette condizioni.

Non possono infine trovare ingresso, in questa sede, le ulteriori censure riflettenti l’attendibilità intrinseca dei dati riportati nella relazione del professionista asseveratore e degli altri forniti nel corso del procedimento, riferendosi le stesse ad un apprezzamento di fatto, rimesso in via esclusiva al giudice di merito, e mirando pertanto a sollecitare, anche attraverso l’apparente deduzione del vizio di motivazione, una nuova valutazione della vicenda, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, nonché la coerenza logica delle stesse, nei limiti in cui risultano censurabili in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. Cass., Sez. 6, 7/12/2017, n. 29404; Cass., Sez. 5, 4/08/2017, n. 19547). Tale disposizione, circoscrivendo l’anomalia motivazionale denunciabile con il ricorso per cassazione ai soli casi in cui il vizio si converte in violazione di legge, per mancanza del requisito di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, esclude infatti la possibilità di estendere l’ambito di applicabilità della norma in esame al di fuori delle ipotesi, nella specie neppure prospettate, in cui la motivazione manchi del tutto sotto l’aspetto materiale e grafico, oppure formalmente esista come parte del documento, ma risulti meramente apparente, perplessa, o costituita da argomentazioni talmente inconciliabili da non permettere di riconoscerla come giustificazione del decisum, e tale vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053 e 8054; Cass., Sez. 6, 8 ottobre 2014, n. 21257), restando invece esclusa la deducibilità della mera insufficienza o contraddittorietà della motivazione (cfr. Cass., Sez. 3, 12/10/2017, n. 23940; 20/08/2015, n. 17037; Cass., Sez. 1, 4/04/2014, n. 7983).

  1. Il ricorso va pertanto rigettato, restando assorbito il ricorso incidentale condizionato proposto dai curatori del fallimento, con la conseguente condanna dei ricorrenti principali al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

L’intervenuta ammissione del ricorrente al patrocinio a spese dello Stato preclude l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (cfr. Cass., Sez. lav., 5/06/2017, n. 13935; 2/09/2014, n. 18523; Cass., Sez. 6, 22/03/2017, n. 7368).

P.Q.M.

rigetta il ricorso principale; dichiara assorbito il ricorso incidentale. Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro __ per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro __, ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 26 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 26 febbraio 2019

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L’infalcidiabilità del credito e la proposta di concordato preventivo accompagnata da una transazione fiscale

L’infalcidiabilità del credito e la proposta di concordato preventivo accompagnata da una transazione fiscale

Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 6922 del 11/03/2019

Con ordinanza dell’11 marzo 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione III, in materia di recupero crediti, ha stabilito che la previsione dell’infalcidiabilità del credito per le ritenute fiscali operate e non versate, di cui all’art. 182-ter, comma 1, legge fallimentare (R.D. n. 267 del 1942) trova applicazione solo nell’ipotesi speciale di proposta di concordato preventivo che sia accompagnata da una transazione fiscale e non anche quando ricorra la fattispecie generale di concordato senza transazione fiscale.


 

Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 6922 del 11/03/2019

L’infalcidiabilità del credito e la proposta di concordato preventivo accompagnata da una transazione fiscale

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

M. S.r.l. – ricorrente –

contro

E. S.p.a. – controricorrente –

e contro

I. – controricorrente –

e contro

L.; – intimato –

avverso il decreto n. __ della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal cons. __.

Svolgimento del processo

  1. Con la sentenza impugnata, la Corte d’Appello di Milano, adita ai sensi della L. Fall., art. 183, ha: i) respinto il reclamo proposto dall’Inps per mancata osservanza del D.M. n. 4 agosto 2009, ritenendo le relative disposizioni inapplicabili a fronte di una proposta di concordato preventivo presentata il __ senza richiesta di transazione fiscale; ii) accolto il reclamo proposto da Equitalia contro il pagamento non integrale dei crediti per Iva e ritenute operate e non versate, ritenendo trattarsi di crediti non falcidiabili anche in mancanza di transazione fiscale, con assorbimento degli ulteriori motivi di gravame; iii) accolto il reclamo proposto dal L. per l’assenza di indipendenza dell’attestatore (in quanto sorella di una creditrice, dipendente della società concordataria), con assorbimento delle ulteriori censure.
  2. Avverso detta decisione la M. S.r.l. in liquidazione, in concordato preventivo, ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui hanno resistito con controricorso E. e I. (quest’ultimo senza proporre ricorso incidentale), mentre il L. non ha svolto difese.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo si lamenta la “violazione e falsa applicazione di norme di legge, art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, per avere la corte d’appello ritenuto intangibili in sede concordataria – anche in mancanza di transazione fiscale – i crediti per Iva e ritenute, aderendo all’orientamento sulla natura sostanziale e inderogabile della L. Fall., art. 182 ter (cfr. Cass. nn. 22931 e 22932 del 2011, n. 7667 del 2012, nn. 9541 e 1447 del 2014).

1.1. La censura è fondata.

1.2. Invero, l’orientamento cui ha aderito il giudice a quo è stato successivamente superato dalle Sezioni Unite di questa Corte, le quali – chiamate a “stabilire se la previsione dell’infalcidiabilità del credito IVA di cui alla L. Fall., art. 182 ter, trovi applicazione solo nell’ipotesi di proposta di concordato accompagnata da una transazione fiscale, fattispecie alla quale la norma fa espresso riferimento, ovvero anche nell’ipotesi di concordato preventivo proposto senza fare ricorso all’istituto disciplinato dalla L. Fall., art. 182 ter” – con una statuizione pienamente condivisibile (anche perché conforme a Corte giustizia 07/04/2016 in C-546/14, che ha dichiarato compatibile con l’art. 4, par. 3, TUE nonché con l’art. 2, art. 250, par. 1, e art. 273 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune dell’IVA, una normativa nazionale – come la legge fallimentare italiana – che ammetta la falcidiabilità dell’imposta sul valore aggiunto in sede di concordato preventivo, in ragione della serietà del procedimento destinato a verificare l’impossibilità di una maggiore soddisfazione sul ricavato nell’ipotesi di liquidazione, preso atto della collocazione preferenziale del credito), hanno avallato la tesi della facoltatività dell’istituto della transazione fiscale, affermando che “la L. Fall., art. 182 ter, comma 1, come modificato dal D.L. n. 185 del 2008, art. 32, conv. con L. n. 2 del 2009, laddove esclude la falcidia sul capitale dell’IVA, così sancendo l’intangibilità del relativo debito, costituisce un’eccezione alla regola generale, stabilita dalla L. Fall., art. 160, comma 2, della falcidiabilità dei crediti privilegiati, compresi quelli relativi ai tributi costituenti risorse proprie dell’Unione Europea, e trova, quindi, applicazione solo nella speciale ipotesi di proposta di concordato accompagnata da una transazione fiscale” (Sez. U, 27/12/2016 n. 26988, Rv. 641809 – 01).

1.3. Il principio, formulato con riguardo al credito Iva, è stato successivamente esteso anche ai crediti per le ritenute previdenziali operate e non versate, statuendosi anche in tal caso che “la previsione dell’infalcidiabilità del credito per le ritenute fiscali operate e non versate, di cui alla L. Fall., art. 182 ter, comma 1, trova applicazione solo nell’ipotesi speciale di proposta di concordato preventivo che sia accompagnata da una transazione fiscale e non anche quando ricorra la fattispecie generale di concordato senza transazione fiscale” (Sez. 1, 19/01/2017 n. 1337, Rv. 643496 – 01; conf. sez. 1, 12/03/2018, n. 5906).

1.4. Ciò posto, la decisione impugnata contrasta con i richiamati principi laddove applica i criteri dettati dalla L. Fall., art. 182 ter, nel testo applicabile ratione temporis, precedente la modifica ad opera della L. 11 dicembre 2016, n. 232, art. 1, comma 81, in vigore dal 1 gennaio 2017 – ad una proposta concordataria non accompagnata da richiesta di transazione fiscale, cui resta dunque applicabile la disciplina generale del concordato preventivo, in base alla quale anche i crediti per Iva o ritenute previdenziali operate e non versate come qualsiasi altro credito munito di privilegio, pegno o ipoteca possono essere soddisfatti in misura non integrale, secondo il meccanismo contemplato dalla L. Fall., art. 160, comma 2, e quindi in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, se l’incapienza dei beni sui quali grava la prelazione sia attestata dalla relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti previsti dalla L. Fall., art. 67, comma 3, lett. d), (ex multis, Cass. Sez. 1, 15/09/2017 n. 21484; 24/05/2018 n. 12962; 18/06/2018 n. 16066; 21/06/2018 n. 16364; 15/09/2017, n. 21484; Sez. 1, 13/07/2016 n. 18561).

  1. Con il secondo mezzo si contesta la “violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 67, comma 3, lett. d), e dell’art. 2399 c.c., nonché l’illogicità del giudizio, in quanto non sorretto da un’adeguata e logica motivazione circa le ragioni e le circostanze di fatto da cui il giudice ha tratto il convincimento della mancanza di indipendenza del professionista attestatore”. Osserva la ricorrente che il legame familiare dell’attestatore non riguarda la società concordataria bensì una sua dipendente, la quale alla data della relazione asseverata era stata assunta dalla OR.A. S.r.l., affittuaria del ramo d’azienda (con contratto valido per cinque anni anche in caso di mancata ammissione al concordato), sicché “non aveva alcun interesse al buon esito del concordato, atteso che il suo posto di lavoro era salvo, il pagamento del suo TFR era garantito, non aveva motivo di temere azioni civili di responsabilità da parte di un eventuale curatore fallimentare, né accuse penali per reati fallimentari, stante la sua posizione di normale impiegato”.

2.1. La censura è fondata, poiché la conclusione cui perviene sul punto la corte territoriale appare frutto di una petizione di principio, piuttosto che di una effettiva motivazione sulla fattispecie concreta.

2.2. Invero i giudici d’appello, muovendo dal dato pacifico del rapporto di parentela esistente tra l’attestatrice ed una dipendente della società concordataria (sorelle), assumono che – a prescindere dalle cause di incompatibilità specificamente previste – “non può assumere l’incarico di attestatore un soggetto portatore di interessi anche solo potenzialmente confliggenti con quello generale”, ravvisando tale conflitto di interessi nel fatto che la sorella dipendente, in quanto creditrice della società proponente il concordato, sarebbe “senz’altro soggetto interessato all’operazione di risanamento dell’impresa”. Tuttavia, pur dichiarando di condividere la tesi dottrinaria secondo la quale “il difetto di indipendenza non equivale senz’altro anche un difetto di imparzialità… per cui non è sufficiente rilevare la ricorrenza del primo difetto per considerare esistente anche il secondo, e quindi dedurne un effetto invalidante sulla relazione attestativa”, si limitano a rilevare che il rilevato “difetto di indipendenza non può non incidere negativamente sulla attendibilità delle verifiche e delle valutazioni espresse e quindi sulla inutilizzabilità della relazione”, senza svolgere quella disamina in concreto da essi stessi dichiarata necessaria e imprescindibile.

2.3. In effetti, ai fini della indipendenza del professionista attestatore, la L. Fall., art. 67, comma 3, lett. d), contempla, accanto alle ipotesi qualificate previste nell’ultima parte, non rilevanti nel caso di specie – stante il rinvio all’art. 2399 c.c. (coniuge, parenti e affini entro il quarto grado dell’amministratore della società e delle società controllate, controllanti o sottoposte a comune controllo) e ai rapporti infraquinquennali di lavoro subordinato, autonomo o di partecipazione agli organi di amministrazione o controllo – l’assenza di rapporti di natura personale o professionale dell’attestatore con l’impresa e coloro che hanno interesse all’operazione di risanamento, che siano “tali da comprometterne l’indipendenza di giudizio”.

2.4. Ebbene, nel caso in esame il giudice a quo si è limitato a registrare l’esistenza di un rapporto personale tra l’attestatore e un creditore della società concordataria, senza scendere ad esaminare se esso fosse tale, in concreto, da comprometterne l’indipendenza di giudizio. E ciò senza nemmeno esaminare – dichiarandole assorbite le ulteriori censure mosse dal reclamante ai contenuti della relazione, che in ipotesi avrebbero anche potuto dare consistenza alla generica doglianza di difetto di indipendenza dell’attestatrice.

  1. Il terzo motivo prospetta unitariamente la “Violazione degli artt. 738, 739 e 154 c.p.c. Omessa motivazione sull’eccezione di improcedibilità dei giudizi introdotti da I. e d. L. per mancata notificazione del reclamo e del decreto di fissazione dell’udienza”.

3.1. Il motivo non è fondato.

3.2. In primo luogo, quella che viene prospettata come omessa motivazione integra in realtà una pronuncia di rigetto implicito della relativa eccezione. In secondo luogo, dagli atti di causa risulta che tutte le parti erano comunque presenti in udienza a seguito della rituale notificazione del reclamo proposto da E. Infine, salve le peculiarità del cd. rito lavoro (cui afferisce il precedente invocato in ricorso di Cass. 11/07/2013 n. 17202; cfr. Sez. L, n. 14839/18 e Sez. 6-2, n. 16390/18 in materia di opposizione ad ordinanza ingiunzione), va prestata adesione all’ampio e consolidato orientamento di questa Corte che nei procedimenti di impugnazione con rito camerale ammette la concessione di un termine per il rinnovo della notifica del ricorso e pedissequo decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti, con efficacia sanante della loro costituzione ai sensi degli artt. 164 e 291 c.p.c., (cfr. Sez. 1, nn. 25211/13, 11418/14, 19203/14, 21111/14, 19335/16; Sez. 6-1, nn. 16677/14, 14731/16, in materia di famiglia; Sez. 1, nn. 19018/14, 24722/15 e 19653/15, in materia di impugnazioni dello stato passivo fallimentare).

  1. La sentenza va quindi cassata con rinvio in accoglimento dei primi due motivi di ricorso, oltre che per la statuizione sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso, rigetta il terzo, cassa la sentenza impugnata nei sensi di cui in motivazione e rinvia alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 20 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2019

Cass_civ_Sez_I_Ord_11_03_2019_n_6922




L’ammissione alla procedura di concordato preventivo impedisce la proposizione di un’ulteriore ed autonoma domanda di concordato rispetto a quella originaria

L’ammissione alla procedura di concordato preventivo impedisce la proposizione di un’ulteriore ed autonoma domanda di concordato rispetto a quella originaria

Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 7577 del 18/03/2019

Con ordinanza del 18 marzo 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in materia di recupero crediti, ha stabilito che l’ammissione alla procedura di concordato preventivo impedisce la proposizione di un’ulteriore ed autonoma domanda di concordato rispetto a quella originaria, poiché, rispetto al medesimo imprenditore e alla medesima insolvenza, il concordato non può che essere unico. Questa necessaria unicità fa sì che il debitore, a seguito della proposizione di un ricorso per concordato preventivo con riserva L. Fall., ex art. 161, comma 6, possa depositare un nuovo ricorso L. Fall., ex art. 161, comma 1, corredato ab initio dalla proposta, dal piano e dai documenti, sempre che dallo stesso si desuma la rinuncia alla pregressa domanda “con riserva” e la nuova domanda non si traduca in un abuso dello strumento concordatario.


 

Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 7577 del 18/03/2019

L’ammissione alla procedura di concordato preventivo impedisce la proposizione di un’ulteriore ed autonoma domanda di concordato rispetto a quella originaria

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. __ proposto da:

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – ricorrente –

contro

(OMISSIS) S.r.l. – controricorrente –

contro

Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Catania, e S. s.r.l. – intimate –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal cons. __;

lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha chiesto che la Corte rigetti il ricorso, ed in subordine che lo dichiari inammissibile, con le conseguenze di legge.

Svolgimento del processo

  1. Il Tribunale di Catania, a seguito dell’istanza di fallimento presentata da S: S.r.l. nei confronti della Società (OMISSIS) s.r.l., rilevava che la società debitrice aveva rinunziato alla domanda anticipata di concordato in precedenza presentata L. Fall., ex art. 161, comma 6, (domanda reiterata dopo una precedente presentazione al Tribunale di Ferrara, dichiaratosi incompetente) depositando in seguito una proposta piena di concordato preventivo, constatava che quest’ultima risultava inammissibile, in mancanza della necessaria attestazione del professionista asseveratore, e, accertata la situazione di insolvenza in cui versava la compagine convenuta, dichiarava il suo fallimento.
  2. La Corte d’Appello di Catania, con sentenza depositata in data __: i) riteneva che la proposta di concordato depositata in un secondo momento, lungi dal costituire una rinuncia alla domanda in bianco in precedenza presentata, fosse volta invece a coltivare la stessa e intendesse rappresentare un suo ulteriore svolgimento; ii) evidenziava l’inesistenza nell’ordinamento di una norma che facesse discendere dalla mera riproposizione di una nuova domanda di concordato la rinunzia a quella proposta anteriormente, con la conseguente necessità di ricondurre le differenti istanze ad un’unica procedura, non potendo il concordato che essere unico; iii) sottolineava che l’intento abdicativo avrebbe comunque dovuto essere espresso con i medesimi requisiti di forma previsti ad substantiam per l’atto cui si voleva rinunciare, mentre nel caso di specie l’atto interpretato quale rinunzia non era stato adottato nelle forme previste dalla L. Fall., art. 152, u.c..

Sulla base di queste premesse la corte distrettuale rilevava che la proposta formulata, nell’inserirsi nell’unico procedimento di concordato già instaurato, ne costituiva uno svolgimento ancora interlocutorio, in mancanza della necessaria attestazione di asseverazione, ma del tutto legittimo, tenuto conto della contestuale istanza – temporalmente ricompresa nella originaria richiesta di concessione di un termine nella misura massima prevista dalla L. Fall., art. 161, u.c., su cui il Tribunale non aveva mai ritenuto di provvedere – di concessione di un breve periodo al fine di rendere tale giudizio valutativo, e, di conseguenza, revocava la dichiarazione di fallimento di Società (OMISSIS) s.r.l.

  1. Ha proposto ricorso per cassazione avverso questa pronuncia il fallimento di Società (OMISSIS) s.r.l., affidandosi a tre motivi di impugnazione.

Ha resistito con controricorso la Società (OMISSIS) s.r.l.

Gli intimati Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Catania e S. s.r.l. non hanno svolto difesa. Il Procuratore Generale presso questa Corte ha depositato conclusioni scritte, ex art. 380 bis.1 c.p.c., sollecitando il rigetto del ricorso o in subordine la declaratoria di inammissibilità.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c.

Motivi della decisione

4.1 Il primo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dei criteri ermeneutici di interpretazione degli atti negoziali previsti dagli artt. 1362 c.c. e ss. e del disposto della L. Fall., artt. 160, 161, 162 e 163: la corte distrettuale avrebbe apoditticamente ritenuto che la domanda di concordato preventivo presentata dalla debitrice in data __ non dovesse essere intesa quale domanda di concordato ai sensi della L. Fall., art. 161, commi 2 e 3, a dispetto del suo chiaro tenore, che non poteva essere mistificato a causa della mancata asseverazione del piano, la quale costituiva un elemento necessario ma estrinseco alla domanda, inidoneo a qualificarne il contenuto.

Sotto un profilo processuale la domanda di concordato presentata in un secondo momento conteneva tutti gli elementi previsti dalla L. Fall., 161, la cui valutazione non poteva essere inficiata da un elemento estrinseco alla fattispecie, che ne era condizione di ammissibilità ma non contribuiva alla definizione e qualificazione dell’atto.

4.2 Il secondo mezzo lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. Fall., artt. 160, 161, 162 e 163 nonché la violazione dei criteri ermeneutici dei provvedimenti giudiziali: la corte distrettuale avrebbe svolto ampie argomentazioni in tema di rinunzia alla domanda di concordato quando in realtà la questione sottoposta al suo esame era ben diversa e riguardava il fatto che la domanda di concordato preventivo in pieno avesse fatto venire meno l’efficacia e la funzione della domanda in bianco in precedenza presentata, obbligando il Tribunale a verificarne le condizioni di ammissibilità, dato che la società debitrice non aveva diritto alla concessione di un ulteriore termine per depositare l’attestazione di asseverazione mancante.

4.3 I motivi, da trattarsi congiuntamente in ragione della loro connessione, sono infondati.

4.3.1 Questa Corte ha già avuto modo di precisare che l’ammissione alla procedura di concordato preventivo impedisce la proposizione di un’ulteriore ed autonoma domanda di concordato rispetto a quella originaria, poiché, rispetto al medesimo imprenditore e alla medesima insolvenza, il concordato non può che essere unico (Cass. 14/1/2015 n. 495).

Questa necessaria unicità fa sì che il debitore, a seguito della proposizione di un ricorso per concordato preventivo con riserva L. Fall., ex art. 161, comma 6, possa depositare un nuovo ricorso L. Fall., ex art. 161, comma 1, corredato ab initio dalla proposta, dal piano e dai documenti, sempre che dallo stesso si desuma la rinuncia alla pregressa domanda “con riserva” e la nuova domanda non si traduca in un abuso dello strumento concordatario (Cass. 31/3/2016 n. 6277).

4.3.2 La L. Fall., art. 161, pur preoccupandosi di disciplinare l’attività dell’imprenditore in termini di gestione dell’impresa e obblighi informativi nell’intervallo di tempo intercorrente fra la presentazione della domanda in bianco e il deposito della domanda concordataria completa, non prevede un’analoga stringente regolamentazione che stabilisca le modalità con cui l’imprenditore, a seguito della presentazione dell’istanza di cui alla L. Fall., art. 161, comma 6, debba provvedere al deposito della domanda, del piano e della documentazione prevista dalla L. Fall., art. 161, commi 2 e 3, ma si limita soltanto a stabilire gli oneri di completamento riconnessi all’introduzione della domanda cd. in bianco e il termine finale entro cui la domanda, nella compiutezza del suo contenuto, deve essere presentata.

Ne discende che lo sviluppo dell’iter di presentazione, ferma la necessità di deposito della domanda nella completezza dei suoi elementi entro il termine finale concesso, può avvenire, in assenza di prescrizioni normative, tramite un unico adempimento finale o con una progressiva esecuzione delle attività prescritte.

In altri termini l’imprenditore, come può provvedere al deposito di domanda, piano e documentazione in un’unica soluzione entro il termine finale concessogli, così può assolvere quest’onere a singhiozzo, in una pluralità di occasioni (in una maniera che risulta addirittura di maggior tutela per i creditori, i quali, piuttosto che doversi accontentare delle informazioni sullo stato di avanzamento delle attività di predisposizione della proposta e del piano, hanno la possibilità di verificare in anticipo il piano di risanamento concepito dall’imprenditore), purché la sua attività risulti completa entro la scadenza fissata.

4.3.3 La corte distrettuale era chiamata a valutare il contenuto degli atti presentati dall’imprenditore al fine di verificare se gli stessi si ponessero e in quali termini nel solco procedimentale già tracciato dalla presentazione della domanda anticipata di concordato ovvero risultassero alla stessa estranei e come di conseguenza si rapportassero con la precedente domanda.

Il collegio del reclamo ha ritenuto che a seguito della presentazione della domanda concordataria L. Fall., ex art. 161, comma 6, in data __ la proposta depositata il successivo __ costituisse uno svolgimento correlato all’iter in precedenza avviato ma ancora interlocutorio, sicché la richiesta di un termine per completare il deposito della documentazione richiesta andava convogliata nell’istanza già presentata di concessione del termine previsto dalla L. Fall., art. 161, u.c..

Una simile valutazione – in merito alla volontà dell’imprenditore di raccordarsi, seppur in maniera non ancora definitiva, con l’attività procedimentale in precedenza compiuta piuttosto che di sostituirla e superarla – non si presta a censure di sorta.

Il collegio di merito si è infatti posto nella prospettiva interpretativa del disposto della L. Fall., art. 161 sopra delineata, ritenendo che il debitore ben potesse dar seguito alla domanda anticipata di concordato tramite un atto interlocutorio che provvedesse in maniera non ancora definitiva all’assolvimento degli oneri conseguenti alla presentazione dell’istanza prenotativa.

Risulta inoltre condivisibile la valorizzazione degli intenti espressi all’interno dell’atto interlocutorio depositato, in quanto è rimessa all’imprenditore, pur nello stretto rispetto delle indicazioni impartite dal Tribunale, la decisione circa le più opportune modalità di adempimento degli obblighi conseguenti all’avvio della procedura, scegliendo così se provvedere in anticipo e completamente agli stessi o in maniera progressiva nel termine concesso ovvero in un’unica soluzione entro la scadenza finale.

5.1 Il terzo motivo di ricorso assume, in relazione all’art. 360 c.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dei principi in materia di lealtà e probità contrattuale (artt. 1377 e 1375 c.c.) e in materia di lealtà e probità processuale (art. 88 c.p.c.) nonché, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che era stato oggetto di discussione fra le parti: in tesi di parte ricorrente la corte territoriale, ove avesse considerato che la compagine debitrice già il giorno __ aveva proposto una prima istanza di concordato con riserva, non avrebbe potuto non rilevare che la richiesta di un ulteriore termine per il deposito dell’asseverazione costituiva un abuso dello strumento concordatario, dato che l’imprenditore avrebbe avuto a disposizione un termine maggiore di quello previsto dalla legge per il deposito di una domanda di concordato in pieno corredata dalle asseverazioni di legge.

5.2 Il motivo risulta infondato sotto il primo profilo di censura, inammissibile rispetto al secondo.

Risulta oramai coperta dal giudicato, in mancanza di alcuna impugnazione sul punto, la constatazione della Corte d’Appello in merito alla piena legittimità della domanda di concordato con riserva presentata il __, di carattere reiterativo rispetto a quella avanzata davanti al Tribunale di Ferrara.

Se la domanda costituiva non una traslatio della prima domanda ma un’ammissibile ripetizione della medesima, allora è indubitabile che il termine richiesto L. Fall., ex art. 161, u.c. non poteva che decorrere dal deposito del secondo ricorso.

Ne consegue, in primo luogo, la mancanza di decisività del fatto storico asseritamente trascurato, costituito dalla data di presentazione della prima domanda di concordato a un Tribunale dichiaratosi territorialmente incompetente, dato che il termine per la presentazione di proposta, piano e relativi documenti andava computato dal deposito della domanda considerata distinta e ammissibile.

Ne discende altresì la correttezza della valutazione compiuta dalla corte territoriale in merito all’impossibilità di ravvisare, in ragione della richiesta di concessione di un termine per il deposito dell’attestazione di asseverazione mancante, un abuso dello strumento concordatario.

Infatti, una volta acclarata la possibilità per l’imprenditore di assolvere a più riprese, seppur entro il termine finale concesso, gli adempimenti previsti dalla L. Fall., art. 161, comma 6, a seguito della presentazione della domanda anticipata, va escluso che la richiesta di termine che si innesti nell’originaria analoga istanza presentata al momento del deposito della domanda cd. in bianco possa avere di per sé carattere abusivo, essendo priva di autonomia nella volontà della stessa parte che l’ha presentata; dunque nel caso di specie era la domanda iniziale reiterata a poter costituire, al più, l’espressione di un abuso dello strumento concordatario.

  1. In forza dei motivi sopra illustrati il ricorso deve essere pertanto respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.QCass_civ_Sez_I Ord_ del_18_03_2019_n_7577.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro __, di cui Euro __ per esborsi, oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 20 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2019

Cass_civ_Sez_I Ord_ del_18_03_2019_n_7577




L’impugnazione dell’atto di ingiunzione di pagamento emesso ex artt. 2 e 3 R.D. n. 639/1910 appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario

L’impugnazione dell’atto di ingiunzione di pagamento emesso ex artt. 2 e 3 R.D. n. 639/1910 appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario

T.A.R. Umbria Perugia, Sezione I, Sentenza n. 153 del 20/03/2019

Con sentenza del 20 marzo 2019, il T.A.R. Umbria Perugia, Sezione I, in materia di recupero crediti, ha stabilito che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario l’impugnazione dell’atto di ingiunzione di pagamento emesso ex artt. 2 e 3 R.D. n. 639/1910, qualora il giudizio instauratosi è volto all’accertamento della mancata sussistenza del diritto a procedere all’esecuzione forzata e alla negazione della correlativa pretesa vantata dall’amministrazione.


 

T.A.R. Umbria Perugia, Sezione I, Sentenza n. 153 del 20/03/2019

L’impugnazione dell’atto di ingiunzione di pagamento emesso ex artt. 2 e 3 R.D. n. 639/1910 appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per l’Umbria

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex art. 60 cod. proc. amm.;

sul ricorso numero di registro generale __, proposto da

S.

contro

C.

per l’annullamento e/o declaratoria di nullità, previa concessione di idonea misura cautelare:

1) dell’Atto Ingiuntivo di C. prot. n. (…) datato __, notificato in data __, con il quale è stato ingiunto il pagamento di Euro __ a S.;

2) di ogni altro atto presupposto, conseguente e/o, comunque, connesso inclusa la nota prot. n. (…) del __ citato nell’atto ingiuntivo impugnato al punto sub (…).

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di C.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno __ dott. __ e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Sentite le stesse parti ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

  1. S. ha chiesto l’annullamento e/o declaratoria di nullità previa concessione di idonea misura cautelare, dell’atto ingiuntivo di C. prot. n. (…) del __, notificato in data __, con il quale è stato ingiunto il pagamento di Euro __, nonché di ogni altro atto presupposto, conseguente e/o, comunque, connesso inclusa la nota prot. n. (…) del __, citato nell’atto ingiuntivo.

1.1. Riferisce parte ricorrente che i S. è stato costituito in data __, ai sensi dell’art. 22 della L.R. n. 11 del 2005, con lo scopo di attuare le previsioni del Piano Attuativo in variante parziale al P.R.G. delle Aree Centrali di __, nuclei di conservazione e completamento 6B3c e 6B1c, compresi tra via __, v.le __ e via __.

In base alle previsioni di piano, attuate in sede progettuale, le particelle (…) (ex (…), di mq. __) e (…) (ex (…), di __ mq.), incluse nell’area interessata e di proprietà del sig. F., erano destinate a verde pubblico. Alla procedura ablatoria, all’esito della quale C. adottava il Decreto di Esproprio n. __ del __, faceva seguito un contenzioso in sede civile proposto dal sig. F., volto a contestare l’indennità di esproprio e di occupazione.

La Corte d’Appello di Perugia, con sentenza n. __ pubblicata in data __, sulla premessa che l’azione del sig. F. fosse qualificabile come richiesta di “determinazione giudiziale dell’indennità”, ha quantificato l’indennità di Euro __. L’odierno ricorrente ha impugnato detta pronuncia dinanzi alla Corte di Cassazione con ricorso notificato (anche a C.) in data __, attualmente pendente.

In data __ C. ha notificato a S. il provvedimento gravato, con il quale ingiunge il pagamento (entro __ giorni dalla notifica) della somma di Euro __ di cui Euro __ a titolo di saldo indennità di esproprio, Euro __ per interessi legali.

1.2. Con il ricorso in epigrafe, parte ricorrente avanza censure riassumibili come segue:

  1. nullità dell’atto per difetto assoluto di attribuzione ex art. 21 septies L. n. 241 del 1990; violazione e falsa applicazione dell’art. 52 del D.Lgs. n. 446 del 1997; carenza di potere, illogicità ed irrazionalità manifeste: parte ricorrente contesta il potere esercitato dall’Amministrazione nonché la spettanza in capo a C. dell’indennità di esproprio cui si riferisce la sentenza della Corte d’Appello di Perugia;
  2. violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 del R.D. n. 639 del 1910; difetto assoluto dei presupposti; travisamento dei fatti; eccesso di potere per carenza di motivazione e di istruttoria; illogicità: il credito cui è riferito l’atto gravato non sarebbe certo, liquido ed esigibile.
  3. Si è costituito C. eccependo, in primo luogo, l’inammissibilità del ricorso in quanto non notificato al controinteressato F.; la difesa comunale ha poi argomentato circa l’infondatezza delle avverse censure.
  4. Alla camera di consiglio del __, il Presidente ha manifestato la possibilità di definizione del giudizio all’esito dell’udienza cautelare ai sensi dell’art. 60 del cod. proc. amm., con particolare riferimento alla questione della giurisdizione. Le parti costituite, sentite sul punto, non si sono opposte, indi la causa è stata trattenuta in decisione.
  5. La controversia ha ad oggetto la legittimità dell’atto ingiuntivo adottato da C. per la riscossione coattiva dell’indennità di esproprio, di cui alla sentenza __ della Corte di Appello di Perugia, relativa all’acquisizione delle aree occorse per la realizzazione del piano attuativo in via __ da parte di S.
  6. Preliminarmente deve essere rilevata d’ufficio – come evidenziato alle parti in camera di consiglio – ed esaminata in via pregiudiziale, la questione relativa al difetto di giurisdizione in capo al giudice amministrativo.

L’ingiunzione gravata è stata adottata dal Comune in virtù del R.D. n. 639 del 1910, recante le disposizioni di legge relative alla procedura coattiva per la riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato e degli altri enti pubblici, che all’art. 2, comma 1, recita: “Il procedimento di coazione comincia con la ingiunzione, la quale consiste nell’ordine, emesso dal competente ufficio dell’ente creditore, di pagare entro trenta giorni, sotto pena degli atti esecutivi, la somma dovuta”. Il successivo art. 3, nel testo novellato dall’art. 34, comma 40, del D.Lgs. n. 150 del 2011, prevede che avverso tale ingiunzione “si può proporre opposizione davanti all’autorità giudiziaria ordinaria. L’opposizione è disciplinata dall’articolo 32 del D.Lgs. 1° settembre 2011, n. 150” (art. 32 del D.Lgs. n. 150 del 2011, che disciplina appunto l’opposizione a procedura coattiva per la riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato e degli altri enti pubblici).

In giurisprudenza è stato chiarito che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario l’impugnazione dell’atto di ingiunzione di pagamento emesso ex artt. 2 e 3 R.D. n. 639 del 14 aprile 1910, qualora, come nel caso in esame, il giudizio instauratosi è volto all’accertamento della mancata sussistenza del diritto a procedere all’esecuzione forzata e alla negazione della correlativa pretesa vantata dall’amministrazione (cfr. TAR Piemonte, sez. II, 13 giugno 2003, n. 910).

Da quanto esposto deriva l’inammissibilità del ricorso in quanto la controversia portata all’attenzione di questo Collegio è estranea alla giurisdizione di legittimità del g.a.

  1. In conclusione, deve dichiararsi il difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo in favore del Giudice ordinario, innanzi al quale la causa potrà essere riassunta con salvezza degli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda proposta al giudice privo di giurisdizione nel processo davanti al giudice che ne risulta munito, secondo le disposizioni di cui all’art. 11 cod. proc. amm.

Sussistono giusti motivi per disporre tra le parti la compensazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per l’Umbria (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, dichiara il proprio difetto di giurisdizione in favore del giudice ordinario territorialmente competente innanzi al quale la causa potrà essere riassunta nei termini di legge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Perugia nella camera di consiglio del giorno 12 marzo 2019

TAR_Umbria_Perugia_Sez_I_Sent_n_153_del_20_03_2019

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Le scritture private autenticate formate anteriormente al primo marzo 2006 hanno efficacia di titolo esecutivo se poste in esecuzione successivamente a tale data

Le scritture private autenticate formate anteriormente al primo marzo 2006 hanno efficacia di titolo esecutivo se poste in esecuzione successivamente a tale data

Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza n. 5823 del 28/02/2019

Con sentenza del 28 febbraio 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione III, in materia di esecuzione forzata, ha stabilito che le scritture private autenticate formate anteriormente al primo marzo 2006 – data di entrata in vigore della modifica dell’art. 474 c.p.c. ad opera del d.l. n. 35 del 2005 – hanno efficacia di titolo esecutivo, se poste in esecuzione successivamente a tale data, atteso che la citata novella legislativa, annoverandole tra i titoli esecutivi stragiudiziali, ne ha modificato la sola efficacia processuale, con la conseguenza che, in ossequio al principio “tempus regit actum”, ad esse si applica la legge processuale vigente nel momento in cui vengono azionate. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva respinto l’opposizione ex art. 617 c.p.c. avverso l’ordinanza di cui all’art. 512 c.p.c., con la quale il giudice dell’esecuzione aveva escluso dal piano di riparto il credito di una banca in quanto fondato su di una scrittura privata autenticata formata anteriormente all’entrata in vigore della riforma dell’art. 474 c.p.c. ancorché posta in esecuzione successivamente).


 

Le scritture private autenticate formate anteriormente al primo marzo 2006 hanno efficacia di titolo esecutivo se poste in esecuzione successivamente a tale data

Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza n. 5823 del 28/02/2019stato ammesso allo stato passivo

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

 

B. SOC. COOP. – ricorrente –

contro

N. – controricorrente –

e contro

E. S.P.A., FALLIMENTO (OMISSIS) S.A.S., B. C. COOP. – intimate –

avverso la sentenza n. __ del TRIBUNALE di BOLOGNA, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere Dott. __;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato __;

udito l’Avvocato __.

Svolgimento del processo

  1. B. Soc. Coop. agì esecutivamente nei confronti di N., vantando un titolo esecutivo stragiudiziale rappresentato da una scrittura privata autenticata.

Pignorò vari immobili che vennero venduti.

Il debitore esecutato N., con ricorso al giudice dell’esecuzione formalmente qualificato come “opposizione agli atti esecutivi”, chiese la sospensione della distribuzione del ricavato, adducendo che B. Soc. Coop. non avesse un valido titolo esecutivo.

Chiese altresì dichiararsi la nullità del pignoramento.

Dedusse che la scrittura privata autenticata, posta da B. Soc. Coop. a fondamento dell’esecuzione, era stata formata in epoca anteriore alla riforma dell’art. 474 c.p.c. e dunque in un’epoca in cui le scritture private autenticate non potevano avere l’efficacia del titolo esecutivo.

  1. Il giudice dell’esecuzione qualificò l’opposizione come controversia distributiva ex art. 512 c.p.c. e con ordinanza __ accolse le doglianze del debitore ed escluse il credito di B. Soc. Coop. dal piano di riparto.
  2. Soc. Coop. propose opposizione ex art. 617 c.p.c., avverso la suddetta ordinanza.
  3. Il Tribunale di Bologna, con sentenza __ n. __, rigettò l’opposizione.

Ritenne che le scritture private autenticate sottoscritte prima della riforma dell’art. 474 c.p.c., non potessero avere efficacia esecutiva.

Il tribunale fondò la sua decisione su quattro argomenti:

1) il titolo esecutivo è un atto processuale;

2) ad esso si applica dunque la legge vigente al momento in cui è stato formato;

3) se così non fosse, ne risulterebbe violato l’affidamento dei contraenti, i quali debbono essere messi in condizione di sapere, quando stipulano un atto, se esso possa o non possa avere efficacia esecutiva;

4) “ad indiretta conferma” di tale conclusione “la dottrina più attenta” ha richiamato due norme di attuazione del c.p.c. del 1865 e del codice di commercio del 1882, la prima delle quali attribuì efficacia esecutiva – in deroga alle previsioni del codice civile – alle scritture private autenticate stipulate prima del 1865; la seconda delle quali negò efficacia esecutiva – in deroga alle previsioni del codice di commercio – alle cambiali emesse prima dell’entrata in vigore del codice stesso.

  1. La sentenza è stata impugnata per cassazione da B. Soc. Coop., con ricorso fondato su un solo motivo.

Ha resistito con controricorso N.

Motivi della decisione

  1. Il motivo unico di ricorso.

1.1. Con l’unico motivo di impugnazione la ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. È denunciata, in particolare, la violazione dell’art. 11 preleggi.

Nell’illustrazione del motivo la ricorrente articola il seguente sillogismo:

– la modifica dell’art. 474 c.p.c., nel suo testo attuale, è stata attuata dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, che è entrato in vigore il 1.3.2006;

– le modifiche all’art. 474 c.p.c., contenute nel D.L. n. 35 del 2005, erano norme processuali;

– ergo, in mancanza di norme di diritto transitorio nel D.L. n. 35 del 2005, la previsione secondo cui la scrittura privata autenticata costituisce titolo esecutivo deve applicarsi dal 1.3.2006, a nulla rilevando che essa sia stata formata in epoca anteriore.

1.2. Il motivo è fondato. Non condivisibili, per contro, sono le ragioni poste dal tribunale di Bologna a fondamento della propria decisione. Nei p.p. che seguono si esporranno dapprima le ragioni della fondatezza del ricorso; quindi quelle della non condivisibilità della sentenza impugnata.

1.3. È principio risalente e ricevuto dalla dottrina pressoché unanime che il titolo esecutivo possa riguardarsi sia come documento, sia come atto processuale.

Come documento la scrittura privata autenticata è un atto negoziale. È solo quando viene usata in executivis che produce effetti processuali.

Pertanto, quando si tratti di stabilire la validità sostanziale di quell’atto, occorre avere riguardo alla legge vigente in cui venne formato.

Quando, invece, si tratti di stabilire se quell’atto negoziale abbia o possa avere effetti processuali, occorre avere riguardo alla legge processuale: e non certo a quella vigente dell’epoca in cui l’atto venne formato, ma a quella vigente nel momento in cui l’atto viene usato nel processo.

Nel caso di specie è pacifico che il Banco pose a fondamento della esecuzione una scrittura privata sottoscritta da N. prima del 2005; è altrettanto pacifico però che l’esecuzione forzata promossa da B. Soc. Coop. iniziò nel 2006, e quindi successivamente all’entrata in vigore del novellato art. 474 c.p.c.

La regola tempus regit actum, che è regola processuale, nel caso di specie fu dunque rispettata, perché al momento in cui doveva essere applicata (cioè al momento dell’inizio dell’esecuzione) il creditore era munito di un atto che costituiva un valido titolo esecutivo.

1.4. L’interpretazione che precede non viola – al contrario di quanto adombrato dal controricorrente – il principio di irretroattività della legge, ma anzi ne costituisce il necessario corollario.

La modifica dell’art. 474 c.p.c., infatti, non ha modificato la nozione e la struttura della scrittura privata autenticata: ne ha solo disciplinato gli effetti, aggiungendone uno che prima non esisteva, cioè l’efficacia di titolo esecutivo.

Dunque è fuori luogo parlare di retroattività della legge con riferimento alle esecuzioni iniziate dopo il 1.3.2006, e fondate su una scrittura privata autenticata. La legge sarebbe stata applicata retroattivamente solo se si fosse attribuita efficacia esecutiva alla scrittura privata autenticata anche nelle esecuzioni iniziate prima del 1.3.2006.

1.5. In terzo luogo, l’interpretazione adottata dal Tribunale di Bologna confligge con la ratio del D.L. n. 35 del 2005 e con il contenuto dei lavori parlamentari.

Il testo originario del D.L. n. 35 del 2005, non conteneva alcuna modifica dell’art. 474 c.p.c.

L’inclusione della scrittura privata autenticata tra i titoli esecutivi è stata introdotta al Senato in accoglimento d’un emendamento del senatore L. (n. X.1.0.100/1, poi trasformato nell’emendamento 2.500), recepito dalla maggioranza ed approvato all’unanimità.

L’emendamento venne approvato in sede redigente dalla V commissione (Bilancio) del Senato, nella 659 seduta, il 14.4.2005. Nella illustrazione dell’emendamento il relatore null’altro espose, se non che con quell’emendamento “è stato innovato il processo di esecuzione”.

Se tuttavia si estende l’analisi a tutti i lavori parlamentari, ci si avvede che sia nella relazione accompagnatoria del D.L. n. 35 del 2005; sia nella relazione accompagnatoria del D.D.L. di conversione del decreto in legge; sia nel dibattito parlamentare sulla questione di fiducia posta dal Governo sul decreto e sul maxiemendamento dal Governo stesso presentato (discussione in aula del 3.5.2005, 790 seduta pubblica), tutti i relatori del D.D.L. sostennero che:

  1. a) scopo del decreto era aumentare la competitività delle imprese italiane;
  2. b) tale competitività era frenata non solo dalla concorrenza dei Paesi emergenti, ma anche da freni burocratici e lungaggini giudiziarie;
  3. c) occorreva dunque rendere più celeri e snelli:

c1) a monte dell’ingresso dell’imprenditore nel mercato, i procedimenti autorizzativi;

c2) a valle dell’esercizio dell’attività d’imprese, le procedure concorsuali o l’esazione coattiva dei crediti.

1.5. Ebbene, quale che fosse il giudizio che si volesse dare sulla coerenza tra fini divisati e mezzi impiegati dal legislatore, non v’è dubbio che la norma va interpretata, secondo il canone dell’interpretazione teleologica, in modo coerente col suo scopo: e sarebbe incoerente con tale scopo ritenere che una norma voluta allo scopo di accelerare il recupero dei crediti, e per di più introdotta con decretazione d’urgenza, possa interpretarsi in modo che i suoi effetti siano destinati a prodursi non immediatamente, ma solo dopo tot anni, come accadrebbe se si negasse efficacia esecutiva alle scritture private autenticate sottoscritte prima del 1.3.2006.

  1. Detto delle ragioni per le quali anche le scritture private autenticate hanno efficacia di titolo esecutivo se poste in esecuzione dopo il 1.3.2006, deve ora aggiungersi che nessuna delle ragioni addotte dal Tribunale a fondamento della opposta soluzione appare condivisibile.

2.1. Il Tribunale ha, in primo luogo, affermato che “il titolo esecutivo è un atto processuale, e si applica ad esso la legge esistente al momento in cui viene formato”.

Tale affermazione non è condivisibile, per la già accennata ragione che il titolo esecutivo stragiudiziale, prima di essere un atto con effetti processuali, è un negozio (cambiario o causale). Ad esso si applicherà dunque la legge sostanziale dell’epoca in viene formato, e la legge processuale dell’epoca in cui viene azionato.

2.2. Il Tribunale ha poi aggiunto che, “diversamente opinando, le parti si troverebbero esposte ad effetti (esecutivi) non voluti e non prevedibili al momento della formazione del titolo”.

Anche tale argomento non appare condivisibile.

L’efficacia esecutiva d’un contratto o d’un negozio unilaterale non è un effetto che discenda dalla volontà delle parti, ma è un effetto che discende dalla volontà della legge.

Se un atto quell’efficacia non l’avesse, le parti non potrebbero attribuirgliela. Se la legge gliela attribuisse, le parti non potrebbero cancellarla.

Prova ne sia che anche un pactum de non exequendo, ad esempio, non è un patto che modifichi gli effetti del titolo, ma un normale contratto ad effetti obbligatori in virtù del quale chi possiede il titolo si obbliga a non metterlo in esecuzione (ferma restandone l’esecutività). Si tratta d’un principio ricevuto e condiviso dalla dottrina giuridica da secoli, e teorizzato dai più insigni giureconsulti del XVIII sec. (come Robert Joseph Pothier) e del XIX sec. (come Frangois Laurent o Giuseppe Chiovenda).

Sono ormai tre secoli che la dottrina giuridica non dubita che “i titoli stragiudiziali sono esecutivi non per volontà delle parti, ma per volontà della legge; essi infatti non richiedono affatto che il contraente si assoggetti espressamente all’esecuzione”.

Può essere emblematico, al riguardo, ricordare come un caso pressoché identico a quello oggi all’esame di questa Corte venne deciso dalla Cour de cassation di Parigi il 9 Vendemmiaio anno XI (1° ottobre 1802): in quel caso si trattava di stabilire se un contratto potesse essere messo in esecuzione nei confronti degli eredi d’uno dei contraenti, possibilità consentita dalla legge al momento dell’inizio dell’esecuzione, ma vietata all’epoca della stipula. La risposta affermativa fu fondata sull’assunto che “non sono le parti che eseguono, è il potere pubblico che presta loro il suo appoggio per ottenere l’esecuzione forzata”.

Se, dunque, l’efficacia esecutiva dell’atto è questione estranea alla volontà delle parti, non è mestieri a parlare né di affidamento, né di interessi da tutelare in chi sottoscrive un documento che, privo di efficacia esecutiva al momento della sottoscrizione, l’acquisti successivamente.

Non sarà superfluo aggiungere che l’argomento secondo cui chi sottoscrive un documento privo di efficacia esecutiva al momento della sottoscrizione sarebbe titolare di un “affidamento da tutelare” condurrebbe, spinto agli estremi, ad effetti paradossali.

Esposto all’esecuzione forzata, infatti, è per forza di cose il debitore inadempiente.

Colui il quale contragga un debito e poi non lo paghi non può certo ritenersi titolare di un “interesse meritevole”, né di un “affidamento da tutelare”.

Pertanto non potrebbe giammai qualificarsi come “meritevole” l’interesse di chi, al momento della stipula d’un negozio, abbia optato per la forma della scrittura privata autenticata (invece che per quella dell’atto pubblico) con l’arriere pensè che, con quel negozio, avrebbe potuto evitare una pronta esecuzione da parte del creditore, in caso di inadempimento.

Diversamente argomentando, si finirebbe per qualificare come “meritevole” l’interesse di chi abbia scelto una forma negoziale piuttosto che un’altra al fine di sottrarsi alle pretese del creditore: interesse che ovviamente nessun ordinamento potrebbe salvaguardare.

2.3. Il Tribunale, infine, ha invocato a sostegno della propria decisione il parere di “attenta dottrina”, e due precedenti normativi.

2.3.1. Per quanto attiene l’opinione della dottrina, pur autorevole, va qui rilevato che quella recepita dal Tribunale è assolutamente minoritaria nel panorama della dottrina processualistica in generale, e esecuzionista in particolare.

2.3.2. Per quanto attiene i due precedenti normativi (addotti a sostegno della propria tesi proprio dalla dottrina invocata dal Tribunale), e cioè il R.D. 30 novembre 1865, n. 2600 ed il R.D. 14 dicembre 1882, n. 1113, rileva questa Corte che essi non solo non appaiono pertinenti rispetto al problema qui in esame, ma anzi, se rettamente intesi, avrebbero dovuto condurre a conclusioni esattamente opposte a quelle cui pervenne la sentenza impugnata.

2.3.3. Il R.D. 30 novembre 1865, n. 2600 (in Gazz. uff., 1.12.1865, n. 309, foglio 1), fu il provvedimento col quale vennero stabilite le norme di diritto transitorio del codice di procedura civile del 1865.

L’art. 24 di tale decreto stabilì che le scritture private rogate secondo le forme previste dalla legge ipotecaria del Granducato di Toscana del 2.5.1836 continuassero ad avere efficacia esecutiva, anche se sottoscritte prima del 1.1.1866, data di entrata in vigore del nuovo codice di procedura civile.

La sentenza impugnata, e la dottrina da essa richiamata, vorrebbero trarre dalla suddetta norma “indiretta conferma” del principio per cui l’efficacia di titolo esecutivo d’un atto stragiudiziale va valutata in base alla legge vigente all’epoca in cui viene formato, e non all’epoca in cui viene messo in esecuzione.

Pretendere di trarre questa “indiretta conferma” dal R.D. n. 2600 del 1865, art. 24, è operazione non consentita dalla logica, e non coerente col testo della legge.

Sotto il primo profilo, se il legislatore avvertì il bisogno di disciplinare espressamente l’efficacia esecutiva delle scritture private autenticate formate prima dell’entrata in vigore del c.p.c. del 1865 (che tale efficacia in linea generale negava), ciò vuol dire che, in assenza di quella norma ad hoc, tale efficacia esecutiva le scritture private anteriori non avrebbero potuto avere: e ciò conferma che l’efficacia esecutiva si valuta in base al momento in cui il titolo viene messo in esecuzione, non in base alla legge vigente al momento della formazione titolo.

Sotto il secondo profilo, quel che più rileva, il R.D. n. 2600 del 1865, art. 24, non attribuì affatto efficacia esecutiva ultrattiva a tutte le scritture private autenticate stipulate prima del 1.1.1866, ma solo a quelle rogate secondo le forme previste dalla legge ipotecaria del Granducato di Toscana del 2.5.1836.

La legge ipotecaria del Granducato di Toscana del 2.5.1836 prevedeva, al p. III, art. 69, commi 2 e segg. (“della ipoteca convenzionale”), che “la scritta privata” fosse titolo per l’iscrizione dell’ipoteca convenzionale se sottoscritta dinanzi ad un notaio, al cospetto di tre testimoni, e previa lettura dell’atto da parte del notaio, il quale doveva attestare altresì l’adempimento di tutte le prescritte formalità.

La “scritta privata” granducale del periodo preunitario, pertanto, era un atto pressoché identico, quanto alle formalità, all’atto pubblico: ed era dunque ovvio ed evidente che, solo per essa, le norme transitorie del c.p.c. ne previdero espressamente l’efficacia esecutiva anche se formate anteriormente al 1.1.1866.

In conclusione, il R.D. n. 2600 del 1865, art. 24, non dimostra affatto che l’efficacia esecutiva dei titoli stragiudiziali vada valutata in base alla legge vigente al momento della loro formazione; fu soltanto una norma dettata per fugare ogni dubbio (in un’epoca saggia in cui la nomopoietica i dubbi degli interpreti li fugava, non li creava) circa l’efficacia esecutiva d’un particolare tipo di atto, sconosciuto alle legislazioni degli altri Stati preunitari.

2.3.4. Discorso analogo va fatto per l’altra norma invocata dal Tribunale ad “indiretta conferma” della correttezza della soluzione adottata.

Il R.D. 14 dicembre 1882, n. 1113 (recante le disposizioni transitorie del nuovo codice di commercio), all’art. 9, stabilì che le “lettere di cambio” emesse prima dell’entrata in vigore del nuovo codice di commercio non avessero efficacia esecutiva.

Anche tale norma dimostra l’esatto opposto di quanto ritenuto dal Tribunale: se, infatti, l’esecutività dei titoli stragiudiziali andasse valutata sempre in base alla legge vigente al momento della formazione, e non a quello dell’esecuzione, della suddetta norma non vi sarebbe stato bisogno: l’esecutività della cambiale, infatti, venne introdotta solo col codice di commercio del 1882, mentre prima ne era sprovvista, con la conseguenza che non vi sarebbe stato alcun bisogno di prevedere espressamente l’inutilizzabilità come titoli esecutivi delle lettere di cambio emesse in precedenza. Anche tale norma dimostra dunque che, nelle intenzioni del legislatore le norme, che attribuivano efficacia esecutiva a titoli stragiudiziali si sarebbero applicate anche ai titoli preesistenti, se fosse mancata una norma ad hoc che stabilisse il contrario.

  1. La decisione impugnata va quindi cassata con rinvio al Tribunale di Bologna, il quale nell’esaminare ex novo l’opposizione proposta dal Banco, applicherà il seguente principio di diritto:

“Le scritture private autenticate formate prima del 1.3.2006 hanno efficacia di titolo esecutivo, se poste in esecuzione successivamente a tale data”.

  1. Le spese.

Le spese del presente grado di giudizio saranno liquidate dal giudice del rinvio.

P.Q.M.

la Corte di Cassazione:

(-) accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa al Tribunale di Bologna, in persona di diverso magistrato, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 22 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2019

Cass_civ_Sez_III_Sent_28_02_2019_n_5823




Il pagamento del trattamento di fine rapporto da parte del fondo di garanzia richiede che il lavoratore assolva all’onere di dimostrare che è stata emessa la sentenza dichiarativa di fallimento e che il suo credito è stato ammesso allo stato passivo

Il pagamento del trattamento di fine rapporto da parte del fondo di garanzia richiede che il lavoratore assolva all’onere di dimostrare che è stata emessa la sentenza dichiarativa di fallimento e che il suo credito è stato ammesso allo stato passivo

Cassazione Civile, Sezione lavoro, Ordinanza n. 9670 del 05/04/2019

Con ordinanza del 5 aprile 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione lavoro, in tema di recupero crediti, ha stabilito che in caso di fallimento del datore di lavoro, il pagamento del trattamento di fine rapporto da parte del fondo di garanzia richiede, in base all’art. 2, della legge n. 297 del 1982, che il lavoratore assolva all’onere di dimostrare che è stata emessa la sentenza dichiarativa di fallimento e che il suo credito è stato ammesso allo stato passivo, senza che questo requisito possa essere escluso a seguito della dimostrazione, da parte del lavoratore, che la mancata insinuazione nel passivo fallimentare del suo credito è addebitabile alla incolpevole non conoscenza da parte sua dell’apertura della procedura fallimentare, poiché la legge fallimentare (R.D. n. 267 del 1942) contiene una serie di disposizioni che assicurano ai terzi la possibilità di conoscenza in relazione ai diversi atti del procedimento e svolgono, quindi, la funzione di una vera e propria pubblicità dichiarativa.


 

Cassazione Civile, Sezione lavoro, Ordinanza n. 9670 del 05/04/2019

Il pagamento del trattamento di fine rapporto da parte del fondo di garanzia richiede che il lavoratore assolva all’onere di dimostrare che è stata emessa la sentenza dichiarativa di fallimento e che il suo credito è stato ammesso allo stato passivo

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __- Consigliere –

Dott. __- Consigliere –

Dott. __- Consigliere –

Dott. __- rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

 

ORDINANZA

 

sul ricorso __proposto da:

R. – ricorrente –

contro

I. – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di MILANO, pubblicata il __ R.G.N. __.

 

Svolgimento del processo

Che:

La Corte di appello di Milano, con sentenza __, ha rigettato l’impugnazione proposta da R. nei riguardi di I. ex L. n. 297 del 1982, avverso la sentenza di primo grado di rigetto della domanda proposta dal medesimo R. ed avente ad oggetto il pagamento della somma di Euro __ a titolo di TFR, già accertato con decreto ingiuntivo dichiarato definitivo sulla base del quale il lavoratore aveva chiesto, con esito negativo, la riapertura del fallimento della propria datrice di lavoro che si era chiuso con riparto dell’attivo;

ad avviso della Corte territoriale, essendo pacifico che nella fattispecie la mancata insinuazione al passivo era dipesa dal fatto che il lavoratore aveva ignorato che fosse stato dichiarato il fallimento della società datrice di lavoro e che tale ignoranza non poteva essere giustificata data la pubblicità dichiarativa cui era soggetta la sentenza di fallimento ed ancorché il lavoratore non fosse stato informato per carenza di dati presso la sede dell’impresa, ha osservato che il lavoratore non aveva comunque provato di aver tentato di ottenere soddisfazione del credito sui beni del debitore tornato in bonis ed aveva presentato la domanda al Fondo di garanzia solo il 9 febbraio 2009, quando il fallimento era stato chiuso con riparto finale dell’attivo in data __;

per la cassazione di tale decisione R.D. propone ricorso affidato a due articolati motivi;

resiste I. con controricorso illustrato da memoria.

 

Motivi della decisione

Che:

con il primo motivo di ricorso viene dedotta, contestualmente, violazione ed errata applicazione della L. 29 maggio 1982, n. 297, art. 2 ed insufficiente ed omessa motivazione; il ricorrente, in particolare, deduce di non aver saputo del fallimento della datrice di lavoro anche perché aveva lavorato a Milano, mentre il fallimento era stato dichiarato a Roma, e che il fallimento era stato chiuso per carenza di attivo e sarebbe stato impossibile anche ottenere la riapertura della procedura fallimentare proprio per l’assenza di beni; inoltre, anche dopo la chiusura del fallimento per carenza di attivo il lavoratore non aveva potuto recuperare il proprio credito con procedura esecutiva individuale per cui la sentenza impugnata avrebbe errato nel negare la sussistenza dei presupposti di legge per ottenere il pagamento dal Fondo di garanzia;

con il secondo motivo, si deduce, nuovamente, contestualmente, violazione ed errata applicazione della L. 29 maggio 1982, n. 297, art. 2 ed insufficiente ed omessa motivazione; in particolare, il ricorrente si duole del fatto che la Corte territoriale non ha indicato le ragioni per le quali la domanda di altro dipendente della medesima società, che aveva azionato la procedura per decreto ingiuntivo unitamente allo stesso ricorrente, aveva ottenuto da I. il pagamento del t.f.r., a differenza dell’istante;

i motivi sono sostanzialmente connessi per cui vanno trattati congiuntamente e sono infondati;

il lavoratore, come è incontroverso, non ha operato l’ammissione del proprio credito per TFR, al passivo del fallimento della società – le proposte di C. S.r.l. datrice di lavoro, e lo stesso sostiene che, seppure in difetto di ammissione del credito per TFR nello stato passivo del fallimento del datore di lavoro, fallimento regolarmente dichiarato chiuso – e, comunque, in difetto dell’esperimento di esecuzione individuale nei riguardi dello stesso datore di lavoro insolvente – di aver diritto al pagamento del TFR mediante intervento del Fondo di garanzia presso I.;

i motivi di ricorso sono infondati alla luce dei principi più volte ribaditi da questa Corte secondo cui, in caso di fallimento del datore di lavoro, il pagamento del trattamento di fine rapporto da parte del fondo di garanzia richiede, secondo la disciplina della L. n. 297 del 1982, art. 2, che il lavoratore assolva all’onere di dimostrare che è stata emessa la sentenza dichiarativa di fallimento e che il suo credito è stato ammesso allo stato passivo, senza che questo requisito possa essere escluso a seguito della dimostrazione, da parte del lavoratore, che la mancata insinuazione nel passivo fallimentare del suo credito è addebitabile alla incolpevole non conoscenza da parte sua dell’apertura della procedura fallimentare, poiché la legge fallimentare contiene una serie di disposizioni che assicurano ai terzi la possibilità di conoscenza in relazione ai diversi atti del procedimento e svolgono, quindi, la funzione di una vera e propria pubblicità dichiarativa (Cass. ordinanza n. 3640/2012; Cass. n. 17079/2004; Cass. n. 294/2000; Cass. n. 5878 del 2014);

è stato ricordato (Cass. n. 7877 del 2015) che la direttiva comunitaria relativa alla tutela dei lavoratori subordinati in caso d’insolvenza del datore di lavoro (direttiva CEE del Consiglio 20 ottobre 1980, n. 80/987), per incoraggiare il ravvicinamento (ai sensi dell’art. 117 del Trattato istitutivo della Comunità economica Europea) delle legislazioni degli stati membri in materia ha previsto che la direttiva stessa si applichi ai diritti dei lavoratori dipendenti da datori di lavoro in stato di insolvenza (art. 1) – assoggettati, cioè, a procedimento (…) che riguarda il patrimonio del datore di lavoro ed è volto a soddisfare collettivamente i creditori di quest’ultimo (art. 2) e che gli stati membri sono tenuti ad adottare le misure necessarie affinché gli organismi di garanzia assicurino (…) il pagamento dei diritti non pagati dei lavoratori subordinati, (…) relativi alla retribuzione (…) degli ultimi tre mesi del contratto di lavoro o del rapporto di lavoro, nell’ambito di un periodo di sei mesi (…)” (artt. 3 e 4).;

per l’effetto, l’applicazione della direttiva è subordinata alla soggezione del datore di lavoro a fallimento, oppure ad altra procedura concorsuale con analoga finalità liquidatoria del patrimonio del debitore (in tal senso, vedi la sentenza della Corte di giustizia 7 febbraio 1985, causa 135/83, anche in motivazione);

in ogni caso la direttiva fa salve le condizioni di miglior previste dagli ordinamenti nazionali per i lavoratori (art. 9 della direttiva);

nel dare attuazione alla direttiva (n. 80/987), il legislatore italiano (L. 29 maggio 1982, n. 297, art. 2, Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica), ha istituito presso I. il fondo di garanzia, gestito dall’Istituto medesimo, per assicurare ai lavoratori, nel caso di insolvenza del datore di lavoro (vale a dire di soggezione a fallimento o ad altra procedura concorsuale) la soddisfazione effettiva del credito;

il Fondo di garanzia assicura “il pagamento dei diritti non pagati dei lavoratori subordinati” in coerenza con la direttiva comunitaria, identificando i diritti stessi per il titolo, sul quale si fondano (trattamento di fine rapporto);

ancora derogando in melius la direttiva comunitaria, la disposizione di legge in esame (L. n. 297 del 1982, art. 2, al comma 5) stabilisce che, qualora il datore di lavoro non sia soggetto a procedure concorsuali, garantita dalla direttiva (n. 80/987, cit.), “il lavoratore o i suoi aventi diritto possono chiedere al fondo il pagamento del trattamento di fine rapporto, sempre che, a seguito dell’esperimento dell’esecuzione forzata per la realizzazione del credito relativo a detto trattamento, le garanzie patrimoniali siano risultate in tutto o in parte insufficienti”;

nell’estendere la garanzia del Fondo ai “crediti di lavoro, diversi da quelli spettanti a titolo di trattamento di fine rapporto, inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro”, pure tutelati dalla direttiva (n. 80/987, cit.), “in caso di insolvenza del datore di lavoro” il D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 80, artt. 1 e 2 (sanando, così, l’inadempienza agli obblighi nascenti dalla direttiva medesima: vedi Corte giust. 2 febbraio 1989, causa n. 22/87) ribadisce esplicitamente (art. 1, comma 2) che il lavoratore o i suoi aventi diritto possono chiedere il pagamento anche di detti crediti di lavoro al Fondo di garanzia “sempre che, a seguito dell’esperimento dell’esecuzione forzata per la realizzazione del credito relativo a detto trattamento, le garanzie patrimoniali siano risultate in tutto o in parte insufficienti”;

in sostanza il Fondo di garanzia “si sostituisce” – al datore di lavoro inadempiente – nel pagamento del trattamento di fine rapporto e dei crediti di lavoro (essenzialmente, di retribuzione diretta), “diversi da quelli spettanti a titolo di trattamento di fine rapporto, inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro”;

questa Corte ha ritenuto (cfr. sentenze n. 7585 del 2011, n. 15662 del 2010, n. 1178 del 2009, n. 7466 del 2007) che una lettura della legge nazionale orientata nel senso voluto dalla direttiva CE n. 987 del 1980 consente, secondo una ragionevole interpretazione, l’ingresso ad un’azione nei confronti del Fondo di garanzia, quando l’imprenditore non sia in concreto assoggettato al fallimento e l’esecuzione forzata si riveli infruttuosa;

l’espressione “non soggetto alle disposizioni del R.D. n. 267 del 1942” va quindi interpretata nel senso che l’azione della citata L. n. 297 del 1982, ex art. 2, comma 5, trova ingresso quante volte il datore di lavoro non sia assoggettato a fallimento, vuoi per le sue condizioni soggettive vuoi per ragioni ostative di carattere oggettivo;

nel caso in cui il lavoratore non dimostri di essere stato ammesso al passivo del fallimento e tale ammissione sia resa impossibile dalla chiusura della procedura fallimentare per insufficienza dell’attivo prima dell’esame di una domanda tardiva di insinuazione, il lavoratore è tenuto a procedere ad esecuzione forzata nei confronti del datore di lavoro tornato in bonis;

orbene nel caso in esame l’azione esecutiva non è stata esperita ma è stato ugualmente iniziato il procedimento giudiziario per ottenere la condanna del Fondo al pagamento delle somme, né rileva che il credito fosse stato già positivamente accertato con decreto ingiuntivo dichiarato definitivo. Per altro verso la procedura fallimentare si era conclusa, secondo l’accertamento della sentenza impugnata, con il riparto dell’attivo;

il lavoratore, con una diligenza ordinaria, avrebbe dovuto porre in esecuzione il titolo e solo dopo aver verificato l’incapienza del patrimonio della datrice di lavoro rivolgere la sua domanda all’Inps che gestisce il Fondo;

il ricorso va, dunque, rigettato e le spese del giudizio di legittimità vanno regolate in ragione del principio della soccombenza, in favore del controricorrente Inps, come da dispositivo;

sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nei riguardi del ricorrente.

P.Q.M.

rigetta il ricorso, condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro __ per compensi oltre ad Euro __ per esborsi, spese forfettarie nella misura del 15% e spese accessorie di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 23 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 aprile 2019

Cass_civ_Sez_lavoro_Ord_05_04_2019_n_9670




Il ricorso per la dichiarazione di fallimento, nel caso in cui si tratti di una società, deve essere presentato dall’amministratore, dotato del potere di rappresentanza legale, senza necessità della preventiva autorizzazione dell’assemblea o dei soci

Il ricorso per la dichiarazione di fallimento, nel caso in cui si tratti di una società, deve essere presentato dall’amministratore, dotato del potere di rappresentanza legale, senza necessità della preventiva autorizzazione dell’assemblea o dei soci

Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 10523 del 15/04/2019

Con ordinanza del 15 aprile 2019, la Corte di Cassazione, Sezione I Civile, in tema di fallimento, ha stabilito che il ricorso per la relativa dichiarazione, nel caso in cui si tratti di una società, deve essere presentato dall’amministratore, dotato del potere di rappresentanza legale, senza necessità della preventiva autorizzazione dell’assemblea o dei soci, non trattandosi di un atto negoziale, né di un atto di straordinaria amministrazione, ma di una dichiarazione di scienza, peraltro doverosa, in quanto l’omissione risulta penalmente sanzionata. In proposito, il potere-dovere di presentare istanza di auto-fallimento deve essere riconosciuto anche al liquidatore, il quale, ai sensi dell’art. 2489, comma 1 c.c., è investito del potere di compiere ogni atto utile per la liquidazione della società.


Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 10523 del 15/04/2019

Il ricorso per la dichiarazione di fallimento, nel caso in cui si tratti di una società, deve essere presentato dall’amministratore, dotato del potere di rappresentanza legale, senza necessità della preventiva autorizzazione dell’assemblea o dei soci

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

I. S.r.l. e B. S.r.l. – ricorrenti –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. in Liquidazione – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, del __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal cons. Dott. __;

lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha chiesto che la Corte dichiari inammissibile il ricorso, o in subordine che lo rigetti, con le conseguenze di legge.

Svolgimento del processo

  1. – La liquidatrice di (OMISSIS) S.r.l. formulava istanza di fallimento della società per lo stato di insolvenza in cui la stessa versava: istanza che il Tribunale di Reggio Calabria accoglieva.
  2. – La sentenza era impugnata da I. S.r.l. e da B. S.r.l., socie di (OMISSIS). Nella resistenza della curatela, il reclamo era respinto. La Corte di appello di Reggio Calabria, dopo aver rilevato che la liquidatrice era pienamente legittimata a presentare domanda di fallimento per la società da lei rappresentata, senza necessità di essere a ciò specificamente autorizzata dall’assemblea dei soci, ha ritenuto sussistente lo stato di insolvenza di (OMISSIS) osservando: che la disponibilità dei soci di maggioranza a sostenere la fallita non aveva trovato alcuna concretizzazione; che per il contratto di leasing cui era vincolata la società non era pervenuta alcuna offerta di subingresso; che, contrariamente a quanto affermato dai reclamanti, non si ravvisavano i presupposti per il concordato preventivo di (OMISSIS), tanto più che l’elemento maggiormente consistente dell’attivo della società – un asserito credito per Euro __ – era stato contestato in sede giudiziale.
  3. – Contro la pronuncia della Corte reggina I. S.r.l. e B. S.r.l. hanno proposto un ricorso per cassazione basato su due motivi. Resiste con controricorso la curatela fallimentare. Sono state depositate memorie. Il pubblico ministero ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o respinto.

Motivi della decisione

  1. – Col primo motivo si deduce la violazione ed errata applicazione dell’art. 2479 c.c. e dei principi di diritto societario in tema di competenze gestorie. Secondo le società istanti i soci avevano avocato a loro stessi la decisione circa l’istanza di auto-fallimento, sicché la Corte di appello aveva disatteso la regola, desumibile dall’attuale disciplina, per cui sono i soci a decidere sulle materie loro “auto-attribuite” da una minoranza qualificata.

Il motivo è inammissibile.

Nel ricorso per cassazione le ricorrenti hanno conferito rilievo a due circostanze: il fatto che “più volte posta all’ordine del giorno, la questione relativa alla dichiarazione di fallimento (era) stata sempre denegata dai soci”; il fatto per cui questi ultimi “avevano richiesto che la questione della presentazione dell’istanza fosse trattata a livello assembleare”. Di quest’ultima deduzione non è traccia nella sentenza impugnata; le ricorrenti spiegano che essa sarebbe stata dedotta in sede di reclamo, ma non riproducono lo stralcio dell’atto di impugnazione rilevante a tal fine: sicché non risulta chiaro quale fosse il preciso contenuto dell’allegazione. In tal senso la censura non può avere ingresso in questa sede. È invece incontestabile che la prima deduzione fosse stata fatta valere col reclamo, giacché la Corte distrettuale l’ha richiamata espressamente (pag. 3 della sentenza). Ciò detto, ove avessero voluto dolersi della mancata considerazione dell’evenienza in esame, siccome rappresentativa della riserva espressa dai soci quanto alla decisione di far fallire (OMISSIS), le società ricorrenti avrebbero dovuto proporre la censura di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, evidenziando come la Corte di appello avesse mancato di apprezzare la medesima. Ciò non è accaduto: e del resto, quanto all’obiettiva configurabilità di siffatta censura, deve sottolinearsi come le ricorrenti non abbiano nemmeno chiarito se avanti alla Corte di merito avessero dedotto che, attraverso la descritta condotta, avessero inteso attribuirsi, anche per il futuro, la decisione di domandare il fallimento della società (e che, in definitiva, esse avessero specificamente prospettato che il quadro fattuale consegnato all’esame del giudice del reclamo fosse rappresentativo della volontà dei soci di privare il liquidatore della facoltà di richiedere il fallimento); né, per la verità, le istanti hanno spiegato se le decisioni menzionate fossero state adottate da soci che rappresentavano un terzo del capitale sociale.

Peraltro, il profilo inerente alla volontà – da parte dei soci titolari di una tale quota di partecipazione – di sottoporre alla approvazione dei soci stessi, ex art. 2479 c.c., comma 1, la decisione circa la presentazione della domanda di fallimento della società è in sé priva di decisività.

Non pare dubbio, infatti, che il liquidatore, al pari dell’amministratore, possa (e anzi debba) assumere in autonomia una siffatta determinazione, senza soggiacere al deliberato della maggioranza dei soci. Diversi argomenti sorreggono un tale assunto. Anzitutto i liquidatori, al pari degli amministratori, sono responsabili penalmente, a norma della L. Fall., art. 224, per aver aggravato il dissesto, laddove si siano astenuti dal richiedere il fallimento (L. Fall., art. 217, comma 1, n. 4). In secondo luogo, l’art. 2484 c.c. non annovera più tra le cause di scioglimento della società il fallimento (come invece faceva l’art. 2448 c.c., u.c., nella versione anteriore alla introduzione della riforma del diritto societario attuatasi col D.Lgs. n. 6 del 2003): onde non può sostenersi, come in passato, che la decisione dell’amministratore o del liquidatore di richiedere il fallimento della società incida sulla vitalità dell’ente e sia conseguentemente riservata alla competenza dell’assemblea dei soci. Da ultimo, va rimarcato che sono venuti meno alcuni indici normativi ritenuti in passato particolarmente significativi da parte di chi conferiva centralità alla volontà assembleare. Non sono infatti più in vigore le previsioni, contenute nella vecchia versione della L. Fall., artt. 152, 161 e 187, che assegnavano all’assemblea straordinaria il potere di assumere una deliberazione circa la sottoposizione della società alle c.d. procedure minori del concordato fallimentare, del concordato preventivo e dell’amministrazione controllata: previsioni da cui era stato desunto, con l’argomento a fortiori, che nemmeno l’istanza di auto-fallimento sfuggisse alla competenza dell’organo deliberativo. Di contro, oggi l’art. 152, comma 2, lett. b), in tema di concordato fallimentare, richiamato dalla L. Fall.,art. 161, comma 4, per il concordato preventivo, precisa che la proposta di concordato sia sottoscritta da coloro che hanno la rappresentanza della società e che nelle società per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata, nonché nelle società cooperative, essa sia deliberata dagli amministratori, salva diversa disposizione dell’atto costitutivo o dello statuto: ed è stato precisato, di recente, che l’iniziativa dell’avvio della procedura concordataria possa essere attualmente autonomamente assunta, di norma, anche dal liquidatore, il quale è investito, giusta l’art. 2489 c.c., comma 1, del potere di compiere ogni atto utile per la liquidazione della società (cfr. Cass. 1 giugno 2017, n. 13867).

Questa S.C. si è già espressa, in passato, sul tema che qui interessa, avendo particolare riguardo alla posizione dell’amministratore: è stato difatti affermato che il ricorso per la dichiarazione di fallimento del debitore, nel caso in cui si tratti di una società, deve essere presentato dall’amministratore, dotato del potere di rappresentanza legale, senza necessità della preventiva autorizzazione dell’assemblea o dei soci, non trattandosi di un atto negoziale né di un atto di straordinaria amministrazione, ma di una dichiarazione di scienza, peraltro doverosa, in quanto l’omissione risulta penalmente sanzionata (Cass. 16 settembre 2009, n. 19983): alla stregua di quanto sopra osservato non vi è ragione per perorare una soluzione diversa con riguardo al caso in cui l’istanza di auto-fallimento promani dal liquidatore, piuttosto che dall’amministratore della società.

In conclusione, il liquidatore non può essere privato, ad opera dei soci, del potere-dovere di richiedere il fallimento della società che versi in stato di insolvenza. Può solo dibattersi, come è naturale, di una responsabilità del detto soggetto per aver domandato l’apertura della procedura concorsuale in una situazione in cui ne difettavano le condizioni. Ma tale ipotesi è del tutto estranea all’odierna materia del contendere: sia perché in questa sede non si controverte delle conseguenze di una tale responsabilità; sia perché, a monte, tale responsabilità è comunque da escludere, visto che il fallimento è stato validamente dichiarato da parte del Tribunale, con sentenza che la Corte di appello ha correttamente confermato.

  1. – Il secondo motivo oppone l’insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia, con particolare riguardo al tema dell’accertata insolvenza. Le ricorrenti, in sintesi, sostengono: che la disponibilità, affermata in sentenza, circa il fatto che la disponibilità dei soci di maggioranza a sostenere (OMISSIS) avrebbe integrato una “mera dichiarazione di intenti” era inveritiera e sconfessata da quanto accertato dal Tribunale di Catanzaro nel procedimento di revoca della liquidatrice; che, con riferimento al rilievo della Corte di appello secondo cui non risultava che altri soggetti avessero presentato offerte quanto al subentro nel contratto di leasing di cui era parte la fallita, la documentazione prodotta evidenziava che l’assenza di tali offerte non era dipesa da esse istanti, ma dalla liquidatrice; che competeva ai creditori esprimersi sulla proposta di concordato di (OMISSIS), non già alla Corte di appello, la quale aveva apoditticamente rilevato la mancanza dei presupposti per l’apertura di tale procedura concorsuale; che (OMISSIS) godeva di credito, avendo le sue socie espressamente dichiarato essere disponibili a un aumento del capitale; che la Corte di merito aveva omesso di considerare che il passivo sociale era suscettibile di un ridimensionamento.

Anche tale censura è inammissibile.

La motivazione posta a fondamento dell’accertata insolvenza non presenta alcuno dei vizi radicali che assumono rilevanza nella presente sede; non integrano cioè l’anomalia motivazionale che si traduce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054). Tali vizi, d’altronde, dovrebbero risultare dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali, nel mentre il motivo di impugnazione in esame veicola, in tutti i casi da esso menzionati – ad eccezione di quello concernente la proposta di concordato – censure basate su evidenze probatorie che si asseriscono trascurate. Quanto alla motivazione spesa con riguardo alla sussistenza dei presupposti per l’accesso alla procedura concordataria, è evidente che la stessa non sia affatto contraddittoria, giacché la Corte di appello, lungi dal sostituirsi ai creditori nella valutazione circa la convenienza della proposta formulata dalla società (OMISSIS), si è limitata a dare atto dell’esistenza di una situazione di insolvenza che in sé giustificava la dichiarazione di fallimento, di cui il Tribunale, prima, ed essa Corte, poi, erano stati investiti.

  1. – In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile.
  2. – Per le spese del presente giudizio di legittimità vale il principio di soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE dichiara inammissibile il ricorso; condanna le società ricorrenti al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro __ per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro __, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima civile della Corte Suprema di Cassazione, il 20 novembre 2018 e, in seguito a riconvocazione, il 13 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2019

Cass_civ_Sez_I_Ord_15_04_2019_n_10523




Nel procedimento di verifica fallimentare il creditore rimane onerato dall’onere di provare la propria pretesa, pur in presenza di un riconoscimento di debito emesso dall’imprenditore poi fallito

Nel procedimento di verifica fallimentare il creditore rimane onerato dall’onere di provare la propria pretesa, pur in presenza di un riconoscimento di debito emesso dall’imprenditore poi fallito

Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 10215 del 11/04/2019

Con sentenza dell’11 aprile 2019, la Corte di Cassazione, Sezione I Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che nel procedimento di verifica fallimentare il creditore rimane onerato dall’onere di provare la propria stessa pretesa, pur in presenza di un riconoscimento di debito emesso dall’imprenditore poi fallito, giacché il riconoscimento di debito è liberamente apprezzabile dal giudice, al pari di quanto avviene per la confessione stragiudiziale. Di talché va riformata la pronuncia del giudice del merito (specificamente avente ad oggetto una richiesta di credito avente titolo in un rapporto di conto corrente di corrispondenza) che, oltre ad esprimere una acritica applicazione della regola di diritto comune del riconoscimento, di inversione dell’onere della prova, fondi la propria decisione su tale inversione, trascurando di considerare la posizione di terzo che il curatore viene ad assumere nell’ambito del procedimento di verifica dello stato passivo fallimentare, in tal modo non facendo corretta applicazione della regola per cui, in tale contesto, il creditore rimane in ogni caso onerato di dare la prova del proprio diritto.


Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 10215 del 11/04/2019

Nel procedimento di verifica fallimentare il creditore rimane onerato dall’onere di provare la propria pretesa, pur in presenza di un riconoscimento di debito emesso dall’imprenditore poi fallito

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

Fallimento (OMISSIS) S.r.l – ricorrente –

contro

B. S.p.A. – intimata –

avverso il decreto del TRIBUNALE di FERMO, del __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Cons. Dott. __;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per l’accoglimento del terzo motivo.

Svolgimento del processo

1.- B. S.p.A. ha presentato domanda di insinuazione al passivo fallimentare della (OMISSIS) S.r.l., chiedendo, tra le altre cose, l’ammissione in via di privilegio ipotecario di un credito derivante da saldo di conto corrente, in forza di “atto unilaterale di costituzione di ipoteca volontaria” con autentica notarile del __.

Il giudice delegato ha escluso la richiesta per tale credito dallo stato passivo, rilevando che “la documentazione inerente ai contratti è incompleta e priva di data certa anteriore al fallimento e a tal fine risulta insufficiente la certificazione di cui all’art. 50 TUB, valida solo per la fase monitoria. A tale mancanza non può sopperire il riconoscimento del debito di cui all’atto di concessione di ipoteca volontaria del __ poiché tale riconoscimento non è opponibile al fallimento”.

2.- B. S.p.A. ha proposto opposizione nei confronti di questa esclusione avanti al Tribunale di Fermo. Che, con decreto depositato il __, la ha accolta.

3.- Il Tribunale ha rilevato in proposito che il credito in discorso risultava provato – nonostante “l’intempestività della produzione degli estratti conto” – dall’atto di ricognizione contenuto nella scrittura privata autenticata confezionata in data __.

Richiamando la sentenza di questa Corte del 18 novembre 2008, n. 27406, il decreto ha osservato, in particolare, che la “ricognizione di debito non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha solo il più limitato effetto di sollevare il creditore dall’onere di provare il proprio diritto. Essa, tuttavia diviene inefficace, siccome priva di causa, ove il debitore (sul quale incombe la relativa prova) deduca e dimostri in giudizio la nullità o l’inesistenza del rapporto obbligatorio”. Per altresì riscontrare, poi, che la “prova della inesistenza o nullità del rapporto obbligatorio, nel caso di specie, non è stata fornita dal fallimento”.

Al riguardo, ancora ha aggiunto che “è appena il caso di evidenziare che l’autentica di firma, apposta sull’atto in questione, attesta non solo che il contenuto dell’atto di riconoscimento di debito è riconducibile a S. nella sua veste di legale rappresentante della società fallita, ma attribuisce anche al detto atto data certa”.

4.- Con distinto e ulteriore ordine di rilievi, il decreto ha altresì preso in considerazione l’eccezione revocatoria formulata dal fallimento in relazione al negozio di ipoteca posto a garanzia del credito.

In merito, il Tribunale ha affermato di non potere vagliare “la sussistenza dei requisiti, pure prospettati dal fallimento, di cui all’art. 2901 c.c., rispetto ai quali è necessario, semmai, un accertamento nella opportuna sede di cognizione ordinaria (si rileva incidentalmente che il fallimento non ha allegato di avere esperito alcuna azione revocatoria volta alla declaratoria di inefficacia della costituzione dell’ipoteca in oggetto)”.

5.- Avverso il provvedimento del Tribunale di Fermo ricorre il fallimento della (OMISSIS) S.r.l., affidandosi a tre motivi di cassazione.

B. S.p.A. non ha svolto difese nell’ambito del giudizio di legittimità

6.- La controversia è stata chiamata all’adunanza non partecipata tenuta dalla Sesta Sezione civile del __. In esito alla quale, il Collegio, con ordinanza interlocutoria pubblicata il __, n. __, ha disposto la “rimessione del ricorso alla pubblica udienza della Sezione Prima”.

Motivi della decisione

7.- I motivi di ricorso sono intestati nei termini che qui di seguito vengono riportati.

Il primo motivo assume “violazione e/o falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, art. 1988 c.c., in relazione all’art. 2697 c.c. e alla L. Fall., art. 93, per avere il Tribunale di Fermo ritenuto efficace il contenuto dell’atto di ricognizione di debito (scrittura privata autenticata del __) nei confronti del curatore fallimentare, in base all’art. 1988 c.c., anziché applicare l’art. 2697 c.c. e la L. Fall., art. 93, dichiarando erroneamente che, in difetto di prova contraria, l’opponente ha provato il proprio credito mediante detta scrittura, con conseguente illegittima ammissione al passivo fallimentare” di B. S.p.A. in via privilegiata.

Il secondo motivo assume, a sua volta, “violazione e/o falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, art. 2697 c.c. e della L. Fall., artt. 93 e 99, anche in riferimento all’art. 1988 c.c., per avere il Tribunale di Fermo ritenuto provato il credito di Euro 501.868,51, in difetto di produzione degli estratti conto, sulla sola base della scrittura privata unilaterale autenticata del __ con conseguente illegittima ammissione al passivo fallimentare” di B. S.p.A. in via privilegiata.

Il terzo motivo assume, poi, “violazione e/o falsa applicazione ex art. 360, comma 1, n. 3, L. Fall., art. 95, per avere il Tribunale di Fermo, in riferimento all’eccezione di inefficacia dell’atto di concessione di ipoteca volontaria del __ formulata dal Curatore, affermato l’impossibilità di vagliare in sede di giudizio di opposizione allo stato passivo la sussistenza dei requisiti dell’art. 2901 c.c., con conseguente esclusione della facoltà attribuita al curatore dalla L. Fall., art. 95, comma 1, di eccepire l’inefficacia del titolo su cui è fondato il credito e il diritto di prelazione, con conseguente illegittima ammissione in via privilegiata al passivo fallimentare di B. S.p.A.”.

8.- Il primo motivo di ricorso pone la questione del valore da assegnare al riconoscimento di debito, effettuato dall’imprenditore poi fallito, in relazione alla prova del credito da parte del beneficiario che faccia domanda di insinuazione nel passivo fallimentare di quegli. Se anche in quest’ambito, e quindi pure nei confronti del curatore fallimentare, cioè, valga la regola dell’inversione dell’onere della prova stabilita dalla norma dell’art. 1988 c.c. o se, per contro, la peculiare posizione, che sia da riconoscere al curatore, comporti la non applicazione di questa norma.

A tale proposito il ricorrente segnala che l’efficacia della norma dell’art. 1988 c.c., “è circoscritta al rapporto tra l’autore del riconoscimento e il beneficiario e non si estende fintanto a coinvolgere” un soggetto estraneo alla scrittura di ricognizione. Tanto meno un’estensione potrebbe accadere nella “specifica sede dell’accertamento dello stato passivo”, posto che il curatore, “rappresentando gli interessi dei creditori, svolge una funzione di gestione del patrimonio del fallito e non può che considerarsi soggetto terzo”.

9.- Il decreto del Tribunale di Fermo poggia, in punto di rilievo probatorio della scrittura di riconoscimento di debito, la sua decisione su un precedente di questa Corte che, per la verità, risulta del tutto estraneo alle specifiche problematiche del diritto fallimentare: la sentenza di Cass. n. 27406/2008, che viene ivi richiamata, riguarda, infatti, una controversia relativa al compenso per prestazioni professionali inerenti a uno studio geomorfologico del territorio per incarico di un Comune.

È dunque senz’altro opportuno rilevare che l’orientamento tradizionale, e attuale, della giurisprudenza di questa Corte ritiene che il curatore sia da considerare come “terzo” qualificato di fronte al tema della prova del credito in sede di accertamento del passivo (cfr., per tutte, Cass., 22 novembre 2007, n. 24320), avendo in tal modo superato un indirizzo assai risalente che tendeva a circoscrivere la posizione di terzietà del curatore a specifiche e sporadiche ipotesi (su quest’ultima linea v. Cass. 17 novembre 1976, n. 4272, incline ad ammettere l’opponibilità di un riconoscimento di debito privo di data certa).

Tra le più importanti espressioni del detto, attuale orientamento va annoverata, in particolare, la tesi – senz’altro consolidata – che ritiene il curatore soggetto terzo nei confronti della confessione stragiudiziale emessa dall’imprenditore in epoca precedente alla dichiarazione del suo fallimento. Si vedano in questa prospettiva, tra le altre pronunce, quelle di Cass., 19 ottobre 2017, n. 24690; Cass., 18 dicembre 2012, n. 23318; Cass., 1° marzo 2005, n. 4288; Cass., 2 aprile 1996, n. 3055; Cass., 10 marzo 1994, n. 2339; Cass., 10 dicembre 1992, n. 13095; Cass., 28 gennaio 1986, n. 544.

10.- Alla dichiarazione confessoria resa dall’imprenditore avanti al suo fallimento viene dunque negato – in ragione della presenza del curatore, soggetto considerato terzo – il valore di “piena prova”, consegnatagli invece dall’art. 2730 c.c. e art. 2735 c.c., comma 1, primo periodo.

A ciò tuttavia non segue – nell’ambito dell’indirizzo sviluppato dalle pronunce appena sopra richiamate – la deprivazione di ogni utilizzabilità probatoria della dichiarazione dell’imprenditore nella sede del procedimento di accertamento del passivo fallimentare.

Sfruttando anche il disposto dell’art. 2735 c.c., comma 1, secondo periodo, il detto filone ritiene piuttosto che la dichiarazione dell’imprenditore, “priva degli effetti propri della confessione”, rimanga, peraltro, liberamente “apprezzabile dal giudice al pari di ogni altra prova desumibile dal processo” (Cass., n. 24690/2017).

La considerazione del curatore terzo di fronte alla prova del credito sembra dunque portare – almeno in relazione alla confessione stragiudiziale – al rifiuto di soluzioni rigide e “totalizzanti”, per volgersi invece verso soluzioni elastiche, sensibili alle specifiche particolarità dei contesti concretamente esaminati e alle peculiari connotazioni delle prove che siano state prodotte.

11.- All’interno delle linee guida appena richiamate può ancora essere ricondotta, a ben guardare, pure la recente pronuncia di Cass., 20 aprile 2018, n. 9929. Questa, in effetti, pur richiamandosi direttamente alla regola di diritto comune del riconoscimento di debito, è venuta altresì a valorizzare in modo particolare – per ritenere provato il credito vantato dal soggetto istante l’ammissione al passivo – sia il fatto che si trattava di riconoscimenti di debiti resi nel contesto di atti pubblici, sia pure il fatto che l’oggetto della prova risultava limitato al solo punto “dell’intervenuta erogazione dei mutui alla società poi fallita”.

Non sembra per contro coordinabile con le linee proprie dell’orientamento tradizionale la pronuncia di Cass., 14 novembre 2017, n. 26924. Questa, infatti, si è limitata a constatare la mera sussistenza di un riconoscimento di debito (e del tipo c.d. puro, senza indicazione della causale del credito cioè), per applicare in modo meccanico la regola di diritto comune, di cui all’art. 1988 c.c. (a monte prescindendo, quindi, dalle specifiche caratteristiche proprie del diritto fallimentare).

12.- La soluzione adottata da quest’ultima pronuncia non risulta condivisibile.

La stessa si pone – lo si è appena constatato – in contrasto con il tradizionale orientamento della giurisprudenza di questa Corte, che assegna al curatore fallimentare la posizione di terzo nell’ambito del procedimento di verifica del passivo.

Soprattutto, essa trascura di prendere in considerazione il fatto che l’atto di ricognizione del debito configura (e non solo sotto il profilo effettuale) un negozio di inversione dell’onere della prova (in ragione dell’art. 1324 c.c., soggetto – è rilevante anche precisare – al limite posto dalla norma dell’art. 2698 c.c.). Come pure che tale inversione tendenzialmente opera, di per sé, solo nei confronti di colui nei cui confronti la dichiarazione è diretta – quale negozio a destinatario individuato -, non anche nei confronti dei terzi in genere che con la dichiarazione vengano in contatto (v. di recente, in materia, Cass., 20 dicembre 2016, n. 26334).

Oltretutto, una meccanicistica trasposizione in sede fallimentare dell’inversione dell’onere probatorio, per il diritto comune conseguente all’emissione di un riconoscimento di debito, verrebbe a produrre un inaccettabile effetto di dissonanza sotto il profilo sistematico.

In effetti, stante il richiamato orientamento in tema di confessione stragiudiziale (liberamente apprezzabile dal giudice: sopra, nn. 9 e 10), in una simile prospettiva si verrebbe ad assistere, nella sede del procedimento di verifica, a un paradossale capovolgimento di strutture e di funzioni: il riconoscimento di debito venendo ad assumere una forza probatoria addirittura maggiore di quella riconducile alla confessione.

L’insieme delle considerazioni sin qui svolte non può, allora, che condurre, in positivo, alla conclusione per cui, nell’ambito del procedimento di verifica del passivo fallimentare, il riconoscimento di debito, posto in essere dall’imprenditore poi fallito, è liberamente apprezzabile dal giudice, al pari di quanto accade per la confessione stragiudiziale.

13.- Venendo ora alla fattispecie concreta qui in giudizio, quale relativa a una richiesta di credito titolata nello svolgimento di un rapporto di conto corrente di corrispondenza, va rilevato che il Tribunale di Fermo – oltre a esprimere un’acritica applicazione della regola di diritto comune del riconoscimento, di inversione dell’onere della prova (sopra, n. 9, all’inizio) – su tale meccanismo di inversione ha propriamente fondato la sua decisione.

Così trascurando di considerare la posizione di terzo che il curatore viene ad assumere nell’ambito del procedimento di verifica dello stato passivo fallimentare; e così pure non facendo corretta applicazione della regola per cui, in tale contesto, il creditore rimane in ogni caso onerato di dare la prova del proprio diritto; in punto di quantum, non meno che in punto di an.

14.- In ragione delle considerazioni svolte, il primo motivo di ricorso deve ritenersi fondato.

Di conseguenza, il Tribunale di Fermo dovrà procedere alla valutazione della domanda di insinuazione formulata da B. S.p.A. attenendosi al principio per cui, nel procedimento di verifica fallimentare, il creditore rimane comunque onerato di fornire la prova della propria pretesa, pur in presenza di un riconoscimento di debito emesso dall’imprenditore di poi fallito.

15.- Il secondo motivo di ricorso assume nella sostanza che, per essere ammessa al passivo fallimentare, B. S.p.A. avrebbe dovuto produrre “il contratto di apertura di credito di conto corrente con data certa e copia degli estratti conto con le annotazioni di tutte le movimentazioni del rapporto e dei relativi titoli”.

L’avvenuto accoglimento del primo motivo comporta assorbimento di questo motivo.

16.- Il terzo motivo di ricorso rileva che il Tribunale ha errato nel respingere l’eccezione revocatoria formulata dal curatore in sede di giudizio di opposizione.

Tale statuizione viola – così si precisa – la prescrizione della L. Fall., art. 95, il comma 1 di tale disposizione stabilendo in modo espresso che il “curatore può eccepire i fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto fatto valere, nonché l’inefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione, anche se è prescritta la relativa azione”.

17.- Il motivo merita di essere accolto.

Secondo l’orientamento della giurisprudenza di questa Corte, infatti, “nel giudizio di verifica dei crediti, il curatore, a norma della L. Fall., art. 95 comma 1, può eccepire l’inefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione, senza essere tenuto, per escludere il credito o la garanzia, a proporre l’azione revocatoria fallimentare, né ad agire in via riconvenzionale nel giudizio di opposizione allo stato passivo promosso dal creditore ai sensi della L. Fall., art. 98” (Cass., 27 novembre 2013, n. 26504).

Non può revocarsi in dubbio, d’altra parte, che l’inefficacia, a cui fa riferimento la norma della L. Fall., art. 95, comma 1, ricomprenda anche l’ipotesi della revocatoria ordinaria, di cui alla norma dell’art. 2901 c.c.

18.- In conclusione, vanno accolti il primo motivo e il terzo motivo di ricorso, assorbito il secondo.

Di conseguenza va cassato il decreto impugnato e la controversia rinviata al Tribunale di Fermo che la esaminerà in diversa composizione, attenendosi ai principi di diritto che sopra sono stati enunciati.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo e il terzo motivo di ricorso, assorbito il secondo. Cassa il decreto impugnato e rinvia la controversia al Tribunale di Fermo, che la esaminerà in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 14 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 11 aprile 2019

Cass_civ_Sez_I_11_04_2019_n_10215




Leasing finanziario: in caso di fallimento dell’utilizzatore, il concedente avrà diritto alla restituzione del bene e dovrà insinuarsi al passivo fallimentare per poter vendere o allocare il bene e trattenere, in tutto o in parte, l’importo incassato

Leasing finanziario: in caso di fallimento dell’utilizzatore, il concedente avrà diritto alla restituzione del bene e dovrà insinuarsi al passivo fallimentare per poter vendere o allocare il bene e trattenere, in tutto o in parte, l’importo incassato

Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 8980 del 29/03/2019

Con sentenza del 29 marzo 2019, la Corte di Cassazione, Sezione I Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che gli effetti della risoluzione del contratto di leasing finanziario per inadempimento dell’utilizzatore, verificatasi in data anteriore alla data di entrata in vigore della legge 124/2017 (art. 1 commi 136-140), sono regolati dalla disciplina dell’art. 72-quater legge fall., applicabile anche al caso di risoluzione del contratto avvenuta prima della dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore. In caso di fallimento dell’utilizzatore, il concedente avrà diritto alla restituzione del bene e dovrà insinuarsi al passivo fallimentare per poter vendere o allocare il bene e trattenere, in tutto o in parte, l’importo incassato. La vendita avverrà a cura dello stesso concedente, previa stima del valore di mercato del bene disposta dal giudice delegato in sede di accertamento del passivo. Sulla base del valore di mercato del bene, come stabilito sulla base della stima su menzionata, sarà determinato l’eventuale credito della curatela nei confronti del concedente o il credito, in moneta fallimentare, di quest’ultimo, corrispondente alla differenza tra il valore del bene ed il suo credito residuo, pari ai canoni scaduti e non pagati ante-fallimento ed ai canoni a scadere, in linea capitale, oltre al prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione. Eventuali rettifiche, sulla base di quanto effettivamente realizzato dalla vendita del bene, potranno farsi valere in sede di riparto.


 

Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 8980 del 29/03/2019

Leasing finanziario: in caso di fallimento dell’utilizzatore, il concedente avrà diritto alla restituzione del bene e dovrà insinuarsi al passivo fallimentare per poter vendere o allocare il bene e trattenere, in tutto o in parte, l’importo incassato

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

A. S.r.l., già H. S.r.l., già H. A. S.r.l. – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – controricorrente –

avverso il decreto del __, del __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __dal cons. Dott. __;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato __, per il controricorrente, che ha chiesto l’inammissibilità o comunque il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Con ricorso L. Fall., ex art. 98  A. S.r.l. (già H. S.r.l.), esponeva che:

– in data __ era stato stipulato un contratto di locazione finanziaria con P. S.n.c., con consegna dell’immobile all’utilizzatrice, in data __;

– il contratto di leasing prevedeva una maxi rata iniziale, pari ad __ Euro e n. __ rate successive, dell’importo di __ Euro ciascuna, oltre ad un’opzione d’acquisto di __ Euro, alla data del __;

– in data __ il contratto era stato ceduto a (OMISSIS) S.r.l. e nell’atto di cessione era stato rideterminato il piano finanziario del contratto;

– nel corso del rapporto contrattuale (OMISSIS) S.r.l. aveva interrotto il versamento dei canoni pattuiti ed a seguito del suo perdurante inadempimento, H. S.r.l., con raccomandata del __, aveva comunicato all’utilizzatrice la risoluzione del contratto, intimandole la restituzione dell’immobile ed il pagamento delle residue somme dovute;

– (OMISSIS) S.r.l. aveva spontaneamente consegnato il bene;

– al momento del rilascio risultavano non pagati da (OMISSIS) S.r.l. n. __ canoni di locazione oltre ad indicizzazione ed interessi, come da fatture già emesse, per un importo di complessivi __ Euro.

Tanto premesso A. S.r.l. già H. S.r.l. presentava tempestiva istanza di ammissione al passivo per l’importo di __ Euro, deducendo che tale importo era dovuto in forza dell’art. 8 del contratto di leasing. Tale clausola prevedeva che, in caso di risoluzione anticipata per inadempimento dell’utilizzatore, i canoni versati fino al momento della risoluzione restassero acquisiti al concedente e che l’utilizzatore dovesse corrispondere i canoni scaduti sino alla data della risoluzione;

veniva inoltre pattuita la possibilità per il concedente di richiedere il pagamento dei canoni ancora a scadere (ed attualizzati), dedotto l’eventuale importo ricavato dalla vendita del bene (o da altra forma di ricollocazione) ovvero il valore del bene ricavato da perizia di stima.

Il G.D. rigettava la domanda di insinuazione al passivo, deducendo che, ai sensi dell’art. 1526 c.c. la domanda proposta avrebbe dovuto essere completa in tutte le richieste ex art. 1526 c.c. prevedendo quindi l’offerta di restituzione dei canoni all’utilizzatore, con possibilità di pretendere, a titolo risarcitorio, la differenza tra corrispettivo contrattuale a carico dell’utilizzatore e valore del bene secondo i prezzi correnti al tempo della liquidazione, fermo il diritto del fallimento alla restituzione dei canoni, per il quale veniva fatta riserva di agire in separata sede.

Il tribunale di Mantova, con decreto del __ rigettava l’opposizione L. Fall., ex art. 98 proposta dalla ricorrente e confermava la pronuncia di rigetto della relativa insinuazione al passivo del fallimento.

Avverso detto decreto propone ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, A. S.r.l.

Resiste con controricorso il Fallimento (OMISSIS) S.r.l.

Con ordinanza interlocutoria del __, questa Corte, rilevata la particolare rilevanza della questione relativa alla risoluzione del contratto di leasing, anche alla luce della disciplina introdotta dalla L. 4 agosto 2017 n. 124 (art. 1, commi 136-140), ha rinviato la causa alla pubblica udienza.

In prossimità dell’odierna udienza collegiale entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ex art. 378 codice di rito.

Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1526 c.c., degli artt. 1322, 1362, 1363 e 1382 c.c.in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per avere il tribunale erroneamente applicato la disposizione dell’art. 1526 c.c. ed aver ritenuto che la relativa disciplina prevalesse sulle clausole del contratto di leasing concluso dalle parti.

Con il secondo mezzo si denuncia la violazione dell’art. 132 c.p.c. e art. 111 Cost., comma 6 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per assenza di motivazione del decreto impugnato.

Il terzo motivo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 per non avere il Tribunale considerato il contenuto della clausola penale statuita nel contratto di leasing tra le parti.

I motivi, che, in quanto connessi, vanno unitariamente esaminati, sono fondati.

  1. La questione posta dai motivi di ricorso concerne l’applicabilità al caso di specie della disciplina dettata dall’art. 1526 c.c. per regolare la risoluzione del contratto di leasing, ritenuta dal prevalente indirizzo della giurisprudenza di carattere inderogabile, in quanto posta da una norma imperativa diretta a correggere e ripristinare l’equilibrio sinallagmatico mediante l’affermazione di una regola operativa di carattere generale, che prevale sulla diversa disciplina pattuita dalle parti.

Nel caso di specie l’art. 8 del contratto prevedeva la seguente clausola, riportata nel corpo del ricorso:

“(…) in ogni caso i corrispettivi periodici comunque pagati resteranno acquisiti al locatore per l’intero loro ammontare. All’utilizzatore sarà fatto obbligo di pagare i corrispettivi periodici maturati fino alla risoluzione del contratto, oltre agli interessi di mora nella misura convenzionalmente pattuita (…). Il locatore ha altresì la facoltà di richiedere all’utilizzatore il pagamento di un importo pari alla somma dei corrispettivi periodici a scadere, attualizzati al tasso base (…).

Dall’importo così determinato sarà dedotto l’eventuale ricavato della vendita del bene, ovvero l’importo assunto a base di calcolo nell’ipotesi di diversa riallocazione del bene (…). In caso di bene invenduto o non ricollocato – purché effettivamente riconsegnato al Locatore – sarà dedotto il valore attribuito a tale bene secondo stima commerciale, compiuta dal locatore (…).” 1.1 Il Tribunale, premessa la pacifica qualificazione del contratto in oggetto come “leasing traslativo”, ha escluso l’ammissione allo stato passivo del fallimento dei crediti insinuati dall’odierna ricorrente e corrispondenti ai canoni già scaduti fino alla risoluzione del contratto, ritenendo che l’applicazione, seppure in via analogica, della disciplina dettata in tema di risoluzione per inadempimento del contratto dall’art. 1526 c.c. al leasing traslativo, non sia sussidiaria rispetto alla volontà delle parti, bensì inderogabile, comportando, nel caso di inadempimento dell’utilizzatore, la restituzione dei canoni già corrisposti, salvo il riconoscimento di un equo compenso in ragione dell’utilizzo dei beni, oltre al risarcimento dei danni.

Da ciò l’esclusione del diritto del concedente al pagamento dei canoni scaduti, non potendo farsi applicazione della disciplina pattizia che, con la clausola contenuta all’art. 8 prevedeva la possibilità di trattenere, da parte della società di leasing, i canoni di locazione già pagati.

Nella memoria ex art. 378 c.p.c. la ricorrente ripropone la questione, già sollevata nella memoria ex at. 380 bis.1 c.p.c., dell’applicabilità al caso di specie dello ius superveniens costituito dalla disciplina del contratto di leasing contenuta dalla L. n. 124 del 2017, art. 1, commi 136-140 e ciò sotto due profili:

– l’applicabilità diretta della nuova disciplina, che regola in modo specifico la risoluzione negoziale per inadempimento dell’utilizzatore, al contratto per cui è causa, seppure concluso e risolto in data anteriore all’entrata in vigore della novella, in quanto non sarebbero del tutto esauriti gli effetti derivanti dal fatto generatore (risoluzione del contratto);

– l’applicabilità in via analogica della novella e dei suoi principi ispiratori alla fattispecie in esame, in assenza di una disciplina legislativa che regolasse i contratti di leasing pregressi.

Ritiene il Collegio che vada senz’altro presa in esame tale seconda opzione, fondata sulla generale portata della novella ai fini dell’interpretazione sistematica, pure in assenza di una diretta applicabilità della stessa.

  1. Già questa Sezione, con la recente pronuncia n. 8503 del 2018, aveva segnalato una possibile interferenza nel dibattito sulla portata della L. Fall., art. 72 quater e sulla natura del leasing finanziario della L. n. 124 del 2017. In tale occasione, tuttavia, la questione non era stata presa in esame perché estranea alla materia del contendere.
  2. La L. n. 124 del 2017, com’è noto, ha introdotto nel nostro ordinamento una definizione unitaria del contratto di leasing finanziario, senza recepire la tradizionale distinzione di matrice giurisprudenziale tra leasing “di godimento” e leasing “traslativo”, disciplinando altresì presupposti ed effetti della risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore.

Prima di tale tipizzazione non esisteva nel nostro ordinamento una definizione e disciplina di portata generale del contratto di leasing finanziario: non si pone, dunque, in relazione a tale fattispecie negoziale un problema di successione, in senso stretto, di leggi nel tempo.

Si tratta piuttosto di stabilire se, ed in che misura, il paradigma normativo ed i principi recati dalla novella legislativa possano trovare ingresso, pur in assenza di una loro diretta applicabilità, nel presente giudizio.

3.1. Conviene premettere che, come questa Corte ha ripetutamente affermato, i principi della rilevabilità, anche d’ufficio, dello ius superveniens e della sua applicabilità nei giudizi in corso non operano indiscriminatamente ma devono essere coordinati con quelli che regolano l’onere dell’impugnazione e le relative preclusioni, con la conseguenza che la loro operatività trova ostacolo nel giudicato interno formatosi in relazione alle questioni, su cui avrebbe dovuto incidere (a vario titolo) la normativa sopravvenuta, e nella conseguente inesistenza di controversie in atto sui relativi punti (Cass.6101 del 17 marzo 2014).

In particolare, nel giudizio di legittimità, la rilevanza dello ius superveniens presuppone che la normativa sopraggiunta sia pertinente rispetto alle questioni agitate nel ricorso, posto che i principi generali dell’ordinamento in materia di processo per Cassazione – e segnatamente quello che impone che la funzione di legittimità sia esercitata attraverso l’individuazione delle censure espresse nei motivi di ricorso e sulla base di esse – impediscono di rilevare d’ufficio o a seguito di segnalazione fatta dalla parte mediante memoria difensiva ai sensi dell’art. 378 c.p.c. regole di giudizio determinate dalla sopravvenienza di disposizioni, afferenti ad un profilo che non sia stato investito, neppure indirettamente, dai motivi di ricorso e che concernano quindi una questione non sottoposta al giudice di legittimità (Cass. 19617 del 24.7.2018).

Nel caso di specie la novella incide direttamente sugli effetti della risoluzione del contrato di leasing e sulla disciplina applicabile, questione proposta dalla ricorrente sin dall’atto introduttivo del presente giudizio ed oggetto del suo ricorso per cassazione.

3.2. La censura ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in particolare, può concernere anche la violazione di disposizioni emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, ove applicabili al rapporto dedotto, atteso che il giudizio di legittimità non ha ad oggetto l’operato del giudice, ma la (perdurante) conformità della decisione adottata all’ordinamento giuridico (Cass. Sez.U. 21691/2016).

3.3. Inoltre, anche avuto riguardo alla tutela del contraddittorio, si osserva che la questione dell’applicabilità della novella recante la disciplina del leasing finanziario al caso di specie, riproposta nella memoria ex art. 378 c.p.c., era stata già sollevata dal ricorrente, con precedente memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c., nel procedimento in camera di consiglio, all’esito del quale, considerata la rilevanza nomofilattica della causa, ne è stata disposta la trattazione alla pubblica udienza.

  1. Facendo applicazione di tali principi al caso di specie, occorre verificare, in assenza di giudicato interno sul punto, se la statuizione del provvedimento impugnato che ha affermato l’applicabilità dell’art. 1526 c.c. (e la sua natura di norma inderogabile, prevalente sulla disciplina pattizia) sia conforme all’ordinamento giuridico anche alla luce delle disposizioni emanate successivamente alla pubblicazione del provvedimento impugnato e dei principi da esse introdotti.

4.1. Conviene premettere che il contratto in esame deve senz’altro qualificarsi come leasing finanziario (o locazione finanziaria), che va tenuto distinto dal c.d. leasing operativo, fattispecie che ricorre quando è lo stesso produttore a concedere verso corrispettivo in godimento il bene per un periodo tendenzialmente inferiore alla vita economica del bene, estranea al presente giudizio.

4.2. Occorre partire dalla considerazione che, come già evidenziato, fino all’emanazione della L. n. 124 del 2017, art. 1, commi 136-140 non esisteva nel nostro ordinamento una disciplina organica del contratto di leasing o locazione finanziaria, benché esso fosse oggetto di numerose disposizioni legislative settoriali, a partire dalla L. n. 183 del 1976, art. 17 (relativa all’intervento straordinario nel Mezzogiorno per il quinquennio 1976-1980).

Da ciò la conclusione che, fino alla recente novella, il leasing dovesse qualificarsi come contratto atipico o innominato.

4.3. In assenza di una disciplina organica del leasing, com’ è noto, a partire dalle sentenze della Cassazione n. 5570, 5572 e 5573 del 13 dicembre 1989, confermate con la sentenza delle Sez. U. n. 65/1993, si è affermato in giurisprudenza un orientamento fondato sulla distinzione tra “leasing di godimento” e “leasing traslativo”, quest’ultimo relativo a beni atti a conservare alla scadenza un valore residuo superiore all’importo convenuto per l’opzione, ed i cui canoni scontano anche una quota del prezzo in previsione del successivo acquisto (rispetto a cui la concessione in godimento assume funzione strumentale).

4.4. Si è inoltre consolidato l’indirizzo interpretativo secondo cui, nel leasing traslativo la disciplina dettata dall’art. 1526 c.c. in materia di risoluzione del contratto ha carattere inderogabile, trattandosi di norma imperativa con valore di principio generale di tutela di interessi omogenei e strumento di controllo dell’autonomia negoziale delle parti (Cass. 19732/2011).

4.5. Pure a seguito dell’introduzione nell’ordinamento (tramite il D.Lgs. n. 5 del 2006, art. 59) della L. Fall., art. 72 quater, che ha dettato un’unica disciplina per la locazione finanziaria, valevole sia per il leasing di godimento che per quello traslativo (Cass.1.3.2010 n. 4862), questa Corte ha ritenuto che non potesse ritenersi superata la tradizionale distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo e le differenti conseguenze che da essa derivano nell’ipotesi di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore (Cass. n. 8687/2015; 2538/2016), affermando che la disposizione dell’art. 72 quater si applicava ad una situazione particolare (scelta del curatore di sciogliersi dal contratto pendente alla data di fallimento) e la sua disciplina non aveva incidenza al di fuori della materia fallimentare e dei rapporti giuridici pendenti.

La disciplina della L. Fall., art. 72 quater, tuttavia, ha una particolare rilevanza sul piano sistematico, in quanto, nonostante sia stata emanata successivamente all’affermarsi dell’indirizzo giurisprudenziale fondato sulla bipartizione del leasing finanziario in due fattispecie negoziali distinte e riconducibili a due diversi tipi contrattuali, riconduce ad unità tale contratto. Il leasing viene specificamente distinto dalla vendita con riserva di proprietà (il cui scioglimento è disciplinato dal successivo art. 73, mediante rinvio alla disciplina dell’art. 1526 c.c.), valorizzandone la causa di finanziamento, peraltro già desumibile dalla previsione degli artt. 1 e 106 TUB, i quali riservano alle banche ed agli altri intermediari finanziari la posizione di concedente nelle operazioni di locazione finanziaria.

4.6. Successivamente, la L. n. 208 del 2015 (legge di stabilità del 2016) ha introdotto nell’ordinamento la figura del leasing immobiliare abitativo (che contempla una serie di agevolazioni fiscali e di garanzie dirette a favorire l’utilizzo del leasing per l’acquisizione dell’abitazione principale) prevedendo anche in tal caso un’unica figura negoziale, caratterizzata dalla finalità di finanziamento.

Anche in questo caso, peraltro, si tratta di una figura particolare, che ha specifici presupposti ed un particolare ambito applicativo.

4.7. Da ultimo, però, come sopra evidenziato, la Legge per il mercato e la concorrenza n. 124/2017, all’art. 1, ha introdotto una definizione del leasing finanziario ed ha dettato una compiuta disciplina relativa a presupposti, effetti e conseguenze della risoluzione per inadempimento oltre a norme di coordinamento con altre disposizioni che richiamano tale fattispecie contrattuale.

4.8. La nuova normativa ha dunque tipizzato la locazione finanziaria quale fattispecie negoziale autonoma, distinta dalla vendita con riserva di proprietà, in conformità a tutti i più recenti interventi legislativi in materia ed in particolare alla disciplina prevista dalla L. Fall., art. 72 quater.

Il legislatore ha optato per la ricostruzione unitaria del contratto di leasing ed ha dunque disatteso il tradizionale indirizzo giurisprudenziale di questa Corte, escludendo la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo e facendo così venir meno una bipartizione che non è fondata su alcuna norma di legge.

4.9. In tale prospettiva, la nuova normativa si pone in linea di diretta continuità con la previsione della L. Fall., art. 72 quater e con la particolare disciplina dello scioglimento del contratto di leasing, che, come già evidenziato, è ivi delineata secondo un paradigma unitario.

Da ciò consegue l’applicabilità alla fattispecie in esame, in via analogica, della disciplina dettata dalla L. Fall., art. 72 quater, in conformità ad un indirizzo interpretativo che, pur disatteso da questa Corte, era stato affermato da larga parte della giurisprudenza di merito.

Tale norma, pur dettata in relazione all’ipotesi in cui lo scioglimento del contratto di leasing derivi da una scelta del curatore e non dall’inadempimento dell’utilizzatore, è del tutto coerente con la fisionomia di tale tipo negoziale e con la particolare disciplina della risoluzione dettata dalla nuova normativa, dovendo ritenersi definitamente superato il ricorso in via analogica alla disciplina recata dall’art. 1526 c.c. 4.10. Non si tratta dunque di attribuire carattere retroattivo (in assenza di norme di diritto transitorio) alla nuova disciplina portata dalla L. n. 124 del 2017, ma di fare concreta applicazione della c.d. interpretazione storico-evolutiva, secondo cui una determinata fattispecie negoziale, per quegli aspetti che non abbiano esaurito i loro effetti, in quanto non siano stati ancora accertati e definiti con statuizione passata in giudicato, non può che essere valutata sulla base dell’ordinamento vigente, posto che l’attività ermeneutica non può dispiegarsi “ora per allora”, ma all’attualità.

E ciò, a maggior ragione quando, come nel caso di specie, l’ordinamento abbia organicamente disciplinato, dando così luogo ad un nuovo “tipo” negoziale, un contratto che, pur diffuso nella pratica, non poteva qualificarsi come contratto tipico e la cui disciplina veniva dunque desunta, in via analogica, da altri contratti tipici (nel nostro caso locazione o vendita con riserva di proprietà), in virtù di una scelta ermeneutica che, pur riconducibile ad un consolidato indirizzo di questa Corte, non può che operare su un piano meramente interpretativo, quale è quello proprio del formante giurisprudenziale.

Tale indirizzo è dunque destinato a cedere il passo davanti ad una precisa presa di posizione del legislatore, che, in quanto introduce una disciplina che integra una obiettiva (ed evidentemente consapevole) soluzione di continuità rispetto ad esso, non può non riverberarsi sulla valutazione ed interpretazione delle situazioni pregresse non ancora definite.

  1. Gli effetti della risoluzione del contratto di leasing, verificatasi anteriormente alla dichiarazione di fallimento, dovranno dunque essere regolati sulla base di quanto previsto dalla L. Fall., art. 72 quater, che ha carattere inderogabile e prevale su eventuali difformi pattuizioni delle parti.

La disciplina della L. n. 124 del 2017 ed il procedimento di realizzazione sul bene ivi regolato consente di superare i dubbi interpretativi sorti in ordine al trattamento, in ambito concorsuale, del credito del concedente all’esito della risoluzione negoziale per inadempimento del l’utilizzatore.

5.1. Come già rilevato nella pronuncia n. 15701 del 23.5.2011 di questa Corte, l’applicazione della disciplina della L. Fall., art. 72 quater anche al caso di risoluzione del contratto verificatasi prima della dichiarazione di fallimento implica che anche in questo caso il concedente dovrà evidentemente insinuarsi al passivo fallimentare per poter allocare il bene e trattenere, in tutto o in parte, l’importo incassato.

Alla stregua di quanto previsto per i crediti pignoratizi e per quelli garantiti da privilegio speciale L. Fall., ex art. 53, la vendita avverrà a cura dello stesso concedente, previa stima del valore di mercato del bene, disposta dal giudice delegato in sede di accertamento del passivo.

Sulla base del valore di mercato del bene sarà determinato l’eventuale credito della curatela nei confronti del concedente o il credito, in moneta fallimentare, di quest’ultimo, corrispondente alla differenza tra il valore del bene ed il suo credito residuo, corrispondente all’ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data di fallimento e dei canoni a scadere, solo in linea capitale(in coerenza con la previsione della L. Fall., art. 55), oltre al prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione; eventuali rettifiche, sulla base di quanto effettivamente realizzato dalla vendita del bene, potranno farsi valere in sede di riparto.

Alla luce della chiara indicazione della novella, del tutto coerente con l’indirizzo già sostenuto dalla citata pronuncia n. 15701 del 23.5.2011 di questa Corte, va dunque esclusa, in quanto del tutto superflua, l’insinuazione in via tardiva della differenza fra il credito vantato alla data del fallimento e la minore somma ricavata, pure affermato da un precedente arresto di questa Corte (Cass. 21213 del 2017) o l’ammissione di detto credito con riserva.

5.2. Anche il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, (D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 pubblicato nella G.U. del 14 febbraio 2019) all’art. 177 detta una disciplina della locazione finanziaria pienamente coerente con la disciplina della L. Fall., art. 72 quater e della L. n. 124 del 2017, prevedendo che nella liquidazione giudiziale del patrimonio dell’utilizzatore, in caso di scioglimento del contatto, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a versare alla curatela fallimentare l’eventuale differenza tra la maggiore somma ricavata dalla vendita a valori di mercato, dedotta una somma pari all’ammontare di eventuali canoni scaduti e non pagati fino alla data dello scioglimento e dei canoni a scadere, solo in linea capitale, oltre al prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto.

5.3. La medesima disposizione, al comma 2, prevede che il concedente ha diritto di insinuarsi allo stato passivo per la differenza tra il credito vantato alla data di apertura della liquidazione giudiziale e quanto ricavabile dalla nuova allocazione del bene secondo la stima disposta dal giudice delegato.

Viene dunque espressamente prevista la stima del giudice delegato quale necessario presidio per determinare il valore di mercato del bene, già desumibile dall’attuale sistema della legge fallimentare, seppure non esplicitata nella disposizione della L. Fall., art. 72 quater.

5.4. Anche la nuova regolazione della crisi d’impresa, che nonostante la (ampia) vacatio legis, fa ormai parte dell’ordinamento vigente, conferma dunque la scelta del legislatore, che ha trovato costante espressione in tutti i più recenti interventi in materia, univocamente ispirati alla configurazione unitaria del leasing finanziario e della previsione di una disciplina sostanzialmente omogenea della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore e dello scioglimento (per scelta del curatore) di quello che è ormai, a tutti gli effetti, un contratto tipico.

6.Può dunque enunciarsi il seguente principio di diritto:

“Gli effetti della risoluzione del contratto di leasing finanziario per inadempimento dell’utilizzatore, verificatasi in data anteriore alla data di entrata in vigore della L. n. 124 del 2017 (art. 1, commi 136 – 140), sono regolati dalla disciplina della L. Fall., art. 72 quater, applicabile anche al caso di risoluzione del contratto avvenuta prima della dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore.

In caso di fallimento dell’utilizzatore, il concedente avrà diritto alla restituzione del bene e dovrà insinuarsi al passivo fallimentare per poter vendere o allocare il bene e trattenere, in tutto o in parte, l’importo incassato.

La vendita avverrà a cura dello stesso concedente, previa stima del valore di mercato del bene disposta dal giudice delegato in sede di accertamento del passivo.

Sulla base del valore di mercato del bene, come stabilito sulla base della stima su menzionata, sarà determinato l’eventuale credito della curatela nei confronti del concedente o il credito, in moneta fallimentare, di quest’ultimo, corrispondente alla differenza tra il valore del bene ed il suo credito residuo, pari ai canoni scaduti e non pagati ante-fallimento ed ai canoni a scadere, in linea capitale, oltre al prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione.

Eventuali rettifiche, sulla base di quanto effettivamente realizzato dalla vendita del bene, potranno farsi valere in sede di riparto”.

  1. Il ricorso va dunque accolto ed il decreto impugnato va cassato, con rinvio della causa al Tribunale di Mantova, che si conformerà al principio di diritto sopra enunciato.

Il giudice del rinvio provvederà anche alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso.

Cassa il provvedimento impugnato e rinvia la causa al Tribunale di Mantova, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 28 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 marzo 2019

Cass_civ_Sez_I_29_03_2019_n_8980




La giurisprudenza di legittimità ha ampliato il concetto di persona di famiglia alla quale legittimamente poter consegnare l’atto da notificare

La giurisprudenza di legittimità ha ampliato il concetto di persona di famiglia alla quale legittimamente poter consegnare l’atto da notificare

Cassazione Civile, Sezione VI, Sottosezione 5 III, Ordinanza n. 9371 del 04/04/2019

Con sentenza del 12 febbraio 2019, la Corte di Cassazione, Sezione III Civile, in materia di ha ampliato il concetto di persona di famiglia alla quale legittimamente poter consegnare l’atto da notificare, ricomprendendo in esso non solo i parenti, ma anche gli affini, escludendo che la persona di famiglia debba necessariamente convivere col notificatario e ritenendo, infine, che la qualità di persona di famiglia o di addetto alla casa, all’ufficio o all’azienda di chi ha ricevuto l’atto si presume “iuris tantum” dalle dichiarazioni recepite dal messo notificatore nella relata di notifica. Incombe sul destinatario dell’atto, che contesti la validità della notificazione, l’onere di fornire la prova contraria ed in particolare la prova dell’inesistenza di un rapporto con il consegnatario comportante una delle qualità sopra indicate, ovvero l’occasionalità della presenza in loco del consegnatario.


Cassazione Civile, Sezione VI, Sottosezione 5 III, Ordinanza n. 9371 del 04/04/2019

La giurisprudenza di legittimità ha ampliato il concetto di persona di famiglia alla quale legittimamente poter consegnare l’atto da notificare

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 5

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

V. – ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate – Riscossione (OMISSIS) – intimata –

avverso la sentenza n. __ della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di __, depositata il __; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del __ dal Consigliere Relatore Dott. __.

Svolgimento del processo

che con la sentenza indicata in epigrafe la CTR del __ ha accolto parzialmente l’appello di V. avverso una sentenza della CTP di __, di accoglimento parziale di un ricorso da lui proposto avverso un preavviso di fermo amministrativo;

che la CTR aveva in particolare ritenuto illegittima la notifica di una delle tre cartelle sottese al preavviso di fermo impugnato, ritenendo invece legittima la notifica della altre due cartelle, sebbene effettuata nelle mani di persona qualificatasi come “amica”.

Motivi della decisione

che il ricorso per cassazione del contribuente è affidato ad un unico motivo, con il quale è stato dedotto error in iudicando e violazione e falsa applicazione dell’art. 139 c.p.c., e del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, in quanto l’art. 139 c.p.c. specificamente dispone che, in caso di assenza del destinatario, la notifica può essere lasciata a persona di famiglia o addetta alla casa od all’ufficio e, nella specie, dalla relata di notifica era emerso che il plico era stato consegnato a tale E., espressamente indicata come semplice amica del destinatario e quindi persona inidonea, come tale, a ricevere l’atto da notificare, in quanto non equiparabile a persona di famiglia; né il rapporto di amicizia consentiva di ritenere la persona convivente con il destinatario;

che l’intimata Agenzia delle entrate riscossione non ha presentato controdeduzioni;

che sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., risulta regolarmente costituito il contraddittorio; che l’unico motivo di ricorso proposto dal contribuente è manifestamente fondato;

che, invero, la giurisprudenza di legittimità ha ampliato il concetto di persona di famiglia, alla quale legittimamente poter consegnare l’atto da notificare, ricomprendendo in esso non solo i parenti, ma anche gli affini, escludendo che la persona di famiglia debba necessariamente convivere col notificatario e ritenendo, infine, che la qualità di persona di famiglia o di addetto alla casa, all’ufficio od all’azienda di chi ha ricevuto l’atto si presume “iuris tantum” dalle dichiarazioni recepite dal messo notificatore nella relata di notifica, incombendo sul destinatario dell’atto, che contesti la validità della notificazione, l’onere di fornire la prova contraria ed in particolare la prova dell’inesistenza di un rapporto con il consegnatario comportante una delle qualità sopra indicate, ovvero l’occasionalità della presenza in loco del consegnatario;

che, in applicazione di detti principi, non può ritenersi valida la notifica fatta nelle mani di una persona qualificatasi come “amica”, in quanto il rapporto amicale è cosa diversa dal rapporto di parentela, né la persona amica è qualificabile come addetta alla casa;

che, pertanto, la consegna dell’atto da notificare, fatta nelle mani di tale “E., amica” non è assistita dalla presunzione di consegna e non realizza la fattispecie notificatoria, con conseguente nullità della notifica, essendo da presumere che la persona “amica” sia un soggetto presente sul posto solo in via occasionale e transeunte (cfr., in termini, Cass. n. 2705 del 2014; Cass. n. 7211 del 2016);

che il ricorso in esame va quindi accolto;

che, non essendo necessarie ulteriori indagini, la controversia può essere definita nel merito ex art. 384 comma 2, accogliendo il ricorso introduttivo del contribuente;

che, tenuto conto dell’alternativo esito della controversia, appare equo compensare fra le parti le spese del giudizio di merito, mentre l’Agenzia delle entrate riscossione va condannata al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, quantificate come in dispositivo.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo del contribuente; compensa fra le parti le spese del merito e condanna l’Agenzia delle entrate riscossione al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, quantificate in Euro __, oltre alle spese generali nella misura forfettaria del 15% ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dell’avv. __, antistatario.

Così deciso in Roma, il 12 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2019

Cass_civ_Sez_VI_5_Ord_04_04_2019_n_9371

 




L’omessa spedizione in forma esecutiva della copia del titolo esecutivo rilasciata al creditore e da questi notificata al debitore determina una irregolarità formale del titolo medesimo

L’omessa spedizione in forma esecutiva della copia del titolo esecutivo rilasciata al creditore e da questi notificata al debitore determina una irregolarità formale del titolo medesimo

Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza n. 3967 del 12/02/2019

Con sentenza del 12 febbraio 2019, la Corte di Cassazione, Sezione III Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che l’omessa spedizione in forma esecutiva della copia del titolo esecutivo rilasciata al creditore e da questi notificata al debitore determina una irregolarità formale del titolo medesimo, che deve essere denunciata nelle forme e nei termini di cui all’art. 617, comma 1, c.p.c., senza che la proposizione dell’opposizione determini l’automatica sanatoria del vizio per raggiungimento dello scopo, ai sensi dell’art. 156, comma 3, c.p.c. Tuttavia, in base ai principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire, il debitore opponente non può limitarsi, a pena di inammissibilità dell’opposizione, a dedurre l’irregolarità formale in sé considerata, senza indicare quale concreto pregiudizio ai diritti tutelati dal regolare svolgimento del processo esecutivo essa abbia cagionato.

 

Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza n. 3967 del 12/02/2019

L’omessa spedizione in forma esecutiva della copia del titolo esecutivo rilasciata al creditore e da questi notificata al debitore determina una irregolarità formale del titolo medesimo

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. __ R.G. proposto da:

S. – ricorrente –

contro

I. S.r.l. – controricorrente –

C. – intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Ancona, depositata il __;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del __ dal Consigliere __;

udito l’Avv. __, in sostituzione dell’Avv. __, che ha insistito nell’accoglimento del ricorso;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. __, che ha concluso chiedendo che la sentenza impugnata sia cassata senza rinvio quanto all’opposizione ex art. 617 c.p.c., e che il ricorso sia rigettato quanto all’opposizione ex art. 615 c.p.c..

Svolgimento del processo

  1. S.r.l., con atto di precetto notificato il __, ha intimato a S. il pagamento dell’importo di Euro __, quale residuo prezzo di una compravendita immobiliare stipulata con atto pubblico del notaio C. del __.
  2. ha proposto opposizione, lamentando la nullità della copia conforme del titolo esecutivo (il rogito notarile) notificatole unitamente all’atto di precetto, in quanto carente della formula esecutiva. Ha altresì dedotto, nel merito, che nulla era dovuto alla società intimante, in ragione di taluni vizi di costruzione dell’immobile acquistato.
  3. S.r.l. ha resistito all’opposizione, chiamando in causa il notaio C., da cui ha chiesto di essere manlevata qualora fosse accertata l’invalidità del titolo esecutivo.

Il Tribunale di Ancona ha accolto l’opposizione agli atti esecutivi, ritenuta di rilievo preliminare e quindi assorbente delle contestazioni di merito.

  1. S.r.l. ha proposto appello avverso la decisione di primo grado. S. e C. hanno resistito all’appello, chiedendo la conferma della sentenza impugnata.

La Corte d’appello di Ancona ha riformato la decisione del Tribunale, respingendo sia l’opposizione agli atti esecutivi, sia l’opposizione all’esecuzione. Quanto al primo profilo, ha ritenuto che la carenza della formula esecutiva costituisse un vizio sanato dalla proposizione dell’opposizione: tale attività difensiva, infatti, è stata ritenuta dimostrativa del raggiungimento dello scopo, ovvero della compiuta acquisizione, da parte dell’esecutata, delle ragioni del credito fatto valere nei suoi confronti. Quanto al merito, ha rilevato che S. non aveva tempestivamente denunciato i pretesi vizi costruttivi dell’immobile, sicché gli stessi non potevano essere validamente opposti alla società venditrice sub specie di eccezione di inadempimento.

La sentenza della Corte d’appello è stata fatta oggetto, da parte di S., di ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi e illustrato da successive memorie. I. S.r.l. ha resistito con controricorso. C. non ha svolto attività difensiva.

Ritenuta la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 380 bis c.p.c. (come modificato dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1 bis, comma 1, lett. e, conv. con modif. dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197), il ricorso è stato trattato in camera di consiglio non partecipata. All’esito della stessa, tuttavia, con ordinanza interlocutoria del __ è stata disposta la trasmissione del ricorso in pubblica udienza.

S. e I. S.r.l. hanno depositato ulteriori memorie ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1.1 Con il primo motivo S. denuncia la violazione dell’art. 475 c.p.c., da ravvisarsi nella mancata apposizione della formula esecutiva sulla copia del titolo notificato.

Si tratta della riproposizione di una questione già dedotta con i motivi di appello e che la corte territoriale ha ritenuto di risolvere invocando il principio generale della sanatoria dei vizi processuali per raggiungimento dello scopo (art. 156 c.p.c., comma 3).

Queste conclusioni vengono censurate in ricorso, in quanto “qualora la formula esecutiva non sia presente nella copia per il ricevente, questi non può svolgere appieno il suo legittimo diritto di difesa non avendo a disposizione il titolo nella sua integrità”.

La ricorrente osserva, inoltre, che il Tribunale aveva analiticamente argomentato sulla rilevanza specifica dell’omissione, concludendo che “una non corretta spedizione del titolo (in forma esecutiva) non sembra consentire al debitore una corretta verifica formale circa l’ontologia dello stesso titolo esecutivo”.

Aggiunge, infine, che l’atto notificatole – dichiarato dal notaio come conforme all’originale – era invalido, in quanto delle due l’una: o neppure l’originale conteneva la formula esecutiva, con conseguente nullità del titolo esecutivo in quanto tale; oppure la formula esecutiva non era stata apposta solamente sulla copia notificatale, che quindi non era davvero conforme all’originale.

1.2 All’esame della censura è preliminare l’individuazione della natura del vizio dedotto, al fine dell’inquadramento dell’opposizione nelle fattispecie di cui all’art. 615 o 617 c.p.c., per le quali vale un diverso regime di impugnazione.

La questione, in sostanza, è se – riprendendo la tradizionale distinzione fra le diverse forme di patologia processuale recentemente riaffermata anche dalle Sezioni unite in tema di notificazioni (Sez. U, Sentenza n. 4916 del 20/07/2016, Rv. 640603) – l’omessa apposizione della formula esecutiva sul titolo ne determina l’inesistenza, ovvero dia luogo ad una mera irregolarità formale. Ciò in quanto, nel primo caso, la carenza dei presupposti dell’azione espropriativa potrebbe essere rilevata d’ufficio o denunciata dall’opponente fintanto che non sia stata disposta la vendita o l’assegnazione, a norma degli artt. 530, 552 e 569 c.p.c., (art. 615 c.p.c., comma 2); nell’altra ipotesi, invece, il vizio sarebbe censurabile nelle forme e nei termini propri dell’opposizione agli atti esecutivi (art. 617 c.p.c.).

Sul punto, occorre dare continuità alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la denuncia dell’omessa apposizione della formula esecutiva configura un’opposizione agli atti esecutivi allorquando si faccia riferimento solamente alla correttezza della spedizione del titolo in forma esecutiva richiesta dall’art. 475 c.p.c., di cui non si ponga in dubbio l’esistenza, poiché in tal caso il difetto si concreta in una irregolarità del procedimento esecutivo o del precetto. Viceversa, allorché si contesti l’inesistenza del titolo esecutivo ovvero la mancata soddisfazione delle condizioni perché l’atto acquisti efficacia esecutiva, l’opposizione deve qualificarsi come proposta ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ. (Sez. 3, Sentenza n. 13069 del 05/06/2007, Rv. 597293; conf. Sez. 3, Sentenza n. 24279 del 30/11/2010, Rv. 614900; Sez. 3, Sentenza n. 25638 del 14/11/2013, Rv. 628755).

Il ricorso – che omette completamente di considerare questo profilo – non offre alcuno spunto per rivedere i precedenti arresti giurisprudenziali.

1.3 Facendo applicazione di tali principi si deve pervenire alla conclusione che la doglianza della S. in relazione alla mancata apposizione della formula esecutiva dia luogo ad un’opposizione agli atti esecutivi.

Ed infatti, l’opponente non ha mai convincentemente dedotto l’inesistenza del titolo esecutivo ovvero la mancata soddisfazione delle condizioni perché l’atto acquisti l’efficacia di titolo esecutivo, essendosi limitata a contestare che l’omessa apposizione della formula esecutiva sulla copia che le era stata notificata determinasse l’improcedibilità dell’azione espropriativa per irreparabile pregiudizio dei suoi diritti di difesa.

Non rileva, ai fini della qualificazione dell’opposizione, neppure la pretesa invalidità del titolo perché recante la dicitura “prima copia in forma esecutiva”. La censura – che sembra essere stata prospettata per la prima volta solo in questo giudizio e, per ciò stesso, sarebbe inammissibile – è formulata in termini di non agevole comprensione. In ogni caso, non vi è dubbio che tanto l’erronea attestazione del numero di copie esecutive rilasciate dal notaio, quanto l’eventuale difformità fra l’originale e la copia attestata come conforme (difformità che, peraltro, si sarebbe dovuta denunciare nelle forme di rito, essendo relativa ad un atto fidefaciente) non determinano l’invalidità del titolo esecutivo, né la sua inidoneità ad acquisire efficacia esecutiva. Del resto, la spedizione in forma esecutiva deve farsi proprio della copia del titolo che va consegnata al creditore e che da questi viene notificata al debitore, sicché non è possibile comprendere neppure in cosa consista esattamente la lamentata divergenza fra l’originale e la copia.

1.4 Una volta chiarito che il Tribunale ha deciso su un’opposizione che, in parte qua, doveva essere qualificata ai sensi dell’art. 617 c.p.c., deve essere rilevata l’improponibilità dell’appello.

Infatti, qualora un’opposizione in materia esecutiva possa scindersi in un duplice contenuto, in parte qualificabile come opposizione agli atti esecutivi e in parte riconducibile ad una opposizione all’esecuzione, l’impugnazione della conseguente sentenza deve seguire il diverso regime previsto per i distinti tipi di opposizione (Sez. 3, Sentenza n. 18312 del 27/08/2014, Rv. 632102; Sez. 3, Sentenza n. 13203 del 31/05/2010, Rv. 613198).

Né può invocarsi, a giustificazione dello strumento impiegato dall’opponente per impugnare la decisione di primo grado, il principio dell’apparenza, in ragione del quale, quando la sentenza da impugnare contiene una esplicita qualificazione dell’azione è a questa che occorre far riferimento, indipendentemente dalla sua esattezza, per l’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile (Sez. U, Sentenza n. 4617 del 25/02/2011, Rv. 616599; v., fra le ultime, Sez. L, Sentenza n. 13381 del 26/05/2017, Rv. 644992), perché non risultai né è stato dedotto; che il Tribunale avesse espressamente qualificato l’opposizione come proposta ex art. 615 c.p.c.. Al contrario, la stessa Corte d’appello evidenzia la doppia natura dell’opposizione proposta dalla S. e chiarisce che “il Tribunale ha accolto l’opposizione agli atti esecutivi”.

In conclusione, la corte territoriale, accogliendo il gravame, ha riformato una sentenza non appellabile.

L’improponibilità dell’appello è rilevabile d’ufficio anche nel giudizio di legittimità, trattandosi di questione che determina l’accertamento dell’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, non ritualmente impugnata.

Pertanto, la sentenza impugnata deve essere cassata senza rinvio, in quanto l’appello non poteva essere proposto.

1.5 Tale conclusione determina l’assorbimento del primo motivo, con il quale si propongono censure di legittimità relative alla decisione indebitamente pronunciata dalla Corte d’appello su una domanda che non le poteva essere devoluta.

2.1 Sebbene la censura illustrata con il primo motivo sia, dunque, assorbita, appare comunque opportuno pronunciarsi sulla stessa, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, in quanto essa pone una questione di particolare importanza, ovvero quali siano le conseguenze della mancata apposizione della formula esecutiva sul titolo notificato al debitore.

La premessa, su cui ci siamo già soffermati (par. 1.2), è che tale vizio attiene alla regolarità formale del titolo esecutivo e, pertanto, la relativa opposizione deve essere proposta nel termine di venti giorni fissato dall’art. 617 c.p.c.. In particolare, poiché la notificazione del titolo esecutivo (a sé stante o unitamente al precetto) precede l’inizio dell’espropriazione forzata, entro il termine anzidetto deve essere notificato l’atto di opposizione previsto dall’art. 617 c.p.c., comma 1.

Pertanto, circoscrivendo ulteriormente la questione di rilievo nomofilattico, il quesito è se la proposizione dell’opposizione agli atti esecutivi, da parte del debitore cui sia stata notificata una copia del titolo esecutivo sprovvisto della formula di cui all’art. 475 c.p.c., determina la sanatoria del vizio – come afferma la Corte d’appello – per raggiungimento dello scopo.

2.2 La verifica dell’esattezza delle conclusioni cui è approdata la corte di merito presuppone la preventiva individuazione dello scopo effettivo per il quale l’art. 475 c.p.c., impone la spedizione del titolo in forma esecutiva.

Secondo la dottrina più risalente – formatasi già sotto il codice del 1865 – l’apposizione della formula esecutiva (che costituisce un unicum inscindibile con la spedizione in forma esecutiva) è non altro che un’affermazione esteriore e solenne d’una efficacia che già è inerente al titolo esecutivo in sé considerato. Si tratterebbe, quindi, di un residuo storico, di un requisito più formalistico che formale.

È, tuttavia, preferibile l’opinione di chi osserva che per l’individuazione dell’effettiva funzione della formula esecutiva occorre considerare stessa va apposta all’esito di un controllo sulla “perfezione formale” del titolo prescritto dall’art. 153 disp. att. c.p.c., sicché l’adempimento in questione vale a sugellare la rilevanza dell’atto come idoneo a sostenere l’azione esecutiva (a tal proposito è stato affermato che il diritto a procedere ad esecuzione forzata sarebbe soggetto ad una condicio iuris impropria – l’apposizione della formula – il cui avveramento soltanto ne consente l’esercizio). Dunque, mediante la spedizione in formula esecutiva si verifica: (a) l’esistenza di una norma che conferisca all’atto la qualità di titolo esecutivo, giusta la riserva di legge contenuta nell’art. 474 c.p.c.; (b) l’esigibilità del diritto, che – secondo la chiara lettera dell’art. 474 c.p.c., comma 1, – costituisce un presupposto dell’azione esecutiva distinto dalla valenza astratta dell’atto come titolo esecutivo; (c) trattandosi di credito di somme di denaro o di cose determinate secondo il genere, la sussistenza del requisito della liquidità, anch’esso richiesto dell’art. 474 c.p.c., comma 1; (d) trattandosi di scritture private autenticate, che esse contengano una obbligazione di somme di denaro (art. 474 c.p.c., comma 2, n. 2).

Pertanto, qualora si ponga in esecuzione un provvedimento giudiziario, la spedizione del titolo in forma esecutiva postula l’accertamento che non ne sia stata disposta la sospensione della provvisoria esecutività o che lo stesso non sia stato revocato, annullato o cassato. Ed ancora, non potrà provvedersi alla spedizione se non siano provati l’avveramento della condizione sospensiva, l’esecuzione della controprestazione, l’avvenuta scelta nell’obbligazione alternativa.

Altra funzione della spedizione in forma esecutiva è quella di individuare la parte che ha diritto ad utilizzare il titolo, alla quale soltanto può esserne dato il possesso (art. 475 c.p.c., comma 2).

Infine, la spedizione in forma esecutiva consente il controllo del numero delle copie del titolo esecutivo in circolazione, giacché l’art. 476 c.p.c., dispone che non può spedirsi “senza giusto motivo” più di una copia in forma esecutiva alla stessa parte. Tale previsione, unitamente a quella secondo cui solo il presidente del tribunale o il giudice dell’esecuzione possono autorizzare il creditore a ritirare il titolo esecutivo, sostituendolo con copia autentica (art. 488 c.p.c., comma 2), valgono a mantenere sotto il controllo dell’autorità giudiziaria l’esercizio della facoltà di cumulo dei mezzi di espropriazione (art. 483 cod. proc. civ.).

2.3 Deve, pertanto, escludersi che la funzione della spedizione del titolo in forma esecutiva serva semplicemente – come afferma la Corte d’appello – a consentire all’intimato di avere piena cognizione della pretesa fatta valere nei suoi confronti. Anzi, tale funzione sembra del tutto estranea alla spedizione in forma esecutiva, spettando semmai all’atto di precetto assolvere a tale scopo.

Di conseguenza, la conoscenza del titolo esecutivo comunque avuta dal debitore non basta a sanare, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 3, il vizio dell’omessa spedizione in forma esecutiva della copia a lui destinata, in quanto non è questa la finalità dell’adempimento imposto dall’art. 475 c.p.c.

Allo stesso modo, non produce alcun effetto sanante la proposizione di un’opposizione agli atti esecutivi volta a far valere il predetto vizio formale.

2.4 La questione, tuttavia, può essere scrutinata sotto un profilo parzialmente diverso.

La sanatoria dell’atto nullo che abbia comunque raggiunto il suo scopo si determina tutte le volte in cui non risulta concretamente leso lo specifico interesse tutelato dalla norma processuale che regola la fattispecie. Si tratta, dunque, di un’ipotesi particolare di carenza di interesse (a dedurre la nullità processuale).

Questa Corte ha tuttavia chiarito che il tema dell’effettività della lesione dei diritti di difesa (e quindi della concretezza di un interesse effettivamente pregiudicato dall’atto processuale nullo) ha un ambito di rilevanza più ampio: qualsiasi denuncia di un error in procedendo deve essere accompagnata dalla enucleazione di un concreto pregiudizio subito dalla parte, poiché non esiste un interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria. I principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire impongono che l’impugnazione basata sulla violazione di regole processuali possa essere accolta solo se in tal modo la parte ottiene una pronuncia diversa e più favorevole (fra le più recenti: Sez. 5, Ordinanza n. 3805 del 16/02/2018, Rv. 647092; Sez. 1, Sentenza n. 19759 del 09/08/2017, Rv. 645194; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 17905 del 09/09/2016, Rv. 641403; Sez. 3, Sentenza n. 26157 del 12/12/2014, Rv. 633693). La parte che intende far valere la nullità processuale deve quindi indicare quale attività processuale gli sia stata preclusa per effetto della denunciata nullità.

Questo principio resta fermo anche in materia esecutiva, dove per la deduzione degli errores in procedendo è prevista un’apposita azione (art. 617 c.p.c.). Infatti, la disciplina dell’opposizione agli atti esecutivi deve essere coordinata con le regole generali in tema di sanatoria degli atti nulli (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 25900 del 15/12/2016, Rv. 642319), sicchè con l’opposizione di cui all’art. 617 c.p.c., non possono farsi valere i vizi sanati per raggiungimento dello scopo (art. 156 c.p.c., u.c.) e neppure quelli rispetto ai quali il debitore non indichi quale interesse ad agire in concreto egli abbia. L’opponente, pertanto, non può limitarsi a lamentare l’esistenza dell’irregolarità formale in sé considerata, senza dedurre che essa abbia davvero determinato un pregiudizio ai diritti tutelati dal regolare svolgimento del processo esecutivo (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 19105 del 18/07/2018, Rv. 650240).

In conclusione, a prescindere dall’assolvimento delle molteplici funzioni propria della spedizione in forma esecutiva (par. 2.2), il debitore che intenda opporre, ai sensi dell’art. 617 c.p.c., la mancanza sul titolo della formula prevista dall’art. 475 c.p.c., deve contestualmente indicare quale effettivo pregiudizio dei suoi diritti di difesa sia derivato da tale omissione. In mancanza, l’opposizione dovrà essere dichiarata inammissibile per carenza di interesse.

2.5 In conclusione, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, va affermato il seguente principio di diritto:

“L’omessa spedizione in forma esecutiva della copia del titolo esecutivo rilasciata al creditore e da questi notificata al debitore determina una irregolarità formale del titolo medesimo, che deve essere denunciata nelle forme e nei termini di cui all’art. 617 c.p.c., comma 1, senza che la proposizione dell’opposizione determini l’automatica sanatoria del vizio per raggiungimento dello scopo, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 3. Tuttavia, in base ai principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire, il debitore opponente non può limitarsi, a pena di inammissibilità dell’opposizione, a dedurre l’irregolarità formale in sé considerata, senza indicare quale concreto pregiudizio ai diritti tutelati dal regolare svolgimento del processo esecutivo essa abbia cagionato”.

  1. Il secondo, il terzo e il quarto motivo si riferiscono alla opposizione all’esecuzione. La questione controversa riguarda la tempestività della denuncia di taluni vizi costruttivi dell’immobile che S. avrebbe inteso opporre al proprio creditore sotto forma di eccezione di inadempimento.

Il quinto motivo concerne il regolamento delle spese processuali adottato dalla Corte d’appello.

Come abbiamo già detto, il Tribunale non si è mai pronunciato sui motivi di opposizione all’esecuzione, ritenendo che le contestazioni relative al rapporto giuridico sottostante al titolo esecutivo fossero assorbite dall’accoglimento della denuncia di invalidità formale dello stesso. L’appello proposto dal creditore, soccombente in primo grado, ha avuto ad oggetto – dunque – una sentenza che provvedeva unicamente sull’opposizione agli atti esecutivi.

Non ricorrevano, quindi, le condizioni alle quali I. S.r.l. avrebbe dovuto, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale sopra richiamato (par. 1.4), esperire due distinti mezzi di impugnazione: l’appello per quanto concerne l’opposizione all’esecuzione e il ricorso per cassazione in relazione all’opposizione agli atti esecutivi. Al contrario, l’unico mezzo di impugnazione che, in concreto, si sarebbe dovuto esperire era quello del ricorso per cassazione. Solo dopo aver conseguito l’eventuale cassazione della pronuncia sull’opposizione agli atti esecutivi, nel giudizio di rinvio il tribunale avrebbe dovuto esaminare nel merito l’opposizione all’esecuzione (inizialmente ritenuta assorbita) e avverso tale pronuncia la parte interessata avrebbe potuto proporre appello.

L’appello era dunque improponibile, anche con riferimento ai motivi di opposizione all’esecuzione. Il punto, infatti, non aveva costituito oggetto di pronuncia da parte del Tribunale, avendo quest’ultimo accolto la questione preliminare ed assorbente di nullità formale del titolo esecutivo.

Alla rilevata improponibilità dell’appello corrisponde, anche in questo caso, l’assorbimento dei motivi in esame.

  1. La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata senza rinvio, anche con riferimento alla pronuncia sulle spese.

Considerando le ragioni della decisione e, in particolare, la circostanza che la sentenza impugnata viene cassata per effetto del rilievo ex officio dell’improponibilità dell’appello, che tuttavia non rientra fra le censure dedotte dalla ricorrente, si ravvisano giusti motivi per l’integrale compensazione delle spese processuali del giudizio di legittimità.

Poiché il ricorso non è stato respinto, non ricorrono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

cassa senza rinvio la sentenza impugnata perché l’appello non poteva essere proposto. Compensa interamente le spese processuali fra le parti.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 15 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2019

Cass_civ_Sez_III_12_02_2019_n_3967




L’atto col quale si inizia l’esecuzione forzata è il pignoramento

L’atto col quale si inizia l’esecuzione forzata è il pignoramento

Tribunale Ordinario di Genova, Sezione VII Civile, Sentenza del 13/02/2019

Con sentenza del 13 febbraio 2019, il Tribunale Ordinario di Genova, Sezione Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che l’atto col quale si inizia l’esecuzione forzata è il pignoramento. Con detto atto, infatti, viene indicato il credito per cui si procede e vincolato il bene sottoposto a pignoramento alla soddisfazione di tale credito, nelle forme del processo esecutivo.

 

Tribunale Ordinario di Genova, Sezione VII Civile, Sentenza del 13/02/2019

L’atto col quale si inizia l’esecuzione forzata è il pignoramento

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI GENOVA

SEZIONE SETTIMA FALLIMENTARE CIVILE

In persona del Giudice Unico dott. __ ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. __ promossa da :

F. S.R.L. – PARTE ATTRICE OPPONENTE

CONTRO

A. e P. – PARTE CONVENUTA OPPOSTA

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La presente opposizione agli atti esecutivi riguarda l’ordinanza del __, con la quale il G.E. determinava l’importo della conversione del pignoramento in complessivi Euro __ e in Euro __ gli interessi scalari per il periodo di rateizzazione. I debitori proponevano opposizione agli atti esecutivi in data __, lamentando che fossero state inserite, tra i crediti per i quali il procedente F. S.R.L. agiva, alcune voci non dovute, sotto due profili:

– Il creditore procedente aveva indicato alcuni crediti non inseriti nel precetto e di conseguenza nel pignoramento;

– Lo stesso aveva anche inserito le somme a titolo di rivalsa IVA.

Decidendo su questa opposizione, con decreto del __, poi confermato con l’ordinanza del __, il GE disponeva la sospensione parziale dell’ordinanza del __, nella parte in cui stabiliva una rata mensile superiore a Euro __, lasciando confermate nel resto scadenze, periodicità e modalità di pagamento come già determinate con la suddetta ordinanza.

  1. S.R.L. ha introdotto il giudizio di merito, affermando che sarebbe stata corretta la quantificazione della conversione del pignoramento di cui all’ordinanza del __.

La prima questione si può ridurre nei seguenti termini: afferma il creditore e nega il debitore che, in sede di conversione del pignoramento, il procedente possa precisare il proprio credito, tenendo conto anche di quella parte del credito portata dal titolo esecutivo che non sia stata inserita nell’atto di precetto e di pignoramento e che il GE debba tener conto di tale ulteriore somma.

Secondo F. S.R.L., infatti, l’art. 495 c.p.c., nella parte in cui prevede che il GE quantifichi la somma da sostituire al bene pignorato in una somma corrispondente a “importo dovuto al creditore, per capitale, interessi e spese”, attribuirebbe allo stesso il più ampio potere, anche officioso, di liquidazione della somma sostitutiva, che deve risultare coincidente con il credito complessivo del creditore; non necessariamente tale debito dovrebbe essere individuato in quello cristallizzato nel titolo esecutivo azionato nella procedura di pignoramento. Conferma di ciò se ne dovrebbe trarre dal raffronto tra tale norma (art. 495 c.p.c.) e la diversa dicitura dell’art. 494 c.p.c., che si riferisce, invece, alla somma per cui si procede (e quindi la somma indicata a precetto e pignoramento).

Militerebbero in tal senso, inoltre, il principio della prevalenza del titolo esecutivo rispetto al precetto, affermato ai fini dell’art. 495 c.p.c. dalla SC (2009 n. 4064) e la considerazione della natura sostanziale e non processuale del precetto.

Ritiene questo Giudice che non possa essere conferita alla notifica del titolo esecutivo quella valenza che la legge conferisce a quella del precetto e dell’atto di pignoramento.

La notifica del titolo in forma esecutiva, infatti, costituisce pur sempre solo un indizio della volontà del creditore di procedere ad esecuzione forzata: soltanto la notifica del precetto (di seguito o unitamente al titolo) costituisce atto preliminare all’avvio della esecuzione. Sia gli autori che ne ritengono la natura sostanziale, sia quelli che ne sottolineano la natura processuale, infatti, riconoscono che il precetto produca anche l’effetto processuale specifico di delimitare l’oggetto della pretesa che viene fatta valere dal creditore e di costituirne in modo innegabile la base: si pensi, ad esempio, al fatto che l’inefficacia o alla nullità del precetto (sia essa derivante dall’accertamento dell’inesistenza del diritto a procedere ovvero dal rilievo di un suo vizio formale) sia idonea ad incidere specificamente sul processo esecutivo, e, se tempestivamente eccepita, possa comportare la caducazione degli atti esecutivi successivamente compiuti.

Con il precetto e l’intimazione ad adempiere, che ne costituisce il contenuto essenziale, il creditore invita all’adempimento e preannuncia l’esecuzione, specificando per quale somma il debitore viene invitato ad adempiere: per la stessa somma preannuncia l’esecuzione forzata.

Il creditore non è tenuto a intimare precetto per l’intera somma di cui al titolo esecutivo; può limitarsi a intimare il pagamento di una parte della stessa e a instaurare conseguentemente esecuzione forzata per una parte della somma portata dal titolo.

L’atto col quale si inizia l’esecuzione forzata è il pignoramento: con lo stesso viene indicato il credito per cui si procede e vincolato il bene sottoposto a pignoramento alla soddisfazione di tale credito, nelle forme del processo esecutivo.

Lo stesso creditore procedente, se intende far valere nella medesima esecuzione anche crediti diversi da quello di cui al precetto e al pignoramento, deve intervenire per i crediti per i quali non aveva agito.

Quanto alle conseguenze di ciò, in relazione all’ordinanza di conversione del pignoramento, è noto che il debitore debba depositare la somma di un quinto “dell’importo del credito per cui è stato eseguito il pignoramento e dei crediti dei creditori intervenuti indicati nei rispettivi atti di intervento, dedotti i versamenti effettuati di cui deve essere data prova documentale”.

Anche in questo caso, il riferimento è alla somma per cui è stato eseguito il pignoramento.

Tra gli interpreti si discute circa l’ampiezza del sindacato riconosciuto al GE in sede di ordinanza di conversione: in ogni caso, tuttavia, la legge non conferisce al giudice il potere di prescindere dall’azione esecutiva esercitata, o di ampliarla anche a quanto fino ad allora non richiesto in executivis dal creditore.

Quanto, poi, al principio invocato dalla parte procedente di prevalenza del titolo sul precetto, occorre rilevare che nella pronuncia citata dalla parte opponente (cass. sez 3, n. 4046 del 19/2/2009) la SC ha chiaramente affermato che “secondo il consolidato orientamento di questa S.C., l’ordinanza con la quale il giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 495 c.p.c., in sede di conversione del pignoramento, determina la somma di denaro da versare in sostituzione delle cose pignorate, non esplica alcuna funzione risolutiva delle contestazioni sulla sussistenza e sull’ammontare dei singoli crediti o sulla sussistenza dei diritti di prelazione, ne’ ha contenuto decisorio rispetto al diritto di agire in executivis (ex plurimis Cass. civ. sez. 3^, 9 agosto 2007, n. 17481). Invero l’elemento peculiare dell’istituto della conversione è rappresentato dalla sostituzione dell’oggetto del pignoramento (cose mobili, immobili o crediti) con una somma di danaro, corrispondente all’importo dovuto al creditore pignorante e ai creditori intervenuti, comprensivo del capitale, interessi e spese. E per fare ciò il giudice dell’esecuzione, con l’ordinanza di cui all’art. 495 c.p.c., deve procedere ad una valutazione sommaria delle pretese del creditore pignorante e dei creditori intervenuti, nonché delle spese già anticipate e da anticipare, indipendentemente dalle contestazioni circa la sussistenza e l’ammontare dei singoli crediti e la sussistenza dei diritti di prelazione (ex plurimis Cass. civ., Sez. 3, 03/09/2007, n. 18538). Il provvedimento così assunto costituisce un tipico atto esecutivo, che, in quanto tale, è suscettibile di opposizione, da inquadrare negli schemi dell’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., perché con essa si contesta il quomodo del processo esecutivo e, cioè, che la determinazione della somma in concreto effettuata dal giudice dell’esecuzione sia conforme ai criteri desumibili dall’art. 495 c.p.c., (Cass. civ. sez. 3^, 2 ottobre 2001, n. 12197), ferma restando, anche in tal fase, la possibilità per il debitore esecutato di contestare l’an o il quantum dell’azione esecutiva chiedendo, con l’opposizione all’esecuzione, l’accertamento dell’inesistenza del credito ovvero che lo stesso sia inferiore a quanto dovuto (Cass. civ., Sez. 3^, 3 settembre 2007, n. 18538)”. Non pare affatto che da questi principi si possa invece, dedurre che, anche per un credito per il quale il procedente non ha proceduto, il GE debba riconoscere la debenza, se risulta dal titolo.

Nel caso di specie, si deve rilevare che il creditore ha notificato un atto di precetto in cui ha intimato il pagamento delle seguenti somme:

“capitale residuo (comprensivo di interessi calcolati al 31.08.2016) relativamente all’esposizione debitoria nascente dal conto nr. (…)” Euro __

– “capitale residuo (comprensivo di interessi calcolati al 31.08.2016) relativamente all’esposizione debitoria nascente dal fin. Chirografario n. __ Euro __

E così complessivamente Euro __, oltre agli interessi legali sul solo capitale maturati successivamente al __ e fino al saldo.”

Correttamente, quindi, il GE, nella fase sommaria dell’opposizione, dapprima con decreto del __ e poi con l’ordinanza del __, ha statuito:

“che, infatti, il credito precisato dal creditore in sede di conversione, sebbene appaia calcolato in conformità al titolo esecutivo di natura giudiziale, non appare tuttavia conforme al precetto notificato il __, sul quale si fonda la procedura esecutiva emarginata;

che, in particolare, in precetto la somma di cui viene intimato il pagamento, per capitale ed interessi, comprende, per espressa scelta del creditore, anche gli interessi calcolati fino al __, per un importo complessivo di Euro __;

che, sebbene alla data del __, la somma complessivamente dovuta – in base al titolo azionato – per capitale ed interessi, pur detraendo le somme versate nelle more dai debitori ed imputando i pagamenti ai sensi degli artt. 1193 c.c. e 1194 c.c., appaia superiore alla somma di cui viene effettivamente intimato il pagamento in precetto, allo stato degli atti – ai fini della procedura esecutiva introdotta in forza del suddetto precetto – gli interessi maturati fino alla data del __ dovrebbero essere calcolati nei limiti di quanto specificato in precetto;

che, invece, il credito per interessi, per il periodo anteriore al __, ai fini della conversione è stato precisato dalla società procedente operando evidentemente un ricalcolo di quanto già richiesto e precisato in precetto, che ha comportato una maggiorazione del credito ivi originariamente indicato, maggiorazione che tuttavia, benché apparentemente conforme al titolo, non può essere ammessa alla conversione;

che è altresì vero che, come dedotto in opposizione dall’esecutato, in sede esecutiva il debitore può far valere circostanze che, secondo le previsioni del D.P.R. n. 633 del 1972, possano escludere, nei singoli casi, la concreta rivalsa o, comunque, l’esigibilità dell’I.V.A. nei confronti del creditore, con il conseguente venir meno del diritto di questo di chiederne la rifusione;

che il debitore fa valere per la prima volta in opposizione l’inesigibilità del rimborso dell’IVA nei propri confronti, in ragione della qualità soggettiva della società procedente, per la quale l’IVA non costituirebbe in concreto un costo effettivo;

che, allo stato degli atti, la qualità di imprenditore commerciale della società procedente rende plausibile che essa possa effettivamente portare in detrazione l’IVA pagata al proprio difensore, nell’ambito dell’esercizio dell’attività tipica di impresa, senza che tale importo le rimanga definitivamente a carico come costo;

che la sospensione parziale del provvedimento opposto, per la parte che eccede il credito ricalcolato sulla scorta dei principi che precedono, non comporterebbe grave ed irreparabile pregiudizio per il procedente, che gode comunque della garanzia del bene pignorato;

che pertanto il credito ammesso alla conversione può essere prudenzialmente e provvisoriamente ridotto, per capitale ed interessi fino all’udienza di conversione, da Euro ___ ad Euro ___ (con riduzione del __% circa), come calcolato nella nota prodotta da parte opponente, a firma __;

che le spese legali fino al precetto, comprese quelle di iscrizione ipotecaria, possono essere provvisoriamente e prudenzialmente rideterminate, con esclusione del rimborso IVA, in Euro __;

che le spese legali per la procedura esecutiva possono essere provvisoriamente e prudenzialmente rideterminate, con esclusione del rimborso IVA, in Euro __;

che, ai fini della rateizzazione, a tale importo va detratta la somma di Euro __, già versata al momento del deposito del ricorso;

che gli interessi a scalare, maturandi durante il periodo di rateizzazione, già calcolati in Euro __, possono essere provvisoriamente e prudenzialmente ridotti nella misura forfetaria del _%, e così rideterminati in Euro __;

che, pertanto, alla data del __, la somma residua da versare, comprensiva di interessi a scalare, come sopra forfetizzati, può essere provvisoriamente e prudenzialmente rideterminata in Euro __;

che conseguentemente la rata mensile può essere provvisoriamente e prudenzialmente ridotta fino ad Euro __;”

con valutazioni che sono del tutto condivisibili e vengono qui condivise. Come sopra chiarito, ciò ovviamente non comporta alcuna statuizione sulla debenza da parte dei debitori anche delle ulteriori somme portate dal titolo, che risulta tuttavia allo stato azionato solo in parte da F. S.R.L.

La prima doglianza della parte debitrice contro l’ordinanza del __ deve, quindi, essere accolta: la somma per capitale residuo comprensivo di interessi deve essere considerata solo limitatamente alla somma di cui a precetto e quindi è corretta l’ordinanza del GE come da ultimo decisa in data __ e la domanda di parte F.S. S.R.L., volta a difendere la validità della prima ordinanza, è infondata. Questo comporta che l’ordinanza del __ debba essere modificata nei termini di cui all’ordinanza del __ ed in particolare ridotto il capitale ed interessi indicati in Euro __ a Euro __.

Ugualmente, come peraltro pacificamente riconosciuto dalla parte creditrice, doveva escludersi l’esigibilità del rimborso iva, inizialmente richiesta dalla creditrice, trattandosi di un mero errore e il creditore ha provveduto a rinunciare a tale voce.

Con un ulteriore rilievo, la parte creditrice ritiene errata la nuova versione dell’ordinanza del GE, in quanto non si sarebbero dovuti anche ricalcolare gli interessi successivi, riducendoli della stessa misura di cui veniva ridotto il capitale.

Si tratta di rilievo che non può essere accolto. È, difatti, evidente che gli accessori maturati successivamente alla data del __ dovevano essere ricalcolati, tenendo conto che la somma dovuta fino a quella data era stata ridotta.

Ovviamente, per la stessa natura dell’ordinanza di conversione, essa non esplica alcuna funzione risolutiva delle contestazioni sulla sussistenza e sull’ammontare dei crediti, né ha un contenuto decisorio rispetto al diritto di agire in executivis (Cass. Sez. 3, n. 4046 del 19 febbraio 2009): con essa si determina l’importo pecuniario da sostituire ai beni pignorati.

Il credito per cui si procede deve, quindi, essere determinato come nell’ordinanza ed in particolare:

– il capitale deve essere ridotto, da Euro __ ad Euro __ (con riduzione del _% circa), come calcolato nella nota prodotta da parte opponente, a firma __;

– le spese legali fino al precetto, comprese quelle di iscrizione ipotecaria, possono essere provvisoriamente e prudenzialmente rideterminate, con esclusione del rimborso IVA, in Euro __;

– le spese legali per la procedura esecutiva possono essere provvisoriamente e prudenzialmente rideterminate, con esclusione del rimborso IVA, in Euro __;

– ai fini della rateizzazione, a tale importo va detratta la somma di Euro __, già versata al momento del deposito del ricorso;

– gli interessi a scalare, maturandi durante il periodo di rateizzazione, già calcolati in Euro __, possono essere provvisoriamente e prudenzialmente ridotti nella misura forfetaria del _%, e così rideterminati in Euro __;

– pertanto, alla data del __, la somma residua da versare, comprensiva di interessi a scalare, come sopra forfetizzati, poteva essere provvisoriamente e prudenzialmente rideterminata in Euro __;

– conseguentemente la rata mensile doveva essere provvisoriamente e prudenzialmente ridotta fino ad Euro __.

Un ultimo rilievo riguarda le spese di lite che il GE ha liquidato in Euro __ oltre accessori per la fase introdotta dinanzi al medesimo.

L’attrice lamenta l’eccessività di tale liquidazione. Tuttavia, si tratta di una liquidazione di poco superiore ai minimi, pur considerando quale valore della causa il valore indicato dalla parte F.S. S.R.L., pari ad Euro __ e i parametri per le cause del Contenzioso.

Difatti il totale per le tre voci dello studio, introduttiva e decisione liquidata ai minimi ammonterebbe a Euro __, mentre una liquidazione al mediano, che, quanto meno per la fase di studio sarebbe del tutto giustificata, porterebbe ad un risultato di Euro __, superiore a quanto liquidato. Appare, quindi, del tutto condivisibile la liquidazione.

Venendo alle spese di lite, anche in questo caso può prendersi come riferimento il medesimo scaglione. Le fasi introduttiva e di studio possono considerarsi al minimo, attesa l’evidente constatazione che le argomentazioni fossero già state sviluppate nella fase precedente; la fase decisionale, invece, deve essere liquidata al mediano, atteso lo sviluppo delle difese ed il loro pregio con la fase della trattazione svolta per iscritto.

Il compenso viene quindi liquidato in Euro __ oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Definitivamente pronunciando

Respinge ogni domanda di F. S.R.L. e, in accoglimento della opposizione agli atti esecutivi proposta da A. e P. in data __, dichiara che l’ordinanza resa, nell’ambito del procedimento n. __, in data __ è parzialmente illegittima e deve essere modificata come indicato nell’ordinanza del __ che qui viene confermata integralmente.

Condanna F.S. S.R.L. a rifondere ad A. e P. le spese di lite della presente fase di merito che liquida in Euro 4151 per compenso, oltre spese generali, iva e cpa.

Così deciso in Genova, il 11 febbraio 2019.

Depositata in Cancelleria il 13 febbraio 2019.

Tribunale_Genova_Sez_VII_Sent_13_02_2019

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A seguito della pronuncia di un’ordinanza di assegnazione ex art. 553 c.p.c., che non sia stata autonomamente impugnata mediante opposizione agli atti esecutivi, persiste in capo all’esecutato l’interesse alla decisione sul merito dell’opposizione all’esecuzione precedentemente proposta

A seguito della pronuncia di un’ordinanza di assegnazione ex art. 553 c.p.c., che non sia stata autonomamente impugnata mediante opposizione agli atti esecutivi, persiste in capo all’esecutato l’interesse alla decisione sul merito dell’opposizione all’esecuzione precedentemente proposta

Cassazione Civile, Sezione III, Ordinanza n. 4528 del 15/02/2019

Con ordinanza del 15 marzo 2019, la Corte di Cassazione, Sezione I Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che a seguito della pronuncia di un’ordinanza di assegnazione ex art. 553 c.p.c., che non sia stata autonomamente impugnata mediante opposizione agli atti esecutivi, persiste in capo all’esecutato l’interesse alla decisione sul merito dell’opposizione all’esecuzione precedentemente proposta, dal momento che, non venendo in questione esigenze di tutela della posizione di terzi estranei alla procedura, l’esito favorevole dell’opposizione determinerebbe l’invalidazione di tutti gli atti esecutivi precedentemente compiuti.

 

Cassazione Civile, Sezione III, Ordinanza n. 4528 del 15/02/2019

A seguito della pronuncia di un’ordinanza di assegnazione ex art. 553 c.p.c., che non sia stata autonomamente impugnata mediante opposizione agli atti esecutivi, persiste in capo all’esecutato l’interesse alla decisione sul merito dell’opposizione all’esecuzione precedentemente proposta

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

C. – ricorrente –

contro

E. S.p.A. – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal Consigliere Dott. __.

Svolgimento del processo

  1. S.p.A., in ottemperanza alla sentenza del Tribunale di Locri n. __ -confermata dalla Corte d’appello di Reggio Calabria con sentenza n. __ – che aveva condannato la società al pagamento dell’indennizzo dovuto in conseguenza della espropriazione per pubblica utilità di un terreno, provvedeva spontaneamente a versare al creditore, C., l’importo di Euro __ mediante emissione di assegni circolari, sostenendo che il minore importo versato, rispetto a quello indicato nell’atto di precetto -notificato dal C.-, era giustificato dalla corretta rideterminazione degli interessi al tasso legale applicati al debito di valore, in base ai criteri statuiti dal Giudice di legittimità, nonché allo scomputo della duplicazione delle spese legali relative al primo grado.

C., non ritenendosi soddisfatto, iniziava, quindi, il pignoramento presso terzi per ottenere l’assegnazione del maggior importo del credito indicato nell’atto di precetto. Nelle more del giudizio di opposizione ex art. 615 c.p.c., comma 2 introdotto da E. S.p.A., il GE presso il Tribunale di Catanzaro disponeva, con ordinanza del ___, a seguito di dichiarazione positiva della banca terza pignorata, l’assegnazione, in favore del creditore procedente, della somma di Euro __ oltre interessi e rivalutazione monetaria dalla notifica del precetto al soddisfo, nonostante il precedente pagamento parziale eseguito da E. S.p.A. con la emissione degli assegni nelle more riscossi dal C., sicché la società proponeva opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. senza però coltivare poi il giudizio di merito, avendo il GE rigettato la istanza di sospensione della esecuzione.

All’esito del giudizio di opposizione ex art. 615 c.p.c., comma 2, con sentenza del Tribunale di Catanzaro in data ___, passata in giudicato (in seguito a declaratoria di inammissibilità dell’appello ex art. 616 c.p.c., pronunciata dalla Corte di appello di Catanzaro con sentenza in data __), veniva accertato che il credito per indennizzo espropriativo riconosciuto al C., comprensivo di interessi e rivalutazione, non corrispondeva a quello indicato nell’atto di precetto ma al minore importo di Euro __ (corrispondente alla somma versata spontaneamente da E. S.p.A. mediante emissione degli assegni circolari).

Pertanto, sul presupposto dell’indebito doppio pagamento della somma pagata spontaneamente con gli assegni emessi il __ e della somma determinata, peraltro, nel maggior importo- assegnata dal GE con la ordinanza del ___, E. S.p.A., con ricorso ex art. 702 bis c.p.c., esperiva azione di ripetizione dell’indebito per l’importo di Euro __, e la domanda veniva accolta, in esito a procedimento sommario ex art. 702 ter c.p.c., dal Tribunale di Locri, con ordinanza in data __.

La Corte d’appello di Reggio Calabria, investita dalla impugnazione proposta dal C., con sentenza in data __, ha accolto parzialmente l’appello, rilevando che: a) l’azione di ripetizione aveva ad oggetto la somma spontaneamente pagata, e dunque non rimetteva in discussione la somma -di maggiore importo- assegnata al creditore procedente con l’ordinanza ____ del GE; b) la somma assegnata dal GE includeva anche l’importo già versato spontaneamente da E. S.p.A., come era dato evincere dal tenore stesso della ordinanza ___, nonché dall’assenza di qualsiasi altro riscontro documentale e giudiziale idoneo a comprovare che l’importo del credito del C. ammontasse ad Euro __ (pari alla sommatoria del pagamento spontaneo e di quello effettuato in base alla ordinanza GE); c) il giudicato formatosi sulla sentenza del Tribunale di Catanzaro n. __ comprendeva tanto l’importo per capitale quanto quello per accessori e dunque era perfettamente sovrapponibile alla maggiore somma liquidata dal GE; d) fondata era, pertanto, la pretesa restitutoria di E. S.p.A. della somma di Euro __ sulla quale -diversamente da quanto disposto dal Giudice di prime cure- non doveva essere applicata la rivalutazione monetaria, trattandosi di debito di valuta e non essendo stata fornita prova del maggior danno, mentre gli interessi, in assenza di prova di mala fede dell’accipiens, dovevano essere fatti decorrere ex art. 2033 c.c. dalla data della domanda di restituzione e non, come disposto dal Tribunale, dalla data dell’incasso.

Ricorre per cassazione avverso tale sentenza non notificata C. deducendo tre motivi, illustrati da memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 1.

Resiste con controricorso E. S.p.A.

Motivi della decisione

La tesi difensiva sostenuta dal ricorrente ruota intorno all’argomento per cui il pagamento spontaneo effettuato da E. S.p.A. a mezzo di due assegni circolari, emessi in data __ ed incassati dal prenditore il __ (come emerge dalla sentenza appello in motivazione, pag. 3 e 4), avrebbe “estinto” il credito per l’importo parziale (accettato in acconto da C. il quale poi ha iniziato il pignoramento presso terzi per conseguire il residuo maggiore importo indicato nell’atto di precetto), sicché l’indebito non doveva esser riferito a tale primo pagamento (che era dovuto in base al giudicato di condanna), ma piuttosto alla successiva assegnazione della somma disposta con l’ordinanza del GE, con la conseguenza che, non essendo stata tale ordinanza ritualmente opposta ex art. 617 c.p.c. o revocata, doveva ritenersi divenuta definitiva l’attribuzione al creditore “anche” della somma assegnata all’esito della procedura esecutiva.

In sostanza, secondo il ricorrente, il “primo” pagamento era comunque da considerare dovuto, in quanto atto di adempimento (parziale, rispetto al quantum indicato nell’atto di precetto) della obbligazione pecuniaria; il “secondo” pagamento -del medesimo debito- effettuato dal debitor debitoris, in virtù della ordinanza di assegnazione del GE, pur concernendo una obbligazione già estinta -in considerazione del precedente pagamento parziale, sarebbe da ritenere anch’esso dovuto attesa l’intangibilità del provvedimento di assegnazione, con la conseguenza che il creditore vedrebbe riconosciuto dall’ordinamento giuridico il diritto a pretendere dal debitore un doppio adempimento della medesima obbligazione.

Su tali premesse il ricorrente fonda la prima e la terza censura mosse alla sentenza di appello che per la loro stretta connessione vanno esaminate congiuntamente.

Con il primo motivo (violazione art. 2033 e 1194 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) deduce che il giudizio di merito avente ad oggetto la ripetizione dell’indebito, era stato impostato da E. S.p.A e deciso dai Giudici di prime e seconde cure, in relazione al primo pagamento di Euro __ spontaneamente eseguito dalla debitrice mediante la consegna di due assegni circolari, e non al secondo pagamento relativo alla somma di Euro __ versata dal terzo pignorato in dipendenza della ordinanza di assegnazione del GE. Essendo tale primo pagamento dovuto in base al credito accertato nella sentenza di merito del Tribunale di Locri n. __, lo stesso non poteva ritenersi indebito e non poteva, pertanto, legittimare la pronuncia di condanna alla restituzione: in sostanza oggetto della ripetizione potevano essere -in ipotesi- soltanto le somme versate successivamente a seguito della ordinanza di assegnazione.

Con il terzo motivo (violazione artt. 487 e 617 c.p.c.: inammissibilità di una azione a cognizione ordinaria per emendare errori della ordinanza del GE) si contesta la possibilità, in ogni caso, di ripetere le somme che erano state versate dal terzo pignorato in ottemperanza alla ordinanza di assegnazione del GE, atteso che tale provvedimento era da ritenere ormai intangibile, non essendo stata coltivata la opposizione ex art. 617 c.p.c. – unico rimedio esperibile – proposta da E. S.p.A. L’assunto, con riferimento ai vizi di legittimità prospettati, è manifestamente capzioso, dovendo ritenersi conforme a diritto la decisione della Corte territoriale che va, tuttavia, emendata in relazione agli argomenti svolti in motivazione.

Come stabilito nella sentenza d’appello e come riferisce lo stesso ricorrente, il pagamento spontaneo si qualificava come dovuto “in relazione al tempo in cui lo stesso è stato eseguito”, circostanza questa che implica e non esclude, pertanto, la evenienza, sia di una indebita duplicazione del pagamento per il medesimo titolo (già estinto), che legittima la restituzione della somma pagata sine causa; sia che l’unico pagamento possa risultare successivamente indebito per un sopravvenuto difetto della causa che lo giustificava, consentendo quindi al solvens di agire per la ripetizione dell’indebito ob causam finitam.

Fatti costitutivi dell’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo, dei quali è onerata della prova la parte che esperisce l’azione ex art. 2033 c.c., sono unicamente:

  1. a) l’eseguito pagamento di una somma di denaro (o la consegna di una cosa determinata);
  2. b) l’inesistenza (originaria o sopravvenuta) della causa solvendi.

Non assume carattere dirimente, pertanto, il riferimento -operato dal ricorrente- all’effetto estintivo del debito da riconoscere al pagamento spontaneo (parziale e ricevuto in acconto dal creditore), quale modo di estinzione della obbligazione secondo i criteri legali di imputazione dei pagamenti (art. 1194 c.c.), non essendo tale rilievo ex se decisivo ad escludere la ripetibilità della somma pagata -ove la stessa risulti comunque-indebitamente corrisposta per difetto di titolo causale.

Il ricorrente osserva al proposito che, nella specie, non era data ravvisare una nullità od una inesistenza della originaria causa solvendi, che doveva essere rinvenuta nell’accertamento giudiziale del credito stabilito dalla sentenza di condanna del Tribunale di Locri n. __ passata in giudicato: da ciò trae la conseguenza che il pagamento spontaneo effettuato il __, integrando (parziale: rispetto alla somma indicata nel precetto) adempimento della obbligazione era da ritenere dovuto, avendo estinto per la quota parte il diritto di credito, difettando pertanto i presupposti della condictio indebiti di detto pagamento al quale, invece, i Giudici di merito avevano inteso riferire la domanda restitutoria ex art. 2033 c.c., proposta con il ricorso ex art. 702 bis c.p.c., ritenuta in tal modo compatibile con il principio di intangibilità del provvedimento di assegnazione del GE, cui era seguito il pagamento da parte del terzo pignorato, in quanto non veniva intaccato il surplus riconosciuto dal Giudice dell’esecuzione, e negato, invece, dalla successiva sentenza n. __ del Tribunale di Catanzaro.

Osserva il Collegio che la Corte distrettuale, adita con domanda di ripetizione dell’indebito, ha inteso definire l’oggetto del giudizio individuando i fatti costitutivi oggetto di allegazione e prova in relazione: a) alla sentenza n. __ passata in giudicato del Tribunale di Catanzaro con la quale era stato deciso, favorevolmente alla opponente E. S.p.A., il giudizio ex art. 615 c.p.c., comma 2; b) alla accertata duplicità del pagamento del medesimo debito (sent. appello, pag. 6), ritenendo quindi fondata “sulle conseguenze dell’accertamento contenuto” nel predetto giudicato -e non invece sulla ordinanza di assegnazione del GE- la domanda restitutoria dell’importo di Euro __ corrispondente a quello del primo pagamento, in tal modo intendendo superare la obiezione dell’appellante secondo cui la domanda di ripetizione avrebbe violato il principio di irrevocabilità dell’atto esecutivo ex art. 553 c.p.c., principio peraltro ritenuto dallo stesso Giudice di appello non immanente all’ordinamento (sent. appello, pag. 7).

Orbene è certamente corretta l’affermazione del ricorrente laddove individua esclusivamente nel titolo giudiziale di condanna (sentenza Tribunale Locri n. __), attributivo del diritto di credito, la unica ed esclusiva causa solvendi dei pagamenti.

Non è altresì dubitabile che, né la sentenza del Tribunale di Catanzaro n. __ -passata in giudicato: allegata a doc _ del fascicolo del ricorrente- che aveva definito l’opposizione alla esecuzione ex art. 615 c.p.c., comma 2 precisando l’esatto ammontare del quantum dovuto per accessori (in relazione al corretto criterio di liquidazione da applicare al credito per interessi e rivalutazione monetaria riconosciuto dalla sentenza del Tribunale di Locri), né la ordinanza del Giudice della esecuzione, in data __, di assegnazione delle somme pignorate presso terzi (in relazione all’importo del credito esposto dal creditore-procedente nell’atto di pignoramento), valgano ad individuare una nuova ed autonoma causa debendi idonea a giustificare il pagamento della medesima somma già spontaneamente versata, atteso che l’elemento causale del debito va riferito al rapporto obbligatorio di diritto sostanziale che intercorre tra creditore e debitore, come accertato definitivamente in giudizio, e non a ciascun titolo esecutivo che può essere eventualmente formato in relazione al medesimo diritto sostanziale, tale non potendo, peraltro, neppure essere qualificata la ordinanza di assegnazione ex art. 553 c.p.c. rispetto al debitore esecutato (diversamente, nei confronti del terzo pignorato, il provvedimento del GE, va invece considerato titolo legittimante la esecuzione: cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 3976 del 18/03/2003; id. Sez. 6 – 3, Sentenza n. 11493 del 03/06/2015).

Ne segue che il pagamento spontaneo eseguito dal debitore E. S.p.A. trova la propria causa solvendi nella sentenza di condanna del Tribunale di Locri n. __ e deve considerarsi esatto adempimento della relativa obbligazione pecuniaria, avuto riguardo all’accertamento del quantum compiuto dalla sentenza emessa dal Tribunale di Catanzaro all’esito del giudizio ex art. 615 c.p.c., chiamata ad interpretare il dictum del giudicato di condanna, chiarendo i criteri che dovevano essere applicati per la liquidazione degli interessi e la rivalutazione monetaria.

Tale causa solvendi non è stata intaccata in alcun modo dallo svolgimento della procedura esecutiva, né dalla emissione dell’ordine di assegnazione del GE che, anzi, è stato adottato proprio sul presupposto della perdurante esistenza del diritto di credito accertato nella sentenza di condanna n. __ azionata come titolo esecutivo.

Non appare dunque corretto, né dirimente, l’argomento svolto dal Giudice territoriale per cui la domanda di ripetizione verrebbe a fondarsi sulle conseguenze prodotte dalla sentenza resa nel giudizio ex art. 615 c.p.c., rispetto al pagamento spontaneo della somma eseguito da E. S.p.A. nel __, non venendo ad essere esplicate nella motivazione della sentenza di appello le ragioni per cui il giudicato sulla opposizione alla esecuzione renderebbe, con effetto ex tunc (quale implicita conseguenza), sine causa il primo pagamento, legittimando l’actio condictio indebiti.

Tale incoerenza motivazionale non inficia, tuttavia, in modo irrimediabile la sentenza impugnata, laddove si tenga in considerazione che oggetto del giudizio introdotto con il ricorso ex art. 702 bis c.p.c da E. S.p.A., era la domanda di ripetizione dell’importo di Euro __ in quanto doppiamente pagato, sul presupposto che, indipendentemente dalla individuazione della prestazione ritenuta idonea ad estinguere la obbligazione avente titolo nel giudicato di condanna, non poteva poi darsi alcun altra giustificazione -fondata sull’eadem causa obligandi della reiterazione del pagamento della medesima somma: sicché la indagine relativa all’accertamento del diritto alla restituzione vantato da E. S.p.A., non può ritenersi circoscritta -come sembra ipotizzare il ricorrente, nel motivo di ricorso per cassazione in esame- esclusivamente al carattere indebito del primo pagamento spontaneamente eseguito dalla società debitrice, ma comprende anche il secondo pagamento (seguito alla ordinanza di assegnazione del Giudice della esecuzione), come peraltro emerge dalla stessa sentenza impugnata laddove la Corte distrettuale argomenta che la restituzione non potrebbe ritenersi preclusa neppure dal provvedimento di chiusura del processo esecutivo, non potendo riconoscersi allo stesso la efficacia propria del giudicato, con ciò venendo ad esaminare il Giudice di secondo grado il primo motivo di gravame dell’appello proposto da C. con il quale si contestava la ricostruzione dei fatti compiuta dal primo giudice, sostenendosi che E. S.p.A. aveva agito in ripetizione, non della somma spontaneamente pagata il __ (essendo tale pagamento dovuto), ma per il recupero della somma pagata successivamente a seguito della ordinanza del __ emessa dal Giudice delle esecuzione, ripetizione non consentita dalla definitività, irrevocabilità ed intangibilità della ordinanza di assegnazione.

In relazione, pertanto, anche a tale secondo pagamento, va verificata la tenuta della sentenza impugnata che ha accolto la domanda di ripetizione dell’indebito, costituendo, infatti, principio consolidato l’affermazione secondo cui, salve le preclusioni del giudicato interno, il Giudice di merito ed anche quello di legittimità non incontrano ostacoli nella qualificazione e riqualificazione giuridica della fattispecie concreta dedotta in giudizio, avendo essi il potere-dovere di inquadrare nell’esatta disciplina giuridica gli atti e i fatti che formano oggetto della controversia, con l’unico limite in cui, per pervenire alla nuova qualificazione, debbano prendere in esame fatti nuovi e non dedotti dalle parti, né rilevati dal giudice di merito nei precedenti gradi di giudizio precedente grado (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 19090 del 11/09/2007; Sez. 2, Sentenza n. 20730 del 30/07/2008; Sez. 3, Sentenza n. 15383 del 28/06/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 10617 del 26/06/2012; id. Sez. 3, Sentenza n. 15223 del 03/07/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 11805 del 09/06/2016): tale potere di riqualificazione giuridica dei fatti, che è connaturale allo stesso esercizio del potere giurisdizionale che impone al Giudice di individuare la regula juris applicabile al rapporto controverso, è espressamente riconosciuto alla Corte di cassazione dall’art. 384 c.p.c., comma 4.

Tanto premesso, osserva il Collegio che la questione di quale fosse il pagamento ripetibile individuato nella domanda di ripetizione di E. S.p.A. (quello spontaneamente eseguito ovvero quello coattivamente disposto a seguito di assegnazione della somma dichiarata dovuta dal debitor debitoris), risulta priva di rilevanza ai fini dell’accertamento del diritto alla ripetizione dell’indebito, atteso che, essendo unica la causa debendi cristallizzata nel diritto di credito accertato con efficacia di giudicato nella sentenza del Tribunale di Locri, ogni ulteriore e distinto pagamento diretto a soddisfare quel medesimo credito già estinto, non trova più alcuna giustificazione causale, sicché, fermi i fatti storici allegati dalle parti ed immutato il petitum (relativo alla ripetizione della somma di Euro __), la domanda ex art. 2033 c.c., in quanto fondata sul fatto costituivo della duplicazione del medesimo pagamento, non esclude -come sopra evidenziato- la verifica dei presupposti dell’indebito con riferimento anche alla somma -per l’identico importo-nuovamente corrisposta per il medesimo titolo in seguito alla ordinanza di assegnazione del GE la quale, se legittima il trasferimento coattivo a favore del creditore pignorante della somma pari all’intero ammontare del credito anche per accessori (importo calcolato in eccesso nell’atto di precetto e di pignoramento presso terzi) in essa cristallizzato, non può ritenersi, tuttavia, immune dalla efficacia dell’accertamento dell’inesistenza del diritto ad agire in executivis per il diverso (maggiore) importo del credito oggetto del pignoramento presso terzi, contenuto nella sentenza n. __ passata in giudicato del Giudice della opposizione ex art. 615 c.p.c.

Il ricorrente contesta, in ogni caso, anche la ripetibilità del secondo pagamento, facendo perno sulla irrevocabilità ed intangibilità della ordinanza di assegnazione del Giudice della esecuzione -avverso la quale E. S.p.A. non aveva proposto istanza di revoca ex art. 487 c.p.c., comma 1, e non aveva coltivato la opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. -, richiamando i precedenti di questa Corte secondo cui “In tema di esecuzione forzata, il provvedimento che chiude il procedimento esecutivo, pur non avendo, per la mancanza di contenuto decisorio, efficacia di giudicato, è, tuttavia, caratterizzato da una definitività insita nella chiusura di un procedimento esplicato col rispetto delle forme atte a salvaguardare gli interessi delle parti, incompatibile con qualsiasi sua revocabilità, sussistendo un sistema di garanzie di legalità per la soluzione di eventuali contrasti, all’interno del processo esecutivo. Ne consegue che il soggetto espropriato non può esperire, dopo la chiusura del procedimento di esecuzione forzata, l’azione di ripetizione di indebito contro il creditore procedente (o intervenuto) per ottenere la restituzione di quanto costui abbia riscosso, sul presupposto dell’illegittimità per motivi sostanziali dell’esecuzione forzata.” (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 17371 del 18/08/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 3712 del 25/02/2016; id. Sez. 3, Ordinanza n. 6024 del 13/3/2018, non massimata).

Il richiamo giurisprudenziale operato dal ricorrente non appare, tuttavia, pertinente sotto un duplice profilo.

Nelle controversie esaminate nei precedenti giurisprudenziali indicati:

  1. a) la contestazione del diritto a procedere ad esecuzione forzata proposta dal debitore esecutato o dal terzo pignorato atteneva a fatti verificatisi anteriormente al pignoramento od alla ordinanza di assegnazione (pagamenti parziali pregressi; errata rilevazione del contenuto della dichiarazione resa dal terzo);
  2. b) l’effetto preclusivo della proposizione della domanda di ripetizione dell’indebito era specificamente da ricollegarsi al mancato esperimento degli altri rimedi preventivi (rispetto alla adozione della ordinanza di assegnazione) apprestati dall’ordinamento e volti a contestare il diritto a procedere alla esecuzione.

Diversamente, nel caso di specie, l’efficacia preclusiva -relativa all’accertamento del credito- dell’ordinanza di assegnazione, in quanto non idoneamente opposta ex art. 617 c.p.c., non risponde alle predette condizioni, dovendo, invece, confrontarsi con la tempestiva proposizione, da parte del debitore E. S.p.A., della opposizione alla esecuzione successiva ex art. 615 c.p.c., comma 2, con la quale è stato espressamente contestato il diritto del creditore di procedere alla esecuzione per l’intero importo intimato, sull’assunto della errata applicazione del criterio di liquidazione degli interessi e della rivalutazione monetaria come ricavabile dai dicta della sentenza di condanna del Tribunale di Locri n. __.

Il principio di autonomia del processo esecutivo rispetto ai giudizi ordinari di cognizione di opposizione alla esecuzione (preventiva e successiva: art. 615 c.p.c., commi 1 e 2), che in assenza del rimedio sospensivo, rende indifferente la prosecuzione del primo alle vicende processuali dei secondi, trova, infatti, limite nella affermazione, comune in dottrina e giurisprudenza, per cui l’eventuale accoglimento -con sentenza passata in giudicato- della opposizione alla esecuzione, venendo a negare il diritto del creditore procedente ad iniziare o proseguire il processo esecutivo, determina l’invalidazione degli atti esecutivi precedentemente compiuti (e comunque determina la improcedibilità della esecuzione forzata), in ogni caso fatti salvi gli effetti giuridici prodotti a vantaggio dell’acquirente o dell’assegnatario di buona fede, qualora la pronuncia favorevole all’opponente intervenga successivamente alla emissione della ordinanza di aggiudicazione o di assegnazione (art. 2929 c.c.; art. 187 bis disp. att. c.p.c.; art. 632, comma 2, c.p.c.).

L’indicato discrimine cronologico previsto in ordine agli effetti invalidanti della procedura esecutiva determinati dalla pronuncia di accoglimento, costituito dall’anteriorità della ordinanza di aggiudicazione o di assegnazione -che la rende immune- rispetto alla -successiva- pubblicazione ed al passaggio in giudicato della sentenza favorevole all’opponente, non determina, tuttavia, nei giudizi di opposizione esecutiva, né la -sopravvenuta- improponibilità della opposizione (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 7993 del 01/10/1994), né la cessazione della materia del contendere, per difetto di interesse alla pronuncia sul merito, ove la contestazione attenga all’esistenza del titolo esecutivo o del credito (relativamente all’an od al quantum), permanendo anche in tal caso l’interesse dell’opponente alla decisione per così dire postuma (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 23084 del 16/11/2005; id. Sez. 3, Sentenza n. 4498 del 24/02/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 6546 del 22/03/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 1353 del 31/01/2012; id. Sez. 3, Sentenza n. 15761 del 10/07/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 18350 del 27/08/2014, secondo cui “persiste la materia del contendere e l’interesse alla decisione sul merito in capo all’esecutato opponente in un’opposizione ad espropriazione presso terzi per ragioni di quantificazione del credito di controparte quando, successivamente all’opposizione e nonostante il suo dispiegamento, sia stata pronunziata ordinanza di assegnazione ai sensi dell’art. 553 c.p.c., anche ove quest’ultima non sia stata autonomamente impugnata.”; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 20924 del 07/09/2017). Al riguardo è stato, infatti, puntualmente rilevato come “uno sviluppo eventualmente favorevole all’opponente non potrebbe che proiettare l’effetto della nullità originaria del precetto su tutti gli atti esecutivi, nella parte in cui essi riconoscessero in modo illegittimo un’entità del credito diversa, perché maggiore, rispetto a quella realmente dovuta: ma allora la naturale propagabilità del vizio espressione del principio generale di cui all’art. 159 cod. proc. civ. – elide qualsiasi onere, per l’opponente e per lo stesso vizio originario di eccessività del preteso, di impugnare altresì tutti gli – e ciascuno degli – atti del processo esecutivo successivi al dispiegamento dell’opposizione all’esecuzione in pendenza del processo stesso Allo stesso modo, del resto, la pronunzia sul merito che intervenisse nell’opposizione ad esecuzione già dispiegata, ove rivedesse “in minus” il credito anche come accertato dal giudice dell’esecuzione nello sviluppo del processo esecutivo nelle more concluso, travolgerebbe gli atti di questo nella parte in cui dovessero rilevarsi illegittimi relativamente alla parte di credito erroneamente riconosciuta, senza alcuna necessità di una previa separata o autonoma impugnazione di ciascuno di quelli” (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 18350 del 27/08/2014, in motivazione).

L’apparente antinomia degli indicati principi di diritto con la norma di chiusura dell’art. 2929 c.c. va ricomposta, non soltanto alla stregua della impostazione tradizionale fondata sul criterio ermeneutico letterale (art. 12 preleggi) volto a circoscrivere la portata precettiva della norma ai soli vizi di nullità formale dei singoli atti della procedura esecutiva (rimanendo, in conseguenza, esclusa la diversa ipotesi di contestazione ab imis della inesistenza del diritto a procedere in executivis ovvero di vizi di nullità del titolo esecutivo), ma anche e soprattutto con riguardo alla esigenza di operare un differente bilanciamento degli interessi in conflitto (l’interesse del debitore a non subire una espropriazione ingiusta; l’interesse dell’aggiudicatario o assegnatario a confidare nella validità del titolo di acquisto) da compiersi in relazione alla diversa posizione soggettiva rivestita dall’aggiudicatario od assegnatario, secondo che si tratti dello stesso creditore procedente, parte necessaria del giudizio di opposizione ex art. 615 c.p.c., o invece, di soggetto terzo che in buona fede ha fatto affidamento sulla regolarità dello svolgimento della procedura esecutiva in esito alla quale ha perfezionato il proprio acquisto e che -in quanto terzo- rimane del tutto estraneo ai rapporti tra creditore esecutante e debitore esecutato e non può, pertanto, essere pregiudicato dagli effetti della sentenza emessa nel giudizio di opposizione esecutiva ex art. 615 c.p.c. del quale non è stato parte, né può essere ritenuto parte necessaria.

Il principio di diritto secondo cui “il sopravvenuto accertamento dell’inesistenza di un titolo idoneo a giustificare l’esercizio dell’azione esecutiva non fa venir meno l’acquisto dell’immobile pignorato, che sia stato compiuto dal terzo nel corso della procedura espropriativa in conformità alle regole che disciplinano lo svolgimento di tale procedura, salvo che sia dimostrata la collusione del terzo col creditore procedente” (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 21110 del 28/11/2012; id. Sez. 3, Sentenza n. 18312 del 27/08/2014), trova, infatti, specificazione nella statuizione secondo cui “il creditore procedente, però, nell’ipotesi di assegnazione a suo favore, non può essere considerato terzo e, pertanto, l’accertamento dell’inesistenza del titolo esecutivo e del credito travolge in ogni caso l’assegnazione medesima disposta in suo favore” (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 1968 del 04/06/1969), in quanto “l’assegnatario, identificandosi con lo stesso creditore procedente, non assume la posizione di terzo estraneo rispetto all’illegittimo svolgimento dell’azione esecutiva, ma è responsabile, sul piano oggettivo, della non azionabililità del titolo” (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 6535 del 05/04/2016 -con riferimento alla espropriazione presso terzi-; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 20924 del 07/09/2017 secondo cui “in tema di esecuzione forzata per rilascio, la conclusione della procedura mediante il rilascio dell’immobile da parte dell’esecutato, anche se avvenuto spontaneamente, ma non in base ad un accordo tra le parti, bensì al solo scopo di evitare l’esecuzione coattiva, non determina la cessazione della materia del contendere nel giudizio di opposizione all’esecuzione pendente, il cui accoglimento, al contrario, comporta la caducazione degli atti esecutivi e fa sorgere il diritto dell’esecutato a rientrare nella disponibilità del bene del quale sia stato illegittimamente spossessato”).

Ne segue che, essendo state assegnate le somme -dovute dal terzo al debitore esecutato- in pagamento allo stesso creditore pignorante, ai sensi dell’art. 553 c.p.c., e dunque non venendo in questione nella specifica fattispecie la esigenza di tutela dell’incolpevole affidamento del terzo aggiudicatario od assegnatario nella regolarità della procedura esecutiva, non è dato scorgere limiti al recupero da parte del debitore delle somme indebitamente assegnate e riscosse dal creditore procedente che ha esercitato il diritto ad agire in executivis successivamente dichiarato (all’esito del giudizio di opposizione ex art. 615 c.p.c.) ab origine – parzialmente – inesistente, in quanto non conforme al diritto di credito come definitivamente accertato nel titolo giudiziale di condanna, difettando nella peculiare fattispecie i presupposti ai quali deve ricollegarsi la intangibilità della ordinanza di assegnazione non impugnata ai sensi dell’art. 617 c.p.c., essendo appena il caso di aggiungere che la funzione di garanzia -a favore del terzo in buona fede- cui è preordinata la irrevocabilità ed intangibilità del provvedimento di chiusura della procedura esecutiva ex art. 553 c.p.c., e che trova fondamento nella limitazione della verifica di validità alla mera corrispondenza al modello legale dei singoli atti compiuti nel corso della procedura esecutiva (venendo attribuita prevalenza alla regolarità formale della procedura, rispetto ad eventuali vizi originari o sopravvenuti di validità sostanziale -concernenti il titolo esecutivo od il diritto sostanziale- non dedotti ritualmente e tempestivamente con i previsti rimedi interni), viene necessariamente ad assumere carattere recessivo laddove tali esigenze di garanzia non si palesino, come nel caso di specie in cui non viene in questione alcuna tutela dell’affidamento del terzo di buona fede nella regolarità del perfezionamento del proprio acquisto e nella assicurazione della effettività del processo esecutivo e della irretrattabilità delle situazioni giuridiche da esso derivate, piuttosto venendo invocato lo schermo della intangibilità della ordinanza di assegnazione del G.E. per tutelare il conseguimento di un doppio pagamento per il medesimo titolo- consapevolmente e pacificamente non dovuto: il principio di irretrattabilità della ordinanza di assegnazione, al di fuori della predetta esigenza di garanzia, verrebbe a prestarsi infatti ad un utilizzo improprio dello strumento processuale volto a dare luogo ad evidenti abusi del diritto, e ad assicurare -attraverso la soddisfazione di un credito inesistente – un risultato non conforme a quello che la procedura esecutiva intende assicurare secondo diritto.

Pertanto il primo motivo, volto ad impugnare la sentenza sul presupposto della irripetibilità del primo pagamento, ed il terzo motivo, diretto ad affermare la assoluta intangibilità della ordinanza di assegnazione emessa dal Giudice della esecuzione e la conseguente irripetibilità del secondo pagamento, debbono ritenersi entrambi manifestamente infondati, previa correzione della motivazione in diritto della sentenza impugnata.

Con il secondo motivo (violazione art. 324 c.p.c., artt. 2909 e 2033 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) il ricorrente impugna la sentenza di appello, deducendo che il Giudice territoriale aveva illegittimamente ricondotto alla sentenza n. __ del Tribunale di Catanzaro, pronunciata nel giudizio ex art. 615 c.p.c., comma 2, effetti giuridici volti a privare la originaria causa debendi giustificativa del primo pagamento spontaneamente eseguito da E. S.p.A., sebbene la sentenza si fosse limitata a quantificare l’esatto importo di interessi e rivalutazione monetaria, non potendo quindi tale decisione legittimare l’azione di integrale ripetizione di una somma che era dovuta in base al titolo giudiziale.

La prima parte della censura è infondata in quanto, come già rilevato nell’esame dei precedenti motivi di ricorso, l’azione di ripetizione trova fondamento nel doppio pagamento della medesima somma (non venendo quindi in contestazione la efficacia estintiva della causa debendi del primo pagamento) e nell’accertamento contenuto nella sentenza n. __, favorevole all’opponente, che ha dichiarato parzialmente inesistente il diritto del creditore pignorante ad iniziare ed a procedere ad esecuzione forzata per una somma di complessivo importo -oggetto della ordinanza di assegnazione-maggiore e non conforme a quello di Euro __ effettivamente dovuto in base al titolo giudiziale di condanna (sentenza n. __ del Tribunale di Locri).

La Corte d’appello, peraltro, si è limitata ad affermare la ripetibilità della intera somma sul mero -e, come si è visto, insufficiente- presupposto della coincidenza dell’ammontare del credito effettivamente azionabile esecutivamente (Euro __) con l’importo spontaneamente pagato da E. S.p.A. mediante i due assegni circolari ed incassato in acconto dal creditore pignorante, erroneamente rilevando che la sentenza n. __ non interferiva con la ordinanza di assegnazione ex art. 553 c.p.c., mentre come è stato precedentemente affermato il secondo pagamento -eseguito in attuazione della ordinanza di assegnazione del Giudice della esecuzione-, non può pregiudicare, nel caso di specie, il diritto alla ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c. del debitore, pure se fondato sul successivo accertamento giudiziale della parziale inesistenza quantitativa del titolo esecutivo, non ravvisandosi alcuna ragione di tutela dell’affidamento incolpevole del terzo assegnatario, in tal modo -come in precedenza esposto nell’esame del primo e terzo motivo di ricorso- dovendo essere corretti gli argomenti in diritto svolti nella motivazione della sentenza impugnata.

Fondato è invece il motivo di ricorso in esame nella parte in cui censura le conseguenze che dal giudicato sulla opposizione alla esecuzione ex art. 615 c.p.c., comma 2, vorrebbe trarre la Corte di merito sulla ripetibilità della intera somma di Euro __.

Sostiene il ricorrente che la sentenza -passata in giudicato- del Tribunale di Catanzaro n. __ avrebbe inciso sul diritto all’azione esecutiva limitatamente alla sola eccedenza di importo per interessi e rivalutazione, ritenuta dal Giudice inesattamente calcolata dal creditore nell’atto di precetto.

Sicché, non avendo investito il dictum di tale sentenza anche la sorte capitale, quest’ultimo importo -anch’esso ricompreso nella ordinanza di assegnazione del G.E.- non potrebbe comunque essere richiesto in ripetizione da E. S.p.A. Osserva il Collegio che la sentenza n. __ -prodotta in allegato al fascicolo di parte ricorrente, ed alla quale la Corte può accedere direttamente in considerazione del tipo di vizio di legittimità denunciato- dopo aver trascritto le conclusioni rassegnate da E. S.p.A. alla udienza __ (“…accertare e dichiarare che alcuna somma ulteriore debba essere corrisposta all’avv. C. in quanto il sistema di calcolo degli interessi risulta essere correttamente applicato. Subordinatamente…..rideterminare gli interessi da corrispondere avvalendosi dell’aiuto di un CTU. Svincolare da subito la somma portata dagli assegni inviati all’interessato”), ha statuito come segue:

A-) ha dato atto che E. S.p.A. aveva messo a disposizione due assegni per il complessivo importo di Euro __;

B-) ha qualificato il ricorso proposto da E. S.p.A. come opposizione alla esecuzione ex art. 615, co2 c.p.c., in quanto diretto a contestare l’ammontare della somma ingiunta in precetto;

C-) ha accertato la correttezza della liquidazione del quantum operata da E. S.p.A., essendo conforma il calcolo degli interessi e della rivalutazione del credito di valore ai criteri stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità;

D-) ha quindi dichiarato l’esatto ammontare del credito per il quale spettava a C. l’azione esecutiva, pari ad Euro __ come risultante dal titolo giudiziale di condanna (sentenza Tribunale di Locri n. __), comprensivo di capitale, interessi e rivalutazione.

Oggetto del giudizio di opposizione non era, pertanto, l’accertamento della illegittimità dell’importo complessivo del credito fondato sul titolo esecutivo ed indicato nel precetto in Euro __ ed invece la legittimità dell’importo complessivo liquidato da E. S.p.A. in Euro __ e portato dai due assegni circolari. La questione controversa era limitata invece soltanto agli accessori dovuti sull’importo capitale del credito azionato esecutivamente. Il Tribunale non ha, infatti, emesso alcuna statuizione -in quanto ritenuta estranea all’oggetto del giudizio di opposizione- tanto in relazione all’accertamento del diritto di agire in executivis per il credito come determinato nell’importo capitale -non contestato da E. S.p.A. -, quanto in ordine all’effetto estintivo del predetto credito in conseguenza dei pagamenti spontanei eseguiti medio tempore (emergendo soltanto dalla sentenza che E. S.p.A. nel proprio atto di opposizione aveva solo premesso di aver messo a disposizione due assegni: né risulta che il Tribunale sia stato reso edotto dalle parti del successivo incasso dei due assegni effettuato dal C.), né ancora in ordine alla erronea liquidazione del credito relativo ad interessi e rivalutazione riportato nella ordinanza di assegnazione del GE (della quale non risulta che il Tribunale sia stato edotto da alcuna delle parti).

La efficacia di giudicato della sentenza del Tribunale non può quindi ritenersi estesa – come erroneamente considerato dalla Corte territoriale – all’accertamento della duplicazione del pagamento relativo al medesimo credito azionato in executivis, accertamento non ricompreso nell’oggetto del giudizio di opposizione limitato soltanto alla verifica della esattezza del quantum per accessori intimato nel precetto, risultando definito detto giudizio con il riconoscimento del diritto del creditore procedente ad agire esecutivamente per l’importo complessivo di Euro __ così ridotto per la voce accessori (interessi e rivalutazione) rispetto a quello di Euro __ indicato nel precetto.

Tale accertamento incide pertanto solo parzialmente sul titolo esecutivo e per le ragioni sopra esposte viene a legittimare l’actio condictio indebiti esclusivamente per il maggiore importo (non dovuto in base al giudicato di opposizione ex art. 615 c.p.c., comma 2) liquidato nella ordinanza di assegnazione del GE per interessi e rivalutazione monetaria, rimanendo invece pienamente confermato, alla stregua del medesimo giudicato, il diritto del C. ad agire ab origine per la soddisfazione coattiva del credito per sorte capitale.

Il dedotto errore interpretativo del giudicato pertanto è fondato, in quanto la Corte distrettuale ha inteso ricondurre alla sentenza del Tribunale di Catanzaro un inesistente accertamento del doppio -indebito- pagamento, questione rimasta, invece, del tutto estranea al thema decidendum sottoposto a quel Giudice.

Ne segue che la pretesa restitutoria dell’intero importo capitale, formulata da E. S.p.A., non può trovare fondamento nel giudicato del Tribunale di Catanzaro, o in un asserito accertamento giudiziale della totale inesistenza del titolo esecutivo fatto valere da C., ma viene giustificata invece dalla ricorrente ex art. 702 bis c.p.c. esclusivamente in base al doppio pagamento del medesimo credito, allegazione ex se insufficiente a fondare una azione di ripetizione di somma assegnata dal GE, giusta il costante indirizzo della giurisprudenza di legittimità in tema di irrevocabilità del provvedimento di assegnazione, in assenza di un accertamento giudiziale inteso a rimuovere la efficacia o la validità del titolo esecutivo azionato. Ed infatti il giudicato formatosi nel giudizio di opposizione ex art. 615 c.p.c., comma 2, avendo accertato la non debenza degli interessi e rivalutazione (secondo l’ammontare indicato nel precetto), risulta inidoneo a porsi a fondamento dell’azione di ripetizione anche dell’importo relativo alla sorte capitale assegnato dal GE. Pertanto il Giudice del rinvio dovrà attenersi al seguente principio di diritto:

La sentenza resa nel giudizio di opposizione alla esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., commi 1 e 2, anche se la pubblicazione sia intervenuta successivamente alla ordinanza di assegnazione della somma emessa dal Giudice della esecuzione (nella specie nel procedimento di espropriazione presso terzi), accerta ora per allora il diritto del creditore procedente di agire in executivis per il credito portato dal titolo, legittimando il debitore che veda accolta la opposizione -in tutto od in parte ove la contestazione attenga al quantum- ad esperire nei confronti del creditore soddisfatto l’azione di ripetizione della somma che risultasse indebitamente assegnata dal Giudice della esecuzione, venendo a cedere la irrevocabilità ed irretrattabilità del provvedimento di assegnazione -che risponde alla funzione di garanzia degli effetti giuridici prodotti a vantaggio del terzo acquirente o del terzo assegnatario di buona fede- di fronte al giudicato, intervenuto tra creditore procedente e debitore esecutato, che accerta la invalidità od inefficacia, originaria o sopravvenuta, parziale o totale, del diritto di agire in executivis per il credito portato dal titolo. In tal caso, accertato dal Giudice della opposizione che il diritto a procedere ad esecuzione forzata concerneva un credito per capitale, interessi e rivalutazione monetaria, relativo ad un quantum per interessi e rivalutazione, inferiore a quello intimato con il precetto ed oggetto del pignoramento, il debitore espropriato del maggiore importo in esecuzione della ordinanza di assegnazione del GE, è legittimato a ripetere dal creditore la somma indebita assegnata. In difetto di accertamento giudiziale ex art. 615 c.p.c., sia pure con sentenza sopravvenuta alla ordinanza di assegnazione, questa ultima deve ritenersi intangibile, rimanendo indifferente la procedura esecutiva -e rimanendo sottratti alla verifica di validità gli atti della stessa- ad un eventuale pregressa estinzione del credito portato in esecuzione, mediante pagamento spontaneo effettuato dal debitore, essendo questi tenuto a far valere il fatto estintivo sopravvenuto esclusivamente attraverso i rimedi della opposizione alla esecuzione ed agli atti esecutivi apprestati dall’ordinamento.

In conclusione il ricorso deve essere accolto limitatamente al secondo motivo, per le ragioni esposte; la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto e la causa va rinviata alla Corte d’appello di Reggio Calabria in diversa composizione, che dovrà rideterminare l’importo restituendo, attenendosi al principio di diritto enunciato e liquidando all’esito anche le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il secondo motivo di ricorso; rigetta il primo ed il terzo motivo di ricorso; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte di appello di Reggio Calabria in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2019

Cass_civ_Sez_III_Ord_15_02_2019_n_4528




Esecuzione forzata: l’opposizione ordinaria di terzo non può essere esperita da tutti coloro che assumano la posizione di terzi rispetto al giudizio in cui è stata emessa la sentenza opposta

Esecuzione forzata: l’opposizione ordinaria di terzo non può essere esperita da tutti coloro che assumano la posizione di terzi rispetto al giudizio in cui è stata emessa la sentenza opposta

Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 5244 del 21/02/2019

Con ordinanza del 15 marzo 2019, la Corte di Cassazione, Sezione I Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che l’opposizione ordinaria di terzo, di cui al primo comma dell’art. 404 c.p.c., non può essere esperita da tutti coloro che assumano la posizione di terzi rispetto al giudizio in cui è stata emessa la sentenza opposta, ma soltanto da coloro i quali, rivestendo tale qualità, facciano anche valere, in relazione al bene oggetto della controversia, un proprio diritto, autonomo e, nel contempo, incompatibile con il rapporto giuridico accertato o costituito dalla sentenza stessa e siano, perciò, da essa pregiudicati in un loro diritto, pur senza essere soggetti agli effetti del giudicato.

Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 5244 del 21/02/2019

Esecuzione forzata: l’opposizione ordinaria di terzo non può essere esperita da tutti coloro che assumano la posizione di terzi rispetto al giudizio in cui è stata emessa la sentenza opposta

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

A. S.p.A. e C. di C. M. – ricorrenti –

contro

C. di P., C. di C., C. di R. nell’E., C. di P., C. di R. M., C. di M., C. di C. nell’E. – controricorrenti –

contro

C. S.p.A., C. di M. M., C. di M. M., C. di P., C. di S. V., C. di S., C. di S. – intimati –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal cons. Dott. __.

Svolgimento del processo

1.1. Con ricorso ritualmente notificato A. S.p.A. ed il C. di C. M. – la prima nella qualità di soggetto gestore del servizio idrico integrato dell’ambito territoriale ottimale n. (OMISSIS) della Regione __, ed il secondo in qualità di consorziato nel Consorzio Intercomunale Gestione Risorse Idriche della __ e della __ – C.I.G.R.I. – impugnano l’epigrafata sentenza con la quale la Corte d’Appello di Roma, attinta dai medesimi a mente dell’art. 831 c.p.c., comma 3, ne ha dichiarato inammissibile l’opposizione di terzo avverso il duplice lodo arbitrale pronunciato a definizione del contenzioso insorto tra il consorzio e la C. M. dell’E. e C. a seguito del recesso di questa dal consorzio, con il primo dei quali gli arbitri, pronunciando non definitivamente, avevano negato che la Comunità fosse obbligata a ripianare le perdite di esercizio connesse all’erogazione dei servizi idrici nei confronti tra l’altro del Comune opponente, escludendo altresì che essa dovesse pure contribuire anche ai costi di subentro nella gestione di detti servizi, ed avevano riconosciuto che il consorzio fosse formalmente titolare e gestore dell’impianto anello, mentre con il secondo, pronunciando in via definitiva, avevano proceduto alla liquidazione della quota perciò spettante alla Comunità.

1.2. A motivo della pronunciata inammissibilità, la Corte capitolina, ricordato che l’opposizione di terzi è data a tutela di coloro che “facciano valere, in relazione al bene oggetto della controversia, un proprio diritto autonomo e, nel contempo, incompatibile con il rapporto giuridico accertato o costituito dalla sentenza stessa e siano, perciò, da essa pregiudicati nel loro diritto, pur senza essere soggetti agli effetti del giudicato”, ha rimarcato il fatto, quanto al Comune, che avendo lo stesso opponente ammesso che al ripianamento delle perdite imputabili alla Comunità avevano provveduto gli altri Comuni consorziati, che “è perciò evidente che la dedotta lesione dei diritti degli opponente in realtà non è derivata direttamente dalla pronuncia degli arbitri, ma solo indirettamente e in via riflessa dalla natura dei rapporti che legavano i partecipanti al consorzio intercomunale”; e quanto ad A. S.p.A., che, avendo costei parimenti dichiarato che in ragione dei compiti assunti era stata tenuta ad acquisire la disponibilità di tutti i beni strumentali al servizio, assumendone anche le passività, e ciò tanto più se si fosse perferzionata la programmata fusione con il C.I.G.R.I., “è da ritenere pacifico che A. S.p.A., quale affittuaria (con contratto stipulato in data __) delle relative aziende adibite a gestione dei servizi viene a trovarsi in una posizione derivata da quella del consorzio e pertanto non può essere considerata titolare di un autonomo diritto incompatibile con quello dedotto in giudizio suscettibile di autonoma tutela”.

1.3. Per l’odierna cassazione di detta decisione A. S.p.A. ed il C. di C. M. si affidano a tre motivi di ricorso, ai quali replicano con controricorso tutti i comuni un tempo facenti parte della soppressa Comunità Montana dell’E. e di C. e della disciolta Unione dei Comuni dell’Arcipelago __ che vi era seguita.

Memorie di entrambe le parti ex art. 380-bis1 c.p.c..

Motivi della decisione

2.1. Con il primo motivo di ricorso entrambi i ricorrenti lamentano l’erroneità in diritto, nonché “omessa, insufficiente motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio” dell’impugnato pronunciamento di gravame, posto che, da un lato, la Corte adita, quanto ad A. S.p.A., si era indotta a disconoscerne la qualità di terzo, legittimato perciò a promuovere la relativa opposizione, malgrado non avesse avuto corso alcuna fusione tra essa ed il C.I.G.R.I., l’affitto dell’azienda di questa non contemplasse anche la successione nei debiti e la cessione poi stipulata non estendesse i propri effetti ai debiti non essendo registrati nelle scritture contabili, e ciò non senza pure considerare che neppure ex lege, per effetto delle disposizioni recate dalla L. 5 gennaio 1994, n. 36, art. 12 e dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 153 sarebbe argomentabile una preclusione in tal senso, non prevedendo la legge un subentro in tutte le passività, essendo in ogni caso diverso il titolo giuridico, attenendo il debito alla valorizzazione di un cespite e non potendo riconoscersi un valore patrimoniale formato da contributi pubblici; dall’altro, quanto al Comune, era pervenuta alla medesima conclusione quantunque, dibattendosi nella specie della proprietà dell’impianto anello, il Comune, che ne rivendicava la proprietà, fosse perciò litisconsorte necessario e effetti diretti e non riflessi sortissero riguardo al deducente le determinazioni assunte nei lodi impugnati in punto di ripianamento delle perdite e di contribuzione ai costi di subentro.

2.2. Il motivo è nella sua doppia articolazione privo di fondamento e l’infondatezza, che va per questo dichiarata, rendendo definitivo il responso enunciato in sede rescindente dal giudice del gravame, rende pure superfluo l’esame degli altri motivi di ricorso afferenti tutti alla fase rescissoria della proposta impugnazione.

2.3. Nel merito, la Corte decidente, divisando l’inammissibilità del rimedio impugnatorio azionato dagli odierni ricorrenti non essendo essi titolari di una posizione di diritto provvista dei necessari caratteri di autonomia ed incompatibilità rispetto a quelle fatte valere nel giudizio arbitrale, di guisa che, risultando esse pregiudicate dalle decisioni assunte in quella sede, ad A. S.p.A. e al C. di C. M. potesse riconoscersi la qualità di terzo in grado di legittimarne l’opposizione consentita dall’art. 404 c.p.c., comma 1, si è esattamente attenuta all’insegnamento di questa Corte, che ha inteso rimarcare la straordinarietà di questo mezzo di impugnazione rispetto agli altri mezzi di impugnazione ordinaria sotto il profilo della sua idoneità a circoscrivere gli effetti collaterali del giudicato, quando questo investa e comprometta i diritti dei terzi che alla formazione di quel giudicato non abbia preso parte, avvertendo da tempo che “l’opposizione ordinaria di terzo, di cui all’art. 404 c.p.c., comma 1, non può essere esperita da tutti coloro che assumano la posizione di terzi rispetto al giudizio in cui è stata emessa la sentenza opposta, ma soltanto da coloro i quali, rivestendo tale qualità, facciano anche valere, in relazione al bene oggetto della controversia, un proprio diritto, autonomo e, nel contempo, incompatibile con il rapporto giuridico accertato o costituito dalla sentenza stessa e siano, perciò, da essa pregiudicati in un loro diritto, pur senza essere soggetti agli effetti del giudicato” (Cass., Sez. 1, 24/05/1999, n. 5026).

2.4. Né la coerenza, in linea di principio, di questo approdo rispetto alla fattispecie in disamina si presta a rimeditazione secondo le sollecitazioni provenienti dalle parti, che non evidenziano criticità motivazionali del ragionamento decisorio, né, tantomeno, appaiono forieri di argomenti utilmente spendibili sul piano del giudizio strettamente giuridico.

2.4.1. Non tali sono per vero le contestazioni che all’impugnata decisione muove A. S.p.A. poiché, laddove essa manifesta il proprio scontento per aver il decidente indebitamente valorizzato, in funzione della denegata ricorrenza nella specie di una posizione tutelabile con il mezzo azionato, circostanze fattuali inveritiere quali quelle afferenti alla fusione, all’affitto d’azienda o alla cessione d’azienda – eventi negoziali, che secondo la deducente avrebbero coonestato la convinzione di una continuità gestionale tra C.I.G.R.I. ed A. S.p.A., tale che la seconda sarebbe succeduta alla prima anche in relazione alle obbligazioni scaturite dalle pronunce arbitrali -, le lagnanze che in tal modo essa esplicita non solo non si accordano con la realtà processuale, dato che l’accenno alla fusione non ha all’evidenza alcuna portata decisoria, mentre è stata A. S.p.A. stessa a dichiarare, come recita la sentenza, che “in qualità di gestore affidatario del Servizio Idrico Integrato dell’ambito della Provincia di Livorno, deve acquisire le disponibilità di tutti i beni strumentali al servizio e con essa deve assumersi anche gli oneri e le passività”, ma neppure si possono dire, sollecitando indirettamente la rinnovazione dell’apprezzamento di fatto già compiuto dagli arbitri, formalmente rispettose della specificità del giudizio di impugnazione che ha luogo a mente dell’art. 829 c.p.c., a mezzo dal quale non è consentito procedere alla valutazione dei fatti dedotti e delle prove acquisite nel corso del procedimento arbitrale, in quanto tale valutazione è negozialmente rimessa alla competenza istituzionale degli arbitri.

2.4.2. Peraltro neppure quanto A. S.p.A. si dà cura di lamentare in diritto rende l’impugnata decisione censurabile, poiché, una volta ricordato più generalmente che la successione di A. S.p.A. a C.I.G.R.I. è avvenuta nella più ampia cornice modellata dalla L. 5 gennaio 1994, n. 36 ai fini di garantire la gestione delle acque pubbliche secondo criteri di efficienza, di efficacia e di economicità, nell’ambito del quale l’art. 12, comma 2, prevede che “le immobilizzazioni, le attività e le passività relative ai servizi di cui all’art. 4, comma 1, lett. f), ivi compresi gli oneri relativi all’ammortamento dei mutui, sono trasferite al soggetto gestore del servizio idrico integrato”, la deroga che all’applicazione delle regole generali vigenti in materia di successioni tra enti pubblici i rilievi di A. S.p.A. intenderebbero legittimare, traendo da ciò l’assunto che essa non potrebbe essere gravata delle passività scaturenti dal contenzioso arbitrale, non trovano concreto riscontro nella generalità della previsione normativa e non giustificano perciò riserve nella devoluzione al successore, insieme alle dotazioni infrastrutturali, anche di tutte le attività inerenti al servizio e quindi anche dell’intero compendio delle passività, tanto più che quando il legislatore, riordinando nuovamente la materia con le norme del D.Lgs. n. 152 del 2006, ha voluto limitare questo effetto lo ha fatto in maniera espressa prevedendo all’art. 153, comma 2, che la successione nelle immobilizzazioni, nelle attività e nelle passività relative al servizio idrico integrato, si estenda anche “agli oneri connessi all’ammortamento dei mutui oppure i mutui stessi, al netto degli eventuali contributi a fondo perduto in conto capitale e/o in conto interessi”.

2.4.3. Non migliore è per contro la sorte delle difese sul punto del C. di C., che, quantunque in astratto non prive di fondamento, avendo questa Corte ritenuto che l’opposizione di terzo sia proponibile anche a cura del litisconsorte pretermesso, pur in disparte dal chiedersi se tale sia esattamente la veste del Comune rispetto alle dotazioni infrastrutturali del C.I.G.R.I., urtano tuttavia contro una duplice preclusione che esclude che la Corte d’Appello, nel disconoscerne la qualità di terzo e nel ricusarne perciò la legittimazione a promuovere la proposta impugnazione, possa essere incorsa in errore.

È vero, infatti, in linea di fatto che, essendo consorziato del C.I.G.R.I., il Comune già per questa ragione non possa dirsi terzo rispetto alla lite tra il consorzio e la Comunità, riflettendosi evidentemente per l’assetto dei rapporti interni – come la sentenza diligentemente annota osservando che il pregiudizio lamentato dal ricorrente deriva “dalla natura dei rapporti che legavano i partecipanti al consorzio intercomunale” – le determinazioni assunte in danno del consorzio anche in pregiudizio dei singoli consorziati. Né è poi trascurabile che, pronunciandosi nei termini oggetto di censura, il decidente abbia sul punto fatto proprio l’avviso che questa Corte ha già avuto occasione di enunciare in relazione a vicende non dissimili sul piano dei rapporti interni quale quella del socio di società di capitali rispetto alla sentenza pronunciata in danno della società (Cass., Sez. 1, 15/11/1999, n. 12615) o del condomino rispetto alla sentenza pronunciata nei confronti del condominio (Cass., Sez. 2, 21/02/2017, n. 4436), essendosi escluso in queste ipotesi che, sebbene il socio o il condomino siano terzi rispetto all’ente, nondimeno non sussiste la loro legittimazione all’opposizione di terzo, non essendo il socio o il condomino titolari di una diritto autonomo rispetto alla situazione discendente in capo all’ente per effetto della sentenza pronunciata nei suoi confronti.

  1. Il ricorso va dunque respinto.
  2. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Ricorrono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

Respinge il ricorso e condanna le parti ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro __, di cui Euro __ per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 13 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2019

Cass_civ_Sez_I_Ord_21_02_2019_n_5244




Nel giudizio di opposizione a precetto, la rinuncia in corso di causa all’atto di precetto da parte dell’opposto non comporta la rinuncia agli atti del giudizio ove l’opponente insista per la domanda di accertamento negativo del loro debito verso i presunti creditori

Nel giudizio di opposizione a precetto, la rinuncia in corso di causa all’atto di precetto da parte dell’opposto non comporta la rinuncia agli atti del giudizio ove l’opponente insista per la domanda di accertamento negativo del loro debito verso i presunti creditori

Tribunale Ordinario di Rovigo, Sezione Civile, Sentenza del 13/02/2019

Con sentenza del 13 marzo 2019, il Tribunale Ordinario di Rovigo, Sezione Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che nel giudizio di opposizione a precetto, la rinuncia in corso di causa all’atto di precetto da parte dell’opposto non comporta la rinuncia agli atti del giudizio ove l’opponente insista nella propria opposizione, convertita in una domanda dichiarativa che nulla è dovuto dall’opponente all’opposto, o, in subordine, in una domanda di accertamento della somma dovuta dal primo al secondo.

 

Tribunale Ordinario di Rovigo, Sezione Civile, Sentenza del 13/02/2019

Nel giudizio di opposizione a precetto, la rinuncia in corso di causa all’atto di precetto da parte dell’opposto non comporta la rinuncia agli atti del giudizio ove l’opponente insista nella propria opposizione

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Tribunale Ordinario di Rovigo

SEZIONE CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. __

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. __ promossa da:

L., con il patrocinio dell’avv. __; elettivamente domiciliato in __, presso il difensore avv. __;

A. S.a.s., con il patrocinio dell’avv. __, elettivamente domiciliato in __, presso il difensore avv. __;

PARTE ATTRICE

contro

S.S. S.r.l., con il patrocinio dell’avv. __, dell’avv. __, elettivamente domiciliato in __, presso lo studio dell’avv. __;

M., con il patrocinio dell’avv. __, elettivamente domiciliato in __, presso lo studio dell’avv. __;

PARTE CONVENUTA

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con atto di opposizione all’esecuzione, L., in proprio e quale socio di A. S.a.s., e A. S.a.s. (di qui in avanti gli opponenti), hanno agito in giudizio verso la S.S. S.r.l. e M. (di qui in avanti gli opposti), opponendosi all’atto di precetto su due assegni bancari (uno restituito per mancanza di fondi e uno protestato), atto di precetto del __ per l’importo di Euro __, di cui __ in sorte capitale, notificato a L. quale legale rappresentante di A. S.a.s. e quale socio accomandante di A. S.a.s.

Hanno allegato, a fondamento della loro opposizione, che ad inizio 2011 A. S.a.s. aveva consegnato ad un socio della S.S. S.r.l. assegno (…) per Euro __ a garanzia del pagamento delle fatture nn. (…), (…) e (…) del __ e, quindi, del credito della S.S. S.r.l.; che le fatture non venivano saldate; che in seguito, nei primi mesi del __ L. consegnava a M., il socio suddetto, altro assegno n. (…)-(…) a garanzia dei pagamenti per Euro __ a firma di L.; che la A. S.a.s.  aveva pagato nel mentre parte della somma, residuando il debito di Euro __, come da contabile dell’allora commercialista; hanno inoltre allegato che nel corso del __ S.S. S.r.l. e A. S.a.s. avevano versato acconti sul maggior dovuto per Euro __, mediante assegno bancario e mediante 3 bonifici bancari; che il __ A. S.a.s. aveva trasferito la propria sede a __, con nomina di nuovo amministratore e legale rappresentante in sostituzione di L. Hanno quindi allegato come l’importo residuo del debito precettabile era pari ad Euro __. Hanno quindi chiesto in via pregiudiziale la dichiarazione di carenza di legittimazione attiva della precettante S.S. S.r.l.; l’accoglimento dell’opposizione, con dichiarazione che nulla devono gli opponenti ai convenuti; in subordine, accertarsi la somma dovuta dagli opponenti agli opposti; accertarsi il danno subito da A S.a.s. e condannare gli opposti al risarcimento dei danni per Euro __; in subordine, operarsi la compensazione tra i crediti reciproci, con condanna degli opposti al pagamento del loro debito residuo verso gli opponenti.

Si sono costituiti in giudizio gli opposti, contestando la fondatezza dell’avversa opposizione, di cui hanno chiesto il rigetto. Gli opponenti hanno evidenziato innanzitutto come L. fosse socio accomandante della A. S.a.s.; che L., a seguito di lettera del marzo __ della fornitrice, aveva rilasciato idonee garanzie, disciplinate dalla medesima lettera (doc. 2 opposti); che in quella sede L. aveva consegnato un assegno di Euro __ e uno a garanzia di Euro __; ugualmente hanno dedotto come gli assegni avrebbero svolto funzione di garanzia per la A. S.a.s. e come la lettera indicasse che l’eventuale azionamento dei titoli sarebbe stato effettuato per qualsiasi importo non pagato e da parte di M., quale Presidente del CdA della S.S. S.r.l.; come vi fosse stata da parte della S.S. S.r.l. anche una ulteriore fornitura lasciata a L. in conto deposito senza emissione di fattura, materiale consegnato alla società libica, con operazione e incasso di cui la società opposta sarebbe stata tenuta all’oscuro, con bolla di consegna della merce, con credito a favore della S.S. S.r.l. di Euro __, ritenendo dovuto il pagamento di questa ulteriore fornitura consegnata in conto deposito. Gli opponenti hanno quindi chiesto in via pregiudiziale la dichiarazione della legittimazione attiva della società precettante, con validità ed efficacia del precetto notificato e conferma dello stesso, quindi con rigetto dell’opposizione; il rigetto della domanda di risarcimento del danno e della compensazione tra i crediti.

In seguito alla prima udienza, con ordinanza del __, il precedente Giudicante ha sospeso l’efficacia esecutiva dell’assegno n. (…)-(…), respingendo la richiesta di sospensione dell’altro assegno.

All’udienza del __, il difensore degli opposti ha depositato Sentenza del Tribunale di Milano dichiarativa di Fallimento della A. S.a.s. emessa in data __, con comunicazione della sentenza del __, chiedendo la dichiarazione di interruzione del giudizio, richiesta che è stata rigettata dal Giudice allora assegnatario della causa, non essendo A. S.a.s. parte processuale del presente giudizio di opposizione.

In seguito, la causa è stata istruita mediante concessione dei termini ex art. 183, 6 co. c.p.c., produzioni documentali ed escussione di testi.

In sede di memorie le parti hanno attestato di aver proposto reclamo al collegio avverso l’ordinanza di parziale sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo, del __, deducendo come il Collegio, in esito al reclamo, avesse sospeso l’efficacia esecutiva di entrambi gli assegni, in quanto non costituenti titoli esecutivi, perché dati in garanzia.

A seguito della decisione del Collegio, quindi, gli opponenti rinunciavano alla domanda di dichiarazione di carenza di legittimazione attiva della precettante S.S. S.r.l., confermando, per il resto, le rimanenti domande; gli opposti, invece, hanno attestato di aver notificato agli opponenti atto di rinuncia al precetto del __, notificato agli opponenti in data __, concludendo in memoria n. 1 sempre per il rigetto delle richieste di parte opponente in via principale e in via subordinata, non essendo chiesta alcuna riconvenzionale per danno, né dimostrato danno alcuno e chiedendo il rigetto della chiesta compensazione dei crediti.

All’udienza del __, deputata all’escussione dei testi, gli opposti hanno eccepito il difetto di legittimazione di L., dal momento che la presente causa, volta ad accertare l’estinzione del credito verso A. S.a.s. (dichiarata fallita il __) è inammissibile, in base all’art. 43 della Legge Fallimentare, con rimessione del Giudice alla sede decisoria per la soluzione dell’eccezione.

Ritenuta la stessa matura per la decisione, in seguito ad alcuni rinvii d’ufficio per mutamento dell’organo Giudicante, le parti hanno precisato le conclusioni dinnanzi al nuovo Giudicante all’udienza del __, con concessione dei termini ex art. 190 c.p.c.

Premesso questo, si osserva quanto segue.

Preliminarmente si rileva come le parti opposte abbiano rinunciato all’atto di precetto in corso di causa. Tuttavia, pur a fronte della formale rinuncia del precetto da parte degli opposti, gli opponenti in prima memoria hanno insistito nella propria opposizione, convertita, però, in una domanda dichiarativa che nulla dovevano li opponenti agli opposti o, in subordine, in una domanda di accertamento della somma dovuta dagli opponenti agli opposti.

Quindi la rinuncia all’atto di precetto non ha comportato la rinuncia agli atti di giudizio, avendo gli opponenti insistito per la domanda di accertamento negativo del loro debito verso i presunti creditori, essendo peraltro il credito dedotto come vantato dagli opposti oggetto di formale contestazione da parte degli opponenti.

Peraltro, occorre rilevare come gli opponenti, in seguito alla decisione del Collegio in sede di reclamo dell’ordinanza di parziale sospensione dell’efficacia esecutiva dei titoli, abbiano rinunciato a parte delle loro iniziali domande, tra cui la domanda di dichiarazione di carenza di legittimazione attiva della precettante S.S. S.r.l., confermando, per il resto, le rimanenti domande.

Inoltre, occorre rilevare come, in seguito alla rinuncia all’atto di precetto, gli opposti in sede di prima memoria ex art. 183, 6 co.c.p.c. (limite preclusivo per la cristallizzazione del thema decidendum), si siano limitati a domandare il rigetto delle domande degli opponenti in via principale e subordinata e il rigetto della richiesta di compensazione dei crediti.

Risulta quindi tardiva e non veritiera l’affermazione contenuta nella comparsa conclusionale degli opposti relativa ad una loro domanda di condanna degli opponenti al pagamento di quanto dovuto e relativa alla domanda di dichiarazione di difetto di legittimazione passiva di M., mai avanzata nei termini.

Effettuate queste precisazioni preliminari, occorre valutare il merito della causa, nei termini dell’accertamento del credito eventuale esistente a favore della S.S. S.r.l. verso parte attrice.

Come noto, gli assegni consegnati in garanzia non costituiscono titolo esecutivo, potendo però valere come ricognizione di debito o promessa di pagamento ex art. 1988 c.c. (Cass. 10710/2016; Cass. Civ. n. 15910/2009; n. 13949/2006; n. 4804/2006; n. 2816/2006). Questo, però, solo nei termini di una presunzione relativa di esistenza del rapporto giuridico sottostante l’assegno, e, quindi, del credito in esso indicato, presunzione che può essere superata qualora il debitore fornisca la prova dell’estinzione del suddetto rapporto o, appunto, dell’avvenuto pagamento.

Ma andiamo con ordine.

Nel caso di specie, gli opponenti hanno allegato inizialmente il loro debito verso gli opposti come derivante da tre fatture del __, ovvero le fatture numero ____ del __, emesse a fronte della fornitura di merci da parte della S.S. S.r.l. Hanno allegato gli opponenti come il debito delle società ammontasse ad Euro __, facendo esclusivo riferimento alle suddette fatture.

Tuttavia, parte opposta contesta tale debito, asserendo invece come il prezzo per la fornitura concordata fosse di Euro __, presso quindi maggiore rispetto agli allegati Euro __.

Difatti, parte opposta ha specificato come, oltre alle suddette fatture, vi fosse anche un’ulteriore consegna di merce data in conto deposito a parte opponente, che parte opponente non avrebbe né restituito alla S.S. S.r.l., né fatturato alla stessa, senza provvedere tuttavia al relativo pagamento.

Parte opposta ha adeguatamente provato la sussistenza di un credito iniziale pari ad Euro __ e ciò si desume dalla bolla di consegna della merce consegnata in conto deposito del __, DDT in cui vi è indicazione del debito complessivo della società committente (doc. 4 parte opposta).

A fronte della produzione del suddetto documento 4 relativo alla bolla di consegna del __, gli opponenti non hanno effettuato alcuna formale contestazione del documento suddetto, neppure procedendo a disconoscerne la provenienza o la riferibilità, nella parte relativa al cessionario con sottoscrizione finale, ad un addetto o al legale rappresentante della A. S.a.s.

Difatti, come noto, la giurisprudenza afferma che: “il legale rappresentante di una società, contro la quale sia prodotta in giudizio una scrittura privata, rilevante per il suo valore negoziale, al fine di contestarne l’autenticità della sottoscrizione, non è tenuto a proporre querela di falso ai sensi dell’art. 221 c.p.c., ma può disconoscere la sottoscrizione stessa a norma dell’art. 214, c.p.c., anche nel caso in cui la sottoscrizione sia attribuita ad altra persona fisica, già investita della rappresentanza legale della società” (Cass. 2095/2014).

Peraltro, alcun valore dirimente sul punto possono assumere le affermazioni rese da L. in sede di interrogatorio formale, trattandosi di circostanze a sé favorevoli, rese da persona interessata, visto peraltro che l’interrogatorio formale è un mezzo diretto a provocare la confessione giudiziale di fatti sfavorevoli al confitente e ad esclusivo vantaggio del soggetto deferente.

Quindi, deve dirsi provata la circostanza per cui il credito iniziale della S.S. S.r.l. fosse pari ad Euro __.

Da questo credito, occorre detrarre e sottrarre i pagamenti effettuati dagli opponenti e di cui gli stessi hanno dato la prova in giudizio.

Innanzitutto, possono dirsi provati i pagamenti relativi alle fatture dedotte inizialmente come fonte del credito della S., ovvero le fatture nn. (…), (…) e (…) del __, essendo le uniche fatture invocate entro i termini preclusivi del thema decidendum dagli opponenti, come fatture di riferimento del debito e della fornitura oggetto di causa.

Non possono quindi essere presi in considerazione gli eventuali pagamenti relativi alla fattura n. (…), invocata da parte opponente in sede di memoria ex art. 183, 6 co. c.p.c. n.2, senza neppure indicazione specifica del periodo e della causale di riferimento della fattura invocata, se rientrante o meno nella fornitura oggetto di causa, e peraltro, si ribadisce, con indicazione tardiva da parte degli opponenti in relazione alla fornitura oggetto di causa.

Inoltre, alcun valore probatorio dirimente assume il documento 7 degli opponenti, relativo ad un’elencazione dei pagamenti degli opponenti nell’anno __, mail del commercialista della A. S.a.s., trattandosi di documento formato unilateralmente dagli opponenti e necessitando i pagamenti in esso indicati di prova scritta, trattandosi di pagamenti asseritamente effettuati per mezzo di assegno o bonifico.

Gli unici pagamenti di cui gli opponenti hanno fornito piena prova sono i pagamenti contenuti nel doc. A degli opponenti per bonifici bancari effettuati nel __, ovvero Euro __, Euro __ ed Euro __ e riferibili alle fatture oggetto di causa.

Inoltre, possono dirsi provati anche i pagamenti relativi al doc. 8 di parte opponente, in quanto, oltre ad essere sorretti da prova scritta dell’assegno e dei versamenti, sono stati confermati da M. in sede di interpello, quindi trattasi di Euro __ complessivi, da cui vanno scomputati Euro __, come indicato in atto di citazione dagli opponenti.

Si ottiene quindi un totale di Euro __ come pagamenti effettuati e provati dagli opponenti.

Sottraendo tale somma dal credito iniziale della S.S S.r.l. di Euro __, si ottiene l’accertamento di un debito residuo degli opponenti per Euro __.

Da ultimo, non merita accoglimento la domanda degli opponenti di accertamento e dichiarazione del danno subito dagli stessi per l’incasso degli assegni dati in garanzia, visto la sussistenza all’epoca di un debito inferiore in capo agli opponenti.

Difatti, innanzitutto gli opponenti non hanno fatto alcuna specifica e formale contestazione del documento 2 degli opposti, ovvero la lettera in cui le parti concordavano la dazione degli assegni in garanzia. Difatti, in quella lettera, vi era l’indicazione precisa per cui la S. avrebbe ben potuto portare gli assegni all’incasso anche a fronte di un debito inferiore della parte debitrice. Alcun danno da inadempimento può quindi agli opposti essere imputato.

Peraltro, parte opponente non ha affatto specificamente allegato trattarsi di danno da fatto illecito ex art. 2043 c.c. e, anche a voler ricondurre l’eventuale danno evento invocato nella suddetta categoria risarcitoria, ugualmente, gli opponenti non hanno né allegato, né provato il danno patrimoniale (in termini di danno emergente e lucro cessante) o il danno non patrimoniale eventualmente subito, limitandosi ad allegare genericamente un danno all’immagine.

Come noto, peraltro, anche il danno da illegittima segnalazione alla Centra Rischi necessita oggi, a parere della giurisprudenza, di allegazione e prova specifica, non traducendosi affatto in un danno in re ipsa (Cass. ord. 207/2019; . Cass. n. 1931/2017).

Per tali motivo, non si fa luogo ad alcuna compensazione dei crediti tra le parti.

Per tutto quanto sopra specificato, si accerta come la somma residua dovuta dagli opponenti agli opposti sia pari ad Euro __, ricordando come gli opposti non abbiano affatto avanzato nei termini previsti opportuna domanda di condanna al pagamento di quanto vantato verso gli opponenti.

Le spese di lite seguono la soccombenza, e si liquidano in dispositivo in base ai parametri del D.M. n. 55 del 2014. Stante la riduzione del debito accertato a carico degli opponenti rispetto alla somma oggetto di precetto, le spese si compensano tra le parti per il 30%, ponendo la parte rimanente a carico degli opponenti.

P.Q.M.

Il Tribunale di Rovigo, definitivamente pronunciando in composizione monocratica, ogni altra istanza rigettata, assorbita o disattesa, così provvede:

1) ACCERTA che la somma residua dovuta da parte opponente a parte opposta per la fornitura oggetto di causa è pari ad Euro __;

2) RIGETTA tutte le altre domande degli opponenti;

3) COMPENSA le spese di lite tra le parti nella misura del __%;

4) CONDANNA gli opponenti a rifondere agli opposti la parte rimanente delle spese di lite (__%) che qui si liquidano per l’intero (100%) in Euro __ per compensi, oltre al rimborso forfettario al 15%, IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Rovigo, il 11 febbraio 2019.

Depositata in Cancelleria il 13 febbraio 2019.

Tribunale_Rovigo_Sent_13_02_2019

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Fallimento: la domanda di insinuazione tardiva è ammissibile solo se diversa, per petitum e causa petendi, rispetto alla domanda di insinuazione ordinaria

Fallimento: la domanda di insinuazione tardiva è ammissibile solo se diversa, per petitum e causa petendi, rispetto alla domanda di insinuazione ordinaria

Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 7500 del 15/03/2019

Con ordinanza del 15 marzo 2019, la Corte di Cassazione, Sezione I Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che la domanda di insinuazione tardiva è ammissibile solo se diversa, per petitum e causa petendi, rispetto alla domanda di insinuazione ordinaria, essendo altrimenti preclusa dal giudicato interno formatosi sull’istanza tempestiva. Ciò in quanto il sistema della legge fallimentare, in ragione del principio generale che riconosce carattere giurisdizionale e decisorio ai procedimento di verificazione del passivo, esclude la possibilità di proporre una nuova insinuazione per un credito o una parte di esso che siano già stati in precedenza esclusi dal novero del passivo. Nel caso in cui, invece, sia mancata una specifica domanda di insinuazione al passivo resta proponibile la domanda tardiva del credito che non sia stato ancora reclamato, anche nel caso in cui la stessa riguardi i soli interessi moratori rispetto a un credito per sorte capitale già ammesso in via tempestiva, in quanto una simile domanda, fondata sul ritardo nell’adempimento, non rimane preclusa, stante la diversità della rispettiva causa petendi, dalla precedente statuizione, salvo che gli interessi costituiscano una mera componente della pretesa già azionata.

 

Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 7500 del 15/03/2019

Fallimento: la domanda di insinuazione tardiva è ammissibile solo se diversa, per petitum e causa petendi, rispetto alla domanda di insinuazione ordinaria

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. __ proposto da:

C. Associazione Professionale – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal cons. __.

Svolgimento del processo

  1. Nel __ C. chiedeva di essere ammesso al passivo del fallimento (OMISSIS) s.r.l. per un credito professionale relativo a prestazioni svolte per la società poi fallita, domandando espressamente che l’ammissione avvenisse “con interessi e rivalutazione monetaria ISTAT sino al soddisfo in considerazione della natura del credito”.

Il Giudice delegato ammetteva al passivo della procedura la somma di Lire __, compresi I.V.A. e oneri previdenziali, in sede privilegiata e Lire __ in chirografo, nulla statuendo su interessi e rivalutazione richiesti.

Avverso tale provvedimento il creditore istante non proponeva alcuna opposizione.

  1. Nel corso della procedura C. associazione professionale, subentrato nelle more al singolo professionista, presentava ricorso per insinuazione tardiva L. Fall., ex art. 101, per il riconoscimento degli interessi maturati sul credito privilegiato già ammesso, da calcolarsi dalla data di apertura del concorso al soddisfo e riconoscere con il medesimo privilegio.

A seguito delle contestazioni sollevate dal curatore il Tribunale di Palermo rigettava l’istanza di insinuazione tardiva ritenendola inammissibile, in quanto il creditore aveva già chiesto l’ammissione dello stesso credito al passivo, con istanza implicitamente respinta dal G.D., rimanendo così preclusa la possibilità di presentare una nuova insinuazione per il medesimo credito.

  1. La Corte d’Appello di Palermo, nel rigettare l’impugnazione proposta da C. associazione professionale, ribadiva che le pregresse decisioni concernenti le insinuazioni al passivo avevano valore di giudicato interno, osservava che la mancata ammissione degli interessi e della rivalutazione richiesti aveva valore di un implicito rigetto della domanda e di conseguenza rilevava come operasse la preclusione nascente da un simile giudicato rispetto alla domanda presentata con l’insinuazione tardiva; la definitività della decisione assunta comportava poi l’impossibilità di fare applicazione al caso di specie della declaratoria di illegittimità della L. Fal., art. 54, comma 3, compiuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 162 del 23 maggio 2001.

4 Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso C. associazione professionale prospettando cinque motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso il fallimento (OMISSIS) s.r.l.

Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c..

Motivi della decisione

3.1 I primi due motivi di ricorso denunciano la falsa applicazione e la violazione di legge “con riferimento al principio di definitività dello stato passivo fallimentare ed alla sua efficacia di giudicato interno preclusivo come tale di una insinuazione tardiva del medesimo credito per petitum e causa petendi”: la corte territoriale avrebbe falsamente fatto ricorso ai principi in tema di giudicato interno, senza considerare che gli stessi trovavano applicazione rispetto a una domanda di modifica dello stato passivo e non erano estensibili a una mera richiesta di applicazione, in sede di riparto, del disposto della L. Fall., art. 54, in relazione allo stato passivo come in precedenza formato, poiché tale istanza, seppur proposta nelle forme dell’insinuazione tardiva, si era limitata a sollecitare l’applicazione di una disciplina che gli organi fallimentari erano comunque obbligati ad adottare.

Peraltro il G.D. in sede di verifica non poteva che prendere in esame la domanda relativa agli interessi maturati fino alla dichiarazione di fallimento, perché i frutti maturati in corso di procedura conseguivano ex lege, di modo che il silenzio serbato sulla richiesta di ammissione al passivo degli interessi non poteva che essere interpretato come esclusione degli stessi fino alla data di apertura del concorso; il mancato accoglimento della richiesta di applicazione della disciplina relativa agli interessi da riconoscere ai crediti privilegiati già ammessi costituiva quindi anche una violazione di legge, dato che sul punto non vi era stata alcuna pronuncia di esclusione del G.D. né vi sarebbe potuta essere, poiché era la legge a stabilire la spettanza di questi interessi sul presupposto dell’intervenuta ammissione in privilegio.

3.2 Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione del principio di irretroattività degli effetti delle sentenze della Corte Costituzionale dichiarative dell’illegittimità costituzionale di una norma: la corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che non trovasse applicazione alla fattispecie in esame la sentenza della Consulta del 23 maggio 2001 n. 162, in ragione dell’anteriore emissione del decreto di esecutività dello stato passivo, senza considerare che il rapporto poteva intendersi esaurito solo in caso di esecuzione del riparto finale e chiusura del fallimento prima della decisione della Consulta.

  1. I motivi, da esaminarsi congiuntamente in ragione della loro connessione, non meritano accoglimento.

4.1 Questo collegio ritiene che valga anche in sede fallimentare il principio (già affermato da questa Corte rispetto alla procedura di liquidazione coatta amministrativa; cfr. Cass., Sez. U., 26/3/2015 n. 6060) secondo cui la partecipazione del creditore al procedimento di formazione dello stato passivo, attraverso la formulazione di domande ai sensi della L. Fall., art. 93, è solo eventuale ma, ove esperita, comporta l’obbligo per il Giudice delegato di provvedere su di esse, sicché il silenzio da questi mantenuto in ordine alle richieste formulate dal creditore e il mancato inserimento del credito nello stato passivo formato all’esito della verifica delle domande presentate assume valore implicito di rigetto, contro il quale, per evitare il formarsi di una preclusione, il creditore deve proporre opposizione allo stato passivo ai sensi della L. Fall., art. 98.

La giurisprudenza di questa Corte ritiene infatti che la domanda di insinuazione tardiva sia ammissibile solo se diversa, per petitum e causa petendi, rispetto alla domanda di insinuazione ordinaria, essendo altrimenti preclusa dal giudicato interno formatosi sull’istanza tempestiva (Cass. 20/7/2016 n. 14936 e Cass. 28/6/2012 n. 10882); ciò in quanto il sistema della legge fallimentare – in ragione del principio generale che riconosce carattere giurisdizionale e decisorio al procedimento di verificazione del passivo – esclude la possibilità di proporre una nuova insinuazione per un credito o una parte di esso che siano già stati in precedenza esclusi dal novero del passivo.

Ove invece sia mancata una specifica domanda di insinuazione al passivo resta proponibile la domanda tardiva del credito che non sia stato ancora reclamato, anche nel caso in cui la stessa riguardi i soli interessi moratori rispetto a un credito per sorte capitale già ammesso in via tempestiva, in quanto una simile domanda, fondata sul ritardo nell’adempimento, non rimane preclusa, stante la diversità della rispettiva causa petendi, dalla precedente statuizione, salvo che gli interessi costituiscano una mera componente della pretesa già azionata (Cass., Sez. U., 26/3/2015 n. 6060).

Nel caso di specie l’odierno ricorrente aveva già pacificamente presentato, nel momento in cui si è insinuato in via tempestiva al passivo, la richiesta di ammissione, con collocazione parimenti privilegiata, anche di interessi e rivalutazione sino al soddisfo e dunque anche per l’intero corso della procedura concorsuale fino al momento di corresponsione dell’importo dovuto.

Una simile domanda non è stata accolta, dato che l’ammissione ha riguardato la sola sorte capitale.

La mancata impugnazione del provvedimento di parziale ammissione, con esclusione di interessi e rivalutazione fino al soddisfo, comporta, come rilevato dalla corte territoriale (in termini coerenti con quanto già stabilito da questa Corte con la sentenza n. 753/1981), la “preclusione nascente dal giudicato implicito e dalla applicazione della regola che il giudicato copre il dedotto e il deducibile”.

4.2 L’individuazione di un giudicato interno – che esclude il riconoscimento di interessi riguardo alla sorte capitale già ammessa e comporta l’esaurimento del rapporto sul punto, a prescindere dall’esecuzione del riparto – fa sì che non si presti a censure neppure il rilievo della corte territoriale riguardante l’inapplicabilità al caso di specie della pronuncia di illegittimità costituzionale resa dalla Consulta con la sentenza n. 162/2001.

Difatti le pronunce di accoglimento della Corte costituzionale hanno sì effetto retroattivo, inficiando sin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria al dettato costituzionale, salvo però il limite delle situazioni cd. “consolidate”, quali quelle derivanti da giudicato, come nel caso di specie (si vedano in questo senso Cass. 7/6/2000 n. 7704 e Cass. 21/11/2001 n. 14632).

5.1 Il quarto motivo di ricorso denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ai fini della compensazione delle spese di lite, già oggetto di discussione fra le parti: la corte territoriale avrebbe negligentemente letto gli atti di causa e compulsato il fascicolo di parte, non avrebbe rinvenuto in atti un precedente del Tribunale di Palermo che aveva risolto in senso opposto una fattispecie assolutamente identica e così avrebbe erroneamente omesso di riformare la decisione del giudice di primo grado in punto di regolazione delle spese di lite, senza disporre la loro integrale compensazione.

5.2 Il motivo è inammissibile, stante il carattere non decisivo del fatto storico asseritamente trascurato.

Si consideri in proposito che il disposto dell’art. 92 c.p.c., comma 2, nel testo applicabile ratione temporis, attribuiva al giudice del merito, ove egli avesse ritenuto di far rientrare il precedente in parola nel novero dei giusti motivi evocati dalla norma, il potere discrezionale e non l’obbligo di provvedere alla compensazione delle spese di lite fra le parti.

La censura si rivela perciò inammissibile, dato che il fatto storico di cui si denunci l’omesso esame assume carattere decisivo ove abbia portata idonea a determinare direttamente l’esito del giudizio (Cass. 5/3/2014 n. 5133) e dunque se, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, il suo esame avrebbe condotto a una diversa decisione (Cass. 27/8/2018 n. 21223).

6.1 L’ultimo motivo di ricorso denuncia l’intervenuta violazione di legge con riferimento al principio di diritto che esclude la ripetibilità dell’IVA sulle spese liquidate ove l’imposta rappresenti un costo detraibile per la parte vittoriosa: la corte distrettuale avrebbe erroneamente condannato l’appellante al rimborso anche dell’IVA sulle spese legali liquidate benché l’imposta fosse detraibile ad opera della procedura.

6.2 Il motivo è infondato, dovendosi ritenere che il giudice di merito abbia a ragione condannato la parte soccombente a corrispondere anche I’IVA sulle spese legali liquidate in favore della procedura.

In tema di liquidazione delle spese processuali in favore della parte vittoriosa la giurisprudenza di questa corte ha avuto occasione di precisare che non compete al giudice di cognizione, prima di disporre la condanna della parte soccombente al rimborso, oltre che delle spese processuali, anche dell’IVA da calcolarsi sulle stesse, accertare se l’imposta possa o meno essere detratta.

La sentenza di condanna della parte soccombente al pagamento delle spese processuali in favore della parte vittoriosa costituisce perciò titolo esecutivo anche per conseguire il rimborso dell’IVA che la medesima parte vittoriosa assuma di aver versato al proprio difensore, in sede di rivalsa e secondo le prescrizioni del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 18, trattandosi di un onere accessorio che, in via generale, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., comma 1, consegue al pagamento degli onorari al difensore.

La deducibilità dell’IVA rileva invece in ambito esecutivo, ove la parte soccombente ha la possibilità di contestare sul punto il titolo, con opposizione a precetto o all’esecuzione, al fine di far valere eventuali circostanze che, secondo le previsioni del D.P.R. n. 633 del 1972, possano escludere, nei singoli casi, la concreta rivalsa o, comunque, l’esigibilità dell’imposta in questione (cfr. Cass. 10/7/2018 n. 18192, Cass. 1/4/2011 n. 7551).

  1. In forza dei motivi sopra illustrati il ricorso deve essere pertanto respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro __, di cui Euro __ per esborsi, oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2019

 

Cass_civ_Sez_I_Ord_15_03_2019_n_7500




L’opponibilità al fallimento di un credito documentato con scrittura privata priva di data certa

L’opponibilità al fallimento di un credito documentato con scrittura privata priva di data certa

Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 6985 del l’11/03/2019

Con ordinanza dell’11 marzo 2019, la Corte di Cassazione, Sezione I Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che ai fini della decisione circa l’opponibilità al fallimento di un credito documentato con scrittura privata non di data certa, il giudice di merito, quando voglia darsi la prova del momento in cui il negozio è stato concluso, ove sia dedotto un fatto diverso da quelli tipizzati nell’art. 2704 c.c., ha il compito di valutarne, caso per caso, la sussistenza e l’idoneità a stabilire la certezza della data del documento, con il limite del carattere obiettivo del fatto, il quale non deve essere riconducibile al soggetto che lo invoca e deve essere, altresì, sottratto alla sua disponibilità.

 

 

Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 6985 del l’11/03/2019

L’opponibilità al fallimento di un credito documentato con scrittura privata priva di data certa

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

B. S.p.A. – ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l.  – controricorrente –

avverso la sentenza n. __ del TRIBUNALE di NAPOLI, del __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal cons. __. La Corte:

Svolgimento del processo

che:

  1. S.p.A. chiedeva l’ammissione al passivo del Fallimento (OMISSIS) S.r.l. del credito di Euro __, composto da Euro __, quale saldo debitore del conto n. (OMISSIS), già conto n. (OMISSIS), con interessi alla data del fallimento; e da Euro __, quale saldo debitore del conto n. (OMISSIS), già conto n. (OMISSIS), con interessi alla data del fallimento.

Il G.D. respingeva la domanda, ritenendo la mancanza di data certa del contratto n. (OMISSIS) e la mancata produzione del contratto n. (OMISSIS), ed in considerazione del conteggio, nel saldo finale del primo conto, della commissione di massimo scoperto, che non trovava riscontro nelle pattuizioni contrattuali.

L’opposizione proposta da B. S.p.A. è stata rigettata dal Tribunale con il decreto del __.

Nello specifico, e per quanto rileva, il Tribunale:

ha ritenuto che, a seguito della riforma fallimentare, è venuto meno il potere di acquisizione d’ufficio del fascicolo della fase della verifica, ed ha conseguentemente concluso per l’inammissibilità della richiesta di acquisizione del fascicolo contenente la domanda di ammissione al passivo e la relativa documentazione (da cui ulteriormente la tardività del fascicolo contenente la domanda di ammissione al passivo ed i relativi allegati, depositati dall’opponente successivamente al deposito del ricorso), così limitando i documenti valutabili solo a quelli allegati tempestivamente al ricorso in opposizione;

ha ritenuto altresì inammissibile la documentazione allegata al ricorso in opposizione, della quale la Cancelleria aveva attestato la produzione solo in data __, pur facendo presente che per la carenza di organico e l’elevato numero di atti, non era stato possibile apporre tempestivamente il depositato in alcune produzioni L. Fall., ex art. 98, richiamando altresì il principio di autoresponsabilità della parte;

nel merito, “per mero spirito di completezza”, ha ritenuto privo di data certa il contratto di conto corrente n. (OMISSIS), non riconducibile con certezza ai documenti di cui al foliario del fascicolo del monitorio (vi si indicava genericamente “lettera contratto e specimen di firma”), sul quale era stato apposto il timbro di cancelleria;

ha rilevato altresì la mancanza di sottoscrizione della Banca nel detto contratto di conto corrente, non potendosi applicare il principio della equipollenza con la produzione in giudizio, stante la posizione di terzietà del Curatore;

sempre “per spirito di completezza”, ha respinto la tesi della ricorrente, dell’estensione automatica della disciplina del contratto di conto corrente n. (OMISSIS) del __ al diverso rapporto di conto corrente acceso sotto il n. (OMISSIS), data la prescrizione della forma scritta ex art. 117 TUB ed ancora prima, della L. n. 154 del 1992, art. 3, comma 1, stante la possibilità di prevedere modalità alternative solo per la disciplina dei servizi accessori, da cui la mancanza di forma scritta e l’impossibilità di verificare la corrispondenza della data recata sull’atto alla data della prima operazione contabile annotata sull’estratto integrale di conto corrente;

ha ritenuto non sufficiente ai fini della prova del credito la produzione degli estratti integrali di conto corrente, vidimati ex art. 50 TUB, stante che il curatore non è stato parte del rapporto in precedenza, da cui l’impossibilità di far valere nei suoi confronti la valenza preclusiva derivante dall’approvazione anche tacita dei detti estratti conto.

Ricorre avverso detta pronuncia sulla base di dodici motivi B. S.p.A.

Il Fallimento si difende con controricorso, illustrato con la memoria ex art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

Che:

Col primo mezzo, la ricorrente denuncia i vizi ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5; si duole dell’avere il Tribunale ritenuto che tutti i documenti prodotti da B. S.p.A. e di cui all’indice di parte del ricorso L. Fall. ex art. 98 non fossero stati depositati insieme al ricorso il __, e che anche la dichiarazione del Cancelliere del __ non potesse valere a provare il contestuale deposito.

Col secondo, si duole dell’avere il Tribunale rilevato d’ufficio l’eccezione di tardività dei documenti allegati al ricorso, che spettava alla Curatela sollevare e col terzo mezzo denuncia che tale eccezione è stata accolta dal Tribunale senza assegnare il termine ex art. 101 c.p.c., comma 2, da cui la nullità della pronuncia.

Col quarto mezzo, in subordine o in alternativa, si duole dell’avere il Tribunale ritenuto che la produzione dei documenti dovesse avvenire unitamente al ricorso, con ciò violando la L. Fall., art. 99, comma 2, n. 4, che prescrive l’indicazione in ricorso dei documenti senza prevedere a pena di decadenza anche il deposito degli stessi.

Col quinto, si duole del non avere il Tribunale considerato che nel provvedimento di comparizione del curatore il Presidente del Tribunale aveva onerato la Cancelleria di depositare la domanda di ammissione al passivo della banca.

Con i motivi dal sesto al dodicesimo, la Banca, pur ritenendo svolta dal Tribunale ad abundantiam la valutazione nel merito, per tuziorismo sottopone a censura gli argomenti svolti nel merito.

Col sesto, si duole del non avere il primo Giudice attribuito data certa al contratto di conto corrente di cui alla lettera contratto del __, contenuta in originale nel fascicolo di parte del procedimento monitorio, con il relativo indice sottoscritto e datato dal Cancelliere il __, e quindi antecedente al fallimento del __ (la parte aveva anche esibito il decreto ingiuntivo concesso in data __ nel cui corpo è indicato tra gli allegati la lettera contratto e tra l’altro, oggetto del decreto è proprio il contratto n. (OMISSIS)).

Col settimo, denuncia la nullità del decreto impugnato, per avere il Tribunale sollevato d’ufficio l’eccezione di nullità del contratto n. (OMISSIS) ex artt. 117 e ss. TUB, senza neppure provocare sul punto il contraddittorio, ex art. 101 c.p.c., comma 2; con l’ottavo motivo, si duole del rilievo d’ufficio della detta nullità relativa, posta a tutela dell’esclusivo interesse del cliente, e sostiene che la prescrizione della forma scritta a pena di nullità dei contratti bancari può ritenersi rispettata quando il contratto sia sottoscritto dal cliente, nel cui interesse è prescritta la forma scritta.

Col nono motivo, la ricorrente, in subordine, denuncia che il Tribunale ha omesso di verificare che dal doc. esibito risultava la sottoscrizione da parte della Banca, sia pure su atto separato.

Col decimo, sempre in relazione al motivo di ricorso sub 7, si duole dell’omessa verifica da parte del Tribunale del fatto che non vi era stata alcuna revoca, né avrebbe potuto esserci, dato che il contratto era stato eseguito.

Con l’undicesimo motivo, la Banca si duole del non avere il Tribunale ritenuto la idoneità del contratto di conto corrente n. (OMISSIS) a disciplinare tutti i rapporti instaurati ed instaurandi e quindi l’estensione automatica della disciplina del primo anche al diverso rapporto di anticipazione acceso sotto il n. (OMISSIS).

Secondo la ricorrente, la S.C., con le pronunce 144790/2005 e 19941/2006, analizzando proprio il modulo contrattuale esibito da B. S.p.A., ha concluso nel senso della previsione anche dell’ipotesi delle aperture di credito.

Con il dodicesimo motivo, B. S.p.A. si duole della valutazione del Tribunale in ordine alle schede integrali dei conti, recanti l’indicazione di tutte le operazioni svolte nel corso del rapporto, in relazione alle quali è stata fatta valere non l’approvazione della correntista, ma la mancata contestazione della Curatela.

Prima di passare all’esame dei motivi, è opportuna la seguente premessa.

È noto l’indirizzo espresso nella pronuncia Sez. U. 30/10/2013, n. 24469, secondo cui, qualora il giudice che abbia ritenuto inammissibile una domanda, o un capo di essa, o un singolo motivo di gravame, così spogliandosi della potestas iudicandi sul relativo merito, proceda poi comunque all’esame di quest’ultimo, è inammissibile, per difetto di interesse, il motivo di impugnazione della sentenza da lui pronunciata che ne contesti solo la motivazione, da considerarsi svolta ad abundantiam, su tale ultimo aspetto (e in senso conforme, tra le ultime, la pronuncia, resa a sezione semplice, del 19/12/2017, n. 30393).

Ora, detto principio postula che la pronuncia sia stata resa decidendosi su di una preliminare di merito, ed a maggior ragione su di una pregiudiziale di rito, mentre è diversa l’ipotesi di decisione basata su distinte questioni di merito, anche se una pregiudiziale all’altra.

Ed infatti, per detta ipotesi, la pronuncia del 17/4/2015, n. 7838 ha affermato che il giudice, decidendo su una questione che, benché logicamente pregiudiziale sulle altre, attiene al merito della causa (nella specie, la dedotta invalidità della notifica dell’atto impositivo impugnato), a differenza di quanto avviene qualora dichiari l’inammissibilità della domanda o il suo difetto di giurisdizione o competenza, non si priva della potestas iudicandi in relazione alle ulteriori questioni di merito, sicché ove si pronunci anche su di esse, le relative decisioni non configurano “obiter dicta”, ma ulteriori rationes decidendi, che la parte ha l’interesse e l’onere d’impugnare, in quanto da sole idonee a sostenere il decisum.

Ed è questo il caso che qui rileva, di talché occorre valutare tutte le censure rivolte nei confronti della pronuncia impugnata.

I primi cinque motivi possono essere valutati unitariamente stante la stretta connessione tra gli stessi, e vanno accolti nei limiti e per le ragioni che si vanno ad illustrare.

Quanto all’acquisizione del fascicolo della fase dell’ammissione al passivo, va resa applicazione del principio reso nella pronuncia del 18/5/2017, n. 12549, secondo cui, nel giudizio di opposizione allo stato passivo, l’opponente, a pena di decadenza L. Fall., ex art. 99, comma 2, n. 4), deve soltanto indicare specificatamente i documenti, di cui intende avvalersi, già prodotti nel corso della verifica dello stato passivo innanzi al giudice delegato, sicché, in difetto della produzione di uno di essi, il tribunale deve disporne l’acquisizione dal fascicolo d’ufficio della procedura fallimentare ove esso è custodito; detto principio è stato ulteriormente specificato, con riguardo al fascicolo d’ufficio informatico del Fallimento, dalla pronuncia del 18/05/2017, n. 12549, che ha affermato che in tema di verifica dello stato passivo, i documenti trasmessi dal creditore al curatore tramite posta elettronica certificata e da questo inviati telematicamente alla cancelleria del giudice delegato entrano a fare parte del fascicolo d’ufficio informatico della procedura, ai sensi del D.M. n. 44 del 2011, art. 9, comma 1, sicché, proposta opposizione allo stato passivo, il tribunale deve disporre l’acquisizione dei documenti specificatamente indicati nel ricorso dall’opponente, L. Fall., ex art. 99, comma 2, n. 4), che siano custoditi nel detto fascicolo informatico.

Quanto alla documentazione prodotta col ricorso (diversa ed ulteriore rispetto alla doc. prodotta con la domanda di ammissione al passivo è la documentazione costituita dalle schede integrali di conto, mod.174 e fatture: vedi pag. 2 del decreto), va ritenuto l’omesso esame del fatto risultante dall’attestazione apposta il __ dal Cancelliere all’indice delle produzioni di parte, che esplicitamente ammette la mancata apposizione della stampigliatura “depositato” in data __ all’indice del ricorso, fatto sostanzialmente non considerato dal Tribunale, che ha considerato la successiva attestazione, di carattere generico, del Direttore di Cancelleria; inoltre, la Curatela si era costituita il __ con comparsa del __, contestando nel merito quanto dedotto e fatto valere dalla controparte, e tale fatto corroborava il previo deposito dei documenti.

Vale infine il richiamo al principio espresso, tra le altre, nella pronuncia del 20/10/2011, n. 21704, secondo il quale, quando la data del deposito di un atto in cancelleria deve risultare dall’annotazione del cancelliere sull’atto medesimo e dal suo inserimento nell’apposito registro cronologico, l’eventuale omissione o assoluta incertezza di tali annotazioni non può tradursi in prova del mancato o tardivo deposito, non potendosi escludere che, nonostante la menzionata omissione o incertezza, la parte abbia provveduto a depositare l’atto nel termine stabilito qualora quest’ultima circostanza risulti avvalorata da emergenze documentali oggettive.

Restano assorbite le ulteriori doglianze fatte valere nei motivi dal primo al quinto.

Il sesto motivo è fondato.

La pronuncia 3/8/2012, n. 13943 ha affermato che, in tema di data della scrittura privata, qualora manchino le situazioni tipiche di certezza contemplate dall’art. 2704 c.c., comma 1, ai fini dell’opponibilità della data ai terzi è necessario che sia dedotto e dimostrato un fatto idoneo a stabilire in modo ugualmente certo l’anteriorità della formazione del documento; ne consegue che tale dimostrazione può anche avvalersi di prove per testimoni o presunzioni, ma solo a condizione che esse evidenzino un fatto munito della specificata attitudine, non anche quando tali prove siano rivolte, in via indiziaria e induttiva, a provocare un giudizio di mera verosimiglianza della data apposta sul documento.

E in senso conforme, con specifico riguardo ai limiti della prova, in materia di opposizione allo stato passivo, le pronunce del 2/11/2017, n. 26115 e del 1/10/2015, n. 19656, hanno affermato che, ai fini della decisione circa l’opponibilità al fallimento di un credito documentato con scrittura privata non di data certa, il giudice di merito, quando voglia darsi la prova del momento in cui il negozio è stato concluso, ove sia dedotto un fatto diverso da quelli tipizzati nell’art. 2704 c.c. ha il compito di valutarne, caso per caso, la sussistenza e l’idoneità a stabilire la certezza della data del documento, con il limite del carattere obiettivo del fatto, il quale non deve essere riconducibile al soggetto che lo invoca e deve essere, altresì, sottratto alla sua disponibilità.

Ora, il Tribunale (a cui spettava d’ufficio la verifica dell’opponibilità del contratto alla Curatela, stante la rilevabilità d’ufficio della mancanza di data certa: così la pronuncia Sez. U. 20/2/2013, n. 4213) non ha reso corretta applicazione di detto principio: ha ritenuto che nell’elenco dei documenti del fascicolo del monitorio, timbrato dal cancelliere, è indicata una generica “lettera contratto e specimen di firma”, da cui la non diretta e certa corrispondenza tra l’indicazione nel foliario munita di timbro e la documentazione allegata al fascicolo, dovendo risultare con certezza, ai fini dell’equipollenza, che si tratti di quel determinato contratto, con quelle specifiche clausole.

Così opinando, il Tribunale ha del tutto incongruamente sostanzialmente postulato l’inserimento del contratto di cui si tratta nel fascicolo del monitorio a dispregio del timbro del Cancelliere, mentre il fatto rilevante ai fini della datazione certa dell’atto nei confronti del Fallimento è dato dalla corrispondenza del contratto azionato in sede monitoria e contenuto nel fascicolo di parte di detto procedimento, depositato il __, e quindi in data antecedente al fallimento, dichiarato il __, col contratto posto a base della domanda di ammissione al passivo, tanto più considerata l’indicazione di detta lettera contratto nel decreto ingiuntivo concesso in data __.

Il settimo motivo è infondato.

Ed infatti, come affermato nella sentenza Sez. U. del 12/12/2014, n. 26242 il rilievo “ex officio” di una nullità negoziale – sotto qualsiasi profilo ed anche ove sia configurabile una nullità speciale o “di protezione” – deve ritenersi consentito, sempreché la pretesa azionata non venga rigettata in base ad una individuata “ragione più liquida”, in tutte le ipotesi di impugnativa negoziale (adempimento, risoluzione per qualsiasi motivo, annullamento, rescissione), senza, per ciò solo, negarsi la diversità strutturale di queste ultime sul piano sostanziale, poiché tali azioni sono disciplinate da un complesso normativo autonomo ed omogeneo, affatto incompatibile, strutturalmente e funzionalmente, con la diversa dimensione della nullità contrattuale.

E detta pronuncia ha specificamente ritenuto la rilevabilità officiosa delle nullità negoziali anche di quelle cosiddette di protezione, dato che queste si configurano, alla stregua delle indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia, come una “species” del più ampio “genus” rappresentato dalle prime, tutelando le stesse interessi e valori fondamentali – quali il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l’uguaglianza almeno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost.) – che trascendono quelli del singolo (e conforme la successiva Sez. U. 26243/2014).

Nella specie, inoltre, la Curatela aveva contestato la validità del contratto di conto corrente n. (OMISSIS) e delle sue clausole, a valere anche in ordine al diverso rapporto n. (OMISSIS), visto quanto dedotto al par.__ della comparsa di costituzione e risposta e, come affermato, tra le ultime, nella pronuncia del 5/12/2017, n. 29098, l’obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio, ai sensi dell’art. 101 c.p.c., comma 2, ha lo scopo di evitare le decisioni c.d. “a sorpresa” o “della terza via”; tale obbligo, pertanto, vale solo per le questioni che il giudice rilevi effettivamente d’ufficio per non essere state dedotte dalle parti e non vale, invece, per le questioni che – pur rilevabili d’ufficio – siano state introdotte dalle parti sotto forma di eccezione c.d. “in senso lato”, in quanto tali questioni fanno già parte del “thema decidendum”.

È fondato invece l’ottavo motivo.

Come affermato nella pronuncia Sez. U. 8/1/2017, n. 898, in tema d’intermediazione finanziaria, il requisito della forma scritta del contratto-quadro, posto a pena di nullità (azionabile dal solo cliente) dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, va inteso non in senso strutturale, ma funzionale, avuto riguardo alla finalità di protezione dell’investitore assunta dalla norma, sicché tale requisito deve ritenersi rispettato ove il contratto sia redatto per iscritto e ne sia consegnata una copia al cliente, ed è sufficiente che vi sia la sottoscrizione di quest’ultimo, e non anche quella dell’intermediario, il cui consenso ben può desumersi alla stregua di comportamenti concludenti dallo stesso tenuti.

In applicazione di detto principio, la successiva pronuncia del 4/6/2018, n. 14243 ha affermato che i contratti bancari soggetti alla disciplina di cui al D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 117, così come i contratti di intermediazione finanziaria, non esigono ai fini della valida stipula del contratto la sottoscrizione del documento contrattuale da parte della banca, il cui consenso si può desumere alla stregua di atti o comportamenti alla stessa riconducibili, sicché la conclusione del negozio non deve necessariamente farsi risalire al momento in cui la scrittura privata che lo documenta, recante la sottoscrizione del solo cliente, sia prodotta in giudizio da parte della banca stessa, potendo la certezza della data desumersi da uno dei fatti espressamente previsti dall’art. 2704 c.c. o da altro fatto che il giudice reputi significativo a tale fine, nulla impedendo che il negozio venga validamente ad esistenza prima della produzione in giudizio della relativa scrittura ed indipendentemente da tale evenienza.

I motivi nono e decimo restano assorbiti.

Il motivo undicesimo è fondato.

Va a riguardo applicato l’orientamento di recente ribadito nella pronuncia 27836/2017, secondo il quale, in tema di disciplina della forma dei contratti bancari, la L. n. 154 del 1992, art. 3, comma 3, e successivamente il D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 117, comma 2, abilitano la Banca d’Italia, su conforme delibera del C.I.C.R. a stabilire che ”particolari contratti” possano essere stipulati in forma diversa da quella scritta, sicché quanto da queste autorità stabilito circa la non necessità della forma scritta, “in esecuzione di previsioni contenute in contratti redatti per iscritto”, va inteso nel senso che l’intento di agevolare particolari modalità della contrattazione non comporta una radicale soppressione della forma scritta ma solo una relativa attenuazione della stessa che, in particolare, salvaguardi l’indicazione nel “contratto madre” delle condizioni economiche cui andrà assoggettato il “contratto figlio”; e la successiva pronuncia 14249/2018, aderendo a detto orientamento, che consente quindi la stipulazione di un contratto in forma diversa da quella scritta (come già affermato nelle pronunce 20726-14 e Cass. n. 23597-17), ha aggiunto che questa sezione, in relazione all’art. 117 del T.u.b. e alle possibili confermate eccezioni al regime generale della nullità dei contratti bancari non stipulati per iscritto ove il C.i.c.r., mediante apposite norme di rango secondario, consenta che particolari contratti, per motivate ragioni tecniche, siano stipulabili in forma diversa da quella scritta (come avvenuto con la successiva delibera 4-3-2003), ha condivisibilmente ritenuto comunque necessaria una stretta connessione funzionale e operativa tra il contratto di apertura di credito e quello di conto corrente e una sostanziale regolamentazione del contratto accessorio desumibile da quello già formato per iscritto (v. in particolare Cass. n. 7763-17); questo perché – si è detto – l’intento di agevolare particolari modalità della contrattazione non comporta una radicale soppressione della forma scritta ma solo una relativa sua attenuazione, che, in particolare, salvaguardi l’indicazione nel “contratto madre” delle condizioni economiche cui andrà assoggettato il “contratto figlio” (cfr. Cass. n. 26836-17)”.

Nel caso che qui interessa, il Tribunale, pur ammettendo la possibilità di prevedere modalità alternative alla forma scritta, le ha erroneamente circoscritte alla sola disciplina dei servizi accessori, mentre avrebbe dovuto valutare il contratto di conto corrente e le norme generali, al fine di verificare se nel contratto fossero state previste aperture di credito e sovvenzioni.

Il motivo dodicesimo è fondato.

Il Tribunale ha concluso per la inidoneità della documentazione prodotta da B. S.p.A. al fine di provare il credito, ritenendo necessaria la produzione di tutta la documentazione relativa allo svolgimento del conto; nel resto, ha richiamato la valenza probatoria attribuita agli estratti conto, idonei a richiedere l’emissione di un decreto ingiuntivo, ma non sufficienti a fornire la prova piena del credito ai fini dell’ammissione al passivo.

Detta conclusione non è corretta, dato che il Tribunale ha omesso di esaminare i documenti prodotti, che costituiscono schede integrali di conto(nelle quali sono riportate tutte le operazioni effettuate dall’inizio del rapporto, prima operazione saldo o, alla chiusura, avvenuta alla data del fallimento) e non già semplici estratti conto e, richiedendo a B. S.p.A. la produzione di tutta la documentazione idonea a giustificare le singole operazioni rappresentata nell’estratto conto, si è discostata dal principio secondo il quale il credito della Banca va provato con l’integrale ricostruzione del dare e dell’avere, che comporta l’indicazione di tutte le operazioni, a partire dalla prima operazione sino alla chiusura, mentre è insufficiente il riferimento al saldo registrato alla data di chiusura del conto ed alla documentazione relativa all’ultimo periodo del rapporto, dal momento che quest’ultima non consente di verificare gli importi addebitati nei periodi precedenti per operazioni passive e quelli relativi agl’interessi, la cui iscrizione nel conto ha condotto alla determinazione dell’importo che costituisce la base di computo per il periodo successivo (così, tra le altre, le pronunce 21597/2013, 23974/2010 e 10692/2007).

E specificamente la recente pronuncia 22208/2018 ha affermato che in tema di ammissione al passivo fallimentare, nell’insinuare il credito derivante da saldo negativo di conto corrente, la banca ha l’onere di dare conto dell’intera evoluzione del rapporto tramite il deposito degli estratti conto integrali; il curatore, eseguite le verifiche di sua competenza, ha l’onere di sollevare specifiche contestazioni in relazione a determinate poste, in presenza delle quali la banca ha, a sua volta, l’onere ulteriore di integrare la documentazione, o comunque la prova, del credito avuto riguardo alle contestazioni in parola; il giudice delegato o, in sede di opposizione, il tribunale, in mancanza di contestazioni del curatore, è tenuto a prendere atto dell’evoluzione storica del rapporto come rappresentata negli estratti conto, pur conservando il potere di rilevare d’ufficio ogni eccezione non rimessa alle sole parti che si fondi sui fatti in tal modo acquisiti al giudizio.

Conclusivamente, va accolto il ricorso per i motivi sopra indicati e, cassata la pronuncia impugnata, la causa va rimessa al Tribunale di Napoli in diversa composizione, che si atterrà ai motivi ed ai profili accolti nella presenta pronuncia e che provvederà anche a decidere sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e rinvia al Tribunale di Napoli in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2019

Cass_civ_Sez_I_Ord_11_03_2019_n_6985