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Il pignoramento della criptovaluta non è possibile senza il consenso e la collaborazione spontanea del debitore

Il pignoramento della criptovaluta non è possibile senza il consenso e la collaborazione spontanea del debitore poiché l’incremento patrimoniale che deriverebbe dal conferimento di una criptovaluta non è passibile di valutazione né sotto il profilo economico né sotto il profilo giuridico-contabile

Tribunale Ordinario di Brescia, Sezione specializzata in materia di imprese, Decreto del 18/07/2018

Con decreto del 18 luglio 2018, il Tribunale Ordinario di Brescia, Sezione specializzata in materia di imprese,  in tema di recupero crediti, ha stabilito che l’incremento patrimoniale che deriverebbe dal conferimento di una criptovaluta non è passibile di valutazione né sotto il profilo economico, né sotto il profilo giuridico-contabile in quanto un ipotetico pignoramento della criptovaluta non è possibile senza il consenso e la collaborazione spontanea del debitore, alla luce della notoria esistenza di inviolabili dispositivi di sicurezza ad elevato contenuto tecnologico.

 

Tribunale Ordinario di Brescia, Sezione specializzata in materia di imprese, Decreto del 18/07/2018

Il pignoramento della criptovaluta non è possibile senza il consenso e la collaborazione spontanea del debitore poiché l’incremento patrimoniale che deriverebbe dal conferimento di una criptovaluta non è passibile di valutazione né sotto il profilo economico né sotto il profilo giuridico-contabile

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI BRESCIA

Sezione specializzata in materia di impresa – Volontaria Giurisdizione

Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati:

dott. (…) – Presidente

dott. (…) – Giudice

dott. (…) – Giudice Relatore

nel procedimento di volontaria giurisdizione iscritto al n. r.g. (…) V.G. promosso da:

(…) in proprio, nella sua qualità di amministratore unico di (…), con sede legale in (…)

ricorrente

letti gli atti e sentita la ricorrente all’udienza del (…), previa notifica al pubblico ministero, a scioglimento della riserva assunte in tale udienza, ha pronunciato il seguente

DECRETO

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il ricorso è stato proposto in data (…) ai sensi dell’art. 2436, terzo comma, c.c. da (…) in qualità di amministratore unico di (…) (di seguito la “Società”), avversa il rifiuto del Notaio di provvedere all’iscrizione nel Registro delle Imprese della delibera del (…) (doc. 1), con la quale l’assemblea della Società ha aumentato proporzionalmente il capitale sociale da Euro (…) a Euro (…) mediante conferimento in natura dei seguenti beni:

– con riferimento al socio (…) n. (…)unità della criptovaluta denominata “(…)”, con liberazione di capitale pari a Euro (…);

– con riferimento al socio (…) n. (…) opere d’arte costituite da dipinti su tela, di autori vari, con liberazione di capitale pari a residui Euro (…).

Con nota del (…) (doc. 2) il Notaio (…) ha comunicato il proprio diniego all’iscrizione nel Registro delle Imprese della suddetta delibera, ritenendola “non essere sufficientemente dotata dei requisiti di legittimità per ordinarne una immediata e incondizionata iscrizione”. In particolare, le censure investivano la parte di delibera riguardante il conferimento della moneta virtuale (…), con riferimento alla quale il Notaio evidenziava che le “criptovalute”, stante la loro volatilità, “non consentono una valutazione concreta del quantum destinato alla liberazione dell’aumento di capitale, sottoscritto”, né di valutare “l’effettività (quomodo) del conferimento”.

Con il citato ricorso e la memoria integrativa depositata il (…)la ricorrente ha chiesto al Tribunale di ordinare l’iscrizione nel Registro delle Imprese della menzionata delibera di aumento di capitale, sulla base delle motivazioni di seguito sintetizzate:

– la perizia (doc. 7) prodotta in sede di conferimento confermerebbe il valore del bene e il trasferimento della sua disponibilità in capo alla Società, a seguito della messa a disposizione delle credenziali (“transaction password”) da parte del socio conferente;

– l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che il possesso di moneta virtuale va inserito nella dichiarazione dei redditi e da ciò deriverebbe, in tesi, la possibilità di attribuire un valore economico a tale tipologia di beni;

– se possono costituire oggetto di conferimento sia i crediti sia taluni beni immateriali (la ricorrente richiama i diritti di proprietà industriale), non vi sarebbe ragione per escludere la liceità del conferimento delle criptovalute;

– nel caso di specie, (…) sarebbe una moneta virtuale scambiata su mercati non regolamentati (piattaforma raggiungibile all’indirizzo internet “(…) e soggetta alla valutazione da parte di operatori specializzati;

– l’asserito livello di diffusione della valuta virtuale (…) presso gli utenti della citata piattaforma on line, richiamato mediante la documentazione prodotta, confermerebbe che trattasi di mezzo di pagamento sufficientemente riconosciuto e accettato anche dagli esercenti.

Le motivazioni alla base del ricorso non risultano convincenti.

Il Collegio ritiene che l’esame di tali profili debba costituire il nucleo centrale della relazione giurata richiesta dall’art. 2465 c.c., per un verso escludendosi che il giudice possa sostituire integralmente la propria valutazione di merito a quella dell’esperto, ma dovendosi peraltro ammettere la facoltà per il giudice di sindacare la completezza, logicità, coerenza e ragionevolezza delle conclusioni raggiunte dall’esperto.

Nel caso di specie, pur tenuto conto della novità della questione, la perizia di stima prodotta non presenta un livello di completezza e affidabilità sufficiente per consentire un esauriente vaglio di legittimità della delibera in esame.

Infatti, soltanto a seguito della discussione in udienza è emerso che (…) non è ad oggi presente in alcuna piattaforma di scambio tra criptovalute ovvero tra criprovalute e monete aventi corso legale, con la conseguente impossibilità di fare affidamento su prezzi attendibili in quanto discendenti da dinamiche di mercato.

Di converso, risulta agli atti che l’unico “mercato” nel quale (…) concretamente opera è costituito da una piattaforma dedicata alla fornitura di beni e servizi (…) riconducibile – secondo quanto dichiarato dalla ricorrente – ai medesimi soggetti ideatori della criptovaluta, nel cui ambito (invero assai ristretto (…)unge da mezzo di pagamento accettato: ne deriva, dunque, un carattere prima facie autoreferenziale dell’elemento attivo conferito, incompatibile con il livello di diffusione e pubblicità di cui deve essere dotata una moneta virtuale che aspira a detenere una presenza effettiva sul mercato.

La perizia di stima si limita sul punto a riportare il “valore normale” dei beni tratto dalle quotazioni del sito (…) senza fornire alcuna indicazione sulle caratteristiche di tale sito, la cui denominazione – peraltro – evoca (ancora una volta) una probabile prossimità con gli stessi soggetti ideatori di (…)

Inoltre, non sono agevolmente ricostruibili ex post i criteri utilizzati dall’esperto per la determinazione del valore, potendosi dedurre allo stato che lo stesso si sia limitato a prestare una incondizionata adesione all’ultimo valore disponibile sul citato sito internet (…)”(quello in data (…)), che incidentalmente è anche il più alto fatto registrare dall’inizio della pretesa “quotazione”, in assenza di correttivi (ad esempio l’utilizzo di una media) utili a ottenere un effetto stabilizzatore del prezzo.

Il Collegio ritiene opportuno evidenziare preliminarmente che in questa sede non è in discussione l’idoneità della categoria di beni rappresentata dalle c.d. “criptovalute” a costituire elemento di attivo idoneo al conferimento nel capitale di una s.r.l., bensì se il bene concretamente conferito nel caso di specie (la valuta virtuale denominata (…)) soddisfi il requisito di cui all’art. 2464, comma secondo, c.c.

La suddetta considerazione svuota di rilevanza le argomentazioni formulate dalla ricorrente con riferimento alla categoria delle “monete virtuali” in generale, dovendosi piuttosto indagare la natura e le caratteristiche in concreto della singola criptovaluta oggetto di conferimento, come descritte nella perizia ed emerse nel corso del procedimento.

Al riguardo osserva in primo luogo il Collegio che, in via preliminare rispetto a quanto rilevato dal Notaio sotto il profilo della volatilità, va affrontata la questione relativa alla possibilità stessa di attribuire ab origine un valore economico attendibile al bene in esame.

In tal senso, avuto riguardo alla funzione “storica” primaria del capitale sociale, in chiave di garanzia nei confronti dei creditori, costituiscono requisiti fondamentali di qualunque bene adatto al conferimento:

– l’idoneità a essere oggetto di valutazione, in un dato momento storico, prescindendosi per il momento dall’ulteriore problematica connessa alle potenziali oscillazioni del valore;

– quale corollario del suddetto requisito, l’esistenza di un mercato del bene in questione, presupposto di qualsivoglia attività valutativa, che impatta poi sul grado di liquidità del bene stesso e, quindi, sulla velocità di conversione in denaro contante;

– l’idoneità del bene a essere “bersaglio” dell’aggressione da parte dei creditori sociali, ossia l’idoneità a essere oggetto di forme di esecuzione forzata (a tale riguardo si ha presente quella parte della dottrina convinta che tale requisito sia irrilevante, sul presupposto teorico secondo il quale la funzione di garanzia del capitale andrebbe letta in senso giuridica-contabile e non già materiale; tuttavia non può trascurarsi come in ogni caso la dimensione materiale del bene recuperi valenza quanto meno sotto il profilo della quantificazione del valore economico, dovendo per ciò stesso essere oggetto di analisi).

Infine, il terzo dei requisiti sopra menzionati, ossia l’idoneità del bene a essere oggetto di aggressione da parte dei creditori, risulta parimenti trascurato all’interno della perizia di stima, laddove manca qualunque riferimento alle modalità di esecuzione di un ipotetico pignoramento della criptovaluta oggetto di conferimento, profilo da ritenere decisamente rilevante nella fattispecie, alla luce della notoria esistenza di dispositivi di sicurezza ad elevato contenuto tecnologico che potrebbero, di fatto, renderne impossibile l’espropriazione senza il consenso e la collaborazione spontanea del debitore.

Alla stregua di quanto sopra osservato, emerge una moneta virtuale ancora in fase sostanzialmente embrionale (la stessa ricorrente ha evidenziato che, secondo le informazioni in suo possesso, la “quotazione” di (..). sulle principali piattaforme di conversione sarebbe un progetto in cantiere), che – allo stato – non presenta i requisiti minimi per poter essere assimilata a un bene suscettibile in concreto di una valutazione economica attendibile.

Pertanto non sussistono i presupposti per la concessione del provvedimento ordinatorio richiesto.

Non essendosi costituiti nel procedimento soggetti ulteriori al ricorrente, non sorge la necessità di una pronuncia in ordine alle spese.

P.Q.M.

il Tribunale in composizione collegiale, visti gli artt. 2464, secondo comma, 2465 e 2436 c.c.,

RESPINGE il ricorso.

Nulla sulle spese.

Così deciso in Brescia, il 18 luglio 2018.

Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2018.

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L’estratto di saldaconto certificato ai sensi dell’art. 50 D.Lgs. 385/1993 da un dirigente dell’istituto di credito costituisce idonea prova scritta per l’emissione del decreto ingiuntivo

L’estratto di saldaconto certificato ai sensi dell’art. 50 D.Lgs. 385/1993 da un dirigente dell’istituto di credito costituisce idonea prova scritta per l’emissione del decreto ingiuntivo

Tribunale Ordinario di Velletri, Sezione II Civile, Sentenza del 14/12/2018

Con sentenza del 14 dicembre 2018, il Tribunale Ordinario di Velletri, Sezione II Civile, in tema di recupero crediti, ha stabilito che l’estratto di saldaconto certificato ai sensi dell’art. 50 D.Lgs. 385/1993 da un dirigente dell’istituto di credito che attesti la conformità del saldo negativo di conto corrente, posto a fondamento del ricorso monitorio, alle risultanze delle scritture contabili in possesso della banca costituisce idonea prova scritta per l’emissione del decreto ingiuntivo.

 

Tribunale Ordinario di Velletri, Sezione II Civile, Sentenza del 14/12/2018

L’estratto di saldaconto certificato ai sensi dell’art. 50 D.Lgs. 385/1993 da un dirigente dell’istituto di credito costituisce idonea prova scritta per l’emissione del decreto ingiuntivo

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI VELLETRI

SECONDA SEZIONE CIVILE

Il Giudice Unico dott. __ nella causa N. R.G . __, trattenuta in decisione all’udienza del __, vertente tra:

A. s.r.l., S., M. difesi giusta delega in atti dall’ Avv. __

OPPONENTI- attori in riconvenzionale

E

U. s.p.a. , difesa giusta delega in atti dall’Avv. __

OPPOSTA- convenuta in via riconvenzionale

OGGETTO: opposizione a d.i. – rapporti bancari – anatocismo – usura

Ha pronunciato

SENTENZA

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

In via pregiudiziale si precisa che la presente sentenza viene redatta secondo lo schema contenutistico delineato dagli artt. 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., come modificato dalla L. n. 69 del 2009 , e quindi con omissione dello svolgimento del processo ed espressione succinta delle ragioni di fatto e di diritto della decisione ; si premette la conoscenza del ricorso per d.i. e della documentazione allegata , dell’atto di citazione in opposizione a d.i. e della documentazione allegata , della comparsa di costituzione e risposta , delle memorie autorizzate e di tutti gli altri atti e documenti di causa, che qui integralmente si richiamano.

  1. A. s.r.l. , quale debitrice principale , e S. e M., quali fideiussori, hanno spiegato tempestiva opposizione a d.i. provvisoriamente esecutivo dell’importo di Euro __ (d.i. notificato il __ – atto di citazione in opposizione a d.i. notificato il __ – iscrizione della causa a ruolo del __) , oltre interessi e spese , emesso dall’intestato Tribunale su istanza della U. s.p.a. , quale saldo debitore del conto corrente affidato n. __ , intrattenuto presso la Filiale di __, assistito da contratto di apertura di credito , e garantito da fideiussione omnibus sino alla concorrenza di Euro __ (in atti).

Hanno dedotto gli opponenti a fondamento della domanda di revoca del d.i. opposto e della domanda riconvenzionale di restituzione degli importi indebitamente percepiti e di risarcimento del danno: 1) inidoneità del certificato di saldaconto finale a costituire prova scritta del credito; 2) l’applicazione di interessi usurari ; 3) l’applicazione di pratiche anatocistiche nonché di spese e commissioni non dovute; 4) hanno infine lamentato la illegittima segnalazione alla Centrale Rischi da parte della Banca.

La Banca ha contestato analiticamente le doglianze avversarie, instando per il rigetto della opposizione e della domanda riconvenzionale.

Tanto premesso, va anzitutto affermata la procedibilità della domanda ai sensi del D.Lgs. n. 28 del 2010, avendo gli opponenti preventivamente esperito la mediazione obbligatoria, conclusasi con esito negativo (v. verbale di mediazione con esito negativo in atti).

Ferma dunque la procedibilità della domanda, quanto alla doglianza sub 1), osserva il decidente che l’estratto di saldaconto certificato ai sensi dell’art. 50 D.Lgs. n. 385 del 1993 da un dirigente dell’istituto di credito che attesti la conformità del saldo negativo di conto corrente, posto a fondamento del ricorso monitorio, alle risultanze delle scritture contabili in possesso della banca costituisce, come è noto, idonea prova scritta per l’emissione del decreto ingiuntivo (cfr ex multis Cass. 14234/2003).

L’estratto di saldaconto, inteso quale dichiarazione unilaterale di un funzionario della banca creditrice accompagnata dalla certificazione della sua conformità alle scritture contabili e da un’attestazione di verità e liquidità del credito, si distingue dall’ordinario estratto conto, funzionale a certificare le movimentazioni debitorie e creditorie intervenute dall’ultimo saldo, con le condizioni attive e passive praticate dalla banca; il suddetto estratto conto, trascorso il debito periodo di tempo dalla sua comunicazione al correntista, assume carattere di incontestabilità ed è, conseguentemente, idoneo a fungere da prova anche nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo eventualmente instaurato dal correntista (Cass. 2751/2002; 12233/2003).

Le doglianze degli opponenti sulla mancanza di idonea prova scritta per l’emissione del decreto ingiuntivo, considerato che il giudizio di opposizione a d.i. non si risolve in una verifica della legittimità dei presupposti per l’emissione del provvedimento monitorio, dovendo l’opposto dare la prova dei fatti costitutivi del proprio credito e l’ingiunto la prova di fatti modificativi e/o estintivi della pretesa azionata in via monitoria, sono in ogni caso superate, tenuto conto del fatto che la Banca ha provveduto a depositare gli estratti conto corredati dei riassunti scalari afferenti al rapporto posto a fondamento del ricorso monitorio con le partite di dare – avere, riproducenti tutte le movimentazioni del rapporto.

Tali estratti conto, la cui produzione in giudizio equivale a trasmissione degli stessi nella accezione di cui all’art. 1832 c.c., non risultano essere stati oggetto di analitica contestazione, in riferimento alle singole movimentazioni contabili, da parte della società correntista e dei garanti.

Quanto ai motivi sub 2) e 3) occorre compiere una doverosa premessa sulla configurazione dell’onere di allegazione nel processo civile sia in relazione ai motivi di opposizione che in riferimento alla azione di ripetizione di indebito che è oggetto della domanda riconvenzionale.

Costituisce principio pacifico quello secondo il quale chi agisce per la ripetizione delle somme che assume indebitamente corrisposte ha l’onere di provare l’inesistenza di una causa giustificativa del pagamento per la parte che si assume non dovuta, essendo tale inesistenza un elemento costitutivo unitamente all’avvenuto pagamento ed al collegamento causale della domanda di indebito oggettivo ex articolo 2033 c.c. ( Cass. Civ. 7501/2012).

Tale principio trova applicazione anche in tema di azione di ripetizione di somme indebitamente corrisposte in applicazione di clausole contrattuali contenute in contratti bancari che si assumono nulle (vedi Corte d’Appello Milano, Sezione I, sentenza 6 dicembre 2012; Tribunale Milano sezione VI sentenza 3 giugno 2014).

Più specificamente, quando il correntista intenda, previa contestazione delle risultanze del saldo di conto corrente a lui sfavorevole, esercitare l’actio indebiti ai sensi dell’articolo 2033 c.c. è tenuto a dimostrare i fatti costitutivi del diritto alla ripetizione, ovverossia la nullità del titolo e l’avvenuta annotazione delle poste contestate, e quindi deve produrre, quanto meno, il contratto di conto corrente per dimostrare che esso contiene la pattuizione di clausole illegittime (come ad esempio l’anatocismo nel calcolo degli interessi) o la mancata pattuizione per iscritto, così come dovuto per legge (articolo 1284 c.c. e 117 TUB), di talune condizioni poi applicate al contratto (ad esempio il tasso d’interesse ultralegale e la commissione di massimo scoperto) e gli estratti conto integrali del medesimo rapporto di conto corrente, quale documento contenente la dettagliata indicazione dei movimenti del rapporto indispensabili alla verifica delle poste puntualmente addebitate e accreditate in conto che l’attore assuma illegittimamente addebitate.

Infatti il principio dispositivo dei mezzi di prova, cristallizzato dall’articolo 2697 c.c., impone al giudice di esaminare i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni delle parti sulla base degli elementi probatori che l’attore e il convenuto hanno rispettivamente prodotto a corredo dei propri atti.

Il generale principio dell’onere probatorio ex articolo 2697 c.c. presuppone, come antecedente logico necessario, la adeguata e tempestiva allegazione delle circostanze fattuali che la parte è onerata di provare quali fatti costitutivi della domanda (Cass. Civ. 16182/2011).

L’onere di specifica e tempestiva allegazione dei fatti costitutivi della domanda assume, del resto, valenza imprescindibile all’interno del sistema processuale vigente, caratterizzato da rigide preclusioni assertive e probatorie e dal generale principio di non contestazione introdotto dall’articolo 115 comma 1 c.p.c., così come modificato dall’articolo 45 L. n. 69 del 2009; in proposito, la Corte Costituzionale ha, in vero, affermato quanto segue: in ordine al principio di non contestazione, il sistema di preclusioni del processo civile tuttora vigente e di avanzamento nell’accertamento giudiziale dei fatti mediante il contraddittorio delle parti, se comporta per queste ultime l’onere di collaborare, fin dalle prime battute processuali, a circoscrivere la materia controversa, evidenziando con chiarezza gli elementi in contestazione, suppone che la parte che ha l’onere di allegare e provare i fatti anzitutto specifichi le relative circostanze in modo dettagliato ed analitico, così che l’altro abbia il dovere di prendere posizione verso tali allegazioni puntuali, e di contestarle ovvero di ammetterle , in mancanza di una risposta in ordine a ciascuna di esse (Cass. Civ. 21847/2014; 6606/2016).

Fermi i principi generali come sopra delineati, rileva il decidente che parte attrice non ha prodotto il contratto di conto corrente con le condizioni economiche ivi contenute, produzione indispensabile al fine della prospettazione di eventuali profili patologici del contratto medesimo, e ha fatto riferimento per relationem al contenuto di una perizia contabile di parte.

Non può seriamente condividersi l’assunto secondo il quale l’atto di citazione sia sufficientemente completo degli elementi costitutivi ove faccia riferimento per relationem ad una perizia, nella specie, contabile di parte, dovendo invece essere soddisfatto l’onere di allegazione nei termini come sopra enunciati.

Ritiene il decidente che le carenze dal punto di vista delle allegazioni dell’atto introduttivo del giudizio non possono essere colmate attraverso l’esame diretto della documentazione allegata, in particolare attraverso l’esame della perizia di parte, in quanto il profilo assertivo e quello probatorio devono comunque essere tenuti distinti.

Tenuto conto dunque del fatto che parte attrice non ha assolto all’onere di allegazione sulla stessa gravante, va inoltre evidenziato che è stata la Banca a produrre all’atto della costituzione in giudizio il contratto di conto corrente con le condizioni economiche allegate nonché i contratti di fideiussione.

Per le considerazioni che precedono, tenuto altresì conto del fatto che, con particolare riferimento alla prospettata usurarietà dei tassi di interesse applicati, parte opponente non ha allegato i decreti ministeriali contenenti la indicazione del TEGM per le singole operazioni economiche di volta in volta considerate, deve revocarsi l’ordinanza ammissiva di CTU contabile resa all’udienza del __, proprio a cagione del non corretto assolvimento dell’onere di allegazione, avuto riguardo all’orientamento maggioritario seguito dal decidente secondo cui il principio “iura novit curia” non si applica ai decreti ministeriali di cui sopra, talché chi eccepisce l’usura dei tassi di interesse pattuiti o praticati in costanza di rapporto non può limitarsi ad indicare i trimestri in cui il tasso soglia sarebbe stato superato ma deve anche indicare e produrre i decreti ministeriali sul TEGM per l’operazione economica dedotta in giudizio, contenenti i parametri di riferimento ai fini della determinazione della natura usuraria dei tassi di interesse.

Può dunque affermarsi che non sono stati allegati e provati da parte degli opponenti i fatti modificativi e/o estintivi della pretesa creditoria monitoriamente azionata, laddove la Banca ha invece provato i fatti costitutivi del credito con la produzione del contratto e con gli estratti conto riproducenti tutte le movimentazioni contabili attive e passive, unitamente ai contratti di fideiussione.

Quanto alla fideiussione prestata dai Signori M. e S., si osserva che il generale principio dell’accessorietà di cui all’art. 1945 c.c. secondo cui “il fideiussore può opporre contro il creditore tutte le eccezioni che spettano al debitore principale, salva quella derivante dall’incapacità” non può trovare applicazione al caso di specie.

Le fideiussioni prestate dagli odierni opponenti, infatti, pur avendo il nomen iuris della fideiussione, non possono configurarsi come il contratto di fideiussione tipico previsto e disciplinato dagli artt. 1936 e seguenti c.c., venendo invece in rilievo un contratto atipico di garanzia a prima richiesta come si evince dagli artt. 6, 7 e 8 dei contratti di fideiussione allegati, da cui risulta testualmente che: “il fideiussore è tenuto a pagare immediatamente alla Banca, a semplice richiesta scritta, quanto dovutole per capitale, interessi, spese, tasse ed ogni accessorio nei limiti dell’importo massimo garantito…; Nell’ipotesi in cui le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione si intende fin d’ora estesa a garanzia dell’obbligo di restituzione delle somme comunque erogate”.

Il contratto autonomo di garanzia, che realizza al pari della fideiussione interessi meritevoli di tutela e costituisce espressione dell’autonomia privata di cui all’art. 1322 c.c., postula che il garante sia tenuto ad adempiere l’obbligazione del debitore principale non appena il creditore richieda l’esecuzione della prestazione, e che egli non possa sollevare le eccezioni spettanti al debitore principale, salva l’ipotesi dell’exceptio doli: il debitore principale ed il garante si trovano su di un piano di assoluta parità rispetto al creditore, restando escluso che il garante possa giovarsi del beneficio della preventiva escussione del patrimonio del debitore, in considerazione della mancanza del vincolo di accessorietà dell’obbligazione di garanzia rispetto a quella principale che caratterizza il negozio autonomo di garanzia.

Per consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità da questo Tribunale condiviso, al contratto autonomo di garanzia, in difetto di diversa previsione da parte dei contraenti, non si applica la norma di cui all’art. 1957 c.c ., sull’onere del creditore garantito di far valere tempestivamente le sue ragioni nei confronti del debitore principale, atteso che tale disposizione, collegata al carattere accessorio dell’obbligazione fideiussoria, instaura un collegamento necessario e ineludibile tra la scadenza dell’obbligazione di garanzia e quella dell’obbligazione principale, e come tale rientra tra quelle su cui si fonda l’accessorietà del vincolo fideiussorio, per ciò solo inapplicabile ad un’obbligazione di garanzia autonoma (Cass. SSUU 3947/2010).

In altri termini con l’assunzione di garanzia personale autonoma e atipica il garante assume su di sé l’obbligo di pagare comunque e a prescindere dalle vicende relative alla validità e/o efficacia del rapporto fondamentale tra creditore garantito e debitore principale.

Tale obbligo nasce da una semplice richiesta del creditore, e oggetto della garanzia non è tanto l’adempimento e l’esecuzione della prestazione quanto l’assunzione di una obbligazione indennitaria giacché il garante assume su di sé i rischi derivanti dall’inadempimento, colpevole o incolpevole che sia, del debitore principale.

La domanda risarcitoria infine per la pretesa illegittima segnalazione alla Centrale Rischi va infine rigettata atteso che la segnalazione deriva proprio dallo scoperto di conto corrente.

Per le considerazioni che precedono si impone il rigetto della opposizione e della domanda riconvenzionale spiegata dagli opponenti, con conseguente declaratoria di esecutività del d.i. opposto ai sensi dell’art. 653 c.p.c.

Le spese di causa, ivi comprese quelle di CTU, seguono la soccombenza e vanno poste a carico di parte opponente con liquidazione ai sensi del D.M. n. 55 del 2014 (scaglione da Euro __ ad Euro __, valori minimi, avuto riguardo alle quattro fasi del giudizio).

P.Q.M.

Il Tribunale in composizione monocratica, definitivamente pronunciando, così provvede:

  1. a) revoca l’ordinanza resa all’udienza del __;
  2. b) rigetta l’opposizione e, per l’effetto, dichiara esecutivo il decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 653 c.p.c.;
  3. c) rigetta la domanda riconvenzionale spiegata dagli opponenti nei confronti di parte opposta;
  4. d) condanna gli opponenti in solido alla refusione delle spese di causa in favore di parte opposta, che si liquidano in Euro __ per compenso ex D.M. n. 55 del 2014, rimb. forf. sp. gen., IVA e CPA come per legge;
  5. e) pone in via definitiva a carico di parte opponente le spese di CTU liquidate con separato decreto.

Così deciso in Velletri, il 11 dicembre 2018.

Depositata in Cancelleria il 14 dicembre 2018.

Tribunale_Velletri_Sez_II_Sent_14_12_2018




Il curatore che intenda agire per il recupero dei crediti sorti da un contratto oggetto di clausola compromissoria ha l’obbligo di rispettare anche l’eventuale clausola compromissoria che ne faccia parte

Il curatore che intenda agire per il recupero dei crediti sorti da un contratto oggetto di clausola compromissoria ha l’obbligo di rispettare anche l’eventuale clausola compromissoria che ne faccia parte

Tribunale Ordinario di Trento, Sezione Civile, Sentenza del 02/11/2018

Con sentenza del 2 novembre 2018, il Tribunale Ordinario di Trento, Sezione Civile, in tema di fallimento, ha stabilito che il curatore che intenda agire per il recupero dei crediti sorti da un contratto oggetto di clausola compromissoria ha l’obbligo di rispettare anche l’eventuale clausola compromissoria che ne faccia parte. Diversamente opinando, si consentirebbe al curatore di sciogliersi da singole clausole del contratto di cui chiede l’adempimento.

 

Tribunale Ordinario di Trento, Sezione Civile, Sentenza del 02/11/2018

Il curatore che intenda agire per il recupero dei crediti sorti da un contratto oggetto di clausola compromissoria ha l’obbligo di rispettare anche l’eventuale clausola compromissoria che ne faccia parte

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Trento, in persona del Giudice dott. __ in funzione di Giudice Unico, ha pronunziato la seguente

SENTENZA

nella causa civile sub n. __ R.G. promossa da:

E. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore;

-OPPONENTE-

CONTRO

FALLIMENTO S. s.r.l. in liquidazione, in persona del curatore pro tempore;

-OPPOSTO-

Oggetto: appalto: altre ipotesi ex art. 1665 e ss. c.c. (ivi compresa l’azione ex art. 1669 c.c.)

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con decreto ingiuntivo emesso in data 19.10.2015 il Tribunale di Trento ingiungeva alla società E. s.r.l. di pagare al Fallimento S. s.r.l. in liquidazione la somma di Euro __, oltre interessi e spese ivi liquidati, a titolo di corrispettivo per la vendita, il relativo montaggio e il collaudo di impianti e relativi accessori eseguiti nel __.

La società E. s.r.l. proponeva rituale opposizione avverso il suddetto provvedimento monitorio. L’opponente eccepiva in via preliminare la nullità del decreto ingiuntivo opposto per incompetenza del giudice adito, stante la clausola compromissoria pattuita nei contratti fatti valere dal Fallimento opposto nel procedimento monitorio; nel merito lamentava l’inadempimento di parte opposta deducendo che gli impianti de quibus presentassero problematiche e difetti, che analiticamente precisava. Concludeva chiedendo, in via subordinata, la riduzione dell’entità delle somme richieste da parte opposta a titolo di corrispettivo e il risarcimento dei danni quantificati nella somma di Euro __ o nella misura accertanda.

Il Fallimento opposto si costituiva ritualmente, chiedendo la reiezione dell’opposizione e la conseguente conferma del decreto ingiuntivo. Il medesimo contestava la fondatezza dell’eccezione relativa al difetto di incompetenza sollevata da parte opponente; deduceva al riguardo che il ricorso monitorio dovesse essere proposto avanti al Giudice Ordinario anche in presenza di clausola compromissoria, visto che il procedimento arbitrale non prevede l’emissione di provvedimenti inaudita altera parte, e che la clausola arbitrale in rilievo non fosse opponibile alla curatela, essendo i contratti de quibus in cui detta clausola era inserita secondo le deduzioni della stessa parte opponente inefficaci; nel merito, contestava gli asseriti inadempimenti, rilevando che l’opponente non avesse fornito alcuna prova né dei vizi né dei danni lamentati e che quest’ultima avesse ottenuto la fornitura di macchinari di ingente valore, senza provvedere al relativo pagamento. Concludeva per il rigetto dell’eccezione in rito, per la nullità della citazione ex art. 164 c.p.c. per violazione dell’art. 163 c.3 n.4 c.p.c. per incertezza del petitum e della causa petendi e per la reiezione dell’opposizione.

La presente causa passa ora in decisione.

Occorre preliminarmente valutare la fondatezza dell’eccezione di arbitrato sollevata da parte opponente.

Tale eccezione è oggetto di disamina prima di ogni altra eccezione anche dell’eccezione di nullità dell’atto di citazione, in quanto quest’ultima eccezione presuppone comunque la sussistenza della competenza del giudice adito.

La suddetta eccezione va accolta, in quanto fondata.

La clausola arbitrale è prevista in entrambi i contratti stipulati dall’opponente con la società S.E. s.r.l. in bonis all’art. 13 ove si legge: “Qualsiasi controversia dovesse insorgere tra il Venditore e l’Acquirente in relazione al presente contratto, alla sua interpretazione e/o esecuzione e/o risoluzione, verrà risolta ove possibile tra le parti in via amichevole e diretta. Qualora le parti non dovessero riuscire a comporre amichevolmente la controversia tra loro insorta entro 20 giorni dalla prima comunicazione scritta di contestazione inviata da una parte all’altra, essa controversia sarà devoluta alla decisione di un Collegio Arbitrale composto da tre Arbitri, due dei quali nominati da ciascuna delle parti ed il terzo dai due arbitri così nominati. In caso di mancata nomina di un arbitro di parte e/o disaccordo sul nominativo del terzo arbitro, vi provvederà su conforme istanza il Presidente del Tribunale di Trento…lo stesso sarà rituale con sede in Trento”.

La controversia in esame rientra nel novero delle vertenze devolute agli Arbitri, in quanto afferisce all’esecuzione dei contratti de quibus.

Irrilevante ai fini della presente decisione è il fatto che gli Arbitri non possono emanare provvedimenti monitori, visto che la mancata previsione di tale potere non comporta il venire meno della competenza degli Arbitri a decidere il merito della controversia a loro affidata dalle parti giusta la pattuizione di una clausola arbitrale.

Premesso che il credito azionato ha origine nei contratti sopra richiamati e che conseguentemente il curatore ha fatto valere un credito scaturente dai suddetti contratti, ne deriva che detto curatore deve adeguarsi al contenuto dei suddetti contratti nella loro interezza e quindi anche alla clausola compromissoria: secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità condiviso da questo Tribunale “il curatore che intenda agire per il recupero dei crediti sorti da un contratto oggetto di clausola compromissoria si vede costretto, proprio in virtù della pretesa azionata a far proprio il regolamento contrattuale, con conseguente obbligo di rispettare anche l’eventuale clausola compromissoria che ne faccia parte” (vedi Cass. 6165/2003); “diversamente opinando, si consentirebbe al curatore di sciogliersi da singole clausole del contratto di cui chiede l’adempimento” (vedi Cass. 10800/2015).

Al riguardo non rileva che i contratti de quibus siano risolti in quanto per le prestazioni già eseguite si applica comunque la clausola arbitrale pattuita, avendo questa causa autonoma: l’applicabilità di detta clausola risponde all’esigenza di disciplinare le pendenze tra le parti insorte secondo la procedura pattuita (vedi Cass. 10800/2015).

Né è sostenibile che il curatore agisca nell’interesse della massa e non quale subentrante nella posizione del fallito, in quanto i contratti per cui il curatore agisce sono stati stipulati non dal Fallimento ma dalla società S. s.r.l. in bonis.

Ne consegue che la presente controversia va devoluta alla cognizione degli arbitri e il decreto ingiuntivo va revocato.

Le spese del presente giudizio vanno liquidate da questo Giudice, non essendovi potestà degli arbitri con riferimento a questa fase processuale. Dette spese vadano liquidate a carico del Fallimento opposto, in quanto quest’ultimo è soccombente, avendo questo chiesto il provvedimento monitorio nonostante la clausola arbitrale.

Va rigettata la richiesta dell’opposto volta ad ottenere la rifusione delle spese del procedimento monitorio in quanto il provvedimento monitorio viene revocato per incompetenza.

P.Q.M.

Il Tribunale di Trento, in persona del Giudice dott. __, definitivamente pronunciando,

1) dichiara la propria incompetenza in favore del collegio arbitrale;

2) revoca il provvedimento monitorio impugnato e dispone la cancellazione della causa dal ruolo;

3) condanna l’opposto a pagare all’opponente le spese di giudizio liquidate in Euro __ per compensi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Trento, il 25 ottobre 2018.

Depositata in Cancelleria il 2 novembre 2018.

Tribunale_Ordinario_Trento_Sezione_Civile_Sentenza_del_02_11_2018

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Fallimento: necessario il contemperamento delle esigenze di riservatezza proprie della procedura concorsuale con le esigenze difensive dei soggetti interessati alla consultazione degli atti inseriti in detto fascicolo

Fallimento: necessario il contemperamento delle esigenze di riservatezza proprie della procedura concorsuale con le esigenze difensive dei soggetti interessati alla consultazione degli atti inseriti in detto fascicolo

Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 212 del 08/01/2019

Con sentenza del 9 gennaio 2019, la Corte di Cassazione, Sezione I Civile, in tema di fallimento, ha stabilito che il necessario contemperamento delle esigenze di riservatezza proprie della procedura concorsuale, le cui vicende sono documentate dal fascicolo fallimentare, con le esigenze difensive dei soggetti interessati alla consultazione degli atti inseriti in detto fascicolo porta ad escludere che i soggetti (fallito, creditori e terzi) comunque coinvolti dallo svolgimento della procedura fallimentare, abbiano il diritto di consultare liberamente il fascicolo in questione, con la conseguenza che la consultazione degli atti e dei documenti in esso inseriti è subordinata alla presentazione di una specifica istanza, la quale deve essere formulata in modo da consentire non solo l’identificazione dell’istante e degli atti che si intendano visionare, ma anche la valutazione del concreto interesse che ne giustifica la consultazione.

 

Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 212 del 08/01/2019

Fallimento: necessario il contemperamento delle esigenze di riservatezza proprie della procedura concorsuale con le esigenze difensive dei soggetti interessati alla consultazione degli atti inseriti in detto fascicolo

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. __ r.g. proposto da:

FALLIMENTO (OMISSIS) S.R.L., FALLIMENTO (OMISSIS) S.P.A., FALLIMENTO (OMISSIS) S.R.L., FALLIMENTO (OMISSIS) S.R.L., FALLIMENTO (OMISSIS) S.R.L., FALLIMENTO (OMISSIS) S.R.L., FALLIMENTO (OMISSIS) S.R.L., FALLIMENTO (OMISSIS) S.R.L., FALLIMENTO (OMISSIS) S.A.S. di (OMISSIS) S.R.L., in persona del loro curatore;

– ricorrenti –

contro

M. e C.

– intimati –

avverso il decreto del TRIBUNALE DI __, depositato il __;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del __ dal Consigliere Dott. __.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

  1. M. e C., premettendo di essere imputati nel processo penale n. __ r.g.n.r., pendente innanzi al Tribunale di __, per i delitti di bancarotta fraudolenta e documentale in relazione a tutte le società del Gruppo (OMISSIS), chiesero congiuntamente, il __ ed il __, al giudice delegato ai fallimenti delle Società del Gruppo (OMISSIS) di accedere ai relativi fascicoli fallimentare per acquisire la documentazione specificamente elencata nella loro istanza.

1.1. Tale richiesta fu respinta con decreto di quel giudice del __, contro il quale gli stessi proposero reclamo L. Fall., ex art. 26, accolto dal Tribunale di __, in composizione collegiale, che, con provvedimento del __: 1) ritenne che quanto addotto dal giudice delegato (l’essere stati gli istanti già autorizzati, nel __, ad accedere al fascicolo fallimentare e l’avere la cancelleria già rilasciato copia dei documenti nuovamente richiesti) “…non risulta comprovato, peraltro avendo i reclamanti evidenziato di essere assistiti da nuovo difensore in un processo penale che li vede imputati di bancarotta, che tra i documenti oggi richiesti figurano atti di formazione successiva al __, che non sussistono impedimenti normativi alla reiterazione di istanze di accesso ed estrazione copia di atti che possono risultare utili ai fini di difesa penale. Dette argomentazioni appaiono condivisibili…”; 2) richiamò integralmente, per il resto, “le motivazioni di cui all’ordinanza emessa da questo stesso Tribunale il __, allorché venne accolto analogo reclamo di M. e C. e venne disposto di consentire loro l’accesso e l’estrazione di copia”; 3) condannò la curatela fallimentare al pagamento delle spese giudiziali della fase di reclamo.

  1. Avverso questa decisione, considerata munita dei caratteri della decisorietà e definitività, hanno proposto ricorso ex art. 111 Cost., affidato a due motivi, il Fallimento (OMISSIS) s.r.l., il Fallimento (OMISSIS) s.p.a., il Fallimento (OMISSIS) s.r.l., il Fallimento (OMISSIS) s.r.l., il Fallimento (OMISSIS) s.r.l., il Fallimento (OMISSIS) s.r.l., il Fallimento (OMISSIS) s.r.l., il Fallimento (OMISSIS) s.r.l. ed il Fallimento di (OMISSIS) s.a.s. di (OMISSIS) s.r.l., tutti in persona del loro curatore Avv. I.G.. Non hanno, invece, spiegato difese, in questa sede, M. e C.

2.1. Il primo motivo, rubricato “Nullità del provvedimento impugnato (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) per violazione della L. Fall., art. 26, comma 8, nonché violazione dei principi regolatori del giusto processo, con particolare riferimento al principio del contraddittorio ed al diritto di difesa”, assume che il descritto reclamo L. Fall., ex art. 26, notificato alla curatela dei menzionati fallimenti non era accompagnato dal pedissequo decreto di fissazione di udienza, e ciò aveva impedito alla stessa di partecipare al relativo procedimento, ivi eccependo la tardività del rimedio esperito, senza che di tanto si fosse avveduto l’adito tribunale, che l’aveva anche condannata alla refusione delle spese processuali.

2.2. Il secondo motivo, recante “Nullità del provvedimento impugnato (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione della L. Fall., art. 26, comma 3”, lamenta che il suddetto reclamo doveva considerarsi tardivamente proposto, risultando depositato il __ a fronte del provvedimento impugnato risalente al __, senza che alcuna prova vi fosse di un suo avvenuto “ritiro” il __, presso la cancelleria competente, ad opera dei reclamanti.

  1. Il ricorso è inammissibile laddove investe la statuizione del tribunale recante l’ordine, agli organi delle procedure fallimentari interessate, di dare corso alle istanze di accesso ed estrazione copia presentate da M. e C., atteso che i provvedimenti emessi dal tribunale fallimentare su reclamo avverso i decreti del giudice delegato al fallimento sono impugnabili per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., soltanto quando hanno carattere decisorio e definitivo.

3.1. Giova, allora, premettere che questa Corte ammette il rimedio predetto avverso i provvedimenti che, pur avendo forma diversa dalla sentenza, presentino tuttavia i requisiti della decisorietà e della definitività, il cui significato – in particolare del primo – si coglie nella fondamentale continuità della giurisprudenza (sin dal primo riconoscimento del rimedio del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., allora comma 2, con la sentenza resa da Cass., SU, n. 2953 del 1953) sul fatto che la garanzia costituzionale di cui si tratta mira a contrastare “il pericolo di applicazioni non uniformi della legge con provvedimenti suscettibili di passare in giudicato, cioè con provvedimenti tipici ed esclusivi della giurisdizione contenziosa”, mediante i quali “il giudice, per realizzare la volontà di legge nel caso concreto, riconosce o attribuisce un diritto soggettivo, oggetto di contestazione, anche solo eventuale, nel contraddittorio delle parti” (così, nitidamente, tra le altre, Cass. n. 824 del 1971, in motivazione).

3.1.1. La decisorietà, dunque, – come ancora recentemente ribadito da Cass. SU, n. 27073 del 2016 – consiste nell’attitudine del provvedimento del giudice non solo ad incidere su diritti soggettivi delle parti, ma a farlo con la particolare efficacia del giudicato (nel che risiede appunto la differenza tra il semplice “incidere” e il “decidere”. Cfr., per tutte, Cass. n. 10254 del 1994), il quale, a sua volta, è effetto tipico della giurisdizione contenziosa, di quella, cioè, che si esprime su una controversia, anche solo potenziale, fra parti contrapposte, chiamate perciò a confrontarsi in contraddittorio nel processo.

3.2. Affinché, peraltro, un provvedimento non avente veste di sentenza sia impugnabile in Cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, non è sufficiente che abbia carattere decisorio, occorre anche che non sia soggetto ad un diverso mezzo d’impugnazione, dovendosi, altrimenti, esperire anzitutto tale mezzo – appello, reclamo o quant’altro – sicché il ricorso per cassazione riguarderà il successivo provvedimento emesso all’esito. In ciò consiste il requisito della definitività.

3.3. Su tali principi vi è sostanziale uniformità giurisprudenziale (al di là di differenze, più che altro terminologiche, allorché si inserisce l’attitudine al giudicato nel requisito della definitività, intesa come immodificabilità del provvedimento, piuttosto che nel requisito della decisorietà), attestata, di recente (oltre che dalla già citata Cass. SU, n. 27073 del 2016), anche da Cass., SU, n. 1914 del 2016, in cui si ribadisce che “un provvedimento, ancorché emesso in forma di ordinanza o di decreto, assume carattere decisorio – requisito necessario per proporre ricorso ex art. 111 Cost. – quando pronuncia o, comunque, incide con efficacia di giudicato su diritti soggettivi, con la conseguenza che ogni provvedimento giudiziario che abbia i caratteri della decisorietà nei termini sopra esposti, nonché della definitività – in quanto non altrimenti modificabile – può essere oggetto di ricorso ai sensi dell’art. 111 Cost.” e si aggiunge che “se il provvedimento al quale il processo è preordinato non ha carattere decisorio perché, non costituendo espressione del potere-dovere del giudice di decidere controversie tra parti contrapposte, in cui ciascuna tende all’accertamento di un proprio diritto soggettivo nei confronti dell’altra, non ha contenuto sostanziale di sentenza” (richiamando, sul punto, i precedenti delle medesime Sezioni Unite nn. 3073 e 11026 del 2003) e che quando “si tratta di provvedimenti per i quali non è prevista alcuna forma di impugnazione ordinaria” si realizza “il presupposto della “definitività” (intesa come non modificabilità) in relazione al rimedio straordinario previsto dall’art. 111 Cost”.

3.4. Fermo quanto precede, nella specie, come si è visto, l’istanza congiunta di M. e C. volta ad accedere ai fascicoli degli indicati fallimenti delle Società del Gruppo (OMISSIS) per acquisire la documentazione in essa specificamente elencata, e giustificata dal fatto di essere i richiedenti imputati nel processo penale n. __ r.g.n.r., pendente innanzi al Tribunale di __, per i delitti di bancarotta fraudolenta e documentale in relazione a tutte le società suddette, venne respinta dal giudice delegato, ma poi accolta dal Tribunale fallimentare di __, per le ragioni in precedenza esposte, in sede di reclamo ex art. 26 avverso detto provvedimento.

3.5. Orbene, osserva il Collegio, che, ai sensi della L. Fall., art. 90, commi 2 e 3, “il comitato dei creditori e ciascun suo componente hanno diritto di prendere visione di qualunque atto o documento contenuto nel fascicolo fallimentare. Analogo diritto, con la sola eccezione della relazione del curatore e degli atti eventualmente riservati su disposizione del giudice delegato, spetta anche al fallito. Gli altri creditori ed i terzi hanno diritto di prendere visione e di estrarre copia degli atti e dei documenti per i quali sussiste un loro specifico ed attuale interesse, previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il curatore”.

3.5.1. Il necessario contemperamento delle esigenze di riservatezza proprie della procedura concorsuale, le cui vicende sono documentate dal fascicolo fallimentare, con le esigenze difensive dei soggetti interessati alla consultazione degli atti inseriti in detto fascicolo, porta, dunque, ad escludere che i soggetti (fallito, creditori e terzi) comunque coinvolti dallo svolgimento della procedura fallimentare abbiano il diritto di consultare liberamente il fascicolo in questione ed a ritenere che la consultazione degli atti e dei documenti in esso inseriti è subordinata alla presentazione di una specifica istanza, la quale deve essere formulata in modo da consentire non solo l’identificazione dell’istante e degli atti che si intendano visionare, ma anche la valutazione del concreto interesse che ne giustifica la consultazione (cfr., Cass., SU, n. 181 del 2001, richiamato, in motivazione, dalla successiva Cass. n. 19509 del 2005).

3.6. Alla luce di questo principio, qui pienamente condiviso, deve ritenersi insussistente un illimitato diritto di quegli stessi soggetti (fallito, creditori, terzi) alla consultazione di tutti gli atti della procedura concorsuale, e ciò porta ad escludere la configurabilità del requisito della decisorietà del decreto impugnato (cfr. Cass. n. 1032 del 2017; Cass. n. 19509 del 2005), con conseguente inammissibilità dell’odierno ricorso ex art. 111 Cost., proposto avverso il decreto impugnato.

  1. Un siffatto ricorso, invece, sarebbe stato ammissibile soltanto avverso la statuizione ivi adottata quanto al pagamento delle spese giudiziali (dovendosi, qui, ricordare che l’art. 91 c.p.c., trova applicazione anche ai provvedimenti resi in esito al reclamo, L. Fall., ex art. 26, avverso il provvedimento del giudice delegato al fallimento, benché la disposizione da ultimo richiamata manchi di una espressa indicazione circa il governo delle spese. Cfr. Cass. n. 19979 del 2008), concernendo posizioni giuridiche soggettive di debito e credito discendenti da un rapporto obbligatorio autonomo.

4.1. Essa, pertanto, è sicuramente destinata ad incidere su una posizione di diritto soggettivo della parte a carico della quale risulta assunta, ed è dotata del carattere di definitività, non essendo contro di essa dato alcun mezzo d’impugnazione (cfr., sostanzialmente in tal senso, Cass. n. 9348 del 2017; Cass. n. 4610 del 2017; Cass. n. 21756 del 2015; Cass. n. 2986 del 2012; Cass. n. 14524 del 2011; Cass., SU, n. 20957 del 2004).

4.1.1. Nessuna specifica censura, tuttavia, risulta, proposta dagli odierni ricorrenti avverso la statuizione suddetta.

  1. Il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile, senza necessità di pronuncia sulle spese, essendo le controparti rimaste solo intimate, e dandosi atto, altresì, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) – della sussistenza dei presupposti per l’applicazione, a carico dei ricorrenti, in solido tra loro, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (applicabile ratione temporis, essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione: norma in forza della quale il giudice dell’impugnazione è vincolato, pronunziando il provvedimento che definisce quest’ultima, a dare atto della sussistenza dei presupposti (rigetto integrale o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) per il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione proposta.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, in soldo tra loro, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, giusta dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 21 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2019

Cass_civ_Sez_I_Ord_ n_212_del_08_01_2019




Le rimesse effettuate dal terzo sul conto corrente dell’imprenditore, poi fallito, non sono revocabili quando risulti che il relativo pagamento non sia stato eseguito con danaro del fallito

Le rimesse effettuate dal terzo sul conto corrente dell’imprenditore, poi fallito, non sono revocabili quando risulti che il relativo pagamento non sia stato eseguito con danaro del fallito

Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 277 del 09/01/2019

Con sentenza del 9 gennaio 2019, la Corte di Cassazione, Sezione I Civile, in tema di azione revocatoria fallimentare, ha stabilito che le rimesse effettuate dal terzo sul conto corrente dell’imprenditore, poi fallito, non sono revocabili quando risulti che il relativo pagamento non sia stato eseguito con danaro del fallito e che il terzo, utilizzatore di somme proprie, non abbia proposto azione di rivalsa verso l’imprenditore prima della dichiarazione di fallimento, né che abbia così adempiuto un’obbligazione relativa ad un debito proprio.

 

Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 277 del 09/01/2019

Le rimesse effettuate dal terzo sul conto corrente dell’imprenditore, poi fallito, non sono revocabili quando risulti che il relativo pagamento non sia stato eseguito con danaro del fallito

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

C. S.p.a., in amministrazione straordinaria, in persona del legale rappresentante pro tempore;

– ricorrente –

contro

Fallimento __ S.p.a., in persona del Curatore dott. __;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di __, del __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal cons. __;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato __che ha chiesto si riporta;

udito, per il controricorrente, l’Avvocato __ che ha chiesto il rigetto.

Svolgimento del processo

  1. Nella pendenza della procedura concorsuale aperta nei confronti del Fallimento __ S.p.a. in data __, la curatela fallimentare conveniva in giudizio C. S.p.a. proponendo nei confronti di essa azione revocatoria a norma della L. Fall., art. 67, comma 3, lett. b), (R.D. n. 267 del 1942). Il giudizio aveva ad oggetto un’unica rimessa di Euro __, accreditata in data __ sul conto corrente che la società fallita intratteneva presso C. S.p.a. Il fallimento __ S.p.a. domandava pertanto che, in conseguenza dell’accoglimento dell’azione revocatoria, C. S.p.a. fosse condannata alla restituzione dell’importo di Euro __ quale differenza tra il massimo saldo passivo del conto nei sei mesi anteriori al fallimento e il saldo finale alla data di dichiarazione del fallimento.

Il Tribunale di __, avanti al quale si costituiva C. S.p.a., accoglieva parzialmente la domanda e condannava la convenuta al pagamento della somma di Euro __, oltre interessi legali.

  1. Proponevano gravame contro tale pronuncia sia la curatela fallimentare che l’istituto di credito.

L’impugnazione veniva definita dalla Corte di appello di __ con sentenza del __, con cui era respinto il gravame principale e, in accoglimento di quello incidentale, C. S.p.a. veniva condannata al pagamento della somma di Euro __.

  1. Contro la sentenza della Corte di appello di __ ricorre per cassazione C. S.p.a. con sette motivi, illustrati da memoria; resiste con controricorso la curatela fallimentare.

Motivi della decisione

  1. Per la continuità espositiva suggerita dalla contiguità delle questioni da affrontare possono trattarsi congiuntamente i primi quattro motivi di ricorso.

1.1. Mette conto di premettere che la Corte di merito, avendo riguardo alla disciplina introdotta dalla L. Fall., art. 67, comma 3, lett. b), nel testo risultante dalle modifiche apportate dal D.L. n. 35 del 2005, art. 2, comma 1, lett. a), convertito in L. n. 80 del 2005, ha sottolineato come il legislatore abbia inteso operare il superamento delle incertezze applicative correlate alla anteriore disciplina prescindendo dalla natura solutoria o ripristinatoria della singola rimessa. Ha poi evidenziato che la rimessa contestata era stata posta in essere sei mesi prima della dichiarazione di fallimento (in realtà pronunciata nemmeno tre mesi dopo il perfezionarsi della detta operazione) e aveva ridotto in modo consistente e durevole l’esposizione debitoria della società fallita, tanto che – ha precisato – in prime cure il Tribunale aveva osservato come, per effetto di quel pagamento, il saldo passivo non fosse stato solo ridotto, ma nella sostanza ripianato, giacché l’esposizione debitoria si era ridotta a soli Euro __. Secondo la Corte di appello, correttamente il giudice di prima istanza aveva valorizzato, in via esclusiva, ai fini della determinazione del quantum revocabile, il dato della massima esposizione debitoria, dalla quale andava detratto l’ammontare residuo della pretesa alla data di apertura della procedura concorsuale: la Corte distrettuale ha spiegato, al riguardo, come la L. Fall., art. 70, non richieda, ai fini dell’individuazione della massima esposizione debitoria, l’apprezzamento di elementi diversi variabili, quali operazioni intermedie, ovvero la causale di singole operazioni antecedenti successive alla rimessa, onde, a suo avviso, sarebbe “congruo e logicamente consequenziale ritenere che ai criteri di legge non (sia) possibile sovrapporre modalità diverse di determinazione di calcolo che finirebbero per rendere incerti gli importi revocabili”.

1.2. Il contenuto delle censure portate contro queste affermazioni della sentenza di gravame possono riassumersi nei termini che seguono.

Il primo motivo denuncia la violazione della L. Fall., art. 67, comma 2 e comma 3, lett. b), in combinato disposto della L. Fall.,art. 70, comma 3. Secondo l’istante il giudice di appello avrebbe errato nel ritenere irrilevante la natura ripristinatoria o solutoria del versamento impugnato, trascurando così di considerare che il conto corrente era assistito da un’apertura di credito di Euro __.

Col secondo motivo viene dedotta la violazione della L. Fall., art. 67, comma 2 e comma 3, lett. b), in combinato disposto della L. Fall., art. 70, comma 3. Lamenta C. S.p.a. ricorrente che il giudice distrettuale abbia determinato la somma oggetto di revocatoria sulla base della differenza aritmetica tra “massimo scoperto” e “saldo finale” alla data dell’apertura del fallimento, senza prendere in esame le singole operazioni di conto corrente e le loro causali.

Il terzo motivo prospetta la violazione di legge riferita alle norme di cui al primo e al secondo motivo. C. S.p.a. si duole, in sintesi, della ritenuta irrilevanza dei riutilizzi delle somme oggetto delle rimesse sul conto.

Col quarto motivo viene formulata una censura di violazione di legge concernente le disposizioni di cui ai motivi che precedono. C. S.p.a. istante lamenta l’inclusione, nella somma interessata alla pronunciata revocatoria, di importi versati da soggetti terzi.

1.3. Le indicate censure pongono questioni che ineriscono alla disciplina delle revocatorie delle rimesse bancarie nel quadro degli interventi sulla procedura fallimentare introdotti col D.L. n. 35 del 2005, convertito in L. n. 80 del 2005: prospettano, anzitutto, il problema della persistente rilevanza, nella vigenza della nuova legge, della tradizionale distinzione tra rimesse solutorie e rimesse ripristinatorie della provvista. Si tratta di un tema nuovo, che non risulta affrontato da precedenti sentenze di questa Corte, anche se si rinviene sul punto un’affermazione, in obiter, nella pronuncia di Cass. 7 ottobre 2010, n. 20834, ove si rileva che la nuova disciplina della revocatoria delle rimesse bancarie “rimuove dallo scenario esegetico il distinguo tra natura solutoria e ripristinatoria dei versamenti affluiti sul conto corrente”.

Sul punto, il Collegio non ritiene che la questione da ultimo menzionata, al pari delle altre, inerenti all’ambito di applicazione della L. Fall., art. 67, comma 3, lett. b), al contenuto precettivo dell’art. 70, comma 3, della stessa legge e al coordinamento che sia possibile operare tra le due disposizioni, giustifichino la trattazione della causa da parte delle Sezioni Unite, giacché la novità dei temi da affrontare non è da sola idonea a giustificare la rimessione richiesta dal ricorrente (che diversamente ogni questione nuova dovrebbe avere una tale sorte), mentre la particolare rilevanza delle questioni giuridiche stesse è stata correttamente apprezzata dalla Corte avviando la causa alla trattazione in pubblica udienza, in conformità di quanto prescritto dall’art. 375 c.p.c., comma 3.

1.4. Con riferimento alla precedente versione della L. Fall., art. 67 – che non conteneva alcuna specifica previsione per la revocatoria dei versamenti del correntista, poi fallito, sul conto corrente bancario – la giurisprudenza di questa Corte, da oramai quaranta anni (a partire dai fondamentali arresti di Cass. 11 dicembre 1978, n. 5836, Cass. 30 gennaio 1980, n. 709 e Cass. 18 ottobre 1982, n. 5413), è stata ferma nel distinguere le rimesse solutorie, afferenti a conti “scoperti”, non assistiti da apertura di credito, o con saldo eccedente l’affidamento concesso, che erano ritenute revocabili, da quelle ripristinatorie, riguardanti i conti solo “passivi”, in cui la rimessa valeva a ripianare una esposizione debitoria del cliente che si collocava al di sotto del tetto di finanziamento di cui il correntista stesso poteva godere attraverso la disposta apertura di credito. Si affermava, in particolare, che – venendo in questione un conto corrente bancario in cui la provvista fosse costituita da un’apertura di credito – per la revocatoria fallimentare, nei confronti della banca, dei versamenti sul conto, era necessario che dallo svolgimento di esso rimanesse accertato che, nel periodo “sospetto”, si fosse verificato, per l’utilizzazione fattane dal correntista, uno “scoperto” del conto (per avere la banca pagato, per conto del cliente, una somma superiore a quella postagli a disposizione) e che il successivo versamento fosse stato imputato dalla banca a pagamento del relativo debito sorto in capo al correntista (stante l’immediata esigibilità del corrispondente credito): ove tale “scoperto” non si fosse verificato, il versamento nel conto configurava un mero accreditamento di somme per la reintegrazione della somma posta dalla banca a disposizione del correntista che, in se stesso, non era atto nè gratuito, nè oneroso e non era quindi soggetto alla revocatoria fallimentare, consistendo, invece, in una mera operazione contabile (così Cass. 18 ottobre 1982, n. 5413).

Mette conto di rilevare come la giurisprudenza, di merito e di legittimità, abbia, nel tempo, elaborato aggiustamenti per escludere dall’area applicativa dell’azione revocatoria operazioni che, in base al portato astratto del criterio succitato, vi sarebbero state irragionevolmente ricomprese (è l’ipotesi delle partite bilanciate su conti scoperti, in cui la rimessa è eseguita dal cliente per fornire alla banca la provvista da destinare a un successivo esborso di pari importo), ovvero, al contrario, per includervi operazioni che, diversamente, ne sarebbero state altrettanto irrazionalmente estromesse (come nel caso del c.d. conto “congelato”: e cioè di quel conto che, benché assistito da apertura di credito, venga utilizzato solo per il rientro dal fido). E mette conto pure di ricordare come fosse diffusamente avvertita, dai diversi operatori, l’inidoneità della soluzione indicata a scongiurare, sul piano pratico, risultati talora ampiamente insoddisfacenti, come quello derivante dall’apprezzamento, ai fini della revocatoria, di plurimi versamenti solutori seguiti da reimpieghi delle somme da parte del correntista: evenienza, questa, che portava a ritenere inefficaci, nei confronti della massa, rimesse per somme superiori a quelle corrispondenti all’effettivo ripianamento dell’esposizione debitoria (tant’è che la giurisprudenza di merito, a partire da quella milanese, aveva elaborato, fin dagli anni settanta, il criterio del massimo scoperto, con cui veniva valorizzato il risultato complessivo, per l’abbattimento del debito, raggiunto dalle rimesse sul conto attraverso il calcolo del differenziale tra la massima esposizione del correntista nel periodo sospetto e il saldo di chiusura).

1.5. In tale quadro si colloca l’intervento legislativo del 2005 che, rimodulando la L. Fall., art. 67, prevede, al comma 3, lett. b), non essere soggette all’azione revocatoria “le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca”.

Della disposizione sono state date dalla giurisprudenza di merito due contrapposte letture: per una prima esegesi, che è seguita quasi unanimamente dalla dottrina, la norma attuerebbe il superamento della distinzione tra rimesse solutorie e ripristinatorie, sicché la revocatoria sarebbe oramai esperibile anche con riferimento a queste ultime. Per una seconda linea interpretativa, invece, il criterio discretivo basato sulla natura della rimessa manterrebbe valore anche a seguito della novella; la conclusione viene comunemente fatta discendere dal rilievo per cui le fattispecie elencate dalla L. Fall., art. 67, comma 3, costituirebbero pur sempre delle eccezioni al principio generale della revocabilità dei pagamenti di debiti liquidi ed esigibili: per il che, non potendosi considerare liquido ed esigibile il debito maturato dal cliente al di sotto della linea di affidamento, e non potendosi considerare atto estintivo di un tale debito la corrispondente rimessa, la revoca di quest’ultima andrebbe radicalmente esclusa.

1.6. Ritiene il Collegio che la prima soluzione si faccia preferire, e ciò per più ordini di rilievi.

Anzitutto, l’argomento testuale basato sul rapporto tra la regola della revocabilità dei pagamenti dei debiti liquidi ed esigibili (L. Fall., art. 67, comma 1, n. 2, e comma 2) e l’eccezione della non revocabilità delle rimesse bancarie (di quelle che non abbiano ridotto in modo consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito verso la banca) suppone nella formulazione della norma un rigore cartesiano che è smentito, nei fatti, dallo stesso legislatore. Se infatti fosse vero che tutte le ipotesi di pagamento individuate dal comma 3 dell’art. 67 concernono immancabilmente debiti liquidi ed esigibili, indipendentemente da una specificazione in tal senso, non si comprenderebbe la ragione per cui il legislatore abbia ritenuto necessario, alla lett. g) dello stesso articolo (nel disciplinare la revocatoria dei versamenti di corrispettivi per le prestazioni di servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali), seguire un diverso criterio, facendo espresso riferimento, per l’appunto, ai pagamenti di debiti che presentino siffatta connotazione.

Sono da rimarcare, semmai, due diversi dati letterali, che forniscono una prima indicazione circa l’effettiva irrilevanza, ai fini che qui interessano, della natura ripristinatoria o solutoria del versamento operato dal correntista. Infatti, l’espressione “esposizione debitoria”, di cui è parola nella lett. b) dell’art. 67 designa una situazione ben diversa, più ampia, di quella riconducibile al debito liquido ed esigibile, risultando compatibile sia col conto scoperto che col conto semplicemente passivo (col conto, cioè, in cui l’indebitamento è maturato entro il limite dell’affidamento concesso). Allo stesso modo, sarebbe riduttivo annettere al termine “rimesse”, pure presente nella cit. lett. b), il ristretto significato di pagamenti di debiti scaduti: occorre rilevare, in proposito, che la suddetta espressione è frutto dell’elaborazione giurisprudenziale e che, come si è detto, nella vigenza della disciplina ante-riforma si qualificavano “rimesse” sia i veri e propri atti solutori che quelli di ripristino della provvista: ed è palesemente incongruo opinare che il legislatore abbia mutuato quel termine dalle pronunce della giurisprudenza per poi conferirgli un significato diverso.

Ma a questi elementi se ne aggiungono altri, che giocano il loro ruolo sul piano dell’esegesi storica e della ratio legis.

Si è in precedenza fatto cenno sia alla giurisprudenza formatasi sul vecchio testo della L. Fall., art. 67 – la quale aveva tentato, negli anni, di far fronte a problemi applicativi collegati al criterio di selezione delle operazioni revocabili, e basato sulla distinzione tra rimesse solutorie e ripristinatorie -, sia agli effetti distorsivi che, nella pratica, quel criterio aveva mostrato di non saper arginare con la dovuta efficacia.

Il legislatore del 2005 era chiaramente avvertito di tali punti di criticità e ha direzionato il suo intervento verso il loro superamento.

Nella relazione illustrativa al provvedimento legislativo che introduce la modifica in esame è precisato che l’istituto della revocatoria fallimentare viene rimodulato, per un verso, meglio precisando i presupposti per l’esercizio dell’azione, “oggi sovente fonte di incertezze applicative e di contrasti giurisprudenziali”, e, per altro verso, introducendo nell’ordinamento una completa disciplina di esenzione della revocatoria “al fine di evitare che situazioni che appaiono meritevoli di tutela siano invece travolte dall’esercizio, sovente strumentale, delle azioni giudiziarie conseguenti all’accertata insolvenza del destinatario dei pagamenti” (recte: del loro autore).

Ebbene, la risposta a dette istanze è stata affidata a una disciplina delle rimesse bancarie che prescinde dalla finalità ripristinatoria o solutoria della rimessa, ma che è modellato su di un elemento normativo di novità, costituito dalla natura consistente e durevole della rimessa stessa.

È stato ricordato, in dottrina, come già prima dell’emanazione del D.L. n. 35 del 2005, la Commissione Trevisanato, istituita allo scopo di elaborare i principi e i criteri direttivi di uno schema di disegno di legge delega al Governo, relativo all’emanazione della nuova legge fallimentare, aveva predisposto un testo in cui l’esenzione dalla revocatoria delle rimesse in conto corrente era affidata al dato della “regolare movimentazione del conto”: il che, si è precisato, valorizzava non più gli effetti, di pura e semplice estinzione del debito, o di contestuale reintegrazione del credito disponibile, riconducibili al singolo versamento, ma conferiva piuttosto rilievo alla regolarità di flussi monetari in entrata e in uscita dal conto, attribuendo centralità al fatto che questo si autoalimentasse e svolgesse, quindi, una funzione di cassa, diversa da quella creditizia.

Se si guarda alla formulazione della norma odierna e agli scopi che lo stesso legislatore del 2005 dichiarava espressamente di prefiggersi, pare difficile sostenere che la L. Fall., art. 67, comma 3, lett. b.) segua una diversa logica. Prevedendo che l’esenzione dalla revocatoria non operi allorquando la rimessa riduca durevolmente (oltre che in maniera consistente) l’esposizione debitoria del correntista, l’art. 67, comma 3, lett. b), sposta il fuoco della disciplina dal dato formale dell’essere il versamento affluito o meno su di un conto affidato (e dall’essere il versamento stesso eseguito o meno in presenza di uno sconfinamento del correntista) a quello, sostanziale, da verificare in concreto, del prodursi, o del non prodursi, di una neutralizzazione degli effetti della rimessa in ragione di successive operazioni da conteggiarsi a debito dello stesso cliente (quali, ad esempio, i prelievi, i bonifici in favore di terzi, l’incasso, da parte di questi ultimi, di assegni tratti dal correntista in loro favore).

In tale prospettiva è evidente il superamento del criterio seguito della giurisprudenza formatasi sulla norma previgente, il quale era fondato sulla normale (ma, si badi, non indefettibile: cfr. infra) conseguenza generata dalla rimessa eseguita per ripianare, in presenza di un affidamento, un’esposizione debitoria contenuta nei limiti dell’affidamento stesso: vale a dire il non operare di tale rimessa quale atto solutorio. Sicché, in definitiva, il senso dell’intervento legislativo è da rinvenire proprio nella necessità di accertare, caso per caso, che il versamento sia stato riassorbito da successive operazioni di addebito, con un riutilizzo della somma rispondente alle finalità cui assolve il servizio di cassa che il conto corrente bancario è idoneo a svolgere per sua stessa natura (sul tema del servizio di cassa esplicato dalla banca cfr., tra le tante, Cass. 28 febbraio 2017, n. 5071 e Cass. 20 gennaio 2017, n. 1584).

Che la soluzione prescelta soddisfi le richiamate esigenze aventi ad oggetto la semplificazione della disciplina delle revocatorie fallimentari e la sterilizzazione dal rischio di possibili abusi è, poi, incontestabile.

Di certo, il criterio basato sulla durevolezza dell’abbattimento dell’esposizione debitoria consente di ribadire risposte già elaborate con riferimento ad alcuni problemi con cui la giurisprudenza aveva dovuto misurarsi in passato: così è, in particolare, per il caso delle partite bilanciate, non potendo di certo considerarsi durevole la rimessa che è seguita da un addebito per il cliente, e che si dimostra funzionale alla creazione della provvista per l’esecuzione di un successivo trasferimento di denaro dal correntista al terzo; nel caso delle operazioni bilanciate è del resto ben visibile la finalizzazione dell’operato della banca sul piano dello svolgimento del servizio di cassa di cui si è detto.

L’apprezzamento della durevolezza degli effetti della rimessa dovrebbe poi condurre, in uno col criterio del massimo scoperto di cui alla L. Fall., art. 70, comma 3, (su cui si tornerà a breve), al risultato di scongiurare l’effetto moltiplicatore delle revocatorie: il prodursi di una tale conseguenza (che penalizzava l’istituto di credito con revocatorie accolte per un ammontare che a volte era di gran lunga superiore alla differenza tra il picco più alto dell’esposizione del fallito e il debito residuo di questo risultante dall’ultimo saldo) trova infatti oramai ostacolo nella necessità di apprezzare gli effetti prodotti, nel tempo, dalla rimessa operata dal fallito; sicché, ove quell’effetto non sia durevole, per essere vanificato da successive operazioni da conteggiare a debito dello stesso correntista, la revocabilità della rimessa sarà da escludere.

Ma soprattutto – ed è il punto che qui più interessa, perché direttamente implicato nella trattazione della fattispecie oggetto di esame – la novella consente di porre rimedio alla dissonanza che, in base al sistema previgente, si produceva in presenza di pagamenti, operati dal correntista a fronte di una esposizione che si collocava al di sotto della linea di credito accordata, e non seguiti, in tutto o in parte, da successivi riutilizzi della somma fino alla chiusura del conto. La controversia portata all’esame della Corte prospetta, come si rilevava, questa particolare evenienza, giacché la rimessa eseguita dalla società fallita per Euro __ ha portato all’abbattimento del debito anche nella parte che si situava al di sotto del limite dell’affidamento (pari Euro __) e ha consentito alla banca di chiudere il conto con una esposizione che, secondo la sentenza impugnata, si aggirava poco al di sopra di Euro __. Ora, in base alla giurisprudenza radicatasi nella vigenza della precedente disciplina, le rimesse che incidevano sul conto passivo, non scoperto, erano per loro natura ripristinatorie e per ciò solo sottratte a possibili revocatorie. Si è in precedenza richiamato, al punto 1.4, il correttivo apportato dalla giurisprudenza stessa nell’ipotesi del conto congelato: ma si trattava, pur sempre, di un adattamento destinato a operare su dei casi-limite, assoggettato, oltretutto, all’apprezzamento di fatto del giudice del merito che, come tale, poteva variare di volta in volta. Riteneva infatti la Corte che l’accertamento del congelamento del conto, rimesso al giudice del merito, richiedesse la ricorrenza di specifiche circostanze, quali la chiusura anticipata del conto stesso o il diniego della concessione dei blocchetti degli assegni, ovvero condotte negoziali sintomatiche, in modo univoco, della natura solutoria dei versamenti (in tal senso: Cass. 20 novembre 2013, n. 26042; cfr. pure Cass. 2 luglio 2012 n. 11054 e Cass. 6 novembre 2007, n. 23107, ove si precisava che tali condotte non fossero tuttavia rinvenibili nel semplice fatto della mancata riutilizzazione della provvista). Per la verità, Cass. 18 ottobre 1982, n. 5413 – forse la più nota tra le pronunce con cui venne inaugurato il corso della giurisprudenza marcato dal discrimine tra rimesse solutorie e ripristinatorie – conteneva una indicazione, abbastanza ampia, sulla possibilità di attribuire valore estintivo del debito al versamento del correntista che incidesse su di un conto passivo: nella predetta sentenza, come accennato, la Corte faceva infatti comunque salva la possibilità di qualificare come solutoria la rimessa posta in atto sulla base di una imputazione dalla banca in tal senso. Era questo, però, un criterio di difficile applicazione, risultando finanche sfuggente la modalità con cui una tale imputazione avrebbe potuto accertarsi in concreto: e difatti esso risulta solo isolatamente richiamato nelle pronunce successive.

In termini generali, il sistema scontava innegabilmente la rigidità del criterio che distingueva le rimesse solutorie da quelle ripristinatorie: rigidità acuita dal principio secondo cui per accertare se le rimesse sul conto corrente bancario assistito da apertura di credito avessero avuto natura solutoria o ripristinatoria, occorreva porre in essere una valutazione che doveva operarsi con riferimento al momento dell’effettuazione dei singoli versamenti e non ex post, in relazione alla mancata riutilizzazione del credito da parte del cliente (Cass. 6 novembre 2007, n. 23107 cit.; Cass. 13 maggio 2005, n. 10122; Cass. 9 dicembre 2004, n. 23006).

Su questo specifico versante la novella – se interpretata nel senso fin qui indicato – consegna al giudice una modalità di accertamento della revocabilità della rimessa che è, rispetto al passato, più agile e sicuro, meno dipendente da verifiche dagli esiti incerti, e quindi in linea con la ratio di semplificazione cui appare preordinato l’intervento legislativo.

Ma l’esegesi che prescinde dalla annosa distinzione tra rimesse solutorie e ripristinatorie assicura pure lo strumento all’obiettivo, ad essa connaturato, di preservare adeguatamente la par condicio creditorum. Se infatti la norma impone di verificare, puramente e semplicemente, la durevolezza (oltre che la consistenza) della rimessa – sicché quel che rileva è, in ultima analisi, la persistenza dell’effetto estintivo del debito -, resta escluso che l’esenzione dalla revocatoria dipenda da un elemento (il mancato recesso della banca dal contratto di apertura di credito) che potrebbe dipendere da circostanze casuali o, peggio, da condotte strumentali dell’istituto di credito (interessato ad evitare che le rimesse operate dal correntista continuino ad affluire su di un conto assistito da una linea di credito, così da poterne opporre, in un secondo momento, la natura ripristinatoria).

1.7. Va pertanto affermato che ai fini della revocabilità, per come disciplinata, a seguito dell’intervento del D.L. n. 35 del 2005, convertito in L. n. 80 del 2005, dalla L. Fall., art. 67, comma 3, lett. b), è irrilevante che la rimessa posta in essere dal correntista fallito sia da qualificare rirpistinatoria o solutoria e cioè che afferisca a conto passivo o a conto scoperto, giacché quel che rileva è unicamente la consistenza e durevolezza degli effetti estintivi dell’esposizione debitoria.

In conseguenza, in base alla disciplina attuale, è possibile che la rimessa diretta a ripianare l’esposizione debitoria del conto passivo sia revocabile (come accade nel caso, da ultimo esaminato, in cui gli effetti solutori della rimessa permangano nel tempo); ed è possibile, all’inverso, che la rimessa attuata su conto scoperto non lo sia, non comportando essa un rientro durevole, perché neutralizzata da riutilizzi dell’importo da parte del correntista stesso.

Il primo motivo va dunque respinto.

1.8. Merita invece censura il metodo seguito dalla Corte di appello per accertare l’entità delle rimesse oggetto della revocatoria.

Come in precedenza osservato, il giudice distrettuale ha inteso non prendere in considerazione le operazioni poste in atto che si potessero considerare riutilizzi della somma versata, reputando che dovesse attribuirsi rilievo al solo dato della differenza tra la massima esposizione debitoria della società e l’ammontare residuo della pretesa creditoria alla data di apertura della procedura concorsuale. In tal modo ha ritenuto che l’ammontare da restituire andasse quantificato alla stregua del criterio di cui alla L. Fall., art. 70, nel testo in ultimo modificato dal D.Lgs. n. 169 del 2007, art. 4, comma 5, il quale dispone, al comma 3: “Qualora la revoca abbia ad oggetto atti estintivi di posizioni passive derivanti da rapporti di conto corrente bancario o comunque rapporti continuativi o reiterati, il terzo deve restituire una somma pari alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese, nel periodo per il quale è provata la conoscenza dello stato d’insolvenza, e l’ammontare residuo delle stesse, alla data in cui si è aperto il concorso. Resta salvo il diritto del convenuto d’insinuare al passivo un credito d’importo corrispondente a quanto restituito”.

Ora, il tema del coordinamento tra l’art. 67, comma 3, lett. b), e la L. Fall., art. 70, comma 3, è stato a lungo dibattuto: e in dottrina si è giustamente evidenziato come le due norme paiano obbedire a logiche diverse, giacché la prima di esse sembra considerare isolatamente le singole rimesse, mentre la seconda mostra di prendere in esame il rapporto nella sua complessità. E’ certo, comunque, che l’art. 70, comma 3, abbia riguardo alla somma da restituire una volta che si siano individuate, in base all’art. 67, comma 3, lett. b), le rimesse da revocare. Come precisato poi da questa Corte – ma l’approdo è condiviso dalla maggior parte dei commentatori – la L. Fall., art. 70, comma 3, pone un limite oggettivo all’obbligo di restituzione, che quindi non può superare la misura del richiamato differenziale (Cass. 9 dicembre 2015, n. 24868; Cass. 7 ottobre 2010, n. 20834). Tale limite si spiega in quanto le movimentazioni del conto (accrediti e addebiti) – che, succedendosi nel tempo, si bilanciano – sono indicative del fatto che nel periodo che interessa il correntista ha fruito di una elasticità di cassa, senza conseguire l’effetto pratico di un reale abbattimento della propria esposizione debitoria; la norma sembra quindi costituire un ulteriore presidio – eretto, questa volta, sul terreno dell’obbligazione restitutoria – volto ad evitare che l’esercizio di plurime revocatorie porti al conseguimento di un risultato non coerente con quanto ne dovrebbe costituire oggetto (facendo entrare nel computo della somma da ripetere anche i versamenti che non abbiano effettivamente ridotto il debito del correntista).

Peraltro, il dato aritmetico, valorizzato dalla Corte distrettuale, della differenza tra la massima esposizione debitoria nel periodo sospetto e il saldo negativo del conto al momento dell’apertura del concorso non è necessariamente indicativo dell’importo che va revocato, perché può essere influenzato da accrediti diversi da quelli da prendere in considerazione a norma della lett. b), comma 2, dell’art. 67: così accade ove vengano in questione le rimesse effettuate da terzi, di cui è parola nel quarto motivo di ricorso, le quali non sono ritenute revocabili quando risulti che il relativo pagamento non sia stato eseguito con danaro del fallito e sempre che il terzo, utilizzatore di somme proprie, non abbia proposto azione di rivalsa verso l’imprenditore prima della dichiarazione di fallimento o non abbia così adempiuto un’obbligazione relativa ad un debito proprio (Cass. 9 ottobre 2017, n. 23597; Cass. 7 dicembre 2012, n. 22247).

Il criterio del massimo scoperto, di cui ha fatto applicazione la Corte di appello, non esimeva pertanto la stessa dal prendere in esame le operazioni incidenti sul conto a seguito della rimessa di cui era stata domandata la revoca: e ciò al fine di apprezzare la durevolezza della riduzione dell’esposizione debitoria dipendente da essa, pervenendo, così, alla individuazione della somma oggetto di revocatoria. E’ ovvio, infatti, che l’adozione del criterio del massimo scoperto non possa mai portare alla quantificazione di una prestazione restitutoria eccedente l’effettivo importo delle rimesse revocabili: vale a dire delle rimesse che abbiano ridotto in maniera consistente e durevole il saldo a debito del correntista.

Vanno dunque accolti, per quanto di ragione, il secondo, il terzo e il quarto motivo che, da diverse angolazioni, contestano l’adozione, da parte della Corte di merito, del criterio del massimo scoperto quale metodo idoneo a individuare le rimesse revocabili.

  1. Il quinto mezzo oppone, ancora, la violazione della L. Fall., art. 67, comma 2 e comma 3, lett. b), in combinato disposto della L. Fall., art. 70, comma 3. C. S.p.a. si duole del fatto che la Corte di merito abbia calcolato la massima esposizione del conto sulla scorta del “saldo valuta”.

Col sesto motivo viene denunciata la insanabile contraddittorietà della motivazione in relazione all’adozione, quale “saldo disponibile”, del “saldo valuta”. All’affermazione di principio secondo cui l’esposizione debitoria massima della correntista non potesse essere individuata alla stregua del “saldo valuta”, era seguita, secondo la ricorrente, l’utilizzazione, in concreto, di tale criterio di quantificazione della differenza, nell’arco di tempo che interessava, tra il totale degli accrediti e quello degli addebiti.

2.1. I due motivi sono inammissibili.

La Corte di appello, prendendo in esame l’appello incidentale della curatela, ha sottolineato come entrambe le parti avessero dedotto che il saldo dovesse essere ricostruito avendo riguardo al momento dell’effettiva esecuzione degli incassi delle erogazioni da parte della banca, e quindi sulla base non già del saldo contabile, ritenuto inidoneo, al pari del criterio del saldo per valuta, ma a quello del saldo disponibile: in tal senso, secondo il giudice del gravame, il massimo scoperto andava quantificato prendendo in considerazione le date riportate nella colonna in cui erano ordinate le singole poste in ragione della “effettiva disponibilità da parte del correntista”. In tal modo veniva accertato che la massima esposizione debitoria per la società fallita era quella registrata alla data del __, quando ammontava a Euro __, mentre il saldo individuato dalla banca Euro __ al giorno __ costituiva la ricostruzione del conto corrente effettuata per data contabile.

Ciò posto, l’affermazione della Corte distrettuale secondo cui l’esposizione finale era stata calcolata attraverso i saldi disponibili si sottrae a censura, involgendo un accertamento rimesso al giudice del merito. Né l’istante potrebbe in questa sede lamentare il travisamento, da parte della sentenza impugnata, di un fatto assunto come incontrovertibilmente certo (l’appostazione, nella seconda colonna dell’estratto conto citato, dei saldi per valuta), giacché un tale vizio integrerebbe un errore revocatorio, da far valere con l’impugnazione ex art. 395 c.p.c., n. 4.

  1. Il settimo motivo contiene una doglianza di violazione della L. Fall., art. 67, comma 2 e comma 3, lett. b), in combinato disposto della L. Fall., art. 70, comma 3. Assume la ricorrente che la Corte di merito avrebbe impropriamente determinato il saldo infragiornaliero anteponendo un addebito (per Euro __) all’accredito di Euro __.

3.1. Il motivo è fondato.

Ricorda la ricorrente che nella propria comparsa di appello, di cui ha riprodotto lo stralcio che qui interessa (pagg. 16 e ss. del ricorso per cassazione) aveva rilevato come il saldo individuato dal Tribunale non tenesse conto di un addebito di Euro __ del __ (lo stesso giorno in cui aveva avuto luogo la rimessa oggetto della domanda revocatoria). La Corte di merito non ha smentito che il citato addebito fosse stato trascurato, né ha proceduto ad alcuna correzione con riguardo ad esso. Deve conseguentemente farsi applicazione della regola per cui in tema di revocatoria delle rimesse in conto corrente bancario effettuate da un imprenditore poi dichiarato fallito, nel caso di plurime operazioni di segno opposto nella stessa giornata in cui appaia uno scoperto di conto, il fallimento che chieda la revoca di rimesse aventi carattere solutorio in relazione al saldo infragiornaliero e non al saldo della giornata, ha l’onere di dimostrare l’esistenza di atti aventi carattere solutorio e, dunque, la cronologia dei singoli movimenti: cronologia che non può essere desunta dall’ordine delle operazioni risultante dall’estratto conto ovvero dalla scheda di registrazione contabile, in quanto tale ordine non corrisponde necessariamente alla realtà e sconta i diversi momenti in cui, secondo le tipologie delle operazioni, vengono effettuate le registrazioni sul conto; sicché, in mancanza di tale prova, devono intendersi effettuati prima gli accrediti e poi gli addebiti (Cass. 29 marzo 2016, n. 6042; Cass. 10 maggio 2012, n. 7158). In conseguenza, l’importo di Euro __, oggetto del motivo, avrebbe dovuto essere posposto, e non anteposto alla rimessa di Euro __.

  1. In conclusione, vanno accolti, per quanto di ragione, il secondo, il terzo e il quarto motivo, nonché il settimo; va rigettato il primo e sono da dichiararsi inammissibili il quinto e il sesto.

La sentenza è cassata e il giudice del rinvio dovrà fare applicazione dei seguenti principi di diritto:

“In tema di azione revocatoria fallimentare, il R.D. n. 267 del 1942, art. 67, comma 2, lett. b), (nel testo modificato dal d.l. n. 35/2005, convertito, con modificazioni, nella L. n. 80 del 2005), prescinde dalla natura solutoria o ripristinatoria della rimessa e quindi dal fatto che la stessa afferisca a un conto scoperto o solo passivo, ma impone al giudice del merito di accertare la revocabilità della rimessa stessa avendo riguardo, oltre che alla consistenza, alla durevolezza di essa: accertamento che non può essere surrogato dalla semplice quantificazione della differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle pretese della banca nel periodo per il quale è provata la conoscenza dello stato di insolvenza e l’ammontare residuo delle stesse alla data in cui si è aperto il concorso, come previsto dal successivo art. 70, comma 3 (nel testo novellato dal cit. D.L. n. 35 del 2005 e modificato, da ultimo, dalla L. n. 169 del 2008), giacché quest’ultima disposizione indica solo il limite massimo dell’importo che il convenuto in revocatoria può essere tenuto a restituire.

“In tema di azione revocatoria fallimentare, le rimesse effettuate dal terzo sul conto corrente dell’imprenditore, poi fallito, non sono revocabili quando risulti che il relativo pagamento non sia stato eseguito con danaro del fallito e che il terzo, utilizzatore di somme proprie, non abbia proposto azione di rivalsa verso l’imprenditore prima della dichiarazione di fallimento, né che abbia così adempiuto un’obbligazione relativa ad un debito proprio.

“In tema di revocatoria delle rimesse in conto corrente bancario effettuate da un imprenditore poi dichiarato fallito, nel caso di plurime operazioni di segno opposto nella stessa giornata in cui appaia uno scoperto di conto, il fallimento che chieda la revoca di rimesse aventi carattere solutorio in relazione al saldo infragiornaliero e non al saldo della giornata, ha l’onere di dimostrare l’esistenza di atti aventi carattere solutorio e, dunque, la cronologia dei singoli movimenti, cronologia che non può essere desunta dall’ordine delle operazioni risultante dall’estratto conto ovvero dalla scheda di registrazione contabile, in quanto tale ordine non corrisponde necessariamente alla realtà e sconta i diversi momenti in cui, secondo le tipologie delle operazioni, vengono effettuate le registrazioni sul conto, sicché in mancanza di tale prova devono intendersi effettuati prima gli accrediti e poi gli addebiti”.

Al giudice del merito spetterà di regolare le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie per quanto di ragione il secondo, il terzo e il quarto motivo, nonché il settimo; rigetta il primo e dichiara inammissibili il quinto e il sesto; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di __, che deciderà in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 1 Sezione Civile, il 12 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2019

Cass_civ_Sez_I_ n_277_del_09_01_2019




La sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento, in favore del lavoratore, di un certo numero di mensilità costituisce valido titolo esecutivo, che non richiede ulteriori interventi del giudice diretti alla esatta quantificazione del credito

La sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento, in favore del lavoratore, di un certo numero di mensilità costituisce valido titolo esecutivo, che non richiede ulteriori interventi del giudice diretti alla esatta quantificazione del credito

Tribunale Ordinario di Venezia, Sezione Lavoro, Sentenza del 05/12/2018

Con sentenza del 5 dicembre 2018, il Tribunale Ordinario di Venezia, Sezione Lavoro, in tema di recupero crediti, ha stabilito che la sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento, in favore del lavoratore, di un certo numero di mensilità costituisce valido titolo esecutivo, che non richiede ulteriori interventi del giudice diretti alla esatta quantificazione del credito, solo se tale credito risulta da operazioni meramente aritmetiche eseguibili sulla base dei dati contenuti nella sentenza. Qualora, invece, la sentenza di condanna non consente di determinare le pretese economiche del lavoratore in base al contenuto del titolo stesso, in quanto per la determinazione esatta dell’importo sono necessari elementi estranei al giudizio concluso e non predeterminati per legge, la sentenza non costituisce idoneo titolo esecutivo, ma è utilizzabile come prova scritta per ottenere nei confronti del datore di lavoro un decreto ingiuntivo di pagamento per il credito fatto valere, il cui ammontare può essere provato con altri e diversi documenti.

Tribunale Ordinario di Venezia, Sezione Lavoro, Sentenza del 05/12/2018

La sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento, in favore del lavoratore, di un certo numero di mensilità costituisce valido titolo esecutivo, che non richiede ulteriori interventi del giudice diretti alla esatta quantificazione del credito

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL GIUDICE DEL LAVORO DEL TRIBUNALE DI VENEZIA

dott. __

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa di lavoro n. __ RG promossa con ricorso in opposizione a D.I.

da

S.

– opponente –

contro

P.

– opposta –

in punto: opposizione a decreto ingiuntivo n. __ ;

discussa e decisa all’udienza del __

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ricorso in opposizione depositato telematicamente in data __ presso la sezione lavoro del Tribunale di Venezia S. in epigrafe indicato opponeva il D.I. n. __, immediatamente esecutivo e notificato unitamente ad atto di precetto il __, per Euro __ oltre accessori e spese ottenuto da P con riferimento a sentenza n. __ del Tribunale di Venezia.

Si tratta di pronuncia est Menegazzo con cui questo Tribunale, per quanto qui interessa, ha dichiarato ex art. 2 D.Lgs. n. 23 del 2015 la nullità per ritorsività del licenziamento irrogato da S. alla ricorrente, ordinato al medesimo S. di reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro e di corrisponderle a titolo risarcitorio un’indennità pari all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del tfr dal giorno del licenziamento sino a quello di effettiva reintegrazione.

La pronuncia è stata seguita dalla richiesta da parte della lavoratrice, in luogo della reintegra, del pagamento dell’indennità sostitutiva, ossia le 15 mensilità dall’ultima retribuzione di riferimento, e l’attivazione per il recupero della stessa e del risarcimento del danno (mensilità dal licenziamento all’ esercizio dell’opzione) della procedura monitoria sfociata nel DI __ appunto per __ oltre accessori e spese.

I motivi dell’opposizione sono:

  1. non definitività della sentenza __, impugnata infatti avanti alla Corte d’Appello di Venezia con ricorso depositato in data __ e udienza per l’inibitoria fissata al __;
  2. l’inammissibilità della procedura monitoria
  3. l’erroneità degli importi oggetto di intimazione in quanto conteggiati al lordo delle “trattenute di legge”, ossia delle ritenute contributive e fiscali; omessa detrazione quale aliunde perceptum di quanto ottenuto dall’ Inps per lo stato di disoccupazione; con formulazione delle seguenti conclusioni: “In via preliminare: disporsi la sospensione dell’efficacia esecutiva del decreto opposto perché emesso in assenza dei presupposti di legge e perché privo, per le ragioni esposte, delle condizioni di cui all’art. 642 c.p.c. tenuto, pure, conto del periculum atteso che l’opposta è priva di mezzi patrimoniali per assicurare la restituzione degli importi che fossero pagati in esecuzione del decreto ingiuntivo, dato che la stessa scrive, nel ricorso, di essere “rimasta disoccupata dalla data del licenziamento” (cfr. ricorso pagina 3 punto B). In via pregiudiziale: disporsi la sospensione del presente procedimento ex art. 295 c.p.c. fino alla definitività della sentenza n. __ del Giudice del Lavoro presso il Tribunale di Venezia che, essendo stata posta a base del provvedimento monitorio, si pone – tanto quella decisione che il procedimento di impugnazione – pregiudiziali rispetto alla definizione della presente controversia; Nel merito: revocarsi il decreto ingiuntivo opposto perché inammissibilmente ed illegittimamente emesso per le ragioni esposte in narrativa ed, in ogni caso, ridursi l’importo eventualmente dovuto in considerazione dell’aliunde perceptum. Con vittoria di spese e provvedimento esecutivo”.

L’opposta si è costituita contestando il ricorso e chiedendo dunque la conferma del DI opposto.

La causa è stata istruita documentalmente e all’odierna udienza discussa oralmente.

L’opposizione va rigettata

Il credito azionato da P. in sede monitoria consegue a sentenza __ con cui questo stesso Tribunale est. Menegazzo ha, per quanto qui interessa, dichiarato ex art. 2 D.Lgs. n. 23 del 2015 la nullità per ritorsività del licenziamento irrogato alla medesima P. dallo S.L. Tonetto, ordinato al medesimo S.L. di reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro e di corrisponderle a titolo risarcitorio un’indennità pari all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del tfr dal giorno del licenziamento sino a quello di effettiva reintegrazione.

La pronuncia è stata seguita dall’ esercizio dell’opzione da parte della lavoratrice e il DI qui opposto riguarda il pagamento dell’indennità sostitutiva, ossia le __ mensilità, e il risarcimento del danno in misura pari alle mensilità dal licenziamento all’ esercizio dell’opzione per complessivi Euro __ oltre accessori e spese.

La questione circa l’an debeatur (nullità per ritorsività del licenziamento in regime Job’s Act) è sub judice in appello avendo S. impugnato la sentenza con ricorso depositato in data __.

L’ istanza di inibitoria trattata all’ udienza __ è stata dichiarata inammissibile (v. ordinanza all E resist).

Ciò premesso, come in parte già rilevato con ordinanza __:

  1. A) non sussistono i presupposti per la sospensione ex art. 295 c.p.c. in attesa della definizione del giudizio sull’ an debeatur (come detto attualmente pendente in appello) in quanto la contemporanea pendenza del giudizio sull'”an debeatur” e di quello sul “quantum” integra ipotesi di pregiudizialità solamente in senso logico, per la quale opera il rimedio della sospensione facoltativa ex art. 337, secondo comma, c.p.c., laddove, in assenza di sospensione concordata, in caso di riforma dell’ an debeatur il raccordo si realizza con l’ automatica caducazione della sentenza sul “quantum” (c.d. giudicato apparente – v. Cass 185 del 03/05/2007);
  2. B) l’indennità di disoccupazione non costituisce aliunde perceptum detraibile dal risarcimento per invalidità del licenziamento. E infatti secondo la Cassazione le voci detraibili a titolo di aliunde perceptum siccome ripetibili sono solo i corrispettivi per attività lavorativa, non anche le indennità previdenziali, che non lo sono in quanto ripetibili dagli Istituti previdenziali.

Così:

– Cass. n. 11308 del 14/11/1997: In tema di liquidazione del danno risarcibile al lavoratore in caso di dimissioni per giusta causa da un rapporto di lavoro a tempo determinato, l’onere, che grava sul datore di lavoro, di provare “l’aliunde perceptum” da parte del lavoratore dimissionario – prova finalizzata ad evitare che tale liquidazione venga fatta sulla base delle retribuzioni dovute dalla data del recesso a quella della scadenza del contratto – è limitato alla prova dell’avvenuta occupazione lavorativa del dipendente e non anche all’ammontare dei guadagni percepiti, mentre è inidonea ad assolvere tale onere probatorio la mera produzione della certificazione attestante il periodo di percezione dell’indennità di disoccupazione”;

– Cass. n. 10531 del 01/06/2004: “In caso di licenziamento nullo perché intimato ad una lavoratrice in stato di gravidanza o puerperio in violazione del divieto di cui all’art. 2 della L. n. 1204 del 1971, dal pagamento, a titolo risarcitorio, delle retribuzioni successive alla data di effettiva cessazione del rapporto, possono essere detratti eventuali corrispettivi per attività lavorative espletate nel corso del rapporto dichiarato nullo (aliunde perceptum), ove il datore di lavoro ne fornisca la relativa prova, mentre non possono essere detratte le indennità previdenziali, non potendo, le stesse ritenersi acquisite, in via definitiva, dal lavoratore, in quanto ripetibili dagli Istituti previdenziali”.

  1. C) alla luce di insegnamenti giurisprudenziali consolidati risultano corretti sia l’utilizzo del ricorso monitorio, in quanto la sentenza 267/2018 è priva di indicazione sia degli importi, sia degli estremi per la quantificazione, e vale nel contempo quale prova scritta ex art. 633 c.p.c. ancorché non definitiva, sia la quantificazione al lordo.

Quanto alla prima questione, l’art. 474 c.p.c. stabilisce che l’esecuzione forzata non può avere luogo se non in virtù di un titolo esecutivo e per un diritto certo, liquido ed esigibile al momento dell’inizio dell’azione esecutiva.

Il diritto è certo se il suo contenuto è precisamente determinato ovvero è facilmente determinabile sulla base degli elementi indicati nella sentenza che lo accerta.

Il credito è liquido se è determinato nel suo ammontare.

La giurisprudenza considera sussistente tale requisito anche quando la sentenza di condanna non contenga l’esatta indicazione della somma dovuta, ma questa possa comunque essere calcolata con una mera operazione matematica, sulla base di dati risultanti dal dictum giudiziale.

Proprio la giurisprudenza del lavoro ha più volte avuto modo di affermare che la sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento, in favore del lavoratore, di un certo numero di mensilità costituisce valido titolo esecutivo, che non richiede ulteriori interventi del giudice diretti all’esatta quantificazione del credito, solo se tale credito risulti da operazioni meramente aritmetiche eseguibili sulla base dei dati contenuti nella sentenza.

Se invece la sentenza di condanna non consente di determinare le pretese economiche del lavoratore in base al contenuto del titolo stesso in quanto per la determinazione esatta dell’importo sono necessari elementi estranei al giudizio concluso e non predeterminati per legge, analogamente al caso di sentenza di condanna generica che rimandi ad un successivo giudizio la quantificazione del credito, la sentenza non costituisce idoneo titolo esecutivo, ma è utilizzabile come prova scritta per ottenere nei confronti del datore di lavoro un decreto ingiuntivo di pagamento per il credito fatto valere, il cui ammontare può essere provato con altri e diversi documenti.

Così, ex plurimis, Cass. n. 11677 del 01.6.2005; n. 1741 del 6.3.1996; Cfr. Cass. n. 2760 del 1995, n. 5784 del 1995, n. 811 del 1995, n. 9685 del 2000.

Dall’applicazione di tali principi al caso di specie deriva la piena ammissibilità del ricorso monitorio in quanto la sentenza in questione, n. __ del Tribunale di Venezia, non contiene l’esatta indicazione della retribuzione posta base della quantificazione dell’importo da corrispondere alla lavoratrice, né consta che agli atti di causa fossero dimessi i dati necessari

In altre parole nel caso di specie nel dictum giudiziale i dati numerici per il calcolo (ossia l’ammontare della retribuzione di riferimento per il calcolo del tfr) non ci sono e dunque correttamente P. per ottenere la quantificazione ha agito in sede monitoria.

Parimenti infondato risulta il secondo rilievo, riguardante il quantum, poiché l’accertamento e la liquidazione dei crediti pecuniari del lavoratore debbono essere effettuati al lordo delle ritenute fiscali.

Il meccanismo della determinazione di queste ultime inerisce infatti ad un momento successivo a quello dell’accertamento delle spettanze retributive e si pone in relazione al distinto rapporto d’ imposta sul quali il Giudice chiamato alla liquidazione del credito di lavoro non può interferire (cfr. per tutte Cass. n. 6337 del 18.4.2003 e Cass. n. 9198 dell’11.7.2000).

Correttamente quindi il DI opposto è stato emesso per la somma dovuta al lordo delle ritenute fiscali.

L’opposizione va quindi disattesa.

Le spese del giudizio di opposizione in base al principio di soccombenza vanno poste a carico dell’opponente, liquidazione come in dispositivo.

P.Q.M.

contrariis reiectis, definitivamente pronunciando, così provvede:

1) rigetta l’opposizione e per l’effetto conferma il DI opposto n. 645/2018, già esecutivo ex art. 642 c.p.c.;

2) condanna l’opponente alla refusione delle spese di lite, che liquida, al netto di accessori di legge, in complessivi Euro __.

Così deciso in Venezia, il 5 dicembre 2018.

Depositata in Cancelleria il 5 dicembre 2018.

Tribunale_Venezia_Sez_lavoro_Sent_05_12_2018

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La domanda volta all’accertamento di un credito nei confronti del fallimento è devoluta alla competenza esclusiva del giudice delegato ex artt. 52 e 93, L.F.

La domanda volta all’accertamento di un credito nei confronti del fallimento è devoluta alla competenza esclusiva del giudice delegato ex artt. 52 e 93, L.F.

Corte d’Appello di Brescia, Sezione I Civile, Sentenza del 06/12/2018

Con sentenza del 6 dicembre 2018, la Corte d’Appello di Brescia, Sezione I Civile, in tema di procedure concorsuali, ha stabilito che la domanda volta all’accertamento di un credito nei confronti del fallimento è devoluta alla competenza esclusiva del giudice delegato ex artt. 52 e 93, L.F. Di talché, ove la relativa azione sia proposta nel giudizio ordinario di cognizione, deve esserne dichiarata d’ufficio l’inammissibilità o l’improcedibilità, in ogni stato e grado, anche nel giudizio di cassazione.

Corte d’Appello di Brescia, Sezione I Civile, Sentenza del 06/12/2018

La domanda volta all’accertamento di un credito nei confronti del fallimento è devoluta alla competenza esclusiva del giudice delegato ex artt. 52 e 93, L.F.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La Corte d’Appello di Brescia, Sezione Prima civile, composta dai Sigg.:

Dott. __ – Presidente

Dott. __ – Consigliere

Dott. __ – Consigliere rel.

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile n. __ R.G. promossa con atto di citazione notificato in data __ e posta in decisione all’udienza collegiale del __

da

L. S.P.A., elettivamente domiciliata in __ presso il difensore avv. __, come da procura in calce al ricorso per decreto ingiuntivo.

APPELLANTE

contro

FALLIMENTO P. SRL contumace

V. contumace

APPELLATI

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato in data __ P. srl proponeva opposizione avverso il decreto con cui le era stato ingiunto di pagare a L. spa la somma di Euro __ a titolo di mancato pagamento dei canoni di locazione finanziaria per i mesi da __ a __ oltre interessi e spese; contestava la fondatezza della domanda adducendo che il c.d. impegno a subentrare, azionato dalla controparte in sede monitoria, aveva in realtà natura fideiussoria e non di cessione del contratto con conseguente applicabilità dell’art. 1936 c.c. e nullità dell’accordo per mancata indicazione dell’importo massimo garantito; allegava che in data __ erano stati sottoscritti sia l’atto di compravendita dell’immobile di proprietà di P. da parte di B. snc, sia il contratto di locazione finanziaria fra questo ultimo e L. spa imputando a questa ultima la scorrettezza di averle fatto sottoscrivere ulteriore modulo senza consegnarle quello informativo ed il documento di sintesi e neppure copia di quanto sottoscritto; lamentava che la controparte l’aveva notiziata dell’inadempimento dell’utilizzatore a distanza di più di un anno dal primo insoluto. Rilevava inoltre che il titolo azionato risultava sottoscritto da S. srl , vale a dire società estranea alla controparte per quindi non era legittimata a proporre domande sulla base di esso; eccepiva la nullità dei tassi applicati in quanto superiori a quelli di usura e la decadenza del creditore ex art. 1957 c.c.; contestava inoltre la sussistenza dei presupposti sulla base dei quali era stata concessa la provvisoria esecutività e chiedeva il risarcimento dei danni subiti a causa della illegittima segnalazione alla C. Chiedeva che in caso di ritenuta validità della cessione del contratto di leasing la società utilizzatrice ed i soci illimitatamente responsabili fossero chiamati a rispondere di quanto preteso dall’ingiungente in quanto cedenti non liberati dal cessionario.

Si costituiva L. spa contestando l’assunto di citazione con una articolata difesa; sosteneva la natura di cessione del contratto dell’accordo sottoscritto tra le parti in causa e di avere effettuato la segnalazione pregiudizievole lamentata dalla controparte e rilevando che non era stato provato alcun danno.

Il Tribunale di Brescia, con sentenza n. __, dichiarava il difetto di legittimazione ad agire della parte convenuta opposta e per l’effetto revocava il decreto ingiuntivo; respingeva ogni altra domanda; compensava integralmente le spese di lite. Il Giudice di prime cure rilevava che L. spa nella narrativa del ricorso per ingiunzione aveva dedotto l’esistenza del contratto di locazione finanziaria sottoscritto con B. snc di V. adducendo che contestualmente G. srl si era obbligata a subentrare alla società utilizzatrice nel medesimo contratto senza specificare a favore di chi, si era limitata ad allegare di avere segnalato alla controparte l’inadempimento dell’utilizzatrice e di avere fatto valere l’impegno al subentro dalla stessa sottoscritto. Rilevava che il titolo azionato in giudizio era sottoscritto oltre che dall’opponente anche da un soggetto diverso dall’ingiungente ed in particolare dalla società S. SRL e che parte opposta a fronte della eccezione sollevata dall’opponente, suffragata dalla produzione della visura di tale società al fine di comprovare l’assenza di collegamento fra la società S. srl e l’ingiungente, non aveva ritenuto di allegare o replicare alcunché né nelle memorie autorizzate né tanto meno in udienza. Sulla base di tali considerazioni accertava il difetto di legittimazione attiva della opposta con conseguente revoca del decreto ingiuntivo opposto. Respingeva inoltre la domanda riconvenzionale svolta dall’opponente di risarcimento dei danni patiti a seguito di segnalazione alla C., in quanto l’opponente non aveva prodotto la relativa certificazione limitandosi ad offrire un capitolo di prova generico nella formulazione e quindi inammissibile.

Proponeva appello L. spa chiedendo, in integrale riforma della sentenza impugnata, il rigetto della opposizione proposta da P. srl con la conferma del decreto ingiuntivo opposto ed in via subordinata il rigetto delle domande proposte da P. con condanna di questa alla corresponsione della somma che dovesse risultare in corso di causa.

Si costituiva P. srl contestando la fondatezza dell’appello di cui deduceva la inammissibilità ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c.

In via di appello incidentale chiedeva che si dichiarasse il creditore L. decaduto dal diritto di pretendere il versamento delle rate da __ a __ con rideterminazione della somma dovuta entro l’importo di Euro __ e la condanna di B. snc di V. in persona del socio cessato e legale rappresentante nonché i fideiussori, quali cedenti non liberati, al pagamento delle rate di leasing; chiedeva inoltre la condanna di L. al risarcimento dei danni causati all’appellato per la segnalazione alla C.

Alla udienza del __ veniva dichiarata la contumacia di V.

Con ordinanza del __ la Corte preso atto che il legale di P. srl aveva comunicato che il Tribunale di Milano aveva dichiarato il fallimento con sentenza del __ e che la causa interruttiva era intervenuta prima dello scadere delle comparse conclusive, rimetteva la causa alla udienza del __ in cui veniva dichiarata la interruzione del processo per intervenuto fallimento di P. srl.

Con ricorso per riassunzione del __ L. spa chiedeva di riassumere il processo.

Alla udienza del __ la causa veniva trattenuta in decisione sulle conclusioni sopra riportate.

Motivi della decisione

Preliminarmente va dichiarata la contumacia del Fallimento P. srl che non si è costituito dopo la riassunzione; mentre va confermata la contumacia di V., già dichiarata alla udienza del __.

Sempre in via preliminare va evidenziato che nel ricorso per riassunzione del processo ex artt. 303 c.p.c. e 125 disp att l’appellante I.L. spa ha rassegnato le seguenti conclusioni ” Voglia l’Ecc.ma Corte di Appello adita: in via principale in integrale riforma della sentenza impugnata rigettare l’opposizione proposta da P. srl per l’effetto confermare il decreto ingiuntivo opposto; In via subordinata in integrale riforma della sentenza impugnata rigettare comunque le domande proposte da G.P. srl e condannare G.P. srl alla corresponsione della diversa somma che dovesse risultare in corso di causa . In ogni caso: vittoria di spese, diritti ed onorari integralmente rifusi anche del primo grado di giudizio”.

Successivamente, in sede di precisazione delle conclusioni, la parte, pur richiamando le conclusioni di atto di appello e dell’atto di riassunzione, ha chiesto preliminarmente che la Corte accerti e dichiari la sussistenza della legittimazione ad agire in capo alla società L. S.p.A., ora B. V; e poi ha ribadito le domande di condanna nei confronti del Fallimento.

Invero solamente in comparsa conclusionale la difesa dell’appellante ha precisato che la riassunzione era stata effettuata al solo fine di vedere riconosciuta la propria legittimazione attiva con riferimento al credito originariamente azionato in via monitoria, adducendo di avere interesse a far valere le proprie legittime ragioni creditorie nella competente sede fallimentare senza che la procedura possa avanzare eccezione di giudicato con riferimento alla legittimazione attiva della società di leasing.

Deve tuttavia rilevare che nel ricorso in riassunzione la parte non ha assolutamente proposto tali deduzioni difensive, che si richiamano ai principi affermati dalla Suprema Corte con la sentenza n __ e della successiva ordinanza n __.

Dovendosi quindi fare riferimento all’atto di riassunzione notificato al Fallimento, rimasto contumace, deve rilevarsi che l’appellato ha reiterato la richiesta di condanna del medesimo implicita nella richiesta di conferma del decreto ingiuntivo ed esplicitata nella domanda subordinata.

È principio consolidato della Suprema Corte che “L’accertamento di un credito nei confronti del fallimento è devoluta alla competenza esclusiva del giudice delegato ex artt. 52 e 93 l. fall. con la conseguenza che, ove la relativa azione sia proposta nel giudizio ordinario di cognizione, deve esserne dichiarata d’ufficio, in ogni stato e grado, anche nel giudizio di cassazione, l’inammissibilità o l’improcedibilità” ( ex plurimis Cass 24156/2018).

Pertanto nei termini in cui il processo è stato riassunto nei confronti del Fallimento, ed avuto riguardo altresì alle conclusioni rassegnate alla udienza del 4 luglio 2018, si deve dichiarare la improcedibilità delle domande di condanna riproposte nei confronti del Fallimento, non potendo essere valorizzata la diversa posizione assunta in comparsa conclusionale trattandosi di atto deputato esclusivamente allo svolgimento delle domande ed eccezioni già ritualmente proposte.

In ragione della mancata costituzione degli appellati nulla sulle spese.

P.Q.M.

La Corte d’Appello di Brescia – Prima Sezione Civile, definitivamente pronunciando:

dichiara la improcedibilità delle domande di condanna proposte nei confronti del Fallimento e per l’effetto rigetta l’appello.

Nulla per le spese.

Sussistono i presupposti ai sensi dell’art. 13 comma 1, quater del D.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, del pagamento del doppio del contributo unificato a carico dell’appellante.

Depositata in Cancelleria il 6 dicembre 2018.

Corte_Appello_Brescia_Sez_I_Sent_06_12_2018

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La preliminare fase sommaria delle opposizioni esecutive (successive all’inizio dell’esecuzione) davanti al giudice dell’esecuzione (ai sensi degli artt. 615, comma 2, 617, comma 2, e 618, nonché 619, c.p.c.) è necessaria ed inderogabile

La preliminare fase sommaria delle opposizioni esecutive (successive all’inizio dell’esecuzione) davanti al giudice dell’esecuzione (ai sensi degli artt. 615, comma 2, 617, comma 2, e 618, nonché 619, c.p.c.) è necessaria ed inderogabile

Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza n. 25170 del 11/10/2018

Con sentenza dell’11 ottobre 2018, la Corte di Cassazione, Sezione III Civile, in tema di esecuzione forzata, ha stabilito che la preliminare fase sommaria delle opposizioni esecutive (successive all’inizio dell’esecuzione) davanti al giudice dell’esecuzione (ai sensi degli artt. 615, comma 2, 617, comma 2, e 618, nonché 619, c.p.c.) è necessaria ed inderogabile, in quanto prevista non solo per la tutela degli interessi delle parti del giudizio di opposizione ma anche di tutte le parti del processo esecutivo e, soprattutto, in funzione di esigenze pubblicistiche, di economia processuale, di efficienza e regolarità del processo esecutivo e di deflazione del contenzioso ordinario; la sua omissione, come il suo irregolare svolgimento, laddove abbia impedito la regolare instaurazione del contraddittorio nell’ambito del processo esecutivo ed il preventivo esame dell’opposizione da parte del giudice dell’esecuzione – non solo in vista di eventuali richieste cautelari di parte, ma anche dell’eventuale esercizio dei suoi poteri officiosi diretti a regolare il corso dell’esecuzione – determina l’improponibilità della domanda di merito e l’improcedibilità del giudizio di opposizione a cognizione piena.


Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza n. 25170 del 11/10/2018

La preliminare fase sommaria delle opposizioni esecutive (successive all’inizio dell’esecuzione) davanti al giudice dell’esecuzione (ai sensi degli artt. 615, comma 2, 617, comma 2, e 618, nonché 619, c.p.c.) è necessaria ed inderogabile

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al numero __  del ruolo generale dell’anno __, proposto da:

G. S.r.l., in persona dell’amministratore, legale rappresentante pro tempore __, rappresentato e difeso, giusta procura a margine del ricorso, dall’avv. __;

– ricorrente –

nei confronti di:

S. S.p.A., in persona del rappresentante per procura __, rappresentato e difeso, giusta procura in calce al controricorso, dall’avv. __;

– controricorrente –

e

S. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore;

E. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore;

M.;

B.;

– intimati –

per la cassazione della sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere n. __, pubblicata in data __;

udita la relazione sulla causa svolta alla camera di consiglio del __ dal consigliere __;

uditi:

l’avv. __, per delega dell’avv. __ per la società ricorrente;

l’avv. __, per delega dell’avv. __, per la società controricorrente;

il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale Dott. __, che ha concluso per l’accoglimento dei primi due motivi del ricorso, assorbiti gli altri.

Svolgimento del processo

La S. S.p.A. ha proposto opposizione agli atti esecutivi, ai sensi dell’art. 617 c.p.c., avverso il provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione, nel corso di un procedimento di espropriazione immobiliare da essa promosso nei confronti di G. S.r.l. (e nel quale erano intervenuti i creditori S. S.r.l., E. S.p.A., E. G. S.p.A., M. e B.), ha rigettato l’istanza di vendita e dichiarato improcedibile l’esecuzione in relazione ad alcuni dei beni pignorati.

L’opposizione è stata accolta dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.

Ricorre G. S.r.l., sulla base di quattro motivi.

Resiste con controricorso S. S.p.A.

Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli altri intimati.

La società ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “violazione delle disposizioni in materia di competenza funzionale del Giudice della Esecuzione; artt. 617 e 618 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 2”.

Con il secondo motivo si denunzia “violazione e falsa applicazione degli artt. 617 e 618 c.p.c., artt. 186 bis disp. att. c.p.c., e art. 624, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

I primi due motivi del ricorso sono connessi e possono essere esaminati congiuntamente.

Essi sono fondati, per quanto di ragione.

Come emerge pacificamente dagli atti, l’opposizione agli atti esecutivi avverso l’ordinanza del giudice dell’esecuzione (con la quale era stata dichiarata improcedibile l’esecuzione in relazione ad alcuni dei beni pignorati) è stata avanzata direttamente in sede di merito, al giudice della cognizione – peraltro con ricorso e non con atto di citazione – senza il preventivo svolgimento della fase sommaria davanti allo stesso giudice dell’esecuzione prevista dall’art. 617 c.p.c., comma 2, e art. 618 c.p.c.

L’irregolarità è stata eccepita dalla società opposta, ma il giudice del merito ha respinto l’eccezione, affermando che la fase preliminare sommaria davanti al giudice dell’esecuzione prevista dall’art. 617 c.p.c., comma 2, e art. 618 c.p.c., non è indefettibile ma è sostanzialmente prevista nell’interesse della sola parte opponente, onde consentire a quest’ultima di richiedere al giudice dell’esecuzione l’emissione di provvedimenti cautelari, con la conseguenza che, laddove l’opponente non intenda avanzare tali richieste, essa potrebbe anche non avere luogo, e la stessa parte opponente sarebbe pertanto libera di instaurare direttamente la fase di merito dell’opposizione, davanti al giudice competente per valore e per materia, senza preventivamente instaurare il contraddittorio con le altre parti davanti al giudice dell’esecuzione.

Tale assunto non può essere condiviso.

1.1 Inderogabilità della fase preliminare sommaria delle opposizioni esecutive successive all’inizio dell’esecuzione.

Lo svolgimento della preliminare fase sommaria del giudizio di opposizione davanti al giudice dell’esecuzione, espressamente prevista dalla attuale formulazione dall’art. 615, comma 2 (per l’opposizione all’esecuzione), e dall’art. 617, comma 2, e art. 618 (per l’opposizione agli atti esecutivi), nonché dall’art. 619 c.p.c., (per l’opposizione di terzo all’esecuzione) non può essere ritenuta meramente facoltativa.

Anche laddove l’opponente non intenda richiedere provvedimenti cautelari ai sensi dell’art. 624 c.p.c., e/o dell’art. 618 c.p.c., resta comunque ferma l’esigenza che l’opposizione stessa sia introdotta con ricorso rivolto al giudice dell’esecuzione (da depositarsi quindi agli atti del fascicolo dell’esecuzione) e che il contraddittorio sulla relativa domanda si svolga preventivamente nell’ambito del processo esecutivo, prima della instaurazione del giudizio di merito in sede di cognizione ordinaria davanti al giudice competente per materia e per valore, secondo il rito applicabile in relazione all’oggetto del contendere, nel termine perentorio all’uopo assegnato dal giudice dell’esecuzione.

La struttura cd. bifasica della fase introduttiva delle opposizioni esecutive è infatti prevista dalla legge in funzione di una pluralità di esigenze, non riconducibili al solo interesse della parte opponente ma anche (e soprattutto) volte ad assicurare finalità di carattere pubblicistico e di tutela delle altre parti del processo esecutivo, nonché del regolare andamento di quest’ultimo, esigenze che quindi non possono ritenersi derogabili e in definitiva rimesse alla volontà della sola parte opponente.

La previsione generalizzata di una preliminare fase sommaria dell’opposizione davanti al giudice dell’esecuzione ha in primo luogo lo scopo di garantire ed incentivare la possibilità che abbiano luogo i meccanismi processuali deflattivi espressamente previsti dalla legge, anche (ma non solo) in relazione alla eventuale sospensione cautelare del processo esecutivo, in modo che in ogni caso tanto la parte opponente quanto la parte opposta abbiano la possibilità di valutare se dare effettivamente corso alla fase di merito dell’opposizione, che il legislatore (con le riforme del 2006, che impongono a tal fine una sostanziale riassunzione del giudizio e la sua iscrizione nel ruolo degli affari contenziosi solo dopo la fase sommaria endoesecutiva) ha inteso rendere soltanto eventuale e possibilmente evitare, laddove non necessaria, favorendo nei limiti del possibile soluzioni interne al processo esecutivo (come del resto espressamente previsto dall’art. 619 c.p.c., comma 3, secondo un meccanismo peraltro ben possibile anche nelle atre tipologie di opposizione), per evidenti ragioni di economia processuale e di riduzione del contenzioso ordinario a cognizione piena.

L’indicata struttura bifasica, in quest’ottica, ha la finalità di assicurare che della proposizione di un’opposizione esecutiva sia immediatamente reso edotto il giudice dell’esecuzione, al quale è riservato dalla legge il preliminare esame della stessa, anche per consentirgli l’eventuale esercizio dei suoi poteri officiosi di verifica e controllo della regolarità di svolgimento dell’azione esecutiva, nonché dei suoi poteri di direzione del procedimento, che potrebbero determinare l’emissione (anche di ufficio) di provvedimenti tali da rendere superfluo lo svolgimento del merito dell’opposizione (o comunque da indurre le parti a rinunciarvi e/o comunque a trovare un accordo), con evidenti effetti deflattivi sul contenzioso ordinario a cognizione piena.

Essa ha poi lo scopo di rendere possibile la conoscenza dell’avvenuta proposizione di un’opposizione a tutte le parti del processo esecutivo, anche se non direttamente interessate dall’opposizione stessa o se intervenute successivamente ad essa (anche quelle parti, quindi, che eventualmente non possano ritenersi litisconsorti nel giudizio di merito dell’opposizione), nonché ad eventuali altri soggetti che abbiano un interesse di fatto in proposito (si pensi ai potenziali interessati all’acquisto dei beni pignorati; questi ultimi, in virtù del meccanismo di introduzione delle opposizioni esecutive previsto dalla legge, vengono messi in condizione di venire a conoscenza dell’avvenuta proposizione delle suddette opposizioni consultando il fascicolo dell’esecuzione; lo stesso custode dei beni pignorati viene posto in condizione di poter fornire loro la relativa informazione, restandone così favorita la complessiva efficienza del processo di espropriazione). Si tratta di soggetti il cui interesse ad avere diretta ed immediata conoscenza di tutte le vicende che potrebbero in qualche modo determinare l’inefficacia degli atti esecutivi ha un indubbio rilievo, anche pubblicistico, nell’ottica del vigente sistema normativo.

In particolare, poi, le indicate esigenze si pongono con speciale rilievo, e quindi risultano ancor più radicalmente inderogabili, per quanto riguarda l’opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell’art. 617 c.p.c., comma 2, dal momento che in tale ipotesi deve essere sempre consentita al giudice dell’esecuzione l’emissione (possibile anche di ufficio, a prescindere da un’espressa istanza delle parti) di eventuali provvedimenti urgenti e indilazionabili ai sensi dell’art. 618 c.p.c., commi 1 e 2.

Sotto un più ampio profilo sistematico, inoltre, si deve osservare che la stessa previsione dell’assegnazione da parte del giudice dell’esecuzione, all’esito della preliminare fase sommaria che si svolge davanti a lui, di un termine perentorio per l’instaurazione della fase di merito del giudizio di opposizione, non avrebbe alcun senso se dalla fase sommaria si potesse prescindere, a discrezione dell’opponente, laddove quest’ultimo non intendesse richiedere provvedimenti cautelari nell’ambito del processo esecutivo.

Al contrario, secondo la stessa costante giurisprudenza di questa Corte, sebbene il giudizio di opposizione debba ritenersi unico ed abbia inizio con il ricorso al giudice dell’esecuzione, l’eventuale tardiva instaurazione/riassunzione della fase di merito a cognizione piena dell’opposizione stessa determina l’improcedibilità della relativa azione (si tratta di una situazione in cui sostanzialmente si determina l’improseguibilità del giudizio a cognizione piena, ovvero, osservando il fenomeno sotto altra prospettiva, l’improponibilità della domanda di merito) e non semplicemente la caducazione degli eventuali provvedimenti cautelari emessi (che anzi, al contrario, laddove si tratti di provvedimenti di sospensione dell’esecuzione, si consoliderebbero al punto da determinare l’estinzione del processo esecutivo, in base al meccanismo di cui all’art. 624 c.p.c., comma 3, il quale prevede chiaramente tale possibile effetto estintivo come alternativa alla prosecuzione del giudizio di merito dell’opposizione). Altrettanto deve dirsi per l’ipotesi di omessa o tardiva notificazione dell’originario atto introduttivo della fase sommaria dell’opposizione nel termine perentorio assegnato dal giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., comma 2, e/o art. 618 c.p.c., comma 1, dal momento che in tale ipotesi, non potendo essere concesso un nuovo termine per la notifica dell’originario ricorso, stante la perentorietà del primo termine assegnato, dovrà essere eventualmente proposto un ulteriore ricorso, con tutte le conseguenze del caso (in particolare, l’azione di merito a cognizione piena eventualmente introdotta – nonostante l’omesso svolgimento della fase preliminare sommaria, per l’omessa, tardiva o irregolare instaurazione del contraddittorio in sede esecutiva non potrà che essere dichiarata a sua volta improponibile).

La conseguenza (che, come appena visto, emerge dal sistema) dell’improcedibilità della fase di merito a cognizione piena del giudizio di opposizione, nel caso in cui non siano correttamente osservate le modalità di introduzione e di prosecuzione del procedimento, secondo la struttura bifasica normativamente delineata, non può che condurre (a più forte ragione, determinandosi in caso contrario una evidente incoerenza sistematica) alla medesima conclusione anche nell’ipotesi in cui la fase sommaria dell’opposizione davanti al giudice dell’esecuzione sia addirittura del tutto omessa. Anche in tal caso, cioè, la fase di merito a cognizione piena del giudizio di opposizione sarà improcedibile (e quindi la relativa domanda improponibile), in quanto non preceduta e correttamente raccordata con la necessaria ed indefettibile preventiva fase a cognizione sommaria del medesimo giudizio davanti al giudice dell’esecuzione.

1.2 Conseguenze della proposizione di un atto di opposizione non conforme al modello legale.

Pare peraltro opportuno alla Corte effettuare alcune precisazioni.

Si è detto che la necessaria struttura bifasica dell’introduzione delle opposizioni esecutive, per come risulta delineata dall’attuale sistema normativo, costituisce una disciplina processuale non derogabile, in quanto volta a tutelare – oltre che gli interessi delle parti – anche esigenze pubblicistiche di ordinato svolgimento del processo esecutivo, di economia processuale e di deflazione dei giudizi contenziosi, mediante l’esercizio dei poteri (anche officiosi) riservati al giudice dell’esecuzione.

Ciò senz’altro comporta che non possa ritenersi procedibile l’opposizione introdotta in modo da non rispettare tale struttura bifasica: in tal caso non si potrà in nessun caso pervenire ad una valida decisione sul merito della domanda.

Occorre però chiedersi cosa accade laddove l’atto introduttivo dell’opposizione si discosti in parte dal modello formale imposto dalla legge.

Quest’ultimo modello prevede due distinti requisiti: a) la forma del ricorso; b) la proposizione di tale ricorso (non genericamente all’ufficio giudiziario competente, ma direttamente e specificamente) al giudice del processo esecutivo pendente, cioè – in altri termini – il deposito di esso agli atti del suddetto processo esecutivo, direttamente nel fascicolo dell’esecuzione, senza la sua iscrizione nel ruolo contenzioso ordinario, che è espressamente prevista dagli artt. 616 e 618 c.p.c., solo in relazione alla successiva, ma meramente eventuale, fase di merito a cognizione piena.

L’atto introduttivo dell’opposizione non rispetta quindi il modello legale se non si tratti di “ricorso al giudice dell’esecuzione”, cioè: a) se abbia una forma diversa dal ricorso; b) se la domanda giudiziale in esso contenuta non sia rivolta direttamente al giudice dell’esecuzione, ma genericamente all’ufficio giudiziario, o addirittura espressamente al giudice competente a decidere la fase di merito della opposizione stessa; c) se l’atto non venga depositato agli atti del fascicolo del processo esecutivo già pendente, ma venga iscritto direttamente nel ruolo contenzioso ordinario perché sia formato un distinto fascicolo processuale (o se esso venga addirittura depositato in un fascicolo processuale esistente diverso da quello dell’esecuzione cui si riferisce, anche se ovviamente quest’ultima rappresenta in sostanza una ipotesi di scuola).

L’atto, nelle ipotesi indicate, presenta certamente un vizio formale che ne determina la nullità per la sua difformità dal modello legale, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 2: non si tratta infatti di un atto idoneo a raggiungere il suo scopo.

Come ampiamente chiarito fin qui, lo scopo della previsione della particolare forma dell’atto introduttivo dell’opposizione esecutiva (ad esecuzione iniziata) è finalizzata a far sì che l’atto di opposizione venga immediatamente reso conoscibile al giudice dell’esecuzione (oltre che a tutte le parti del processo esecutivo pendente), in modo da consentire a quest’ultimo di valutarne il contenuto, di provvedere su eventuali richieste cautelari e, anche a prescindere da tali richieste, di valutare comunque l’eventuale adozione di ufficio di opportuni provvedimenti (cautelari e non) incidenti sul corso del processo di esecuzione, così rendendo solo eventuale la successiva instaurazione della fase di merito a cognizione piena dell’opposizione stessa.

Un atto che, per la sua difformità dal modello legale, non sia di per sé idoneo a pervenire all’esame del giudice dell’esecuzione – cioè una opposizione che non contenga un ricorso, o quanto meno una domanda giudiziale rivolta a quest’ultimo, ovvero che non sia depositata agli atti del fascicolo dell’esecuzione – non è idoneo a raggiungere lo scopo previsto dalla legge ed è pertanto senza alcun dubbio nullo ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 2.

Tale nullità può però rimanere sanata, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 3, laddove il predetto atto comunque abbia raggiunto il suo scopo, cioè laddove sia stato comunque tempestivamente trasmesso al giudice dell’esecuzione ed acquisito agli atti del fascicolo del processo esecutivo, su iniziativa dell’ufficio o su richiesta della stessa parte opponente, di modo che venga assicurato l’immediato svolgimento della fase preliminare sommaria dell’opposizione davanti al giudice dell’esecuzione.

Perché sia raggiunto lo scopo indicato ed operi la sanatoria rispetto alla mera proposizione dell’opposizione, determinando il potere dovere del giudice dell’esecuzione di dar corso alla fase sommaria, è necessario e sufficiente che l’atto introduttivo difforme dal modello legale pervenga agli atti del fascicolo dell’esecuzione.

Altra questione è quella del momento in cui può ritenersi operante la sanatoria in questione, questione naturalmente rilevante per i casi in cui la proposizione dell’opposizione debba avvenire entro un determinato termine (il che accade sempre per l’opposizione agli atti esecutivi, ma potrebbe avere rilievo, in taluni casi, anche per l’opposizione all’esecuzione, in base all’attuale formulazione dell’art. 615 c.p.c., comma 2, nonchè per l’opposizione di terzo all’esecuzione, ai sensi dell’art. 620 c.p.c.).

Tale questione va risolta tenendo conto: a) del principio per cui la sanatoria per raggiungimento dello scopo dell’atto nullo, in quanto difforme dal modello legale, richiede che l’atto in questione risulti oggettivamente idoneo a soddisfare le esigenze in funzione delle quali la legge ha previsto una sua determinata forma; b) del principio per cui, nell’osservanza di termini perentori, la parte non può subire decadenze non derivanti da condotte ad essa stessa imputabili.

Contemperando gli indicati principi, sì giunge alle seguenti conclusioni.

In considerazione delle finalità per le quali la legge ha imposto il peculiare regime di introduzione delle opposizioni successive all’inizio dell’esecuzione (e cioè la forma del ricorso rivolto direttamente al giudice dell’esecuzione), la sanatoria per raggiungimento dello scopo dell’atto introduttivo che non rispetti il modello legale richiede che il giudice dell’esecuzione sia comunque effettivamente messo in condizione di esaminare l’atto di opposizione tempestivamente, in relazione alla natura e ai motivi dell’opposizione: poiché lo scopo della forma legale ha la finalità di consentire al giudice dell’esecuzione di valutare immediatamente il contenuto dell’opposizione, onde eventualmente adottare tempestivamente i provvedimenti di sua competenza relativi al successivo corso del processo esecutivo, i quali potrebbero determinare il venir meno dell’interesse delle parti di dar luogo alla fase di merito dell’opposizione, il mancato rispetto della forma dell’atto introduttivo imposta dalla legge, laddove impedisca al giudice dell’esecuzione di averne immediata conoscenza, è causa di nullità per inidoneità dell’atto al raggiungimento del suo scopo (ex art. 156 c.p.c., comma 2) e la sanatoria di tale nullità per raggiungimento dello scopo, ex art. 156 c.p.c., comma 3, richiede che oggettivamente e concretamente l’atto stesso pervenga di fatto nella sfera di conoscibilità del giudice dell’esecuzione, sia cioè inserito nel fascicolo dell’esecuzione, restando altrimenti di fatto comunque frustrata la finalità della previsione legislativa.

In particolare, poi, ciò è a dirsi per l’opposizione agli atti esecutivi, anche in considerazione dello sviluppo per fasi del processo di esecuzione: laddove sia contestata la regolarità formale di un atto di tale processo, è evidentemente necessario che il giudice dell’esecuzione ne sia reso edotto prima del compimento dell’atto successivo, per potere eventualmente adottare, anche di ufficio, i provvedimenti opportuni urgenti ed indilazionabili, ai sensi dell’art. 618 c.p.c., commi 1 e 2.

Basti pensare, ad esempio, all’ipotesi che, nell’imminenza di una vendita, venga proposta una opposizione agli atti esecutivi relativa alla regolarità dell’ordinanza che la aveva disposta; è evidente che tanto la previsione di un termine perentorio per l’opposizione, quanto la necessità che essa sia rivolta al giudice dell’esecuzione, sono disposizioni che hanno lo scopo di consentire al giudice dell’esecuzione di adottare, anche di ufficio, gli eventuali provvedimenti volti ad evitare lo svolgimento di attività processuali inutili e costose, che potrebbero anche determinare pregiudizi per i diritti di terzi o comunque incidere negativamente sul corretto svolgimento del processo esecutivo, oltre a rendere ineluttabile lo svolgimento della fase di merito dell’opposizione, che potrebbe invece essere evitata mediante una soluzione interna al processo esecutivo. Si pensi addirittura all’ipotesi in cui sia – come nella specie – dichiarata l’improcedibilità dell’esecuzione con la cancellazione della trascrizione del pignoramento. In tutti questi casi, la proposizione di una opposizione che, a causa di una difformità dell’atto introduttivo rispetto al modello legale, rimanga di fatto “ignota” al giudice dell’esecuzione, determina una serie di inconvenienti, anche gravi e anche potenzialmente incidenti sui diritti delle parti e dei terzi.

Non può del resto essere trascurato il fatto che la legge prevede uno stringente termine perentorio per la proposizione dell’opposizione agli atti esecutivi, ed è chiaro che lo scopo di tale previsione non potrebbe ritenersi raggiunto, ma sarebbe al contrario vanificato, nel caso in cui si ritenesse che il relativo ricorso possa pervenire di fatto al giudice dell’esecuzione (a causa di un errore imputabile alla parte) solo a lunga distanza dalla scadenza del termine in questione.

In base a quanto sin qui osservato, dunque, la sanatoria dell’atto introduttivo di una opposizione esecutiva (successiva all’inizio dell’esecuzione) difforme dal modello legale dovrebbe poter operare, di regola, solo quando concretamente esso abbia raggiunto il suo scopo, cioè con effetti decorrenti dal momento in cui l’atto di opposizione pervenga di fatto nella sfera di conoscibilità del giudice dell’esecuzione, risultando materialmente inserito agli atti del fascicolo dell’esecuzione.

Poiché peraltro deve in proposito tenersi conto, come premesso, anche del principio di autoresponsabilità, le considerazioni che precedono richiedono ulteriori precisazioni, in relazione all’imputabilità o meno alla parte opponente dell’eventuale ritardo nell’inserimento dell’atto introduttivo dell’opposizione nel fascicolo dell’esecuzione.

E’ appena il caso di osservare in proposito che le eventuali decadenze che possano determinarsi in una siffatta situazione non sono in alcun modo ricollegabili alla erronea individuazione del giudice competente o alla erronea scelta di un rito, ma direttamente al rispetto di termini perentori previsti dalla legge nel compimento di attività che devono rispondere ad un determinato modello formale imposto dalla stessa legge. Si tratta cioè di una questione analoga, anche se non identica, a quella che si verifica nel caso in cui sia prevista l’introduzione di un giudizio con ricorso e la parte lo introduca invece con citazione: la difformità dell’atto dal modello legale non impedisce che esso sia comunque preso in considerazione dal giudice adito, trattandosi in ogni caso di una domanda giudiziale, ma se in conseguenza di detta difformità muti il momento in cui l’atto stesso raggiunga il suo scopo, sarà quest’ultimo quello da prendere esclusivamente in considerazione ai fini della valutazione del rispetto di termini perentori; nell’ipotesi appena presa ad esempio, sarà quindi il momento del deposito dell’atto stesso presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario adito, con la sua iscrizione a ruolo, a determinare la data di effettiva proposizione della domanda; nella fattispecie di cui si qui discute, analogamente, non potrà che essere quello dell’inserimento dell’atto stesso nel fascicolo dell’esecuzione, in quanto solo in questo momento esso perviene, come richiesto dalla legge, nella sfera di conoscibilità del giudice dell’esecuzione.

Orbene, tanto premesso, laddove il tardivo inserimento dell’atto introduttivo dell’opposizione nel fascicolo del processo esecutivo sia conseguenza di un errore non imputabile alla parte opponente (come, ad esempio, nel caso in cui la domanda giudiziale di opposizione sia ab origine inequivocabilmente diretta al giudice dell’esecuzione ed il suo mancato inserimento nel fascicolo dell’esecuzione sia conseguenza di un errore della cancelleria, che – è bene precisarlo – è tenuta a trasmettere al giudice dell’esecuzione tutti gli atti ad esso diretti, indipendentemente dalla loro forma, anche se eventualmente iscritti erroneamente nel ruolo contenzioso), la sanatoria potrà operare sin dalla data del deposito del ricorso (o quanto meno dalla data della sua iscrizione a ruolo, in caso di opposizione erroneamente avanzata con atto di citazione).

Laddove invece il mancato tempestivo inserimento dell’atto nel fascicolo dell’esecuzione derivi da un errore o comunque da una scelta imputabile alla stessa parte opponente (come ad esempio nei casi in cui essa abbia espressamente rivolto l’atto ad un giudice diverso da quello dell’esecuzione, in difformità dal modello legale, ed il successivo intervento dell’ufficio abbia nella sostanza rilevato la nullità dell’atto stesso, disponendone il suo inserimento nel fascicolo dell’esecuzione e/o la sua trasmissione al giudice dell’esecuzione), la sanatoria potrà operare solo dal momento in cui intervenga il suddetto provvedimento del giudice (che ha in tal caso la sostanza di una rinnovazione), o al più dal momento in cui la stessa parte opponente abbia chiesto espressamente la trasmissione dell’atto formalmente nullo al giudice dell’esecuzione, così a sua volta di fatto sanando l’originaria causa di nullità.

In tali ultimi casi, dunque, se il provvedimento officioso che rileva la nullità e dispone la trasmissione dell’atto introduttivo (nullo in quanto difforme dal modello legale) al giudice dell’esecuzione (cioè in caso di nullità imputabile alla parte), ovvero la richiesta dell’opponente di procedere in tal senso, intervengano in data successiva all’eventuale scadenza del termine per la proposizione dell’opposizione, questa non potrà ritenersi tempestiva (se non previa eventuale rimessione in termini della stessa parte opponente, che dimostri la non imputabilità dell’errore che ha determinato il ritardo).

In conclusione, l’improponibilità della domanda di merito delle opposizioni esecutive (ovvero l’improcedibilità del relativo giudizio a cognizione piena) va pronunciata laddove la preliminare fase sommaria non si sia svolta regolarmente e non ne sia stata possibile la tempestiva rinnovazione o regolarizzazione. In tutti i casi in cui l’atto introduttivo dell’opposizione esecutiva (successiva all’inizio dell’esecuzione) sia difforme dal modello legale, ma ciò non impedisca lo svolgimento della fase preliminare sommaria davanti al giudice dell’esecuzione, il giudice cui pervenga l’atto stesso può disporre che sia trasmesso immediatamente al giudice dell’esecuzione ed inserito nel relativo fascicolo, mentre la parte opponente ha la facoltà di chiedere essa stessa al giudice di provvedere in tal senso. Laddove ciò avvenga, l’atto stesso deve ritenersi avere raggiunto il suo scopo con effetto dalla data del provvedimento del giudice o, se anteriore, della relativa richiesta della parte. Laddove peraltro l’atto introduttivo non possa ritenersi del tutto difforme dal modello legale (in quanto abbia di per sé i requisiti minimi per il raggiungimento del suo scopo, cioè sia diretto al giudice dell’esecuzione, rechi la precisa indicazione del numero di ruolo del fascicolo dell’esecuzione pendente e venga depositato all’ufficio giudiziario di appartenenza dello stesso giudice dell’esecuzione), di modo che il suo mancato immediato inserimento nel fascicolo dell’esecuzione non possa ritenersi imputabile alla parte, ma alla stessa cancelleria dell’ufficio giudiziario, che ha l’obbligo di inserire nel fascicolo dell’esecuzione tutti gli atti contenenti istanze e domande giudiziali che possano interpretarsi come rivolte al giudice dell’esecuzione, anche laddove sussistano altre difformità dal modello legale (che non possono quindi ritenersi tali da determinare il suo mancato inserimento nel fascicolo dell’esecuzione), gli effetti dell’eventuale sanatoria avranno luogo dal momento del deposito dell’atto stesso presso l’ufficio giudiziario di appartenenza del giudice dell’esecuzione e comunque tale data sarà quella da prendere in considerazione agli effetti del rispetto degli eventuali termini perentori di proposizione dell’opposizione.

Resta fermo che in tutti i casi in cui il giudice (diverso da quello dell’esecuzione) al quale pervenga l’atto di opposizione non provveda alla trasmissione dell’atto stesso al giudice dell’esecuzione, il giudizio di merito prosegue irregolarmente e si determina una nullità del relativo procedimento censurabile in via di impugnazione e rilevabile di ufficio (salvo il giudicato interno).

La parte interessata a tale trasmissione (e cioè la parte opponente) deve quindi eventualmente dolersi immediatamente di detta nullità e chiedere la dovuta trasmissione degli atti al giudice dell’esecuzione prima che abbia luogo il giudizio di merito; in mancanza, laddove il giudizio di merito prosegua senza lo svolgimento della fase sommaria, questa non potrà più avere luogo, e il giudice dovrà limitarsi a dichiarare l’improponibilità della domanda di merito dell’opposizione, ovvero l’improcedibilità del relativo giudizio a cognizione piena.

  1. Applicazione dei principi individuati al caso di specie Nel caso di specie, con l’atto introduttivo dell’opposizione era stata chiesta direttamente la decisione di merito sull’opposizione, omessa la fase sommaria davanti al giudice dell’esecuzione; si trattava di un ricorso espressamente diretto al giudice di cui all’art. 186 bis disp. att. c.p.c., (cioè esplicitamente non diretto al giudice dell’esecuzione, ma addirittura ad un giudice necessariamente diverso da quest’ultimo), non depositato nel fascicolo dell’esecuzione, ma solo iscritto nel ruolo contenzioso degli affari civili. Il giudice cui è stato assegnato il fascicolo formato su istanza dell’opponente non ne ha disposto la trasmissione al giudice dell’esecuzione, nè tale trasmissione è stata richiesta dalla stessa parte opponente, che anzi ha espressamente insistito per lo svolgimento della fase di merito a cognizione piena dell’opposizione senza la preliminare fase sommaria davanti al giudice dell’esecuzione.

Gli atti del procedimento di merito sono pertanto certamente nulli, in considerazione della indefettibilità di tale fase preliminare sommaria.

Non è possibile pervenire in questa fase ad una sanatoria dell’atto stesso, sia perché non vi è stata tempestiva richiesta in tal senso della parte opponente (e relativa censura, nei vari gradi di giudizio), sia perché si tratta di una opposizione agli atti esecutivi la nullità del cui atto introduttivo ha impedito che esso raggiungesse lo scopo previsto dalla legge (e tale scopo non può più essere raggiunto, in quanto se il ricorso fosse solo oggi trasmesso al giudice dell’esecuzione, ad oltre sei anni dalla sua originaria proposizione, l’opposizione sarebbe da ritenersi tardiva e comunque le finalità che la legge intende garantire con la previsione della suddetta preliminare fase sommaria non potrebbero più essere in alcun modo perseguite).

La difformità dell’atto rispetto al modello legale è d’altronde senz’altro imputabile alla parte, in quanto il ricorso non era rivolto al giudice dell’esecuzione e non è stato da essa depositato agli atti del processo di esecuzione (né poteva essere interpretato come ab origine diretto al giudice dell’esecuzione, e quindi la sua sanatoria non potrebbe in nessun caso operare ex tunc), né la parte ha chiesto tempestivamente che si procedesse in tal senso, anzi, al contrario finanche nel presente giudizio di legittimità ha insistito esclusivamente nella erronea tesi giuridica secondo la quale la fase preliminare sommaria davanti al giudice dell’esecuzione sarebbe solo facoltativa.

Del resto, a ulteriore conferma della correttezza delle conclusioni appena esposte, è sufficiente considerare che, anche a voler seguire l’erronea impostazione in diritto della società opponente, fatta propria dal giudice del merito (anche cioè a voler ritenere – per assurdo – possibile direttamente lo svolgimento del giudizio di merito dell’opposizione a cognizione piena, senza la preliminare fase sommaria davanti al giudice dell’esecuzione), le conclusioni finali non muterebbero.

In tal caso, infatti, l’atto introduttivo del merito della presente opposizione avrebbe comunque dovuto ritenersi soggetto alla forma sua propria, derivante dal rito applicabile in ragione della materia trattata.

Dunque, poiché nella specie è certamente applicabile il rito ordinario, la fase a cognizione piena dell’opposizione avrebbe dovuto essere instaurata con atto di citazione, da notificarsi nel termine perentorio di venti giorni dall’atto esecutivo impugnato, non con ricorso.

Avendo l’opponente introdotto il giudizio con ricorso direttamente iscritto nel ruolo degli affari contenziosi (come emerge chiaramente dalla stessa sentenza impugnata), invece che con citazione, per rispettare il termine perentorio fissato dalla legge avrebbe dovuto in tale termine non solo depositare il ricorso, ma anche notificarlo, il che non è avvenuto (come altrettanto pacificamente emerge dagli atti; l’ordinanza impugnata risulta depositata in data 23 aprile 2012; il ricorso è stato depositato in data 12 maggio 2012, ma notificato solo successivamente, nel luglio 2012, oltre il termine perentorio previsto dall’art. 617 c.p.c.).

Il Tribunale adito in sede di merito avrebbe pertanto dovuto rilevare, oltre che l’omissione della necessaria fase sommaria davanti al giudice dell’esecuzione, altresì il mancato rispetto del termine perentorio di cui all’art. 618 c.p.c., dichiarando in ogni caso inammissibile l’opposizione agli atti esecutivi.

  1. La sentenza che ha accolto l’opposizione va in conclusione cassata senza rinvio, perché la relativa domanda di merito a cognizione piena non poteva essere proposta, in applicazione dei seguenti principi di diritto:

“la preliminare fase sommaria delle opposizioni esecutive (successive all’inizio dell’esecuzione) davanti al giudice dell’esecuzione (ai sensi dell’art. 615 c.p.c., comma 2, art. 617 c.p.c., comma 2, e art. 618 c.p.c., nonché art. 619 c.p.c.) è necessaria ed inderogabile, in quanto prevista non solo per la tutela degli interessi delle parti del giudizio di opposizione ma anche di tutte le parti del processo esecutivo e, soprattutto, in funzione di esigenze pubblicistiche, di economia processuale, di efficienza e regolarità del processo esecutivo e di deflazione del contenzioso ordinario; la sua omissione, come il suo irregolare svolgimento, laddove abbia impedito la regolare instaurazione del contraddittorio nell’ambito del processo esecutivo ed il preventivo esame dell’opposizione da parte del giudice dell’esecuzione non solo in vista di eventuali richieste cautelari di parte, ma anche dell’eventuale esercizio dei suoi poteri officiosi diretti a regolare il corso dell’esecuzione – determina l’improponibilità della domanda di merito e l’improcedibilità del giudizio di opposizione a cognizione piena”;

“l’atto introduttivo dell’opposizione esecutiva successiva all’inizio dell’esecuzione (ex art. 615 c.p.c., comma 2, art. 617 c.p.c., comma 2, e art. 618 c.p.c., nonché art. 619 c.p.c.) che eventualmente si discosti dal modello legale (il quale richiede un ricorso direttamente rivolto al giudice dell’esecuzione, da depositarsi quindi nel fascicolo dell’esecuzione già pendente e non da iscriversi nel ruolo contenzioso civile) è nullo; la nullità resta sanata per raggiungimento dello scopo se l’atto sia depositato nel fascicolo dell’esecuzione e/o comunque pervenga nella sfera di conoscibilità del giudice dell’esecuzione, anche su disposizione del giudice, diverso da quello dell’esecuzione, che ne rilevi la suddetta nullità, o su richiesta della parte opponente; in tal caso, la sanatoria per raggiungimento dello scopo opera con effetto dalla data in cui sia emesso il provvedimento che dispone l’inserimento dell’atto nel fascicolo dell’esecuzione ovvero dalla data, se anteriore, in cui l’opponente richieda di procedersi in tal senso; resta fermo peraltro che laddove il mancato tempestivo inserimento dell’atto nel fascicolo dell’esecuzione non sia imputabile alla parte opponente ma ad un errore della cancelleria, gli effetti della proposizione della domanda resteranno quelli del deposito dell’atto presso l’ufficio giudiziario, e che la cancelleria è tenuta ad inserire nel fascicolo dell’esecuzione tutti gli atti che siano oggettivamente interpretabili come diretti al giudice dell’esecuzione, indipendentemente dalla loro forma o dalla loro iscrizione a ruolo”.

Quanto fin qui esposto determina l’assorbimento di tutti gli ulteriori motivi del ricorso, dei quali risulta superflua anche l’esposizione in dettaglio (con il terzo motivo si denunzia “violazione e falsa applicazione degli artt. 555, 2659 e 2826 c.c., e della L. 24 febbraio 1985, n. 52, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”; con il quarto motivo si denunzia “omesso esame di fatti decisivi che hanno costituito oggetto di discussione tra le parti – Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”).

  1. Sono accolti i primi due motivi di ricorso, assorbiti gli altri; la sentenza impugnata è cassata senza rinvio perché non poteva essere proposta la domanda di merito a cognizione piena relativa al giudizio di opposizione agli atti esecutivi.

Le spese del giudizio di legittimità sono compensate, sussistendo idonei motivi, per l’oggettiva incertezza interpretativa esistente in relazione alle questioni giuridiche trattate.

P.Q.M.

La Corte:

– accoglie i primi due motivi, assorbiti gli altri, e cassa senza rinvio la sentenza impugnata, perché la domanda di merito a cognizione piena del giudizio di opposizione agli atti esecutivi non poteva essere proposta;

– dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2018

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Il giudice dell’esecuzione non può effettuare alcun controllo intrinseco sul titolo posto alla base dell’azione esecutiva

Il giudice dell’esecuzione non può effettuare alcun controllo intrinseco sul titolo posto alla base dell’azione esecutiva

Tribunale Ordinario di Cassino, Sezione Civile, Sentenza del 31/10/2018

Con sentenza del 31 ottobre 2018 il Tribunale Ordinario di Cassino, Sezione Civile, in tema di recupero crediti ha stabilito che qualora a base di una qualunque azione esecutiva sia posto un titolo il giudice dell’esecuzione non può effettuare alcun controllo intrinseco sullo stesso. Può controllare solo la persistenza della validità del titolo medesimo e, per l’effetto, può attribuire rilevanza esclusivamente a fatti posteriori.


Tribunale Ordinario di Cassino, Sezione Civile, Sentenza del 31/10/2018

Il giudice dell’esecuzione non può effettuare alcun controllo intrinseco sul titolo posto alla base dell’azione esecutiva

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI CASSINO

Il Tribunale, in composizione monocratica, nella persona del giudice, dr. __, ha emesso la seguente

SENTENZA

nella causa civile di primo grado, iscritta al n. __ del ruolo generale per gli affari contenziosi dell’anno __, posta in decisione all’udienza di precisazione delle conclusioni in data __e vertente

TRA

F., elettivamente domiciliato in __, presso lo studio dell’Avv. __, che lo rappresenta e difende, giusta mandato a margine dell’atto di opposizione a precetto

OPPONENTE

E

L. s.r.l., in persona dell’amministratore unico, domiciliata in __, presso lo studio dell’Avv. __, che la rappresenta e difende, giusta mandato a margine della comparsa di costituzione e risposta

OPPOSTA

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con atto notificato in data __, F. proponeva opposizione avverso il precetto notificato dalla società L. s.r.l. in data __, che intimava il pagamento della somma di Euro __, sulla base del decreto ingiuntivo n __ emesso dal Tribunale di Nola per il mancato pagamento di fatture per fornitura di merci.

Sosteneva parte opponente di non aver mai ricevuto notifica di detto decreto ingiuntivo, che inoltre, la pretesa creditoria della L. s.r.l., così come formulata, era infondata in quanto il rapporto commerciale intrapreso con la suddetta società consisteva, esclusivamente, nella fornitura di articoli per cartolibreria, per un importo totale di Euro __, in relazione al quale veniva concordato un pagamento dilazionato nel tempo. Faceva seguito una serie di bonifici per un importo totale di Euro __, e che pertanto, la somma eventualmente residua era di Euro __; ancora, che tale credito doveva considerarsi prescritto, atteso che il primo atto interruttivo risaliva al __; continuava parte opponente sostenendo la nullità dell’atto di precetto in virtù della mancata indicazione introdotta con il D.L. n. 83 del 2015 entrato in vigore il __, che ha modificato l’art. 480 c.p.c., dell’avvertimento al debitore di poter concludere un accordo di composizione della crisi o proporre un “piano del consumatore” con l’ausilio di un “organismo di composizione della crisi o di un professionista nominato dal giudice”. Infine, chiedeva parte opponente, di disporre, in via preliminare, la sospensione dell’esecutività dell’atto di precetto, e di accertare che il d.i. non veniva mai notificato all’istante e dichiarare la nullità dell’atto di precetto, per le ragioni di cui sopra, e da ultimo, che nulla era dovuto dalla parte opponente nei confronti della società L. s.r.l. in virtù della prescrizione del credito, o in ipotesi di mancato accoglimento delle su richiamate doglianze, accertare che era dovuta la residua somma di Euro __.

La parte opposta si costituiva e contestava l’opposizione in diritto.

La suddetta parte sosteneva l’inammissibilità dell’opposizione in esame in quanto assenti i presupposti di cui all’art. 615 c.p.c.; in particolare affermava di aver notificato, alla parte opponente, il decreto ingiuntivo n. __ a mezzo posta in data __, come dimostrato dai relativi avvisi di ricevimento, allegati in atti, da cui emergevano le formalità di cui all’art. 8 L. n. 890 del 1982 relative alla mancata consegna del plico a domicilio per temporanea assenza del destinatario, del deposito del plico presso l’ufficio postale, dell’avviso lasciato al destinatario e della relativa raccomandata e del mancato ritiro entro 10 giorni; tale decreto, non opposto, veniva dichiarato esecutivo in data __, e, pertanto, lo stesso risultava valido ed efficace titolo esecutivo; ancora, parte opposta rilevava che parte opponente non aveva affermato fatti estintivi o modificativi del diritto di credito vantato dalla L. s.r.l. successivi alla formazione del titolo esecutivo idonei ad escluderne la validità e paralizzare l’efficacia dello stesso ma, si era limitata a invocare fatti intervenuti anteriormente alla formazione del titolo esecutivo; inoltre, continuava parte opposta, che la somma dovuta era pari a Euro __, come confermato dall’elenco di fatture, cambiali insolute e pagamenti in acconto allegato alla lettera raccomandata A.R. spedita il __ e depositata in atti, lettera raccomandata costituente valido atto interruttivo della prescrizione; infine, parte opposta sosteneva la validità dell’atto di precetto in quanto, in ossequio alla disposizione ex art. 23 c. 7, D.L. 27 giugno 2015, non sussisteva l’obbligo dell’indicazione, nell’atto stesso, dell’avvertimento di cui all’art. 13 d.L. n. 83 del 2015, perché, nel caso di specie, alla data di notifica dell’atto di precetto, avvenuta il __, ancora non era entrata in vigore la legge di conversione del suindicato decreto; per tali motivi parte opposta chiedeva di rigettarsi, in via preliminare, la richiesta di sospensione dell’esecutività dell’atto di precetto, di rigettarsi l’opposizione perché infondata e infine, condannare parte opponente al pagamento delle spese e del compenso professionale del presente giudizio.

In data __ il Giudice dato atto che l’esecuzione si fondava su un titolo giudiziale, passato in giudicato e non opposto neanche con i rimedi tardivi previsti dall’ordinamento per l’inesistenza della notifica, rigettava l’istanza di sospensione e rinviava all’udienza del __, per l’ammissione dei mezzi istruttori. Successivamente, all’udienza del __, il Giudice riservava di provvedere; in data __ a scioglimento della riserva, il Giudice, ritenuta la causa matura per la decisione, rinviava all’udienza del __ per la precisazione delle conclusioni.

All’udienza suddetta l’avvocato di parte opposta si riportava a quanto prodotto nei propri scritti, insistendo per il rigetto dell’opposizione in quanto infondata e faceva rilevare che in data __ parte opponente aveva eseguito, a seguito della procedura esecutiva presso terzi, il versamento della somma complessiva di Euro __ comprensiva di interessi legali, spese e competenze legali del procedimento per decreto ingiuntivo, precetto e pignoramento presso terzi, chiedendo che la causa fosse trattenuta in decisione. L’avvocato di parte opponente si riportava ai propri scritti difensivi chiedendone l’integrale accoglimento, ma il Giudice, non potendo più trattenere cause in decisione scadendo i termini ex art. 190 c.p.c. nel periodo di astensione obbligatoria, rinviava per le precisazione delle conclusioni.

All’udienza le parti si riportavano ai propri scritti difensivi e il Giudice tratteneva la causa in decisione con osservanza dei termini cui l’art. 190 c.p.c..

Ebbene, tanto premesso in fatto, in diritto, deve osservarsi quanto di seguito.

Con riferimento alla presunta mancata notifica del decreto ingiuntivo n. __, deve rilevarsi che in caso di notificazione a mezzo posta, l’ufficiale postale, qualora non abbia potuto consegnare l’atto al destinatario o a persona abilitata a riceverlo in sua vece, ai sensi degli artt. 8 e 9 della L. 20 novembre 1982, n. 890, ha l’obbligo, dopo avere accertato che il destinatario non ha cambiato residenza, dimora o domicilio, ma è temporaneamente assente, e che mancano persone abilitate a ricevere il piego, di rilasciare al notificando l’avviso del deposito del piego nell’ufficio postale e di provvedere, eseguito il deposito, alla compilazione dell’avviso di ricevimento che, con la menzione di tutte le formalità eseguite, deve essere restituito con il piego al mittente, dopo la scadenza del termine di giacenza dei dieci giorni dal deposito; ciò premesso, dagli atti depositati risulta, in modo incontestabile, il pedissequo adempimento delle formalità imposte dalla suddetta norma, dato che alla data del __ veniva effettuata notifica nel luogo ove l’opponente risultava anagraficamente residente ed ivi venivano inviati i due relativi avvisi di ricevimento, datati __ e __, dai quali emergono le formalità, cui all’art. 8 L. n. 890 del 1982, del deposito del plico presso l’ufficio postale, dell’avviso rilasciato al destinatario e della relativa raccomandata, del mancato ritiro del plico entro 10 giorni; a ciò si aggiunga che il detto decreto non veniva opposto e di conseguenza, divenuto definitivo, veniva munito di formula esecutiva in data __, costituendo, così, valido ed efficace titolo esecutivo; con riferimento alla contestata nullità dell’atto di precetto per carenza della indicazione introdotta con il D.L. n. 83 del 2015, deve rilevarsi che in base all’art. 13, c.1, della suddetta norma, il precetto deve, altresì, contenere l’avvertimento che il debitore può, con l’ausilio di un organismo di composizione della crisi o di un professionista nominato dal giudice, porre rimedio alla situazione di sovra indebitamento concludendo con i creditori un accordo di composizione della crisi o proponendo agli stessi un piano del consumatore. Questa novella è entrata in vigore il 21.08.2015 per il tramite della legge di conversione n. 132/2015, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 20.08.2015. Non vi è dubbio, quindi, che detta novella non può trovare applicazione al caso di specie dal momento che il precetto è datato antecedentemente il __ e la sua notificazione risale al __.

A tutto voler concedere, è opportuno precisare che il legislatore, pur prevedendo come obbligatorio tale avvertimento, nessuna sanzione ha previsto in caso di mancata osservanza dello stesso, nel silenzio del legislatore devono, perciò, trovare applicazione i principi generali dettati dall’art. 156 c.p.c., secondo cui un atto processuale può essere considerato nullo nel caso in cui la nullità per inosservanza della forma sia comminata dalla legge ovvero quando, anche in assenza di tale sanzione, l’atto comunque manchi dei requisiti indispensabili per il raggiungimento del suo scopo. Il precetto, essendo un’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal titolo esecutivo, entro un termine non inferiore a dieci giorni, deve ritenersi che assolva la sua funzione pur in mancanza dell’avvertimento al debitore di ricorrere ai meccanismi di composizione della crisi previsti dalla L. 27 gennaio 2012, n. 3 ( cfr. Trib. Milano, ord. 18.01.2018, Trib. Milano, sent. 30.03.2015, n. 4347/2015, G.D.P. Parma, ord., 31.07.2017 n. 170/2017);

Con riguardo alla presunta prescrizione del debito, costante e uniforme giurisprudenza afferma che: “Qualora a base di una qualunque azione esecutiva sia posto un titolo esecutivo giudiziale, il giudice dell’opposizione, così come quello dell’esecuzione, non può effettuare alcun controllo intrinseco sul titolo, diretto cioè ad invalidarne l’efficacia in base ad eccezioni o difese che andavano dedotte nel giudizio nel cui corso è stato pronunziato il titolo medesimo, potendo controllare soltanto la persistenza della validità di quest’ultimo e quindi attribuire rilevanza solamente a fatti posteriori alla sua formazione o, se successiva, al conseguimento della definitività” (cfr. Cass., Sez. III, 07.05.2015, n. 9247; Cass., Sez. III, 25.09.2000, n. 12664; Cass., Sez.III, 19.12.2096, n. 27159; Cass. Sez. III, 21.01.2011, n. 3850.); orbene, nel caso di specie, parte opponente ha invocato solamente una presunta prescrizione della somma residua di Euro 1.213,88, ovvero, un fatto verificatosi anteriormente alla formazione del titolo esecutivo, datato 27.06.2014, che avrebbe dovuto essere dedotto, esclusivamente, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo; ad ogni modo, va precisato che sulla base dell’art. 2946 c.c. “Salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni”, tuttavia, l’art. 2943 c.c., c. 4, menziona quale causa di interruzione della prescrizione “ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore”, di conforme avviso è la Corte di Cassazione la quale si è espressa per la “idoneità di questo telegramma o lettera raccomandata a rappresentare valido atto interruttivo della prescrizione” (Cassazione civile, sez. III 20/06/2011 n. 13488). Ciò premesso, risulta evidente che, nel caso di specie, la raccomandata a.r. spedita il 04.02.14 e ricevuta il 12.02.14 rappresenta idoneo atto interruttivo della prescrizione, atteso che a tale data non era decorso il termine di 10 anni, di cui all’art. 2946 c.c., in quanto le fatture indicate nel ricorso per decreto ingiuntivo, risultano emesse nell’anno 2006.

Per tali motivi l’opposizione non può trovare accoglimento.

Le spese di lite, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Tribunale di Cassino, definitivamente pronunciando sulla domanda dichiara:

  1. In rigetto dell’opposizione, dichiara l’efficacia del titolo e del pedissequo precetto nei confronti di F.;
  2.  condanna F. a rifondere in favore della L. s.r.l. le spese del giudizio, che liquida nella somma di Euro __ per compensi professionali, oltre accessori di legge.

Così deciso in Cassino, il 22 ottobre 2018.

Depositata in Cancelleria il 31 ottobre 2018.

Tribunale_Cassino_Sent_31_10_2018




La cambiale è un mero strumento di credito e la sua emissione e trasmissione non costituiscono pagamento

La cambiale è un mero strumento di credito e la sua emissione e trasmissione non costituiscono pagamento

Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 29464 del 15/11/2018

Con ordinanza del 3 dicembre 2018 la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in tema di recupero crediti ha stabilito che la cambiale è un mero strumento di credito e la sua emissione e trasmissione non costituiscono pagamento, in quanto l’adempimento della obbligazione portata dal titolo si verifica solo nel momento in cui, alla scadenza, il debitore provvede ad onorarla. Ne consegue che, ai fini dell’esercizio dell’azione revocatoria fallimentare, il momento rilevante per l’accertamento della conoscenza dello stato di insolvenza è quello del pagamento, e non quello della emissione o della girata della cambiale.


Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 29464 del 15/11/2018

La cambiale è un mero strumento di credito e la sua emissione e trasmissione non costituiscono pagamento

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

C. Soc. Coop. a r.l. in Liquidazione Coatta Amministrativa, in persona dei Commissari liquidatori pro tempore, elettivamente domiciliata in __, presso lo studio dell’avv. __, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

B. S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in __, presso lo studio dell’avv. __, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

contro

B. Società Cooperativa, che ha incorporato la B. P. S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in __, presso lo studio dell’avv. __, che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

B. N. S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in __, presso lo studio dell’avv. __, che la rappresenta e difende, giusta procura speciale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

e contro

U. S.p.a., nuova denominazione della U. B. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in __, presso lo studio dell’avv. __, che la rappresenta e difende, giusta procura margine del controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di __, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal cons. __.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

RITENUTO CHE:

  1. La C. società cooperativa di produzione e lavoro in liquidazione coatta amministrativa (di seguito, C) aveva proposto tre separati giudizi revocatori, uno nei confronti della B. N. SPA (di seguito, BN), uno nei confronti della B. SPA (di seguito, B) e l’ultimo nei confronti della BP SPA (di seguito, BP), ciascuno avente ad oggetto la richiesta di inefficacia R.D. 16 marzo 1942, n. 267, ex art. 67, comma 2, (di seguito, L. Fall.) dei contratti di sconto bancario conclusi tra la società in bonis ed i diversi istituti di credito.
  2. Il Tribunale di Roma, con distinte pronunce, aveva accolto le domande nei confronti della B. SPA, della B. N., della B. P. SPA e condannato ciascun istituto alla restituzione delle somme meglio precisate nelle sentenze, “quali somme che erano state pagate, tramite cambiali, ad estinzione di crediti vantati da C. S.p.A. in bonis dalla sua debitrice “Deposito L. soc. coop. a r.l., direttamente in favore dei predetti istituti bancari, in virtù dei contratti di sconto bancario. In tal modo, secondo il Tribunale la C. aveva eseguito rimesse solutorie in favore delle predette banche.” (così nella sent. imp. fol.4): la statuizione era stata fondata sulla considerazione che il decreto che poneva la C.E in liquidazione coatta amministrativa era stato pubblicato sulla G.U. del __ e che i Commissari liquidatori avevano provato la conoscenza dello stato di insolvenza in capo a dette banche creditrici, venendo confermata la natura solutoria delle rimesse dall’assenza di qualsivoglia contratto di apertura di credito.

Il Tribunale aveva invece respinto le domanda proposte nei confronti di BN- convenuta in giudizio quale mandataria di B. R. SPA – e della B. P. N. SPA (rappresentata da mandataria).

Per la prima aveva escluso che la B. R.si fosse resa cessionaria del rapporto giuridico per cui era causa che, invece, nel più vasto gruppo dei rapporti chiusi per la voltura a sofferenza deliberata dall’Istituto già dal __ sarebbe rimasto in capo alla cedente CA. SPA, allorché questa aveva conferito la propria azienda alla B. R., operazione di cui era stata data pubblicità ai sensi dell’art. 58 del TUB. Quindi aveva ritenuto infondata la domanda nei confronti della B. P. N. SPA, avendo accertato che i rapporti negoziali litigiosi, oggetto del giudizio, erano stati trasferiti in favore del B. P. V. N. soc. coop. a r.l., in occasione della fusione tra la B. P. N. e la B. P. V., S. G. P..

  1. Le tre decisioni venivano appellate (in via principale ed incidentale) e la Corte di appello di __ procedeva alla loro riunione; rimaneva contumace S. P. SPA. All’esito del giudizio, per quanto interessa:

– in relazione al giudizio afferente la BN, con riferimento all’appello proposto da quest’ultima, la Corte di appello:

ha respinto l’eccezione di nullità della citazione in primo grado di BN;

ha confermato il rigetto dell’eccezione di prescrizione quinquennale dell’azione revocatoria, proposta dalle appellanti BN e B, poiché la dichiarazione giudiziale dell’insolvenza di C. risaliva al __ ed il quinquennio non era ancora maturato al momento della notificazione della citazione in primo grado avvenuta in data __;

ha respinto le domande revocatorie accolte dal Tribunale, così riformando le prime decisioni, sulla considerazione: che oggetto dell’azione revocatoria erano stati i contratti di sconto bancario, nei quali la C aveva individuato l’atto di diminuzione patrimoniale della società in danno della par condicio creditorum, in contemporanea presenza della scientia decoctionis, e non già i pagamenti dei titoli, oggetto dei contratti di sconto; che, con il contratto di sconto, il credito girato alla banca era passato immediatamente nella proprietà di quest’ultima, mentre la società aveva ricevuto il corrispettivo detratto il pagamento di un prezzo costituito dall’interesse (richiamata Cass. n.1295/1991); che la conoscenza dello stato di insolvenza andava rapportata al tempo della conclusione del contratto di sconto, e cioè al tempo della girata della cambiale alla banca per lo sconto e non al momento del pagamento della cambiale da parte dell’obbligato cambiario.

– In relazione al giudizio afferente B, con riferimento all’appello proposto da quest’ultima, la Corte di appello:

ha confermato le conclusioni prima esposte in merito alla decorrenza del termine prescrizionale dell’azione revocatoria, all’oggetto della revocazione ed all’individuazione del momento in cui andava verificata la conoscenza dello stato di insolvenza; infine, ha ritenuto irrilevante la questione concernente l’apertura di credito che B sosteneva di avere concesso alla C. – In relazione al giudizio afferente C. S. JV SRL e B. N. SPA, con riferimento all’appello proposto dalla C, la Corte di appello:

ha dichiarato inammissibile l’appello proposto dalla C avverso la B. N. SPA, non ravvisando censure riferite alla statuizione del Tribunale relativa al suddetto istituto di credito;

ha esaminato la questione proposta dalla C in merito all’interpretazione ed applicazione dell’art. 58 TUB e, in riforma della prima decisione, ha affermato che legittimamente la C poteva ritenere che il rapporto di sconto bancario fosse stato ceduto, unitamente al conferimento dell’intera azienda bancaria e che ne fosse divenuta titolare esclusiva la cessionaria, ai sensi dell’art. 58, comma 3, del TUB, una volta decorsi i tre mesi dalla pubblicità notizia della cessione e che, quindi, legittimamente la C aveva individuato in C. JV SRL la titolare del rapporto controverso, quale mandataria della banca cessionaria; ha tuttavia ritenuto che la domanda dovesse essere comunque respinta nel merito perché non era stata provata la scientia decoctionis al momento della conclusione del contratto di sconto.

  1. C ricorre per la cassazione della sentenza in epigrafe indicata con due mezzi, assistiti da memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c..
  2. SPA, quale mandataria della U. SPA incorporante la U. B. R. SPA, replica con controricorso e ricorso incidentale condizionato con un mezzo.

B N SPA replica con controricorso e ricorso incidentale con tre mezzi, corredati da memoria.

Il B P società cooperativa, incorporante la B. P. N. SPA, replica con controricorso e memoria.

B replica con controricorso.

Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in camera di consiglio ai sensi delll’art. 375 c.p.c., u.c., e art. 380 bis 1, c.p.c..

CONSIDERATO CHE:

1.1. Con il primo motivo C denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 67, comma 2, L. Fall., artt. 1858 e 1859 c.c..

A parere della ricorrente, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di appello, il momento rilevante per l’accertamento della conoscenza dello stato di insolvenza è quello del pagamento delle cambiali, oggetto dello sconto, e non già quello della loro emissione o quello della loro trasmissione per girata e contesta l’affermazione del giudice di appello secondo il quale la Banca aveva consentito l’immediata disponibilità delle somme portate dai titoli di credito, sebbene ancora da riscuotere.

1.2. Il motivo è infondato.

1.3. Osserva la Corte che, come accertato dalla Corte di appello con statuizione non impugnata sul punto, oggetto dell’azione revocatoria sono i contratti di sconto bancario conclusi dalla società in bonis con i singoli istituti di credito e non già il pagamento delle cambiali.

1.4. L’art. 1858 c.c. stabilisce “Lo sconto è il contratto col quale la banca, previa deduzione dell’interesse, anticipa al cliente l’importo di un credito verso terzi non ancora scaduto, mediante la cessione, salvo buon fine, del credito stesso.”, crediti che, nel caso di specie erano incorporati in cambiali. Quanto, in particolare, allo sconto di cambiali, l’art. 1859 c.c., prevede, per il caso di mancato pagamento, il diritto della banca alla restituzione della somma anticipata. Dunque, il cliente può disporre da subito della somma, di cui pertanto consegue l’immediata disponibilità, che ne costituisce l’effettiva causa negoziale. Né tale efficacia del contratto è smentita dall’inciso “salvo buon fine”, il quale importa che, ove il terzo resti inadempiente, sorgerà in capo al cliente l’obbligo di restituzione dell’importo anticipato.

In proposito giova ricordare che “lo sconto non è un mandato all’incasso, bensì l’operazione con cui la banca anticipa al cliente, previa deduzione dell’interesse, l’importo di un credito verso terzi non ancora scaduto, mediante la cessione del credito stesso. Il mancato buon fine del titolo opera come condizione risolutiva del contratto (o, se si vuole, come effetto sospensivo del diritto della banca alla restituzione), e non come condizione sospensiva dell’accredito al cliente (come accade nell’ipotesi, affatto diversa, del versamento di titoli senza sconto: cfr. Cass. 19 agosto 1996, n. 7615). L’accredito del corrispettivo in conto corrente, dunque, dà la disponibilità immediata della somma, anche se sotto condizione risolutiva del mancato pagamento dell’obbligato cambiario alla scadenza (per la condizione risolutiva si pronunciano Cass. 17 maggio 2013, n. 12079; 23 settembre 2002, n. 13823; 10 agosto 1990, n. 8128; e v. già Cass. 14 luglio 1975, n. 2780; 16 luglio 1969, n. 2620; 8 gennaio 1969, n. 33; 24 luglio 1964, n. 2018; 11 maggio 1957, n. 1659). In tale contesto, resta isolato il precedente… (Cass. 21 gennaio 2000, n. 656), che nega l’immediata disponibilità in caso di sconto di cambiali.” (Cass. n. 15605 del 09/07/2014).

Passando alle conseguenze di questa esegesi normativa in sede di revocatoria fallimentare, va confermato quanto questa Corte ha già avuto modo di affermare proprio con riferimento allo sconto bancario e cioè che “Nel contratto di sconto bancario, la girata piena del titolo di credito dal cliente alla banca – a differenza dalla girata con clausola “per incasso”, “per procura”, per “valuta a garanzia”, od altra equivalente – comporta una cessione del credito, investendo il giratario di una legittimazione piena a titolo di proprietà, attributiva di tutti i diritti derivanti dal titolo, con la conseguenza che l’incasso del denaro pagato dal debito cartolare soddisfa un credito proprio del cessionario e non del cedente. Pertanto, in caso di fallimento del cliente, l’eventuale azione revocatoria fallimentare da parte del curatore può avere per oggetto il negozio di sconto bancario, con riguardo all’epoca della sua conclusione, ma non pure il pagamento (successivamente) effettuato alla banca dal debitore cartolare.” (Cass. 07/02/1991 n. 1295; 16/03/1991 n.2821) – decisioni esattamente richiamate dalla Corte di appello -.

Questa Corte ha anche puntualizzato che “In materia di revocatoria fallimentare, la cessione “pro solvendo” di un credito verso terzi, effettuata nell’ambito di un contratto di sconto ed al fine di ottenere dalla banca cessionaria l’anticipazione, previa deduzione degli interessi, dell’importo del credito stesso, non costituisce un mezzo anormale di pagamento posto che la cessione viene stipulata a scopo di garanzia, non già per estinguere un debito preesistente e scaduto, ed è funzionalmente contestuale al sorgere del credito garantito.” (Cass. 22014 del 19/10/2007, conf. a Cass. 06/12/2006 n. 26154 e 12/07/1991 n.7794; cfr. anche Cass. n.5142 del 03/03/2011, non massimata), atteso che il concetto di contestualità deve essere inteso non in senso formale o semplicemente cronologico, bensì in senso preminentemente sostanziale e causale, con l’effetto che, in difetto di prova circa il collegamento funzionale tra la cessione del credito e la riduzione di una pregressa esposizione debitoria, di cui nella sentenza impugnata non vi è traccia, l’operazione configura un’ipotesi di normale pagamento di un debito e la eventuale scientia decoctionis, va accertata al momento di conclusione del contratto e non del pagamento delle cambiali oggetto del contratto.

1.5. La sentenza impugnata si è attenuta a questi principi e risulta immune da vizi.

1.6. Né tale conclusione può essere revocata in dubbio alla luce della doglianza proposta dalla ricorrente, articolata come se l’azione revocatoria avesse riguardato il pagamento delle cambiali girate alle banche e non già il contratto di sconto bancario di cui le cambiali erano state l’oggetto.

Ne consegue che il motivo va respinto anche perché non coglie appieno il thema decidendum, come dimostra il precedente giurisprudenziale richiamato, secondo il quale “La cambiale è un mero strumento di credito, e la sua emissione e trasmissione non costituiscono pagamento, in quanto l’adempimento della obbligazione portata dal titolo si verifica solo nel momento in cui, alla scadenza, il debitore provvede ad onorarla. Ne consegue che, ai fini dell’esercizio dell’azione revocatoria fallimentare, il momento rilevante per l’accertamento della conoscenza dello stato di insolvenza è quello del pagamento, e non quello della emissione o della girata della cambiale.” (Cass. 21/01/1999, n.510), che, alle luce delle ampie considerazioni prima svolte, risulta privo di pertinenza e decisività.

2.1. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 58 (TUB).

2.2. Il motivo nella prima parte riguarda la pronuncia di inammissibilità del motivo di appello riferito a B. P. N. SPA e la contesta sostenendo che il modus operandi di detta società era stato lo stesso – in relazione alla cessione del ramo di azienda – seguito dalla B. R.

Sotto questo aspetto il motivo è inammissibile perché non coglie la ratio decidendi, riferita non già al modus operandi delle banche, ma alla formulazione carente dell’atto di appello con riferimento a detta convenuta in revocatoria, su cui la doglianza non si sofferma.

2.3. Il motivo nella seconda parte è inammissibile perché non coglie la ratio decidendi, o meglio la trascrive a fol. 15 del ricorso, ma nello svolgere la censura sostanzialmente la ignora. Invero la Corte di appello – a differenza dal Tribunale – ha ritenuto la legittimazione passiva della banca cessionaria dell’azienda, e per essa di C. s., salvo a rigettare comunque la domanda per la diversa ragione già esposte in relazione agli altri istituti di credito (v. sub 1.5/1.5.).

3.1. Con il ricorso incidentale condizionato la U. SPA contesta l’omesso esame dell’eccezione di carenza di legittimazione passiva (fol.12) in quanto sostiene che i rapporti intestati a C, posti alla base della revocatoria, non potevano essere stati oggetto del conferimento di azienda in quanto erano stati chiusi per la voltura a sofferenza a far data dal __ e, trattandosi di “sofferenze” erano rimasti in capo alla holding C. S. SPA.

3.2. Con il ricorso incidentale condizionato la BNL propone tre doglianze e lamenta: la violazione dell’art. 156 c.p.c., comma 3, e dell’art. 2903 c.c. ribadendo la denuncia di nullità della notifica dell’atto di citazione in primo grado (primo motivo); la violazione e falsa applicazione dell’art. 203, comma 1, L. Fall., sostenendo che la sentenza impugnata individua erroneamente il dies a quo del termine prescrizionale decorrente dal giorno in cui il diritto poteva essere fatto valere ex art. 2935 c.c. (secondo motivo); infine, la mancanza di motivazione e pretermissione di risultanze processuali, segnatamente denuncia l’omesso esame del Decreto del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale n. __ del __ che aveva sancito l’inizio della procedura di liquidazione coatta amministrativa (terzo motivo).

3.3. I ricorsi incidentali sono assorbiti dal rigetto del ricorso principale.

4.1. In conclusione il ricorso principale va rigettato, assorbiti i ricorsi incidentali.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo a favore di ciascuna parte costituita.

Si dà atto – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente C dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

P.Q.M.

– Rigetta il ricorso principale, assorbiti i ricorsi incidentali;

– Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro __ a favore di U. SPA, in Euro __ a favore di B. N. SPA, in Euro __ a favore di B. P. società cooperativa, in Euro __ a favore della B. SPA, oltre – per ciascuna – ad Euro __ per esborsi, alle spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% ed agli accessori;

– Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 17 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2018

Cass_civ_Sez_I_Ord_15_11_2018_n_29464




In tema di accertamento del passivo fallimentare, il potere rappresentativo attribuito all’agente della riscossione e l’onere di quest’ultimo, nelle liti promosse contro di lui che non riguardano esclusivamente la regolarità o la validità degli atti esecutivi, non escludono la concorrente legittimazione dell’ente creditore medesimo a proporre opposizione allo stato passivo

In tema di accertamento del passivo fallimentare, il potere rappresentativo attribuito all’agente della riscossione e l’onere di quest’ultimo, nelle liti promosse contro di lui che non riguardano esclusivamente la regolarità o la validità degli atti esecutivi, non escludono la concorrente legittimazione dell’ente creditore medesimo a proporre opposizione allo stato passivo

Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 30880 del 29/11/2018

Con sentenza del 29 novembre 2018 la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in tema accertamento del passivo fallimentare, ha stabilito che il potere rappresentativo attribuito all’agente della riscossione e l’onere di quest’ultimo, nelle liti promosse contro di lui che non riguardano esclusivamente la regolarità o la validità degli atti esecutivi, di chiamare in causa l’ente creditore interessato, ai sensi dell’art. 39 del D.Lgs. 13 aprile 1999 n. 112, non escludono la concorrente legittimazione dell’ente creditore medesimo a proporre opposizione allo stato passivo ai sensi dell’art. 98 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267, anche quando sia stato l’agente della riscossione a presentare domanda ai sensi dell’art. 93 del R.D. 16 marzo 1942 m. 267, in quanto esso conserva la titolarità del credito così azionato.


Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 30880 del 29/11/2018

In tema di accertamento del passivo fallimentare, il potere rappresentativo attribuito all’agente della riscossione e l’onere di quest’ultimo, nelle liti promosse contro di lui che non riguardano esclusivamente la regolarità o la validità degli atti esecutivi, non escludono la concorrente legittimazione dell’ente creditore medesimo a proporre opposizione allo stato passivo

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

E. S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in __, presso lo studio dell’avv. __ che la rappresentata e la difende, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

I., in proprio e quale procuratore speciale della Società di Cartolarizzazione dei Crediti I. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in __, rappresentato e difeso dagli avv.ti __, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

contro

A. – Società Cooperativa a r.l. in Liquidazione in Amministrazione Straordinaria;

– intimata –

e sul ricorso proposto da:

I., in proprio e quale procuratore speciale della Società di Cartolarizzazione dei Crediti I. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in __, rappresentato e difeso dagli avvocati __, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente successivo –

contro

A. – Società Cooperativa a r.l. in Liquidazione in Amministrazione Straordinaria, in persona dei commissari straordinari pro tempore, elettivamente domiciliata in __, presso lo studio dell’avvocato __, che la rappresenta e difende, giusta procure in calce al controricorso;

– controricorrente successivo –

contro

E. S.p.a.;

– intimata –

avverso il decreto del TRIBUNALE di __, depositato il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Cons. Dott. __;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per il rigetto;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato __, con delega, che ha chiesto l’accoglimento;

udito, per la controricorrente A., l’Avvocato __ che ha chiesto l’accoglimento del proprio ricorso;

udito, per il ricorrente I., l’Avvocato __ che ha chiesto l’accoglimento del proprio ricorso.

Svolgimento del processo

  1. Con domanda tardiva L. Fall., ex art. 101, del __ (rubricata al n. _) E. S.p.a. chiese l’ammissione allo stato passivo dell’Amministrazione Straordinaria di A. – Società Cooperativa a r.l. in Liquidazione, del credito contributivo previdenziale di Euro __ portato da dieci cartelle esattoriali e relativi estratti di ruolo.
  2. Il giudice delegato escluse la maggior parte del credito (per Euro __) ammettendo il residuo, parte in via privilegiata ex art. 2752 c.c., comma 1, artt. 2753 e 2754 c.c. e parte al chirografo.
  3. Due successive ed analoghe istanze di E. cd. ultratardive del __ (rubricate al n. _ e al n. _) vennero invece dichiarate inammissibili per imputabilità del ritardo ai sensi della L. Fall., art. 101, u.c..
  4. Con decreto del __ il giudice delegato dichiarò esecutivo lo stato passivo della procedura.
  5. In data __ l’I. propose opposizione L. Fall., ex art. 98, contro i tre provvedimenti negativi resi sulle domande presentate nel proprio interesse – quale ente impositore titolare dei relativi crediti dall’Agente della riscossione, che intervenne in giudizio ai sensi della L. Fall., art. 99, comma 8.
  6. Il Tribunale di __, disattesa l’istanza congiunta di I. ed E. per la riunione al giudizio di opposizione allo stato passivo proposta dall’INPS sulla domanda n. _, nel quale era specularmente intervenuto l’INPS (in quanto “ogni singolo procedimento, quale impugnazione dell’atto di esclusione, è relativo ad uno specifico provvedimento del G.D. che incide in modo autonomo sullo stato passivo”), con decreto del __ respinse l’opposizione per inammissibilità del ricorso, in quanto proposto cumulativamente nei confronti dei tre distinti provvedimenti del giudice delegato.
  7. Il suddetto decreto è stato impugnato con separati ricorsi per cassazione – affidati ad un unico motivo – sia da E. S.p.a. che dall’I., cui hanno resistito con controricorso, rispettivamente, lo stesso I. (in via adesiva) e la A. – Società Cooperativa a r.l. in Liquidazione in Amministrazione Straordinaria.

Motivi della decisione

  1. Va preliminarmente esaminata l’eccezione pregiudiziale di difetto di legittimazione attiva dell’I., sollevata nel controricorso di A. in Amministrazione straordinaria, sull’assunto che “del D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 33, prevede l’esclusiva legittimazione dell’Agente di Riscossione ad insinuarsi al passivo e, specularmente, contempla ab origine la sua legittimazione attiva a proporre l’opposizione allo stato passivo L. Fall. ex art. 99, con ciò imponendogli l’onere di allegare tempestivamente anche le eventuali difese di merito che provengano dall’Ente Impositore”, fatto salvo il suo intervento ad adiuvandum nei limiti posti dalla L. Fall., art. 99, comma 8.

1.1. L’eccezione, sebbene ammissibile – stante la rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del difetto di legitimatio ad causam in quanto afferente la regolarità del contraddittorio e non l’effettiva titolarità del rapporto, che costituisce al contrario questione di merito (ex multis, Sez. 1 27/03/2017, n. 7776), con il solo limite del giudicato interno (Sez. 3, 20/10/2015, n. 21176), purché espresso e non implicito, cioè formatosi sui rapporti tra questioni di merito e questioni pregiudiziali o preliminari, di rito o di merito (Sez. 5, 31/10/2017 n. 25906) – è però infondata.

1.2. Invero, in tema di giudizio di opposizione a stato passivo riguardante crediti previdenziali si registrano difformi orientamenti di questa Corte circa la configurabilità o meno di un litisconsorzio necessario tra l’agente (o concessionario) della riscossione e l’ente impositore. In senso affermativo si sono pronunciati, di recente, Sez. L, 16/06/2016, n. 12450 e Sez. 1, 12/12/2017 n. 29806, valorizzando il carattere “obbligatorio” della chiamata in causa dell’ente impositore prevista dal D.Lgs. 13 aprile 1999, n. 112, art. 39 (per cui “il concessionario, nelle liti promosse contro di lui che non riguardano esclusivamente la regolarità o la validità degli atti esecutivi, deve chiamare in causa l’ente creditore interessato; in mancanza, risponde delle conseguenze della lite”) e, in epoca più risalente, Sez. 1, 16/10/1976 n. 3513, che con riguardo all’allora vigente D.P.R. 15 maggio 1963, n. 858,art. 77, ha ritenuto necessaria l’integrazione del contraddittorio, anche nell’ambito del giudizio di opposizione a stato passivo, ogniqualvolta l’ente impositore abbia interesse a contrastare la pretesa del contribuente, ossia quando venga in questione la sussistenza del rapporto d’imposta o la validità del titolo esecutivo. In senso contrario si sono espressi di recente Sez. 1, 05/05/2016, n. 9016 – per cui è configurabile un’ipotesi di autorizzazione ex art. 106 c.p.c., rimessa alla discrezionalità del giudice di primo grado e incensurabile in sede d’impugnazione e, in tema di contenzioso tributario, Sez. 5, 28/04/2017, n. 10528, per cui il contribuente può impugnare la cartella esattoriale indifferentemente nei confronti dell’ente impositore o dell’agente della riscossione, essendo rimessa a quest’ultimo “la facoltà di chiamare in giudizio l’ente impositore”.

1.3. In ogni caso, è stato giustamente evidenziato come, anche ad escludere che il giudizio proposto contro il solo concessionario debba necessariamente svolgersi anche nei confronti dell’ente creditore, ciò non impedisce a quest’ultimo di spiegare intervento nonché, in caso di effettiva partecipazione, di impugnare la relativa sentenza, “non essendo la sua posizione assimilabile a quella di un mero interventore ad adiuvandum, avuto riguardo alla titolarità sostanziale della situazione soggettiva che costituisce oggetto della controversia ed alla natura concorrente della legittimazione processuale spettante al concessionario” (Sez. 1, 13/09/2017 n. 21201).

1.4. Merita dunque conferma l’orientamento di questa Corte per cui, con riguardo alla domanda di ammissione al passivo L. Fall., ex art. 93, “alla legittimazione del concessionario a far valere il credito tributario nell’ambito della procedura fallimentare deve essere attribuita una valenza esclusivamente processuale, nel senso che il potere rappresentativo attribuito agli organi della riscossione non esclude la concorrente legittimazione dell’Amministrazione finanziaria, la quale conserva la titolarità del credito azionato e la possibilità di agire direttamente per farlo valere in sede di ammissione al passivo” (Sez. U, 15/03/2012 n. 4126) e, con riguardo alla fase delle impugnazioni L. Fall., ex art. 98, “l’iscrizione a ruolo del credito contributivo e l’attribuzione al concessionario della legittimazione a farlo valere nell’ambito della procedura fallimentare, hanno valenza esclusivamente processuale, nel senso che il potere rappresentativo a tal fine attribuito agli organi della riscossione non esclude la concorrente legittimazione dell’INPS, il quale conserva la titolarità del credito azionato e può, come tale, agire per la revocazione dei crediti ammessi a norma della L. Fall., art. 98” (Sez. 6-1, 26/11/2015, n. 24202).

1.5. Va pertanto affermato il seguente principio di diritto: “in tema di accertamento del passivo fallimentare, il potere rappresentativo attribuito all’agente della riscossione e l’onere di quest’ultimo, nelle liti promosse contro di lui che non riguardano esclusivamente la regolarità o la validità degli atti esecutivi, di chiamare in causa l’ente creditore interessato, ai sensi del D.Lgs. 13 aprile 1999, n. 112, art. 39, non escludono la concorrente legittimazione dell’ente creditore medesimo (nella specie I.) a proporre opposizione allo stato passivo ai sensi della L. Fall., art. 98, anche quando sia stato l’agente della riscossione a presentare domanda ai sensi della L. Fall., art. 93, in quanto esso conserva la titolarità del credito così azionato”.

  1. Passando all’esame dei motivi di ricorso, la ricorrente E. S.p.a. deduce “violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, comma 1, n. 3, in relazione alla L. Fall., artt. 97, 98 e 99 e art. 104 c.p.c.”.

2.1. Sulle stesse basi, il ricorrente I. lamenta la “violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 53 e del R.D. n. 267 del 1942, artt. 93, 98 e 99 (quest’ultimo così come modificato, prima, dal D.Lgs. n. 51 del 1998, poi dal D.Lgs. n. 5 del 2006 e dal D.Lgs. n. 169 del 2007), (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3)”.

  1. Le censure, che in quanto sostanzialmente coincidenti possono essere esaminate congiuntamente, sono fondate.
  2. Il giudice a quo, “attesa la natura impugnatoria del giudizio di opposizione allo stato passivo”, ha ritenuto inammissibile l’opposizione proposta “avverso tre provvedimenti di esclusione in sede di insinuazione del credito vantato da I.”, tramite un “ricorso cumulativo avverso una pluralità di provvedimenti emessi in procedimenti distinti”, come tale “ammissibile solo nell’ipotesi in cui si tratti di provvedimenti emessi tra le stesse parti, relativi al medesimo rapporto giuridico e la soluzione dipenda da identiche questioni di diritto comuni a tutte le cause”, mentre nel caso di specie “i provvedimenti e i motivi di opposizione trattano problematiche diverse”; con riguardo alla L. Fall., artt. 97 e 98, ha aggiunto che “appare chiaro dunque il chiaro riferimento delle norme alla possibilità di impugnare il decreto che rende esecutivo lo stato passivo, ma con specifico riferimento alla mancata ammissione della propria domanda di insinuazione”; ha poi opinato che “la possibilità di un’unica impugnazione relativa a più domande di crediti non ammessi deve intendersi preclusa anche in ragione del fatto che il novellato L. Fall., art. 99, non consente più… la riunione delle opposizioni e la pronuncia sulle stesse, con unica sentenza”; ed ha infine escluso di poter esaminare – come pure richiestogli – quantomeno l’opposizione relativa alla prima domanda, sostenendo che “l’inammissibilità del ricorso proposto travolge il ricorso tutto” e “il criterio di scelta per così dire cronologico… suggerito dall’Ente non appare rispondente ad alcun principio di diritto, con la conseguenza che sarebbe del tutto arbitrario da parte del tribunale scegliere di esaminare la domanda relativa ad un credito piuttosto che ad un altro”.
  3. Le suddette affermazioni non sono condivisibili.
  4. In primo luogo, è lo stesso Tribunale a dare atto che l’opposizione aveva ad oggetto “tre provvedimenti di esclusione in sede di insinuazione del credito vantato da I. nei confronti di Amministrazione Straordinaria di A. soc. coop. a r.l. (n. 1/2009) pronunciati dal GD in data __”, sicché è evidente che non si trattava in realtà di tre “procedimenti distinti”, bensì di tre provvedimenti resi contestualmente dallo stesso giudice, in un’unica udienza, sulle corrispondenti istanze aventi ad oggetto il complessivo credito di Euro __ (portato da dieci cartelle esattoriali) vantato da un’unica parte (l’I.) a titolo di contributi previdenziali e sanzioni.
  5. Del resto, l’intero procedimento di accertamento del passivo disciplinato dalla legge fallimentare (richiamato nell’amministrazione straordinaria ex D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 53) è effettivamente improntato ad una spiccata unitarietà, poiché le domande di ammissione proposte dai singoli creditori ai sensi della L. Fall., art. 93, vengono dapprima riunite nel progetto di stato passivo predisposto dal curatore (L. Fall., art. 95, comma 1), quindi sottoposte all’esame del giudice delegato nel cd. contraddittorio incrociato con tutti i ricorrenti (L. Fall., art. 95, commi 2 e 3), in un’udienza di discussione tendenzialmente unica (L. Fall., art. 96, comma 4), per essere ivi decise singolarmente, con decreto succintamente motivato (L. Fall., art. 96, comma 1) e poi di nuovo considerate unitariamente nello stato passivo reso esecutivo unico actu dal giudice delegato (L. Fall., art. 96, comma 5), di cui il curatore trasmette “copia a tutti i ricorrenti, informandoli del diritto di proporre opposizione in caso di mancato accoglimento della domanda” (L. Fall., art. 97); infine, la L. Fall., art. 98, comma 1, prevede testualmente la possibilità di proporre opposizione (così come l’impugnazione dei crediti ammessi o la revocazione) “contro il decreto che rende esecutivo lo stato passivo”, non già – si noti contro il decreto succintamente motivato che decide su ciascuna domanda L. Fall., ex art. 95, comma 3 e L. Fall., art. 96, comma 1 (tra l’altro, è lo stesso Tribunale ad aver espressamente confermato non già i singoli provvedimenti impugnati, bensì – unitariamente – “il decreto emesso dal G.D. in data __”).
  6. Non vi è dunque alcun dato normativo espresso che precluda al singolo creditore di proporre un ricorso cumulativo L. Fall., ex art. 99, per l’esame dei motivi di opposizione proposti contro i vari decreti succintamente motivati emessi nei suoi confronti dal giudice delegato nel corso dell’udienza di discussione e confluiti nello stato passivo dichiarato esecutivo con unico decreto, dalla cui comunicazione decorre il termine perentorio di impugnazione L. Fall., ex art. 99, comma 1; né a diverse conclusioni induce l’abrogazione della previgente disciplina, che ammetteva la decisione del tribunale su tutte le opposizioni, con unica sentenza (L. Fall., vecchio art. 99, comma 3), in quanto la riforma del 2006 ha introdotto un sistema di verifica del passivo fallimentare talmente diverso dal precedente da rendere inconferente (e quindi inutilizzabile) l’interpretazione dell’uno alla luce dell’altro.
  7. Tale conclusione è del resto coerente con l’orientamento, ormai consolidato, di questa Corte, che ammette sia l’impugnazione cumulativa avverso più sentenze, civili o tributarie, riguardanti situazioni giuridiche formalmente distinte ed emesse in procedimenti formalmente distinti (Sez. 6-2, 26/03/2015, n. 6063), ovvero in diverse fasi o gradi di un medesimo procedimento (Sez. 6-L, 15/09/2014 n. 19470) – purché pronunziate tra le stesse parti e aventi ad oggetto identiche questioni di diritto (Sez. 5, 22/02/2017 n. 4595) o la medesima ratio (Sez. U, 16/02/2009, n. 3692; Cass. 4445/1997) – sia la riunione di simili impugnazione per ragioni di unitarietà sostanziale e processuale della controversia (Sez. 2, 25/03/2011, n. 6993; Cass. 21349/2004), il tutto in funzione di fondamentali esigenze di economia processuale e coerenza dei giudicati, tali da giustificare la scelta del simultaneus processus (Sez. 5, 24/10/2014 n. 22657).
  8. Può dunque affermarsi il seguente principio di diritto: “In tema di accertamento del passivo fallimentare, non è precluso al singolo creditore proporre opposizione ai sensi della L. Fall., art. 98, con un unico ricorso cumulativo volto a contestare i vari decreti succintamente motivati emessi nei suoi confronti dal giudice delegato e confluiti nello stato passivo dichiarato esecutivo, dalla cui comunicazione decorre il termine perentorio di impugnazione di cui alla L. Fall., art. 99, comma 1”.
  9. Poiché il provvedimento impugnato risulta in contrasto con gli esposti principi, esso merita di essere cassato con rinvio, affinché il Tribunale, in diversa composizione, proceda all’esame dell’opposizione allo stato passivo della procedura di amministrazione straordinaria proposta dall’I. con ricorso cumulativo, statuendo anche sulle spese processuali.

P.Q.M.

Accoglie entrambi i ricorsi, cassa il decreto impugnato e rinvia al Tribunale di __, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 2 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2018

Cass_civ_Sez_I_29_11_2018_n_30880




Insinuazione al passivo fallimentare del credito derivante da saldo negativo di conto corrente: la banca ha l’onere di dare conto dell’intera evoluzione del rapporto tramite il deposito degli estratti conto integrali

Insinuazione al passivo fallimentare del credito derivante da saldo negativo di conto corrente: la banca ha l’onere di dare conto dell’intera evoluzione del rapporto tramite il deposito degli estratti conto integrali

Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 31195 del 03/12/2018

Con ordinanza del 3 dicembre 2018 la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in tema di procedure concorsuali ha stabilito che nell’insinuare al passivo fallimentare il credito derivante da saldo negativo di conto corrente la banca ha l’onere di dare conto dell’intera evoluzione del rapporto tramite il deposito degli estratti conto integrali. Il curatore, eseguite le verifiche di sua competenza, ha l’onere di sollevare specifiche contestazioni in relazione a determinate poste, in presenza delle quali la banca ha a sua volta l’onere di integrare la documentazione, o comunque la prova, del credito relativamente alle contestazioni sollevate. Il giudice delegato o, in sede di opposizione, il Tribunale, in mancanza di contestazioni del curatore, è tenuto a prendere atto della evoluzione storica del rapporto contrattuale come rappresentata negli estratti conto, pur conservando il potere di rilevare d’ufficio ogni eccezione non rimessa alle sole parti, che si fondi su fatti in tal modo acquisiti al giudizio.


Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 31195 del 03/12/2018

Insinuazione al passivo fallimentare del credito derivante da saldo negativo di conto corrente: la banca ha l’onere di dare conto dell’intera evoluzione del rapporto tramite il deposito degli estratti conto integrali

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. __ proposto da:

E. S.p.A., e per essa nella qualità di mandataria la P. S.p.A., nuova denominazione assunta dalla __, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in __, presso lo studio dell’Avv. __, che la rappresenta e difende giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Curatela del Fallimento della __ S.p.a., in persona del curatore __, elettivamente domiciliata in __, presso lo studio dell’Avv. __, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

contro

B. S.p.a.;

– intimata –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di __  depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal cons. __.

Svolgimento del processo

  1. B. s.p.a. presentava due istanze di ammissione al passivo del fallimento __ s.p.a., l’una per l’importo di __ rispetto al saldo passivo del conto corrente n. __ (su cui era confluito, mediante giroconto, il saldo passivo dei conti correnti __ e __), l’altra per __ in relazione a una fideiussione prestata dalla società fallita in favore di __.

Il Giudice delegato ammetteva al passivo della procedura la somma di Lire __, corrispondente al saldo debitore del conto corrente n. __ alla data del __, e respingeva le ulteriori pretese perché non provate.

  1. Il Tribunale di __, con sentenza del __, respingeva l’opposizione proposta dall’istituto di credito in quanto la consulenza tecnica espletata aveva quantificato lo scoperto del conto corrente della fallita in misura inferiore all’importo già ammesso al passivo, con una differenza superiore all’ulteriore credito vantato dalla banca per la fideiussione prestata dalla fallita in favore di __.
  2. La Corte d’Appello di __, con sentenza del __, pur rilevando che il Tribunale aveva erroneamente ritenuto che le somme risultanti a credito della banca in base alla consulenza contabile espletata corrispondevano ai saldi negativi dei conti __ e __ e non rientravano nel saldo di __ per il quale l’appellante aveva già ottenuto l’ammissione al passivo fallimentare, rigettava comunque l’impugnazione proposta, in mancanza di idonea prova del credito da insinuarsi al passivo; infatti, a fronte della contestazione del curatore dell’inidoneità della documentazione prodotta a fornire la prova dell’esistenza del credito vantato, la banca, non potendo avvalersi nei confronti del curatore fallimentare del disposto dell’art. 2710 c.c., non aveva documentato di aver inviato al correntista gli estratti conto relativi ai rapporti in contestazione in epoca antecedente alla dichiarazione di fallimento, onde consolidare la prova delle operazioni annotate, né aveva dimostrato l’esistenza del proprio credito mediante la produzione di documentazione attestante l’effettivo svolgimento delle operazioni annotate in contabilità.
  3. Ha proposto ricorso per cassazione avverso questa pronuncia P. s.p.a., quale mandataria di E. s.p.a., già costituitasi nel giudizio di appello quale successore a titolo particolare nel rapporto controverso, affidandosi a tre motivi di impugnazione.

Ha resistito con controricorso la curatela del fallimento __ s.p.a.

L’intimata B. s.p.a. non ha svolto alcuna difesa.

Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

Motivi della decisione

5.1 Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112, 342 e 346 c.p.c., ed assume la conseguente nullità della sentenza impugnata, in quanto il giudice di appello, in violazione del principio di necessaria corrispondenza fra chiesto e pronunciato e del principio tantum devolutum quantum appellatum, avrebbe d’ufficio, oltre i limiti del gravame proposto, esaminato e posto a base della decisione questioni non specificamente devolute alla sua cognizione, concernenti l’inidoneità delle scritture contabili della banca a costituire prova contro il curatore ex art. 2710 c.c., la mancata dimostrazione dell’invio al cliente poi fallito degli estratti conto in epoca antecedente al fallimento e la carenza di prova rispetto al debito principale di cui il fallimento era chiamato a rispondere quale fideiussore; al contrario la corte territoriale, una volta riconosciuta la certezza della data, avrebbe dovuto accogliere l’appello, senza poter valorizzare eccezioni che, non essendo state specificamente riproposte, dovevano intendersi per rinunciate ai sensi dell’art. 346 c.p.c..

5.2 Il motivo non è fondato.

In vero secondo la giurisprudenza di questa Corte l’onere di espressa riproposizione in appello delle eccezioni non accolte in primo grado riguarda esclusivamente le eccezioni in senso proprio, attinenti cioè a fatti modificativi, estintivi o impeditivi, e non anche le contestazioni sull’esistenza del fatto costitutivo della domanda o di elementi dello stesso, le quali devono ritenersi implicitamente comprese nella richiesta di rigetto dell’appello formulata dall’appellato vittorioso nel giudizio di primo grado (cfr. Cass. n. 13218/2005, Cass. n. 927/1996).

Allo stesso modo il disposto dell’art. 346 cod. proc. civ. non riguarda le mere difese (Cass. n. 10811/2011, Cass. n. 27/2015), le argomentazioni giuridiche e le questioni di fatto e di diritto addotte a sostegno delle medesime, che devono viceversa ritenersi implicitamente richiamate con la semplice istanza di rigetto dell’impugnazione da parte dell’appellato (Cass. n. 1277/2005), nonché i fatti dedotti dalle parti a fondamento della domanda e le inerenti deduzioni probatorie, i quali, sottoposti al giudice di primo grado, vengono di nuovo a costituire oggetto di esame, valutazione ed accertamento da parte del giudice di appello, in quanto questi, a causa della impugnazione, torna a doversi pronunciare sulla domanda accolta e quindi a dover esaminare fatti, allegazioni probatorie e ragioni giuridiche già dedotte in primo grado e rilevanti ai fini del giudizio sulla domanda o sull’eccezione (Cass. n. 6843/1993).

Non si prestano perciò a censure di sorta le valutazioni della corte territoriale laddove, dopo aver preso atto delle contestazioni della procedura, in entrambi i gradi, in merito all’idoneità della documentazione prodotta dal creditore istante ad assolvere l’onere della prova, ha proceduto al vaglio della congerie istruttoria verificando se la stessa, alla stregua delle regole che ne disciplinavano la valenza probatoria, fosse atta a suffragare le pretese dell’appellante.

6.1 Il secondo mezzo di impugnazione lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2710 c.c., di cui la corte territoriale avrebbe erroneamente escluso l’applicabilità malgrado si trattasse di provare, nell’ambito di un giudizio promosso non dall’organo fallimentare ma contro lo stesso, l’esistenza di un rapporto obbligatorio fra due imprenditori sorto in epoca anteriore al fallimento.

6.2 Il motivo è infondato.

In proposito è sufficiente richiamare la statuizione delle Sezioni Unite di questa Corte secondo cui l’art. 2710 c.c., che conferisce efficacia probatoria tra imprenditori, per i rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa, ai libri regolarmente tenuti, non trova applicazione nei confronti del curatore del fallimento il quale agisca non in via di successione di un rapporto precedentemente facente capo al fallito, ma nella sua funzione di gestione del patrimonio del medesimo, non potendo egli, in tale sua veste, essere annoverato tra i soggetti considerati dalla norma in questione, operante soltanto tra imprenditori che assumano la qualità di controparti nei rapporti d’impresa (Cass. n. 4213/2013).

La norma in questione, che individua l’ambito operativo della sua speciale disciplina nel riferimento, necessariamente collegato, all’imprenditore ed al rapporto di impresa, non può perciò trovare applicazione con riguardo al curatore del fallimento, il quale, essendo convenuto nel giudizio di opposizione allo stato passivo, opera nella sua funzione di gestione del patrimonio del fallito ed assume, rispetto ai rapporti tra quest’ultimo ed il creditore, la qualità di terzo.

7.1 Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1832 c.c., poiché la corte territoriale, a seguito della produzione degli estratti conto relativi ai rapporti bancari facenti capo alla fallita, aveva ritenuto non adeguatamente dimostrata l’esistenza del credito pur in mancanza di circostanziate contestazioni dell’organo della procedura dirette contro le singole annotazioni; nessuna rilevanza rivestiva la mancata dimostrazione dell’invio degli estratti all’imprenditore fallito, essendosi trasferito nel processo l’onere di contestazione previsto nell’ordinario rapporto, da assolversi in maniera specifica nelle forme, nei limiti e nei tempi previsti dalle regole processuali.

7.2 Il motivo è fondato.

La corte territoriale ha ritenuto (a pag. 7, punto 2, della sentenza impugnata) che la mancata specifica contestazione da parte del curatore del contenuto degli estratti conto prodotti non valga ad attribuire agli stessi alcun valore privilegiato in ordine alla veridicità delle annotazioni ivi riportate e all’esistenza del credito.

Un simile assunto non può essere condiviso, non potendosi ritenere che in ambito di insinuazione al passivo l’estratto conto debba essere considerato in via generalizzata come privo di qualsiasi valore probatorio.

Questa Corte ha anche già avuto modo di osservare che, fermo il principio per cui l’istituto di credito ha l’onere di dare piena prova del suo credito, assolvendo lo stesso attraverso la produzione della documentazione relativa allo svolgimento del conto, il collegio dell’opposizione tuttavia non può prescindere “dalla valutazione, doverosa e necessaria, circa la completezza ed esaustività delle schede integrali prodotte dalla creditrice, che rappresenta(va) la premessa logica indispensabile per procedere al successivo consequenziale apprezzamento della ulteriore produzione documentale. E del resto non può trascurarsi di osservare che l’ammissibilità di prove atipiche, che proprio con riguardo al caso di specie è stata più volte sottolineata dalla giurisprudenza di merito oltre che in dottrina, imponeva all’organo giudicante di tenerne conto, in considerazione dell’assoluta mancanza di contestazioni provenienti dalla curatela fallimentare” (Cass. n. 19028/2013).

E’ opinione di questo collegio che, sebbene non operino nei confronti del curatore gli effetti di cui all’art. 1832 c.c., lo stesso procedimento di insinuazione al passivo e di successiva opposizione fungano da procedimento di rendicontazione al fine dell’individuazione della esatta consistenza del credito vantato dalla banca e contribuiscano a fornire all’estratto conto che rappresenti l’intera evoluzione storica dello svolgimento del rapporto un valore di prova a suffragio delle ragioni dell’istituto di credito che abbia presentato insinuazione al passivo.

In linea generale ogni qual volta sia necessario rendere un conto il sistema (si pensi al meccanismo previsto dall’art. 1832 c.c., art. 119 T.U.B. e, più in generale, art. 263 c.p.c. e ss.) prevede che la parte onerata proceda alla rendicontazione tramite la precisa indicazione dell’evoluzione storica del rapporto, mentre la controparte ha l’obbligo entro un determinato termine di sollevare contestazioni, specificando le partite che intende porre in contestazione.

Un simile meccanismo vale, tramite lo sviluppo del procedimento di verifica delle insinuazioni al passivo, anche nei confronti della procedura fallimentare, a cui la banca, a prescindere dagli estratti inviati al fallito ed eventualmente approvati prima dell’apertura del concorso, è tenuta a dare conto dell’esistenza e dell’intera evoluzione del rapporto tramite il deposito degli estratti conto nella loro completa consistenza.

A fronte di questa produzione non si può trascurare di considerare che sul curatore incombe il dovere di procedere a una verifica della documentazione prodotta dal creditore che si insinua al passivo e dunque di controllo delle emergenze dell’estratto conto secondo le risultanze in suo possesso.

Ed è proprio la pregnanza di questo obbligo di verificazione che consente il parallelismo con il procedimento di rendimento del conto e la valorizzazione dell’estratto conto integrale prodotto, così analizzato, quale prova.

A un simile, puntuale, controllo farà seguito un obbligo di specifica contestazione, in particolare, della verità storica delle singole operazioni oggetto di rilevazione contabile che non trovino adeguato riscontro.

In presenza di siffatte confutazioni da parte del curatore l’istituto di credito ha l’onere, in sede di verifica dello stato passivo o quanto meno in sede di opposizione, di arricchire la documentazione prodotta con atti idonei ad attestare l’effettivo svolgimento delle operazioni oggetto di rilevazione contabile in contestazione.

Per contro ove il curatore, costituendosi o meno in sede di opposizione, nulla abbia osservato in merito all’evoluzione del conto nel senso rappresentato negli estratti prodotti, il Tribunale non potrà che prendere atto dell’evoluzione storica del rapporto contrattuale nei termini rappresentati all’interno dell’estratto conto integrale depositato né potrà pretendere ulteriore documentazione a suffragio dei fatti storici in questo modo risultanti, pur mantenendo, come per regola generale, ogni più ampia possibilità di sollevare d’ufficio le eccezioni, non rilevabili ad esclusiva istanza di parte, giustificate in base ai fatti in tal modo acquisiti in causa.

Il provvedimento impugnato non si è attenuto a questi principi assumendo l’inidoneità degli estratti conto prodotti, pur in mancanza di specifiche contestazioni del curatore, a fornire la prova dell’evoluzione del rapporto e dell’esistenza del credito finale e ha così addossato al creditore istante un onere di integrazione del materiale istruttorio già depositato non correlato al contenuto dei rilievi compiuti dal curatore rispetto alle risultanze degli estratti conto messi a disposizione della procedura.

La sentenza impugnata andrà dunque cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di __, la quale si atterrà al seguente principio: nell’insinuare al passivo fallimentare il credito derivante da saldo negativo di conto corrente la banca ha l’onere di dare conto dell’intera evoluzione del rapporto tramite il deposito degli estratti conto integrali; il curatore, eseguite le verifiche di sua competenza, ha l’onere di sollevare specifiche contestazioni in relazione a determinate poste, in presenza delle quali la banca ha a sua volta l’onere di integrare la documentazione, o comunque la prova, del credito relativamente alle contestazioni sollevate; il giudice delegato o, in sede di opposizione, il Tribunale, in mancanza di contestazioni del curatore, è tenuto a prendere atto dell’evoluzione storica del rapporto contrattuale come rappresentata negli estratti conto, pur conservando il potere di rilevare d’ufficio ogni eccezione non rimessa alle sole parti, che si fondi sui fatti in tal modo acquisiti al giudizio.

La corte territoriale, nel procedere a nuovo esame della causa, avrà cura anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, rigetta gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’Appello di __ in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 27 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2018

Cass_civ_Sez_I_Ord_03_12_2018_n_31195




In caso di domanda tardiva di ammissione al passivo, la valutazione della sussistenza di una causa non imputabile, che giustifichi il ritardo del creditore, implica un accertamento di fatto, rimesso alla valutazione del giudice di merito

In caso di domanda tardiva di ammissione al passivo, la valutazione della sussistenza di una causa non imputabile, che giustifichi il ritardo del creditore, implica un accertamento di fatto, rimesso alla valutazione del giudice di merito

Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 31186 del 03/12/2018

Con Sentenza del 3 dicembre 2018 la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, in tema di procedure concorsuali ha stabilito che in caso di domanda tardiva di ammissione al passivo ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 101 della legge fallimentare (R.D. n. 267 del 1942), la valutazione della sussistenza di una causa non imputabile, che giustifichi il ritardo del creditore, implica un accertamento di fatto, rimesso alla valutazione del giudice di merito. L’accertamento di fatto notoriamente sfugge al sindacato di legittimità, salvo che ne sia denunciata l’illogicità del profilo motivazionale, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c. e nei limiti in cui tale vizio è ancora deducibile in cassazione.


Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 31186 del 03/12/2018

In caso di domanda tardiva di ammissione al passivo, la valutazione della sussistenza di una causa non imputabile, che giustifichi il ritardo del creditore, implica un accertamento di fatto, rimesso alla valutazione del giudice di merito

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __ proposto da:

Curatela del Fallimento __ S.p.a., in persona dei curatori __, elettivamente domiciliata in __, presso lo studio dell’avv. __, rappresentata e difesa dall’avv. __, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Comune di __, in persona del Sindaco pro tempore, domiciliato in __, rappresentato e difeso dall’avv. __, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. __ del Tribunale di __, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal Cons. Dott. __;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __ che ha concluso per l’accoglimento del motivo 1, in subordine 6 e 7;

udito, per la ricorrente, l’Avv. __ che ha chiesto l’accoglimento;

udito, per il controricorrente, l’Avv. __ che ha chiesto il rigetto.

Svolgimento del processo

Il comune di __, unico azionista di (OMISSIS) s.p.a., società di gestione del servizio di igiene ambientale in liquidazione e, poi, a far data dal __, in amministrazione straordinaria, deliberò di trasferire alla detta società il __ % del pacchetto azionario detenuto in A. s.p.a. e di conferirle due importanti immobili siti in __ e in __, oltre a un importo di oltre __ Euro destinato a ricapitalizzazione.

Nelle distinte delibere consiliari, l’operazione venne motivata con la sussistenza del preminente interesse pubblico al risanamento di __ e fu realizzata, per gli immobili, con atti notarili rispettivamente rogati il __  e il __ e, per le azioni, con girata del direttore generale del comune, previa delega sindacale, in data __.

Il tribunale di __, con decreto del __, dispose la conversione dell’amministrazione straordinaria in fallimento, donde il comune presentò domanda di insinuazione chiedendo la restituzione sia del titolo nominativo azionario sia degli immobili, sostenendo che il trasferimento e il conferimento fossero stati effettuati subordinatamente alla condizione risolutiva del mancato buon esito della prima procedura, e quindi all’effettivo risanamento della società a opera dei commissari straordinari. In via subordinata dedusse che in ogni caso le operazioni di trasferimento erano nulle per violazione del divieto di cui al D.L. n. 78 del 2010, art. 6, comma 19, conv. con modificazioni in L. n. 122 del 2010.

Il giudice delegato dichiarò inammissibile, perché ultratardiva, la domanda di restituzione delle azioni e rigettò quella di restituzione degli immobili.

Entrambe le domande sono state invece accolte dal tribunale di __  a seguito di opposizione allo stato passivo.

In particolare il tribunale ha ritenuto ammissibile anche la domanda avente a oggetto le azioni, poiché legittimata dal D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 71 e in ogni caso giustificata, nell’ottica della L. Fall. art. 101 u.c., dall’interesse alla proposizione, cronologicamente correlato alla chiusura dell’amministrazione straordinaria e alla conversione della stessa in fallimento, e rilevante ai fini della verifica della non imputabilità del ritardo. Da tanto ha dedotto che nessuna ragione poteva giustificare una diversa decisione in ordine all’ammissibilità della domanda in questione rispetto a quella relativa agli immobili, già ritenuta ammissibile dal giudice delegato.

Nel merito il tribunale ha ravvisato la fondatezza della pretesa sotto entrambi i profili:

(a) perché sia il trasferimento immobiliare che quello azionario, in base alle risultanze in atti (ivi comprese quelle desunte da annotazioni nelle scritture contabili di __, dovevano essere inquadrati come versamenti in conto futuro aumento di capitale, essendosi trattato di apporti funzionalmente collegati e risolutivamente condizionati al mancato aumento di capitale programmato nell’ottica del risanamento della società; aumento di capitale che avrebbe dovuto essere attuato entro un anno dalla chiusura dell’amministrazione straordinaria, e che, di contro, non vi era stato per il sopravvenuto fallimento;

(b) perché in ogni caso i trasferimenti predetti erano da intendersi affetti da nullità, per contrasto col divieto di cui al D.L. n. 78 del 2010, art. 6, comma 19, attesa l’insussistenza delle specifiche circostanze di deroga contemplate dalla norma.

Per la cassazione del decreto del tribunale di Palermo la curatela fallimentare ha proposto ricorso articolato in dieci motivi, illustrati da memoria.

Il comune ha replicato con controricorso.

Motivi della decisione

  1. – Coi primi due motivi la curatela censura la statuizione con la quale il tribunale ha ritenuto ammissibili le domande restitutorie nonostante fossero ultratardive. Al riguardo denunzia la violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 101, sotto due profili, tra loro subordinati.

1.1. – Il primo è legato alla circostanza che, ove anche condivisa sulla linea dell’interesse, da ricondurre alla conversione della procedura in fallimento, la tesi del tribunale sarebbe fallace per il fatto di non aver considerato che la conversione era stata disposta il 22-4-2013 e il termine L. Fall., ex art. 101, comma 1, era scaduto il 30-6-2013, decorsi diciotto mesi dal deposito del decreto di esecutività dello stato passivo (309-2011), mentre il ricorso del comune L. Fall., ex art. 93, era stato presentato dopo quasi un anno dalla scadenza di tale ultimo termine (il 133-2014).

1.2. – Il secondo è da associare al fatto che il comune, tenendo conto del D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 53, circa la prosecuzione dell’accertamento del passivo, nell’amministrazione straordinaria, secondo il procedimento previsto dalla L. Fall., artt. 93 e segg., avrebbe potuto e dovuto semmai presentare una domanda di restituzione condizionata, ai sensi della L. Fall., art. 96; sicché non avendolo fatto nei termini di cui alla sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza, esso si sarebbe dovuto considerare decaduto dalla possibilità di proporla.

  1. – Il primo motivo è inammissibile, poiché non coerente con la specifica ratio decidendi del decreto impugnato.

Il tribunale ha tenuto ferma la possibilità di proposizione di una domanda ultratardiva alle condizioni indicati giustappunto nella L. Fall., art. 101, u.c. e da questo punto di vista non è esatto affermare che non abbia considerato gli elementi specificati in ricorso.

Semplicemente va detto che insistere su quegli elementi non è produttivo in questa sede, poiché quel che rileva è che il tribunale ha dedotto dall’interesse del comune, ricostruito come coincidente con la conversione dell’amministrazione straordinaria in fallimento, la non imputabilità del ritardo nella proposizione della domanda restitutoria. Donde la ratto decidendi si rinviene in ciò: che la domanda era in effetti ultratardiva, ma che, non essendosi esaurite le ripartizioni dell’attivo fallimentare, essa era comunque ammissibile, essendo il ritardo dipeso da causa (la sopravvenuta conversione) non imputabile al comune.

Ora è del tutto pacifico che, in caso di domanda tardiva di ammissione al passivo ai sensi della L. Fall., art. 101, u.c., la valutazione della sussistenza di una causa non imputabile, che giustifichi il ritardo del creditore, implica un accertamento di fatto, rimesso alla valutazione del giudice di merito (v. per tutte Cass. n. 19017-17, Cass. n. 20696-13). E l’accertamento di fatto notoriamente sfugge al sindacato di legittimità, salvo che ne sia denunziata l’illogicità del profilo motivazionale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e nei limiti in cui tale vizio è ancora deducibile in cassazione.

Giusta o sbagliata che sia, la valutazione in fatto del giudice a quo in ordine alla non imputabilità del ritardo del comune non è stata censurata sul versante della congruità della motivazione. E dunque resta in questa sede intangibile.

  1. – Il secondo motivo è infondato.

La tesi sostenuta dalla ricorrente muove dalla premessa che, eliminata in tema di accertamento del passivo ogni distinzione tra le domande di insinuazione dei crediti e le domande di rivendica o di restituzione di beni, il comune avrebbe dovuto presentare una domanda di restituzione condizionata nei termini di cui alla sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza, e non avendolo fatto si sarebbe dovuto considerare decaduto dalla possibilità di proporla in via tardiva.

L’assunto non può essere condiviso.

E’ risolutivo che, in sede di verificazione dello stato passivo, la domanda di rivendica non può essere oggetto di ammissione con riserva, tanto che quest’ultima, in quanto atipica ed estranea alle ipotesi tassativamente indicate dalla L. Fall., art. 95, anche qualora sia disposta dal giudice, andrebbe considerata come non apposta (v. per gli immobili, ma con principio estensibile a ogni categoria di bene, Cass. n. 20191-17).

  1. – Coi motivi dal terzo all’ottavo la curatela, in progressiva subordinazione, censura la decisione nella parte afferente il merito della pretesa, specificamente correlato alla qualificazione degli apporti del comune come versamenti in conto futuro aumento di capitale, sottoposti alla condizione risolutiva loro connaturata.
  2. – In particolare col terzo motivo denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., per avere il tribunale oltrepassato i limiti della domanda, che era stata associata all’ipotizzato mero insuccesso della procedura di amministrazione straordinaria e non anche alla qualificazione degli apporti nel senso suddetto.

Il motivo è manifestamente infondato.

5.1. – Quella concernente la qualificazione dell’apporto era (ed è) una questione giuridica, per quanto correlata ai fatti enunciati dal comune a fondamento della pretesa restitutoria. Era dunque suscettibile di essere esaminata d’ufficio dal giudice del merito, non implicando alcuno stravolgimento di quei fatti.

5.2. – La corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, che vincola il giudice ex art. 112 c.p.c., non concerne le ipotesi in cui il giudice, espressamente o implicitamente, dia al rapporto controverso o ai fatti che siano stati allegati nella causa petendi, una qualificazione giuridica finanche diversa da quella prospettata dalle parti.

Il principio cioè non osta a che il giudice renda la pronuncia in base a una ricostruzione autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti stesse, purché limitata alla qualificazione giuridica dei fatti o, in genere, all’applicazione di norme di diritto, anche non specificamente invocate (cfr. Cass. n. 11289-18, Cass. n. 6757-11, Cass. n. 8479-02).

  1. – Col quarto mezzo è dedotta la violazione o falsa applicazione dell’art. 1353 c.c., per avere il tribunale desunto dall’inquadramento giuridico sopra detto una condizione risolutiva implicita di fatto inesistente.

Posto il rilievo che l’ordinamento societario riconosce la legittimità di versamenti societatis causa non imputati a capitale che confluiscono nel patrimonio come componenti del netto, e che partecipano al rischio d’impresa, la curatela sostiene che il tribunale, affermando il diritto del comune alla restituzione degli apporti effettuati in favore di __ s.p.a., abbia frainteso la disciplina dei versamenti in conto futuro aumento di capitale, ritenendo a essi connaturata una condizione risolutiva. Tale condizione, invece, non si accompagnava (né in generale si accompagna) alla tipologia richiamata, tenuto conto dell’essere stata la finalizzazione degli apporti indicata (in modo tra l’altro impreciso, senza menzione di condizioni risolutive) in due soli atti pubblici aventi a oggetto il trasferimento immobiliare, e non anche nell’atto di trasferimento del titolo azionario, né nelle delibere del consiglio comunale relative all’approvazione del piano di risanamento di __. Nel contempo l’avveramento della condizione risolutiva sarebbe stato legato in concreto alla mancata realizzazione di una altrettanto inesistente condizione sospensiva di efficacia del preteso aumento di capitale, incentrata sulla compiuta realizzazione del risanamento della società. In verità, denunzia la ricorrente, gli apporti del comune erano di fatto stabilmente destinati al servizio dell’attività d’impresa e non soggetti al minimo rischio di restituzione, atteso che finanche dai bilanci di __ i corrispondenti valori erano stati iscritti in un apposito fondo di patrimonio netto, e non fra i debiti o in un fondo rischi.

6.1. – Il quarto motivo è inammissibile.

Il tribunale di __, previo riferimento alle fonti documentali di prova all’uopo ritenute essenziali, ha affermato che entrambi i trasferimenti, immobiliare e del titolo azionario, erano stati eseguiti in conto del (e destinati al) futuro aumento di capitale di __; aumento di capitale da attuarsi entro un anno dalla data di formale chiusura, per risanamento aziendale, della procedura di amministrazione straordinaria della società.

In tal senso il tribunale ha ricostruito la volontà delle parti anche tenendo conto delle risultanze delle scritture contabili di __, nella quali era stata attestata dagli stessi commissari una conforme finalizzazione dei trasferimenti al percorso di risanamento aziendale perseguito mediante l’amministrazione straordinaria.

Ora è questione di interpretazione della volontà delle parti stabilire a quale titolo e con quali condizioni un trasferimento o un versamento sia stato effettuato, se cioè, o meno, a titolo di definitivo apporto del socio al patrimonio di rischio dell’impresa collettiva; ed egualmente è questione di interpretazione della volontà stabilire se il trasferimento (o anche in genere il versamento) sia stato in qualche modo condizionato a un evento futuro e incerto, come può essere quello della mancata successiva deliberazione di aumento del capitale nominale della società entro un termine stabilito – nella prospettata situazione di risanamento aziendale e della conservazione del patrimonio produttivo attraverso la prosecuzione, riattivazione o riconversione dell’attività imprenditoriale (D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 1).

Ove l’accertamento della volontà porti ad affermare che il trasferimento o il conferimento sia stato destinato e condizionato nel senso suddetto è innegabile l’esistenza del diritto alla restituzione, anche durante la vita della società (cfr. in particolare Cass. n. 9209-01, Cass. n. 2314-96). Si tratta in questi casi di apporti destinati alla copertura anticipata di un determinato aumento di capitale non ancora deliberato, così da sostanziarsi in un’anticipazione della sottoscrizione del capitale destinata a perfezionarsi solo con la deliberazione societaria successiva. Il che giustappunto vuoi significare che il socio ha diritto alla restituzione dell’apporto, qualunque ne sia la forma, ove l’aumento programmato non sia poi deliberato.

L’apprezzamento in ordine alla volontà di eseguire un simile tipologia di apporto non è censurabile in cassazione, se non per violazione delle norme giuridiche che disciplinano l’interpretazione della volontà negoziale o per eventuali carenze o vizi logici della motivazione che quell’accertamento sorregge.

  1. – Col quinto motivo la curatela da questo punto di vista deduce, in subordine, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., sostenendo che i suddetti apprezzamenti del giudice del merito sarebbero frutto di “una singolare interpretazione degli accordi sottoscritti inter partes”. Imputa invero al tribunale di aver valorizzato il solo (e peraltro a dire della ricorrente equivoco) tenore letterale degli atti pubblici relativi al trasferimento dei beni immobili e omesso, invece, di considerare il comportamento complessivo delle parti medesime, precedente e successivo alla stipula degli atti.

Segnatamente la curatela richiama, quale condotta precedente, la circostanza che le anteriori Delib. Consiglio Comunale n. 769 del 2009 e Delib. Consiglio Comunale n. 345 del 2010, relative all’approvazione del piano di risanamento di __ , non avevano fatto cenno a futuri aumenti di capitale, nè a possibili cause di restituzione degli apporti programmati. Richiama invece, quale condotta posteriore, la circostanza che i bilanci di __ successivi al perfezionamento dei trasferimenti, sebbene qualificando gli apporti come versamenti in conto futuro aumento di capitale, avevano recato l’iscrizione dei trasferimenti medesimi in un’apposita voce del patrimonio netto, e non fra i debiti o in un fondo rischi, come invece sarebbe stato doveroso se le medesime attribuzioni fossero state realmente soggette a un obbligo (o a un rischio) di restituzione.

7.1. – Anche il quinto motivo è inammissibile, poiché in generale tende al riesame del merito della valutazione operata dal tribunale.

In ogni caso il motivo è infondato.

La finalizzazione dei trasferimenti alla realizzazione del programma di risanamento della società in amministrazione straordinaria, e la qualificazione degli stessi come eseguiti in conto di un futuro aumento di capitale, è stata desunta dal tenore degli atti afferenti, appositamente evocati. Non è vero, invece, che il tribunale non abbia altrettanto considerato, in guisa della ricerca dell’intenzione delle parti, anche le Delib. consiliari allegate dalla ricorrente. Esattamente al contrario emerge, dalle pag. 3 e 4 della motivazione, che le dianzi citate delibere sono state esaminate previa sottolineatura che anche in queste era stato precisato che l’operazione sarebbe stata attuata per la sussistenza del preminente interesse pubblico di procedere al risanamento di (OMISSIS) nella prospettiva alternativa al fallimento (“nella prospettiva della revoca della procedura prefallimentare allora pendente”, quanto alla Delib. n. 769 del 2009; in quella “dell’ammissione di (OMISSIS) s.p.a. all’amministrazione straordinaria”, quanto alla Delib. n. 345 del 2010).

Consegue che quanto sostenuto prioritariamente dalla ricorrente non è esatto, e l’assunto alla base del motivo postula una critica al risultato dell’interpretazione in sé, più che una censura sul versante del criterio ermeneutico utilizzato.

7.2. – E’ poi da osservare che nell’ottica dell’art. 1362 c.c., non è decisiva l’appostazione nel bilancio di __ successiva al trasferimento.

I trasferimenti o in ogni caso i versamenti e gli apporti in conto capitale o in conto aumento di capitale, effettuati dai soci in favore della società, palesano una natura che dipende dalla ricostruzione della “comune intenzione” delle parti, e la relativa prova va desunta in via principale dal modo in cui il rapporto ha trovato concreta attuazione, dalle finalità pratiche cui si mostra diretto e dagli interessi a esso sottesi. Solo in subordine rileva la modalità di appostazione ricevuta in bilancio (v. di recente, per i versamenti in conto capitale ma con principio estensibile anche al caso di specie, Cass. n. 15035-18), poiché, in tema d’interpretazione del contratto, il comportamento tenuto dalle parti dopo la sua conclusione, cui attribuisce rilievo l’art. 1362 c.c., comma 2, è solo quello di cui siano stati partecipi entrambi i contraenti. Non può la comune intenzione degli stessi emergere dall’iniziativa unilaterale di uno di essi, eventualmente corrispondente a distinti personali disegni (cfr. Cass. n. 13535-12, Cass. n. 2901-07).

  1. – Col sesto mezzo la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 72, comma 6, essendo inefficaci tutte le clausole negoziali che fanno dipendere la risoluzione di un contratto dal fallimento.

Il motivo è infondato.

Come chiaramente risulta dal provvedimento impugnato, e come d’altronde ha premesso la stessa curatela ricorrente, sia il trasferimento immobiliare che il trasferimento azionario erano stati nel concreto posti in essere dopo che __ s.p.a. era stata (il __) dichiarata insolvente, e dopo che era stata avviata la procedura di amministrazione straordinaria.

Proprio in ciò è da rinvenire la ragione escludente l’applicazione del principio dettato dalla L. Fall., art. 72, comma 6.

Ove anche tale norma si reputi astrattamente estensibile all’amministrazione straordinaria (per la quale ben vero la disciplina dei contratti ancora ineseguiti o non interamente eseguiti da entrambe le parti alla data di apertura è contenuta nella specifica previsione del D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 50), vi è che essa non può applicarsi che ai rapporti sorti prima della dichiarazione dello stato di insolvenza.

Ove si tratti di rapporti sorti, come nella specie, dopo la suddetta declaratoria e dopo l’apertura della procedura concorsuale non viene (più) in questione la disciplina dei rapporti pendenti tra le parti (in bonis), ai quali l’art. 72, comma 6, necessariamente allude, sebbene il profilo della funzionalizzazione del contratto (o in generale dell’operazione) al buon esito della procedura stessa, in relazione alla possibile consecuzione tra le procedure concorsuali (D.Lgs. n. 279 del 1999, artt. 69 e 70).

  1. – Per analoga ragione è infondato anche il settimo motivo, col quale la curatela censura la decisione per violazione o falsa applicazione della L. Fall., art. 45.

La norma esprime il noto principio di indisponibilità dei beni acquisiti al fallimento, che deriva alla destinazione del patrimonio del fallito al soddisfacimento paritario di tutti i creditori (cd. cristallizzazione). E tuttavia richiamare tale norma a niente serve nel caso di specie, poiché qui non si discute di atti le cui formalità – necessarie a renderli opponibili – siano state compiute dopo il fallimento, sebbene – come sinteticamente (ma giustamente) osservato dal tribunale – di operazioni nel complesso realizzate in vista del buon esito della già avviata procedura concorsuale, con la prevista finalità conservative del patrimonio produttivo mediante prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività d’impresa.

  1. – Con l’ottavo motivo la curatela denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2467 c.c., ponendo, per la prima volta in questa sede, la questione della ipotetica natura postergata del diritto vantato dal comune, ove anche ritenuto esistente.

Il comune di Palermo ha eccepito l’inammissibilità di questa censura perché nuova. Ma l’eccezione non possiede fondamento, in quanto si tratta, come la stessa difesa del comune peraltro riconosce, di una “nuova questione di diritto”, la quale, giustappunto perché di diritto, può essere per la prima volta prospettata dinanzi a questa Corte (e finanche rilevata d’ufficio nell’ottica del principio iura novit curia).

Il motivo è tuttavia infondato.

10.1. – La ricorrente compendia la sua tesi nella seguente alternativa: o si sostiene che il comune, con gli atti di trasferimento in esame, abbia definitivamente incrementato il patrimonio netto di __ s.p.a., e allora avrebbe errato il tribunale a disporre la restituzione dei beni, poiché questi erano entrati nella piena ed esclusiva disponibilità della società (poi fallita) al pari di tutti gli altri “mezzi propri”; oppure si sostiene che coi detti trasferimenti il comune abbia solo provvisoriamente aumentato le disponibilità patrimoniali della società, in vista del futuro aumento di capitale, e allora si dovrebbe affermare il necessario assoggettamento del socio alla disciplina della postergazione di cui all’art. 2467 c.c., mentre il tribunale ha disposto la restituzione immediata dei beni anzidetti al comune di Palermo.

Il ragionamento della ricorrente non può essere condiviso.

Il tribunale ha stabilito, con enunciazione presupponente un accertamento di fatto intangibile per le ragioni già esposte, che i trasferimenti di cui si tratta erano stati effettuati in conto di un programmato futuro aumento di capitale, da eseguirsi nell’ottica del risanamento di __ (già in amministrazione straordinaria), entro un anno dalla chiusura dell’amministrazione stessa. Ha specificamente ricostruito in tal senso la volontà delle parti, affermando che “si trattava di un conferimento risolutivamente condizionato al futuro aumento di capitale (..)” soggetto a quel termine.

Ne consegue che nessuna delle prefigurate alternative è rispondente ai fatti accertati, poiché il giudice del merito ha messo in luce che l’incremento non era stato effettuato in termini di finanziamento alla società ma come sottoscrizione anticipata dell’aumento di capitale.

10.2. – E’ opportuno considerare che qualunque trasferimento di beni o di denaro (ovvero qualunque versamento o dazione) è in sé indice soltanto dell’esistenza di un rapporto finanziario, ma non della ragione pratica (la causa) che ne è alla base. Se è vero che in astratto tali versamenti o dazioni possono a seconda dei casi assumere la natura di conferimenti a titolo di dotazione patrimoniale oppure di finanziamenti (a titolo di credito), la concreta natura dei medesimi postula – come in qualche modo s’è anticipato – un’indagine di fatto, ed è rimessa al giudice del merito.

Quel che in questa sede è possibile sottolineare è questo: che le erogazioni dei soci in conto futuro aumento di capitale (come anche quelle semplicemente in conto aumento di capitale), pur se normalmente tradotte in sostegno finanziario alla società, si caratterizzano per il fatto di non presupporre necessariamente un definitivo incremento del patrimonio sociale (come invece accade nel caso dei versamenti o dei contributi in conto capitale).

La pratica commerciale certamente conosce situazioni in cui tali erogazioni delineano la funzione di conferimenti anticipati – per esempio i versamenti eseguiti in occasione di un aumento di capitale “scindibile” (cioè destinato a essere mantenuto fermo qualunque risulti esserne l’ammontare definitivamente sottoscritto, anche se inferiore al limite massimo fino al quale era stato deliberato). Ma quella stessa pratica conosce pure situazioni opposte, in cui le erogazioni affluiscono al patrimonio netto della società solo dopo aver ricevuto una irreversibile imputazione al capitale sociale: per esempio, i versamenti eseguiti in funzione di un aumento non ancora deliberato, e quindi giustappunto futuro, oppure eseguiti in funzione di aumento “inscindibile”.

In questi casi, se l’aumento di capitale non venisse più deliberato, quanto meno entro un termine ragionevolmente prossimo, oppure non potesse essere attuato a causa della sua mancata integrale sottoscrizione, il soggetto erogante ha il diritto di richiedere alla società stessa la restituzione di quanto erogato.

In sostanza, come correttamente in dottrina è stato osservato, siffatte tipologie di erogazioni possono affluire al patrimonio netto della società percipiente solo una volta che abbiano ricevuto, a ogni effetto, una irreversibile imputazione al capitale sociale, a meno che il soggetto erogante non abbia inteso devolverle, con manifestazione inequivoca di volontà, al patrimonio sociale convertendole in contributi in conto capitale (o a fondo perduto, o a copertura perdite).

10.3. – Ora il punto è che, se l’erogazione è fatta in conto di un futuro aumento di capitale, si è dinanzi a un copertura anticipata di un aumento di capitale programmato ma non ancora deliberato, ovvero – come pure si è detto – a un conferimento potenziale, che non diventa effettivo se non nel momento in cui vada a incardinarsi nel capitale sociale.

Assumendo la sottesa destinazione di scopo, la devoluzione alla società osta unicamente alla facoltà di chiederne la restituzione ad nutum. Non osta invece al diritto di ottenere la restituzione ove non si verifichi la specifica condizione di perfezionamento individuata all’atto dell’erogazione.

Il diritto alla restituzione in questi casi è ben ravvisabile come conseguenza del meccanismo risolutivo, secondo uno schema condizionale non dissimile a quello – nel distinto caso ovviamente ispirato a condizione sospensiva – che si ha ove il socio si sia obbligato nei confronti della società a sottoscrivere un determinato aumento di capitale prima che lo stesso sia formalmente deliberato dall’assemblea. Questa Corte ha invero ritenuto validamente assunta una simile obbligazione, considerandola subordinata alla condizione sospensiva che la deliberazione di aumento del capitale intervenga nel termine stabilito o in quello desumibile dalle circostanze (v. Cass. n. 8876-06).

L’elemento differenziale è dunque nella concreta fattispecie correlato alla circostanza che non di obbligazione si discorre ma di dazione, eseguita a titolo di copertura anticipata dell’aumento di capitale programmato ma non ancora deliberato; cosa che spiega il riferimento del giudice a quo alla condizione risolutiva.

E allora, se – come il tribunale ha accertato in fatto – le erogazioni in conto futuro aumento di capitale erano state risolutivamente condizionate alla deliberazione di aumento da assumere entro un certo termine, e se invece, poi, quell’aumento di capitale non era stato deliberato dall’assemblea, è corretto inferire l’insorgenza dell’obbligazione restitutoria in capo alla società percipiente.

Né incorre in errori di diritto il giudice del merito che valorizzi in tal senso elementi dichiarativi resi in occasione dell’erogazione o del trasferimento, onde stabilire che il socio si sia riservato il diritto alla restituzione per l’eventualità in cui la delibera di aumento del capitale sociale non risulti assunta entro la data prestabilita.

10.4. – L’assunto della curatela non può esser condiviso neppure sul versante alternativo della postergazione.

La disciplina dell’art. 2467 c.c., è certamente estensibile (a certe condizioni) anche alla società per azioni (cfr. Cass. n. 16291-18, Cass. n. 14056-15), ma occorre pur sempre che si sia dinanzi a una dazione a titolo di credito, alla quale associare l’obbligo di rimborso, per quanto effettuata “in qualsiasi forma”.

L’espressione “in qualsiasi forma”, che compare nell’art. 2467, non esclude cioè che si debba essere sempre al cospetto di un finanziamento, seppure anomalo perché effettuato dal socio in situazione tale da imporre, invece, un conferimento. La ratio della norma pacificamente consiste nel contrastare giustappunto in tal modo i fenomeni di sottocapitalizzazione nominale delle società (“chiuse”).

Se ne desume che i versamenti o i trasferimenti eseguiti in conto di un futuro aumento di capitale non possono rimanere attratti dal principio in nome della mera circostanza della provvisorietà dell’apporto. La provvisorietà in questi casi consegue al mancato perfezionamento della fattispecie in funzione della quale l’erogazione è fatta, non alla causa del credito. E questa Corte ha già affermato che i versamenti fatti in conto di un futuro aumento di capitale hanno una causa che, di norma, è appunto diversa da quella del finanziamento (o del mutuo) ed è assimilabile invece a quella di capitale di rischio – anche se ciò non esclude, ovviamente, che tra la società ed i soci possa essere convenuta l’erogazione di un capitale di credito e che, quindi, i soci possano effettuare versamenti in favore della società pure a titolo di finanziamento.

Quel che rileva è che (ancora una volta) lo stabilire in concreto la natura di un versamento o di una dazione è questione di interpretazione, da svolgersi in base agli elementi di fatto (v. Cass. n. 21563-08). Come tale, essa è istituzionalmente riservata al giudice del merito ed è sindacabile in cassazione solo sul versante (qui non denunciato) del vizio di motivazione.

10.5. – Merita di essere puntualizzato che non si intende negare ovviamente che, nella pratica, possano verificarsi commistioni tra le fattispecie, e in queste eventualità certamente la provvisorietà della dazione potrebbe rilevare ai fini di cui all’art. 2467 c.c.

Questa (astratta) possibilità tuttavia non è declinabile come un fatto dirimente di per sé.

La provvisorietà potrebbe essere valorizzata, ai fini della postergazione, solo in nome del positivo riscontro di una funzione oggettiva della dazione diversa da quella apparente, alla quale funzione oggettiva correlare il diritto alla restituzione. E tanto supporrebbe allegata – e poi dimostrata – una sorta di simulazione, vale a dire che la ragion pratica della dazione sia stata in effetti e giustappunto quella del finanziamento: per esempio, per evidenze probatorie attestanti l’implausibilità originaria dell’ipotesi di prospettato aumento di capitale.

Salvo ciò, una funzione oggettiva di credito è da escludere dinanzi a versamenti (o a trasferimenti) in conto di un futuro aumento di capitale, visto che essi, ove l’aumento intervenga, vanno a confluire automaticamente in esso, mentre ove non intervenga vanno sì restituiti, ma non perché eseguiti a titolo di finanziamento, sebbene semplicemente perché la fattispecie in effetti programmata – l’aumento di capitale – non si è perfezionata.

Nel caso di specie è risolutivo osservare che dinanzi al giudice del merito una divaricazione del tipo di quella dianzi detta non risulta che sia stata neppure ipotizzata dalla curatela del fallimento, né risulta che sia mai stata in qualche modo allegata – come all’inizio si diceva – la conseguente soggezione a postergazione del diritto azionato dal comune di __.

  1. – Le considerazioni esposte comportano il rigetto del ricorso.

Restano invero assorbiti il nono e il decimo motivo, rispettivamente tesi a denunziare la violazione e falsa applicazione del D.L. n. 78 del 2010, art. 6, comma 19, conv. con modificazioni in L. n. 122 del 2010 e la violazione e falsa applicazione degli artt. 1418 c.c. e segg..

L’assorbimento deriva dal fatto che tali ulteriori mezzi servono a contrastare la seconda ratio decidendi in base alla quale il tribunale ha accolto l’opposizione del comunque di Palermo: ratio incentrata sul rilievo che i trasferimenti in questione, immobiliari e mobiliari, erano da considerare in ogni caso nulli poiché posti in essere in violazione del divieto dettato dalla norma speciale, attesa la non ravvisabilità (a dire del giudice a quo) di eccezioni all’afferente principio.

E’ evidente che allo scrutinio di tali motivi la ricorrente non ha interesse poiché le censure non potrebbero comunque condurre alla cassazione della decisione, stante il consolidamento della prima ratio rivelatasi esatta (cfr. ex multis Cass. n. 2108-12, Cass. Sez. U n. 7931-13).

  1. – L’intrinseca difficoltà della questione di diritto agitata in causa e l’inesistenza di specifici precedenti di questa Corte con riguardo al tema implicato dall’ottavo motivo inducono a compensare le spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese processuali.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 12 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2018

Cass_civ_Sez_ I_ Sent_03_12_2018-n_31186




La quietanza di pagamento rilasciata dal debitore al terzo pignorato può essere opposta al creditore procedente solamente a condizione che abbia, ai sensi dell’art. 2704 c.c., data certa anteriore alla notificazione dell’atto di pignoramento

La quietanza di pagamento rilasciata dal debitore al terzo pignorato può essere opposta al creditore procedente solamente a condizione che abbia, ai sensi dell’art. 2704 c.c., data certa anteriore alla notificazione dell’atto di pignoramento

Cassazione Civile, Sezione VI, Sottosezione 3, Ordinanza n. 24867 del 09/10/2018

Con Ordinanza del 9 ottobre 2018 la Corte di Cassazione Civile, Sezione VI, Sottosezione 3, in tema di esecuzione forzata, ha stabilito che la quietanza di pagamento rilasciata dal debitore al terzo pignorato può essere opposta al creditore procedente solamente a condizione che abbia, ai sensi dell’art. 2704 c.c., data certa anteriore alla notificazione dell’atto di pignoramento. E comunque, quand’anche gli sia opponibile, trattandosi di res inter alios acta, la quietanza non gode del valore probatorio privilegiato di cui all’art. 2702 c.c. e, avendo il valore probatorio meramente indiziario di una prova atipica, può essere liberamente contestata dal creditore procedente e contribuisce a fondare il convincimento del giudice unitamente agli altri dati probatori acquisiti al processo.


Cassazione Civile, Sezione VI, Sottosezione 3, Ordinanza n. 24867 del 09/10/2018

La quietanza di pagamento rilasciata dal debitore al terzo pignorato può essere opposta al creditore procedente solamente a condizione che abbia, ai sensi dell’art. 2704 c.c., data certa anteriore alla notificazione dell’atto di pignoramento

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

N. S.R.L., elettivamente domiciliata in __, presso lo studio dell’avv. __, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

I. S.R.L., elettivamente domiciliata in __, presso lo studio dell’avv. __, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

contro

A. S.R.L.;

– intimata –

avverso la sentenza n. __ della Corte d’appello di __, depositata il __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del __ dal Consigliere Dott. __.

Svolgimento del processo

La N. s.r.l., creditrice della A. s.r.l., sottoponeva a pignoramento le somme ad essa dovute dalla I. s.r.l., con atto notificato in data __. Poiché il terzo pignorato rendeva dichiarazione negativa, la creditrice procedeva all’accertamento dell’obbligo ai sensi dell’art. 348 c.p.c., nella versione applicabile ratione temporis.

Nel corso del giudizio la I. s.r.l. esibiva una “dichiarazione di fine lavori e consegna cantiere” datata __, contenente anche una quietanza di pagamento del prezzo dell’appalto conferitole dalla A. s.r.l.

La domanda di accertamento veniva accolta dal Tribunale di __.

La Corte d’appello, adita dalla I. s.r.l., riformava la decisione di primo grado, rilevando che la scrittura privata aveva data certa in quanto la sua esistenza era menzionata nella comunicazione di fine lavori depositata presso il Comune di __  il __.

Contro tale decisione la N. s.r.l. ha proposto ricorso per un unico motivo. La I. s.r.l. ha resistito con controricorso. La A. s.r.l., già contumace in appello, non ha svolto attività difensiva.

Il consigliere relatore, ritenuta la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 380-bis c.p.c. (come modificato dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, comma 1, lett. e), conv. con modif. dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197), ha formulato proposta di trattazione del ricorso in camera di consiglio non partecipata.

La N. s.r.l. ha depositato memorie difensive, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c.

Motivi della decisione

La società ricorrete denuncia, con un unico motivo, la falsa applicazione dell’art. 2704 c.c., comma 1, e la violazione dell’art. 116 c.p.c.

In particolare, osserva che, nella veste di creditrice pignorante, non le sarebbe opponibile la quietanza del __, poiché l’atto che le conferisce data certa, ossia la comunicazione di fine lavori inoltrata al Comune competente, è stato predisposto unilateralmente dal terzo pignorato, tramite un proprio dipendente (il direttore dei lavori). La data certa, pertanto, non avrebbe carattere oggettivo.

Il ricorso è fondato.

La corte d’appello ha conferito alla “dichiarazione di fine lavori e consegna cantiere” del __ valenza di quietanza di pagamento in favore del Comune di __, in quanto contenente l’attestazione della A. s.r.l. di avere “totalmente ed integralmente ricevuto quanto convenuto sia per le opere previste nel capitolato sia per quelle aggiunge in corso d’opera, in quanto computate nelle fatture emesse alla data odierna a titolo di acconto e saldo lavori (…) che si dichiarato tutte saldate”. Ed ha ritenuto che tale quietanza fosse anteriore, di un solo giorno, alla notificazione dell’atto di pignoramento in quanto depositata presso gli uffici del Comune di __ in data __.

In ciò si coglie l’errore di sussunzione denunciato dalla società ricorrente con riferimento all’art. 2704 c.c. Infatti, se l’elemento che conferisce data certa alla quietanza è individuato nel deposito della stessa presso il protocollo del Comune (avvenuto il __, ossia lo stesso giorno in cui veniva notificato l’atto di pignoramento), la conclusione secondo cui dovrebbe dunque ritenersi che “i lavori erano terminati il __, come attestato dalla suddetta comunicazione”, sicché la quietanza “non poteva che essere stata sottoscritta nella stessa data”, costituisce una semplice presunzione, basata su un ragionamento di verosimiglianza. In sostanza, la data certa in cui è comprovata l’esistenza della quietanza di pagamento è il __, mentre la retrodatazione della stessa al giorno precedente non gode dell’efficacia specifica prevista dall’art. 2704 c.c.

Costituisce, infatti, vero e proprio ius receptum il principio secondo cui, in tema di esecuzione presso terzi, il creditore procedente non agisce in nome e per conto del proprio debitore ma iure proprio e nei limiti del proprio interesse (da ultimo: Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 6760 del 21/03/2014, Rv. 630199; orientamento risalente a Sez. 3, Sentenza n. 1984 del 26/07/1967, Rv. 328996). Dunque, se da un lato ne deriva che nel giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo pignorato, il creditore pignorante è onerato della prova dell’esistenza del credito, dall’altro lato egli riveste la qualità di terzo e le scritture private intercorse fra il debitore esecutato ed il debitor debitoris sono a lui opponibili solo nei limiti di cui all’art. 2704 c.c. Sicché il terzo pignorato, che eccepisca di avere soddisfatto le ragioni creditorie del debitore esecutato, dovrà provare non solo il fatto estintivo dedotto, ma anche l’anteriorità di esso al pignoramento, con i limiti di opponibilità, rispetto al creditore, della data delle scritture sottoscritte dal debitore.

Ma vi è di più. Il deposito della quietanza di pagamento presso gli uffici comunali conferisce data certa all’esistenza del documento in sé, ma ciò non implica alcun automatico riconoscimento della veridicità di quanto ivi dichiarato. Occorre ribadire, ancora una volta, che il creditore procedente è terzo rispetto ai rapporti fra il debitore esecutato e il debitor debitoris. Consegue che la quietanza di pagamento, in quanto scrittura privata inter alios acta, può essere liberamente contestata dal creditore procedente, non applicandosi alla stessa né la disciplina sostanziale di cui all’art. 2702 c.c., né quella processuale di cui all’art. 214 c.p.c. Piuttosto, la quietanza costituisce una prova atipica, di valore probatorio meramente indiziario (Sez. U, Sentenza n. 15169 del 23/06/2010, Rv. 613799; Sez. 1, Sentenza n. 21737 del 27/10/2016, Rv. 642626; Sez. 3, Sentenza n. 23788 del 07/11/2014, Rv. 633492).

Devono essere quindi affermati i seguenti principi di diritto:

“In sede di accertamento dell’obbligo del terzo pignorato (sia nel giudizio a cognizione piena previsto dall’art. 548 c.p.c. fino al __, sia in quello a cognizione sommaria oggi regolato dall’art. 549 c.p.c.) il creditore procedente, che non agisce in nome e per conto del proprio debitore bensì iure proprio, è terzo rispetto ai rapporti intercorsi fra il debitore esecutato e il debitor debitoris. Consegue che la quietanza di pagamento rilasciata dal debitore al terzo pignorato può essergli opposta solamente a condizione che abbia, ai sensi dell’art. 2704 c.c., data certa anteriore alla notificazione dell’atto di pignoramento. E comunque, quand’anche gli sia opponibile, trattandosi di res inter alios acta, la quietanza non gode del valore probatorio privilegiato di cui all’art. 2702 c.c. e, avendo il valore probatorio meramente indiziario di una prova atipica, può essere liberamente contestata dal creditore procedente e contribuisce a fondare il convincimento del giudice unitamente agli altri dati probatori acquisiti al processo”.

Facendo applicazione di tali principi nel caso in esame, si deve concludere che la quietanza di pagamento rilasciata dalla A. s.r.l. alla I. s.r.l. ha data certa non anteriore, bensì coeva alla notificazione dell’atto di pignoramento da parte della N. s.r.l. e, comunque, essa deve essere prudentemente apprezzata dai giudici di merito quale prova indiziaria, nel quadro del materiale probatorio acquisito, ivi inclusa l’eventuale documentazione contabile da cui risulti l’effettivo pagamento delle somme quietanzate.

Per tali ragioni la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte d’appello di __, che, uniformandosi ai superiori principi a norma dell’art. 384 c.p.c., comma 2, provvederà altresì alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di __ in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 28 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2018

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La sentenza che accoglie la domanda di revocatoria fallimentare ha natura costitutiva, in quanto modifica “ex post” una situazione giuridica preesistente, sia privando di effetti, nei confronti della massa fallimentare, atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando, conseguentemente, la restituzione dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale

La sentenza che accoglie la domanda di revocatoria fallimentare ha natura costitutiva, in quanto modifica “ex post” una situazione giuridica preesistente, sia privando di effetti, nei confronti della massa fallimentare, atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando, conseguentemente, la restituzione dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale

Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza n. 30416 del 23/11/2018

Con  Sentenza del 23 novembre 2018 la Corte di Cassazione Civile, Sezioni Unite, in tema di procedure concorsuali ha stabilito che la sentenza che accoglie la domanda di revocatoria fallimentare ha natura costitutiva, in quanto modifica “ex post” una situazione giuridica preesistente, sia privando di effetti, nei confronti della massa fallimentare, atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando, conseguentemente, la restituzione dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale (art. 2740 c.c.) ed alla soddisfazione dei creditori di una delle parti dell’atto; con la conseguenza che la situazione giuridica vantata dalla massa ed esercitata dal curatore non integra un diritto di credito (alla restituzione della somma o dei beni) esistente prima del fallimento (né nascente dall’atto della dichiarazione dello stesso) e indipendentemente dall’esercizio dell’azione giudiziale, ma rappresenta un vero e proprio diritto potestativo all’esercizio dell’azione revocatoria, rispetto al quale non è configurabile l’interruzione della prescrizione a mezzo di semplice atto di costituzione in mora.


Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza n. 30416 del 23/11/2018

La sentenza che accoglie la domanda di revocatoria fallimentare ha natura costitutiva, in quanto modifica “ex post” una situazione giuridica preesistente, sia privando di effetti, nei confronti della massa fallimentare, atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando, conseguentemente, la restituzione dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __- Primo Presidente f.f. –

Dott. __ – Presidente di Sezione –

Dott. __- Presidente di Sezione –

Dott. __- rel. Consigliere –

Dott. __- Consigliere –

Dott. __- Consigliere –

Dott. __- Consigliere –

Dott. __- Consigliere –

Dott. __- Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __proposto da:

M., rappresentata e difesa dall’avv. __;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO __, in persona del Curatore pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. __;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. __della CORTE D’APPELLO di __, depositata il __;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __dal Consigliere __;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale __, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avv. __.

Svolgimento del processo

  1. M. nella veste di assuntrice del concordato del Fallimento __, ricorre per cassazione, avverso la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di __ in data __ nel giudizio tra la prima procedura e il Fallimento __, svolgendo due motivi d’impugnazione.

1.1. Con tale decisione, la Corte d’Appello ha accolto l’appello presentato dalla seconda procedura (il Fallimento __) contro la sentenza resa nel (primo grado del) giudizio dal Tribunale di __, il __, respingendo la domanda originaria perché “improponibile” (p. 2 della sent.), a differenza di quanto aveva statuito il primo giudice che aveva accolto la domanda revocatoria, intentata L. __ Fall., ex art. 66, dall’allora Fallimento __ nei confronti del Fallimento della __, con riferimento all’atto – del __- di alienazione di un’azienda a prezzo (assunto come) vile, a suo tempo intercorsa tra le due società, entrambe in bonis, essendo state dichiarate ambedue fallite solo nell’anno __.

1.2. Secondo la Corte territoriale, l’azione revocatoria ordinaria intrapresa dal primo fallimento, qualificata come azione esecutiva individuale, incorreva nel divieto di cui alla L. Fall., art. 51, disposizione che, a seguito della dichiarazione di fallimento, non ne consentirebbe l’esercizio per l’assoggettamento dei beni alla massa fallimentare della società cessionaria.

1.3. In ragione della natura dichiarativa (e non recuperatoria) dell’azione de qua, il soggetto passivo (anch’esso, al pari dell’attrice) sottoposto alla dichiarazione di fallimento ne ostacolerebbe la proposizione sicché la curatela attrice non avrebbe l’interesse concreto ed attuale, ai sensi dell’art. 100 c.p.c., in ordine al suo esercizio poiché essa mai potrebbe pervenire al recupero del complesso aziendale ceduto.

1.4. Contro il ricorso ha resistito il Fallimento della __, che ha depositato controricorso e memoria illustrativa.

  1. I motivi di impugnazione deducono: a) la “violazione e falsa applicazione degli artt. 183 e 345 c.p.c.”, il primo; b) la “violazione e falsa applicazione del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 51, Insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio”, il secondo.

2.1. Entrambi investono il punto in cui la sentenza della Corte territoriale ha accolto l’eccezione di “improponibilità e/o inammissibilità dell’azione revocatoria esercitata”, sollevata dai Fallimento della Società Turistica, in relazione al fatto che l’azione è stata per l’appunto rivolta verso una procedura concorsuale.

2.2. Il primo, assume che l’eccezione sollevata dal fallimento appellante è da ritenere tardiva, in quanto svolta solo con l’atto di citazione in appello, con spregio della norma dell’art. 345 c.p.c.

2.3. Il secondo, contesta invece la stessa fondatezza del merito dell’eccezione in quanto tale, atteso che l’art. 51 legge fall. non potrebbe trovare applicazione ad un’azione, quale quella proposta, avente natura dichiarativa, in quanto destinata a concludersi con l’accertamento dell’inefficacia dell’atto di cessione e l’automatico rientro dei beni nella massa attiva dell’attrice, quale conseguenza meccanica di una sentenza di accoglimento.

  1. La causa, già fissata all’adunanza camerale della sesta sezione civile di questa Corte è poi stata rimessa alla pubblica udienza della prima sezione che, con ordinanza interlocutoria n. __ del __, ne ha disposto la trasmissione al primo presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite civili.
  2. Secondo la Corte remittente, anzitutto, sarebbe ipotizzabile un contrasto di giurisprudenza tra il più recente orientamento, espresso da due pronunce che hanno ritenuto inammissibile detta azione (il riferimento è a Cass. nn. 10486 del 2011 e 3672 del 2012) ed un più risalente indirizzo, a termini del quale l’azione, se proposta anteriormente al fallimento della parte convenuta in revocatoria, potrebbe essere proseguita; in secondo luogo, ha ritenuto comunque la questione “di massima di particolare importanza”, ove l’ipotizzato contrasto non fosse ravvisato né fossero reputati persuasivi gli argomenti svolti a conforto dell’orientamento più recente, peraltro svolti in riferimento ad una diversa fattispecie (quella dell’azione revocatoria fallimentare), di cui si sollecita una rinnovata meditazione.

4.1. L’ordinanza di rimessione, infatti, compiendo una ricognizione delle linee interpretative nella materia concorsuale ha rilevato come recenti pronunce di questa Corte siano giunte ad affermare che “non è ammissibile un’azione revocatoria, ordinaria o fallimentare, nei confronti di un fallimento” (in particolare, la sentenza 12 maggio 2011, n. 10486, a cui ha poi fatto seguito l’ordinanza 8 marzo 2012, n. 3672) atteso che la proponibilità della revocatoria contro un Fallimento urterebbe contro il “principio di cristallizzazione della massa passiva alla data di apertura del concorso”, così come sarebbe stabilito dalle norme di cui alla L. Fall., artt. 51 e 52: “posto che l’effetto giuridico favorevole all’attore in revocatoria si produce soltanto a seguito della sentenza che accoglie la domanda”, per il “carattere costitutivo” della detta azione.

4.2. Di contro la stessa ordinanza ha rilevato che – secondo altro orientamento di questa Corte, risalente nel tempo – il giudizio revocatorio ben potrebbe “proseguire” (avanti allo stesso giudice) pur se sopravvenga, nelle more di questo, il fallimento del soggetto che è stato convenuto in revocatoria.

Si tratterebbe di un orientamento assai condiviso e tradizionale (si richiamano, tra gli altri interventi, Cass., 14 ottobre 1963, n. 2746 (con una Procedura attrice originaria); Cass., 30 agosto 1994, n. 7583 (id.); Cass., 21 luglio 1998, n. 7119 (riguardante un’azione svolta da singolo creditore); Cass., 28 febbraio 2008, n. 5272 (i.d.); Cass., 19 marzo 2009, n. 6709 (un Fallimento attore originario); Cass., 27 ottobre 2015, n. 21810 (un’azione promossa dal singolo creditore); Cass., 4 ottobre 2016, n. 19795 (ancora un Fallimento attore originario), nonché, e in modo particolare, la pronuncia delle Sezioni Unite, 17 dicembre 2008, n. 29421 (un singolo creditore nelle vesti di attore), che tra l’altro ha affermato: “che sia consentito al curatore proseguire il giudizio intrapreso prima del fallimento dal singolo creditore, subentrando nella posizione processuale di costui, è affermazione sulla quale… non vi è alcun contrasto nella giurisprudenza”).

4.3.- L’ordinanza di rimessione prosegue segnalando che, nel negare la proponibilità dell’azione revocatoria in quanto tale contro una Procedura concorsuale, la sentenza di questa Corte n. 10486 del 2011 ha affermato che la proseguibilità dell’azione iniziata prima del fallimento della parte convenuta “può spiegarsi con la considerazione (generalmente accettata…) che gli effetti restitutori conseguenti alla revoca retroagiscono alla data della domanda, per il generale principio che la durata del processo non deve recar danno a chi ha ragione”. Ma, il collegio rimettente ha reputato di dover dubitare dell’effettiva forza persuasiva di simile rilevazione poiché la stessa si preoccuperebbe propriamente di reperire una giustificazione per la proseguibilità della revocatoria iniziata prima del fallimento del convenuto, là dove il tema – pur sempre centrale in questa decisione – sarebbe quello della predicata non proponibilità dell’azione revocatoria nei confronti di un soggetto che sia già fallito, anche in ragione della “tendenziale opinabilità di una soluzione che intenda differenziare tra proseguibilità dell’azione verso il fallito e promuovibilità della stessa (…) resa manifesta proprio dalla norma della L. Fall., art. 51, che per l’appunto in modo espresso parifica in relazione alle azioni individuali di tipo esecutivo e cautelare – il proseguimento dell’azione al suo inizio”.

4.4. Andrebbe poi considerato che “secondo l’insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, l’esercizio vittorioso dell’azione revocatoria ha effetto retroattivo: pur azioni che rimangono strutturalmente e funzionalmente distinte tra loro e separate. Nel caso di convenuto in revocatoria che sia fallito, le azioni esecutive successive all’esito vittorioso di questa – non risulteranno comunque esercitabili, giusta appunto il divieto di cui alla L. Fall., art. 51: lo sbocco naturale e proprio dell’esito vittorioso consistendo – come si è già visto essere insegnamento tradizionale di questa Corte nell’insinuazione del credito da restituzione (come in sostanza relativo al valore del bene di cui alla revoca) nel passivo fallimentare del convenuto perdente”.

4.5. Infine, andrebbe tenuto “in adeguato conto, sotto li profilo sistematico (..) la norma del D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 91, dedicato alla regolamentazione della procedura di amministrazione straordinaria, che ammette la c.d. revocatoria aggravata nei confronti appartenenti al medesimo gruppo di quella dichiarata insolvente”.

4.6. Unita mente al segnalato “contrasto esistente nella giurisprudenza di questa Corte” andrebbe ancora rilevato che il tema della proponibilità della revocatoria contro un convenuto fallito si pone come “questione di massima di particolare importanza”, ex art. 374 c.p.c., anche con riferimento ai casi, reputati frequenti, di “spostamenti patrimoniali intervenuti tra società facenti parte di un medesimo gruppo e in avanzato stato di decozione, con lo scopo di favorire, in prospettiva, una massa creditoria piuttosto che un’altra”.

  1. Con memoria ex art. 378 c.p.c., il Fallimento __, ha riproposto ed illustrato le sue eccezioni e le conclusioni svolte nel controricorso.
  2. Il P.G., nella persona dell’Avv. Gen., __, ha depositato memoria, illustrativa della propria requisitoria, concludendo affinché la Corte respinga il ricorso, “con le precisazioni dianzi svolte”.

Motivi della decisione

  1. Deve convenirsi con il P.G. circa il fatto che l’ordinanza interlocutoria n. 1894 della prima sezione civile di questa Corte, pubblicata in data __, abbia:

“a) in primo luogo, (….) ipotizzato l’esistenza di un contrasto di giurisprudenza” tra il più recente orientamento, espresso da due pronunce, che hanno ritenuto inammissibile la revocatoria proposta da una verso un’altra curatela (Cass. n. 10486 del 2011 e n. 3672 del 2012) ed un più risalente indirizzo, secondo cui l’azione, se proposta anteriormente al fallimento della parte convenuta in revocatoria, possa essere comunque proseguita;

  1. b) in secondo luogo, (….) ritenuto che una tale questione (ovverosia quella della ammissibilità della detta azione revocatoria fra due procedure), appartenga al novero di quelle “di massima di particolare importanza”, “dimostrandosi in tal modo consapevole dell’inesistenza del pure adombrato contrasto, ma dubitando in definitiva della persuasività degli argomenti svolti a conforto dell’orientamento, sia pure in riferimento ad una diversa fattispecie (e cioè all’azione revocatoria fallimentare), di cui sollecita la rimeditazione”.

1.1. E si deve pure convenire, con lo stesso P.G., in ordine alla precedenza logica della prima ipotesi contenuta nell’ordinanza di rimessione, rispetto alla seconda, sicché va verificata l’esistenza di un contrasto interpretativo nella giurisprudenza della Corte, nei sensi come sopra sintetizzati, atteso che ove il Collegio rimettente abbia sollecitato alle S.U. un esame della questione controversa secondo entrambe le ipotesi stabilite dall’art. 374 c.p.c., comma 2, ed il Primo Presidente abbia disposto in conformità, le Sezioni Unite dovranno dapprima esaminarla alla luce dell’ipotizzata difformità delle pronunce delle sezioni semplici e poi procedere con l’esame della questione di massima di particolare importanza.

  1. Tale contrasto, tuttavia, come rettamente argomentato nella requisitoria del P.G., non è esistente, se è vero che le pronunce indicate dall’ordinanza interlocutoria, come espressive di un difforme orientamento (rispetto a quello più recente, rappresentato da Cass. n. 10486 del 2011 e dalla successiva Cass. n. 3672 del 2012), hanno deciso in ordine ai seguenti quesiti (che è opportuno richiamare visto lo sforzo compiuto dall’organo requirente ai fini della ricognizione degli orientamenti interpretativi di questa Corte e del dovere nomofilattico a cui Essa deve istituzionalmente attendere):

“a) se sia proseguibile l’azione revocatoria proposta dal Fallimento contro il convenuto in bonis, ma dichiarato fallito nei corso del giudizio, risolta positivamente;

  1. b) se permanga la legittimazione del creditore che abbia proposto azione revocatoria ordinaria a coltivarla, nel caso di sopravvenuto fallimento del debitore, negata da un orientamento e ritenuta invece da un difforme indirizzo, che aveva dato luogo ad un contrasto, poi composto da S.U. n. 20420 del 2008, pure richiamata dall’ordinanza interlocutoria;
  2. c) se il credito restitutorio del curatore fallimentare conseguente alla pronuncia di revoca del pagamento da questi ricevuto da parte di un debitore in seguito dichiarato fallito sia prededucibile, questione diversa da quella qui in esame (neppure esaminabile nel giudizio in cui poteva porsi, stante il giudicato che si era formato sull’azione revocatoria) e che, quindi, non ha richiesto di affrontare i profili approfonditi dall’orientamento espresso da Cass. n. 10486 del 2011 e n. 3672 del 2012;
  3. d) se l’azione revocatoria ordinaria proposta nei confronti di più soggetti, uno solo dei quali dichiarato fallito nel corso del giudizio, possa essere proseguita nei confronti delle parti rimaste in bonis”.

2.1. Nell’articolare la sua risposta, il P.G. ha condivisibilmente affermato che:

“La questione sub d) è, all’evidenza, diversa da quella in esame, con la quale non presenta nessuna interferenza, così da fare escludere ogni possibile contrasto di orientamenti.

Ad identica conclusione deve pervenirsi anche in riferimento alle pronunce sub a) e b), tenuto conto che la proseguibilità del giudizio promosso anteriormente al fallimento del convenuto – e l’ulteriore questione che da questa origina, in ordine al soggetto legittimato a proseguirlo – è giustificata dal principio che la durata del processo non può né deve recare danno a chi ha ragione, dalla retroattività alla data della domanda degli effetti restitutori e dall’opponibilità della trascrizione della domanda avvenuta anteriormente al fallimento, che rendono chiara la diversità delle fattispecie, a prescindere dalla pure preliminare considerazione che le pronunce non hanno avuto ad oggetto la proposizione dell’azione revocatoria ordinaria, che è invece la fattispecie che viene qui in rilievo.

Identico esito si impone, infine, quanto alla questione sub c): la constatazione che la stessa concerne il caso di un atto revocabile compiuto direttamente nei confronti del curatore è sufficiente infatti ad evidenziare che si tratta di una fattispecie strutturalmente differente da quella oggetto del presente giudizio”.

2.2. Si può, quindi, ancora condividere quanto Egli riassuntivamente osserva e cioè che la prima delle due prospettazioni svolte dall’ordinanza interlocutoria per l’esame della controversia da parte di queste Sezioni Unite non è convincente e, conseguentemente, difettano i presupposti di un intervento di ricomposizione dell’ipotizzato (ma, in realtà, inesistente) contrasto di giurisprudenza.

  1. Va, però, convenuto con la necessità di esaminare la seconda richiesta svolta dall’ordinanza di rimessione alle S.U., che considera la questione – da essa sottoposta come “di massima di particolare importanza” – con la quale, in sostanza, si auspica una diversa meditazione del principio di diritto enunciato dall’orientamento più recente, sopra richiamato, della cui esattezza l’ordinanza interlocutoria dubita e sulla cui particolare rilevanza interpretativa occorre convenire.

3.1. Alla richiesta di ripensamento dell’orientamento espresso dalle più volte richiamate pronunce di questa Corte nn. 10486 del 2011 e nn. 3672 del 2012, l’ordinanza di rimessione, come si è detto, offre tre ordini di considerazioni:

  1. a) quello relativo alla ritenuta efficacia retroattiva dell’azione revocatoria e al fatto che il debito restitutorio è un debito di valore, e che gli interessi sulla somma da restituire decorrono dalla data di costituzione in mora (quando vi sia stata e se, ovviamente, sia di data anteriore a quella della domanda giudiziale), con la conseguente incidenza di tali regole sul c.d. principio di cristallizzazione della massa passiva, secondo cui i crediti valevoli nella procedura concorsuale devono essere, di norma, quantificabili nella misura già maturata al momento della dichiarazione di fallimento del debitore;
  2. b) l’affermazione che l’azione revocatoria, “secondo una convincente opinione, emersa in dottrina”, costituirebbe una “azione di accertamento con effetti costitutivi” diretta a ricostituire la garanzia patrimoniale del debitore che, quindi, non incontrerebbe il divieto della L. Fall., art. 51, che impone di realizzare il credito con le forme e nell’osservanza del rito fallimentare;
  3. c) la rilevanza, sul piano sistematico, del D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 91, che disciplina la c.d. revocatoria aggravata infragruppo.
  4. Vanno esaminate assieme le prime due questioni, perché tra loro strettamente connesse, al cui centro si trova esposto il nodo relativo alla natura (costitutiva o dichiarativa) della sentenza conclusiva dell’azione revocatoria proposta (dalla curatela attrice), sia essa fallimentare o sia essa ordinaria, di cui si auspica una nuova e diversa meditazione in considerazione di una “convincente opinione, emersa in dottrina”.

4.1. Già a partire dalla sentenza n. 2754 del 1973, questa Corte ebbe ad affermare il principio secondo cui “l’azione revocatoria fallimentare, spiegata ai sensi della L. Fall., art. 67, dà luogo ad una sentenza costitutiva”; principio poi ribadito dalle sentt. nn. 3657 del 1984, 1001 del 1987 (in fattispecie di revocatoria fallimentare).

Con particolare chiarezza ricostruttiva, queste S.U., con la Sentenza n. 5443 del 1996 (e, negli stessi sensi: SU, Sentenza n. 6225 del 1996 e Sez. 1, Sentenza n. 5001 del 1998), affermarono il principio secondo cui “la sentenza che accoglie la domanda revocatoria fallimentare ha natura costitutiva, in quanto modifica ex post una situazione giuridica preesistente, sia privando di effetti, nei confronti della massa fallimentare, atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando, conseguentemente, la restituzione dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale (art. 2740 cod. civ.) ed alla soddisfazione dei creditori di una delle parti dell’atto; con la conseguenza che la situazione giuridica vantata dalla massa ed esercitata dal curatore non integra un diritto di credito (alla restituzione della somma o dei beni) esistente prima del fallimento (né nascente all’atto della dichiarazione dello stesso) e indipendentemente dall’esercizio dell’azione giudiziale, ma rappresenta un vero e proprio diritto potestativo all’esercizio dell’azione revocatoria, rispetto al quale non è configurabile l’interruzione della prescrizione a mezzo di semplice atto di costituzione in mora (art. 2943 c.p.c., u.c.)”.

4.2. Simili affermazioni vennero poi ribadite e argomentate dalle sentt. nn. n. 3155 del 1997, 10350 del 1998, 2909 del 2000, 437 del 2000, 11594 del 2001, 58 del 2003, 887 del 2006 e da molte altre ancora, a proposito della natura del debito da restituirsi e degli interessi da calcolarsi sullo stesso.

4.3. A tale proposito – come ha notato il P.G. – le S.U., all’esito di questa complessa evoluzione, con le pronunce nn. 5443 e 6225 del 1996 e, altresì, con quella n. 437 del 2000, hanno superato l’esegesi offerta dall’orientamento precedente (divenuto del tutto minoritario e non più riproposto), quello enunciato da Cass. n. 164 del 1972 (ma subito contrastato da Cass. n. 2754 del 1973, che aveva accolto la tesi poi consolidatasi), con una conclusione condivisa e ribadita dalle Sezioni semplici anche quanto all’azione revocatoria ordinaria (Cass. n. 17311 del 2016; Cass. n. 3379 del 2007), ma particolarmente approfondita in riferimento a quella fallimentare (Cass. n. 13560 del 2012, n. 27804; n. 12736 e n. 11594 del 2011; n. 11097 del 2004), soprattutto per esplicitare le conseguenze derivanti dal principio dell’azione costitutiva in ordine alla natura del debito restitutorio (da ultimo, Cass. n. 12850 del 2018, secondo cui l'”obbligo restitutorio dell’accipiens soccombente in revocatoria (…) ha natura di debito di valuta e non di valore, in quanto l’atto posto in essere dal fallito è originariamente lecito e la sua inefficacia sopravviene solo in esito alla sentenza di accoglimento della domanda, che ha natura costitutiva, avendo ad oggetto l’esercizio di un diritto potestativo e non di un diritto di credito” ed in questa ulteriori richiami) ed all’inapplicabilità dell’ipotesi di interruzione della prescrizione prevista dall’art. 2943 c.c., quarto comma, cod. civ., a seguito di atti di costituzione in mora del debitore (per tutte, da Cass. n. 8086 del 1996 fino a Cass. n. 58 del 2003, Cass. n. 22366 del 2007 e Cass. n. 18438 del 2010, orientamento rispetto al quale non è dissonante Cass. n. 13302 del 2012, che l’efficacia interruttiva ha riconosciuto solo al ricorso per sequestro giudiziario, in presenza delle condizioni puntualmente identificate).

4.4. Osserva, perciò, condivisibilmente il P.G. che un differente principio neppure è stato affatto enunciato:

  1. a) “da Cass. n. 13302 del 2012, la quale ha anzi espressamente ribadito che la sentenza che accoglie l’azione revocatoria fallimentare ha natura costitutiva ed è volta ad ottenere un mutamento della situazione giuridica del destinatario e, quindi, immuta una situazione giuridica in termini nuovi ed originali, in forza di una decisione del giudice, (che) assume invero carattere costitutivo in quanto modifica ex post una situazione giuridica preesistente. La pronuncia si è infatti limitata soltanto a ricondurre l’azione nel novero di quelle non configurabili come necessariamente costitutive, in coerenza con il pacifico orientamento della dottrina che distingue appunto tra azioni costitutive necessarie e azioni costitutive non necessarie, caratterizzandosi le seconde perché l’effetto costitutivo, modificativo o estintivo del rapporto giuridico, può ottenersi anche senza ricorrere al giudice, mediante accordo con la controparte, vertendosi nell’ambito di diritti disponibili (come accade nei casi pure pacificamente di sentenze costitutive, tuttavia non necessarie, quali quelle di annullamento del contratto per vizio del volere, art. 1427 c.c., di rescissione del contratto per lesione, art. 1448 c.c., di risoluzione del contratto per inadempimento, art. 1453 c.c., o per eccessiva onerosità, art. 1467 c.c., o della pronuncia che produce gli effetti del contratto che la parte era obbligata a concludere, art. 2932 c.c.)”;
  2. b) né “da Cass. n. 16737 del 2011, la quale ha parimenti ribadito il carattere costitutivo della sentenza e la circostanza che la stessa produce effetti dalla data del passaggio in giudicato, solo limitandosi ad approfondire ed affermare l’ammissibilità dell’anticipazione provvisoria degli effetti, in conseguenza di una sentenza provvisoriamente esecutiva”.

4.5. La ricognizione degli orientamenti della giurisprudenza di questa Corte induce pertanto a ritenere pacifico e stabilizzato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità in ordine alla natura costitutiva della sentenza in esame e, per tale considerazione, l’ordinanza interlocutoria non può essere seguita sul punto della prospettazione di adeguate ragioni giustificative che ne rendano possibile e necessaria una diversa considerazione.

4.6.- Punto fermo di questo itinerario è pertanto quello secondo cui la sentenza costitutiva produce effetti, dal momento in cui la stessa passa in giudicato (ex nunc), che possono retroagire alla data della domanda (opponibile al fallimento, se trascritta, come previsto dalla L. Fall., art. 45), salvi i casi in cui la legge prevede espressamente che gli effetti retroagiscono al momento in cui è sorto il rapporto che viene modificato (per esempio, l’art. 1458 c.c.), previsione inesistente con riguardo alla fattispecie in esame.

4.7.- Dalla natura costitutiva della sentenza che accoglie la domanda revocatoria consegue che, poiché gli effetti tipici della stessa sono quelli della creazione di una situazione giuridica nuova, l’inammissibilità dell’azione de qua appare saldamente fondata sulla regola della cristallizzazione della massa passiva alla data del fallimento sicché deve essere corretta la motivazione contenuta nella sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4, laddove fonda tale sanzione processuale sulla natura di azione esecutiva della revocatoria.

4.8. E’ proprio la regola della cristallizzazione della massa passiva che impedisce di invocare nei confronti del fallimento una pretesa giuridica che si produce soltanto a seguito della sentenza di accoglimento della domanda. L’effetto dell’inefficacia dell’atto revocando, che è propriamente il centro della pronuncia di accoglimento dell’azione revocatoria, si costituisce esclusivamente con la pronuncia giudiziale di revoca, sicché si può parlare di “diritto quesito” alla revoca solo se la causa sia stata promossa prima del fallimento e se la domanda sia stata trascritta anteriormente al fallimento del terzo che subisce l’azione revocatoria ordinaria.

4.9.- La disciplina è, peraltro, del tutto analoga a quella esplicitata dalla legge fallimentare, all’art. 72, comma 5, con riguardo all’azione costituiva di risoluzione per inadempimento, evidenziandosi in tal modo una precisa coerenza di sistema.

4.10. Né tale conclusione è poi in contrasto con la disciplina dettata dalla L. Fall., art. 64, che, in corrispondenza di quei presupposti ivi elencati, prevede una forma di inefficacia degli atti automatica e discendente direttamente dalla dichiarazione di fallimento.

4.11. Inoltre, la pronuncia giudiziale che si renda necessaria per consentire al curatore l’apprensione e la vendita dei beni oggetto dell’atto inefficace ha natura meramente dichiarativa, tant’è che la relativa azione, da qualificare di accertamento negativo, è (diversamente dall’azione revocatoria sia ordinaria sia fallimentare) imprescrittibile (Cass. n. 6929 del 1983, n. 4608 del 1987, n. 1831 del 2001, n. 6918 del 2005, S.U. n. 6538 del 2010). Analogamente è a dirsi quanto alla natura del debito restitutorio che questa stessa Corte ritiene di valuta (da ultimo Cass. n. 12850 del 2018).

  1. Va tuttavia compiuta una ulteriore verifica per stabilire se l’azione revocatoria, quanto alla natura, possa dividersi nei due segmenti dell’azione cd. ordinaria (ove s’ipotizzi dar luogo ad una pronuncia di tipo dichiarativo) rispetto a quella fallimentare (di cui si è detto circa la consolidata affermazione della sua conclusione con pronuncia costitutiva) cosicché, per il caso esaminato in questa sede, si potrebbero superare le argomentazioni richiamate, principalmente riguardanti l’azione revocatoria fallimentare.

5.1. Con riferimento a tale esame, va ricordato che in dottrina le due azioni revocatorie (quella ordinaria e quella fallimentare) vengono ascritte ad una comune natura, conseguente alla circostanza che entrambe sono preordinate alla funzione di assicurare la tutela conservativa del diritto di credito e, quindi, della garanzia patrimoniale, che viene salvaguardata incidendo non sulla validità dell’atto ma sulla sua efficacia nei confronti del (o dei) creditore(i).

5.2. E’ stato notato, però, che le due azioni, benché abbiano taluni caratteri in comune, presentano anche marcate differenze che devono essere mantenute distinte perché: quella fallimentare è caratterizzata da un percorso probatorio agevolato mentre in quella ordinaria è valorizzato lo stato soggettivo del debitore (scientia damni o consilium fraudis) oltre che quello del terzo (la partecipatio fraudis), sicché proprio la peculiarità dell’azione revocatoria ordinaria hanno evidentemente indotto il legislatore a ritenere palesemente insufficienti le utilità dalla stessa derivanti nel caso di sopravvenienza di una procedura concorsuale onde la previsione di un’azione revocatoria di tipo “speciale”.

5.3. Differenti profili, tra l’altro, caratterizzano poi le azioni quanto alla revocabilità dei debiti scaduti, al trattamento del creditore revocato rispetto agli altri, al novero degli atti revocabili; ma, soprattutto, si afferma tra gli studiosi che la revocatoria ordinaria presenta una spiccata caratteristica indennitaria, diversamente dalla revocatoria fallimentare (avente, invece, secondo la ricostruzione prevalente, una natura antindennitaria).

5.4. Osserva la Corte che la diversità delle due azioni, pur se incontroversa e pacifica, anche quando quella ordinaria sia esperita dal curatore fallimentare, perché “giova a tutti i creditori, e non solo a colui che agisce, con effetto sostanzialmente recuperatorio” (Cass. n. 2055 del 1978, S.U. n.10233 del 2017, Cass. n. 13306 del 2018 e Cass. n. 614 del 2016), non valgono tuttavia a modificarne natura e caratteri, qualora sia proposta dal curatore fallimentare, poiché essa comunque tenderà ad una pronuncia costitutiva del credito (Cass. n. 17311 del 2016), con ogni conseguenza già ravvisata a proposito della revocatoria fallimentare.

5.5. Infatti, per quanto gli oneri probatori siano stati attenutati nella revocatoria fallimentare, operando decise agevolazioni in favore del ceto creditorio, comunque non occorre confondere il profilo probatorio (effettivamente differenziato) con la realtà soggettiva comunque riscontrabile anche all’esito dell’accertamento giudiziale nella revocatoria ordinaria (quantomeno nella forma della scientia decoctionis) sicché un tale aspetto comune (per quanto non completamente sovrapponibile tra i due segmenti della revocatoria) induce alla riconferma dell’esistenza di una matrice unitaria che si esprime, particolarmente, nella natura unitariamente costitutiva dell’azione in esame.

5.6. Vanno pertanto enunciati i seguenti principi di diritto:

  1. A) la sentenza che accoglie la domanda revocatoria, sia essa ordinaria o sia fallimentare, in forza di un diritto potestativo comune, al di là delle differenze esistenti tra le medesime, ma in considerazione dell’elemento soggettivo di comune accertamento da parte del giudice, quantomeno nella forma della scientia decoctionis, ha natura costitutiva, in quanto modifica “ex post” una situazione giuridica preesistente, sia privando di effetti, atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando, conseguentemente, la restituzione dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale (art. 2740 c.c.) ed alla soddisfazione dei creditori di una delle parti dell’atto.
  2. B) Non è ammissibile un’azione revocatoria, non solo fallimentare ma neppure ordinaria, nei confronti di un fallimento, stante il principio di cristallizzazione del passivo alla data di apertura del concorso ed il carattere costitutivo delle predette azioni; il patrimonio del fallito è, infatti, insensibile alle pretese di soggetti che vantino titoli formatisi in epoca posteriore alla dichiarazione di fallimento e, dunque, poiché l’effetto giuridico favorevole all’attore in revocatoria si produce solo a seguito della sentenza di accoglimento, tale effetto non può essere invocato contro la massa dei creditori ove l’azione sia stata esperita dopo l’apertura della procedura stessa.
  3. Va, infine, esaminata l’ultima considerazione svolta per sostenere la nuova e diversa considerazione dell’azione revocatoria verso una ulteriore procedura concorsuale, quella che fa richiamo alla previsione del D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 91.

6.1.- Essa non appare pertinente poiché riguardante una procedura “speciale”, ancorata a presupposti specifici (con i connessi problemi di tutela dei gruppi di creditori che, per quanto tra di loro autonomi e distinti, sono comunque tutti favoriti o penalizzati da un’unica strategia di gestione del gruppo e della sua crisi, onde la necessità di una previsione regolatrice particolare) che non consentono di invocare ragioni di coerenza normativa e sistematica in grado di giustificare l’applicazione della regola dalla stessa posta anche alla procedura fallimentare, oltre il caso dalla stessa disciplinato (che è quello del compimento di atti tra imprese facenti parte di uno stesso gruppo).

  1. Il ricorso, che è infondato, va respinto con la correzione motivazionale di cui si è detto sopra (p. 4.7) e la compensazione delle spese in considerazione della complessità delle questioni esaminate.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso e compensa le spese giudiziali tra le parti.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili della Suprema Corte di Cassazione, il 25 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2018

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Nei giudizi aventi ad oggetto l’accertamento di un credito vantato dal professionista le prove dell’avvenuto conferimento dell’incarico e dell’effettivo espletamento dello stesso incombono al professionista

Nei giudizi aventi ad oggetto l’accertamento di un credito vantato dal professionista le prove dell’avvenuto conferimento dell’incarico e dell’effettivo espletamento dello stesso incombono al professionista

Cassazione Civile, Sezione II, Ordinanza n. 29812 del 19/11/2018

Con Ordinanza del 19 Novembre 2018 la Corte di Cassazione, Sezione II Civile, in tema di giudizi aventi ad oggetto l’accertamento di un credito vantato dal professionista, ha stabilito che relativamente al compenso dovutogli per le prestazioni professionali eseguite in favore del cliente, la prova, non solo dell’avvenuto conferimento dell’incarico, ma anche dell’effettivo espletamento dello stesso incombe al professionista. L’anzidetto principio trova applicazione non solo quando il giudizio si svolga a seguito di opposizione a decreto ingiuntivo, ma anche quando tragga origine da un’azione di accertamento negativo, posto che, in tema di riparto dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c., l’onere di provare i fatti costitutivi del diritto grava sempre su colui che si afferma titolare del diritto stesso ed intende farlo valere, ancorché sia con venuto in giudizio di accertamento negativo.


Cassazione Civile, Sezione II, Ordinanza n. 29812 del 19/11/2018

Nei giudizi aventi ad oggetto l’accertamento di un credito vantato dal professionista le prove dell’avvenuto conferimento dell’incarico e dell’effettivo espletamento dello stesso incombono al professionista

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

E., rappresentato e difeso dall’Avv. __;

– ricorrente –

contro

C., rappresentato e difeso dall’Avv. __;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della CORTE di APPELLO di PALERMO, pubblicata in data __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del __ dal Consigliere Dott. __.

Svolgimento del processo

Con decreto del 9.3.2004, il Presidente del Tribunale di Trapani ingiungeva a C., ente di diritto pubblico, il pagamento, in favore di E., della somma di Euro __, oltre accessori, per prestazioni d’opera rese a C. da E., quale commercialista.

Avverso il decreto ingiuntivo proponeva opposizione C., deducendo di non dovere alcunché al professionista. Rilevava che dal __ al __ C. aveva richiesto le prestazioni professionali di E. a mezzo di specifiche delibere di incarico. A decorrere dalla fine del __ e fino al __, i rapporti professionali tra E. e C. erano stati invece regolati da apposite convenzioni, approvate di anno in anno, in ordine alle quali era stato pattuito il compenso forfetario di Lire __ ad anno (regolarmente corrisposto). Nel __  E. non aveva accettato la proposta di rinnovo del contratto e il rapporto tra le parti era cessato.

Iniziando nel __ il nuovo regolamento dei rapporti a mezzo convenzioni, E. aveva inoltrato a C., in data __, parcella riepilogativa dell’attività fino ad allora svolta; in esito a detta parcella, aveva emesso fattura che era stata regolarmente pagata. Rilevava C. che se le prestazioni professionali, delle quali E. reclamava il pagamento (con parcella del __), attenevano ad attività espletate in epoca anteriore al __, erano state retribuite con il pagamento a saldo della parcella riepilogativa delle attività. Se, invece, attenevano ad attività prestate successivamente a tale data, erano state, parimenti, regolarmente retribuite in forza dell’importo annuale forfetariamente convenuto.

Con sentenza depositata in data __, il Tribunale di Trapani osservava che, per l’individuazione delle prestazioni professionali delle quali E. reclamava il pagamento, doveva farsi riferimento alla parcella prodotta in sede di procedimento monitorio. La principale voce di tale parcella era costituita da quella di cui alla lettera A), che recava come descrizione dell’attività: “Rimborso IVA dichiarazione annuale 1996. Valore pratica Euro __. Art. 49, 1 comma” e in ordine alla quale si reclamava il compenso di Euro __. Rilevava il Tribunale che il richiamo alla specifica normativa della Tariffa dei dottori commercialisti (D.P.R. n. 645 del 1994, art. 49, comma 1) induceva a ritenere che E. si fosse riferito all’attività di “consulenza tributaria”, descritta dalla disposizione richiamata e non a quella di assistenza, prevista, invece, dalle convenzioni stipulate tra le parti. Pertanto, pur ritenendo che E. avesse diritto al compenso, il Giudice di primo grado riduceva il richiesto compenso ad Euro __, mentre negava la debenza delle ulteriori somme portate in parcella (lettere B, C e D).

Avverso tale sentenza proponeva appello E., lamentando l’inadeguata misura della liquidazione per l’attività di consulenza (lett. A parcella del __) e chiedendo il riconoscimento delle voci residue (B, C e D della parcella).

Proponeva appello incidentale il C., il quale osservava che il compenso richiesto dovesse ritenersi pagato con il compenso forfetario percepito in forza delle convenzioni stipulate post __; chiedeva la restituzione di quanto pagato dall’ente in esecuzione della sentenza di primo grado.

Con sentenza n. __, depositata il __, la Corte d’Appello di Palermo rigettava la richiesta di compensi di cui alla lett. A) della parcella del __  e, riconosciuti soltanto i compensi descritti alla lett. B), riduceva la somma dovuta a E. ad Euro __, condannando l’appellante al pagamento delle spese di lite del grado, compensate per un terzo.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione E. sulla base di tre motivi; resiste C. con controricorso, depositando altresì memoria illustrativa.

Motivi della decisione

  1. – Con il primo motivo, il ricorrente deduce “Art. 360 c.p.c., n. 3 – Violazione e falsa applicazione di norme di diritto”: a) nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto che l’istanza di rimborso per il credito IVA sugli acquisti, presentata dal professionista in sede di dichiarazione IVA __ relativa all’anno __, rientrasse nella cd. attività di assistenza tributaria e per ciò stesso oggetto delle convenzioni annuali forfetarie; b) nella parte in cui la medesima Corte ritiene che il parere reso il __ debba ritenersi attività professionale esaurita con la redazione del medesimo parere e non possa collegarsi, con riferimento all’onorario, al vantaggio conseguito dal Consorzio 14 anni dopo con l’ottenimento del rimborso; la Corte di merito avrebbe errato nell’applicazione delle norme di cui agli artt. 21, 26, 46 e 49 Tariffa, non riconoscendo che con il pagamento del parere del __ nel __, il Consorzio aveva remunerato solo una delle prestazioni poste in essere dal professionista nell’ambito della complessa attività di consulenza tributaria svolta per far godere al Consorzio i benefici della sanatoria del __, concretizzatasi soltanto nel __ con il pagamento del rimborso da parte dell’Agenzia delle Entrate di Trapani.

1.1. – Il motivo non è ammissibile.

1.2. – Ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, il ricorso deve contenere i motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza impugnata. Se è vero che l’indicazione dei motivi non necessita dell’impiego di formule particolari, essa tuttavia deve essere proposta in modo specifico, vista la sua funzione di determinare e limitare l’oggetto del giudizio della Corte (Cass. n. 10914 del 2015; Cass. n. 3887 del 2014). Ciò richiede che i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbano avere i caratteri della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione stessa (Cass. n. 14784 del 2015; Cass. n. 13377 del 2015; Cass. n. 22607 del 2014). E comporta, tra l’altro, l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto (Cass. n. 23804 del 2016; Cass. n. 22254 del 2015).

Così, dunque, i motivi di impugnazione che (come nella specie) prospettino una pluralità di questioni senza neppure indicare nella formulazione le norme di diritto di cui si lamenta la violazione e/o la falsa applicazione, sono altrettanto inammissibili in quanto, da un lato, costituiscono una negazione della regola della chiarezza e, dall’altro, richiedono un intervento della Corte volto ad enucleare dalla mescolanza dei motivi le parti concernenti le separate censure (Cass. n. 18021 del 2016).

1.3. – Il motivo di ricorso, così come formulato, si connota viceversa per una confusa articolazione di due censure eterogenee – riferite congiuntamente ed indistintamente ad asseriti vizi di violazione e/o falsa applicazione di numerose norme di diritto – prive di un preciso riferimento alla singola questione dedotta, necessario, appunto, per evidenziarne e compiutamente individuarne il contenuto ed analizzarne la rispettiva fondatezza o meno. Esse, viceversa, appaiono contraddistinte dall’evidente scopo di contestare globalmente le motivazioni poste a sostegno della decisione, risolvendosi, in buona sostanza, nella richiesta di una inammissibile generale (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, in senso antagonista rispetto a quella compiuta dal giudice di appello (Cass. n. 1885 del 2018).

1.4. – Inoltre, questa Corte ha ripetutamente affermato il principio secondo cui, qualora il ricorrente per cassazione si dolga dell’omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice del merito, ha l’onere di indicare nel ricorso il contenuto rilevante dello stesso, fornendo alla Corte elementi sicuri per consentirne il reperimento negli atti processuali (cfr. altresì Cass. n. 22576 del 2015; n. 16254 del 2012); potendo solo così reputarsi assolto il duplice onere, rispettivamente previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, (a pena di inammissibilità) e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (a pena di improcedibilità del ricorso), pur senza che occorra la pedissequa riproduzione letterale dell’intero contenuto degli atti processuali, riproduzione, anzi, inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto diretta ad affidare alla Corte il compito supplementare di scegliere quanto effettivamente rileva ai fini delle argomentazioni dei motivi di ricorso, nell’ambito del copioso materiale prodotto, contenente anche elementi estranei al thema decidendum (Cass. n. 17168 del 2012). Pertanto, il ricorrente ha l’onere di indicare mediante anche l’integrale trascrizione, ove occorra, di detti atti nel ricorso – la risultanza che egli asserisce essere decisiva e non valutata o insufficientemente considerata, atteso che, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il controllo deve essere consentito alla Corte sulla base delle sole deduzioni contenute nell’atto, senza necessità di indagini integrative (Cass. n. 2093 del 2016; cfr., tra le molte, Cass. n. 14784 del 2015; n. 12029 del 2014; n. 8569 del 2013; n. 4220 del 2012).

Ma, anche sotto questo profilo, il ricorrente non ha specificamente assolto a questo onere; non avendo riprodotto, neppure nelle parti asseritamente essenziali ai fini dell’impugnazione, né la parcella “a saldo” del 16.11.1996 (ed il relativo “parere” del 24.10.1988), né la parcella del 2003, pur essendo, questi, documenti posti a fondamento della domanda di cassazione della sentenza.

  1. – Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia “Art. 360 c.p.c., n. 4 – Nullità della sentenza per difetto di motivazione”, risultando questa insufficiente se non addirittura omessa, edevidenziandosi un error in procedendo per violazione dell’art. 132 c.p.c. In particolare il Giudice di secondo grado non avrebbe illustrato la ragione per cui il rimborso IVA ottenuto dal Consorzio nel 2002 non potesse ritenersi epilogo della consulenza prestata sin dal 1988, sì da ritenere che i compensi professionali non potessero essere parametrati con riferimento a un arco temporale di 14 anni. Un simile decisum impedirebbe di fatto di verificare l’iter logico in base al quale il Giudice d’appello abbia ritenuto di disattendere la tesi del ricorrente.

2.1. – Il motivo non è fondato.

2.2. – Il ricorrente si lamenta del fatto che la Corte di merito abbia disatteso la sua richiesta relativa ai compensi della consulenza tributaria prestata in favore di C. dal __ al __. E che la Corte abbia affermato che tale valutazione globale dell’opera professionale non potesse effettuarsi (v. ricorso, pag. 15); aggiungendo “che il parere reso il __ debba ritenersi attività professionale esaurita con la redazione del parere medesimo, senza possibilità, per ciò che attiene la individuazione del compenso, che questo possa essere determinato con quanto avvenuto quattordici anni dopo” (sentenza impugnata, pag. 8).

E’ evidente, viceversa, che la Corte d’appello non abbia affatto omesso di motivare la propria decisione, accedendo motivatamente ed esplicitamente alla ricostruzione operata da C. nell’appello incidentale, rigettando quella di E. Invero, l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. n. 16056 del 2016).

  1. – Con il terzo motivo, il ricorrente deduce “Art. 360 c.p.c., n. 3 – Violazione e falsa applicazione di norme di diritto”, in quanto la Corte di merito, non solo non ha ammesso la prova testimoniale diretta a provare la difficoltà dell’opera professionale prestata, ma è incorsa nella falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., là dove ha ritenuto che il ricorrente avrebbe dovuto fornire la prova dell’attività di cui alle lett. C) e D) della parcella del __, nonostante il Consorzio avesse ammesso implicitamente l’esecuzione delle prestazioni, avendone eccepito l’integrale pagamento.

3.1. – Il motivo non è fondato.

3.2. – La Corte di merito (sentenza, pag. 10-11) ha confermato il rigetto della domanda di riconoscimento del compenso per la voce C) della parcella, pronunciato dal primo giudice per difetto di prova, osservando che “la documentazione relativa alla attività dedotta (della quale l’odierno appellante principale ovviamente disponeva) è stata presentata (soltanto) in questo grado in violazione del divieto di nuove prove in appello”, non ritenendo che “il Consorzio abbia esplicitamente riconosciuto che l’attività dedotta era stata espletata”. Per la Corte, “analogo rigetto – per la inammissibilità della documentazione soltanto in questa sede prodotta – deve confermarsi per la domanda di compenso relativa alla voce D) della parcella, in ordine alla quale il primo giudice ha giustamente osservato che “le relative pretese risultino del tutto sfornite di prova”. Con riguardo a siffatta motivazione non è deducibile alcuna violazione o falsa applicazione dei principi dettati dall’art. 2697 c.c. in tema di onere probatorio, poiché le argomentazioni svolte dal giudice del gravame riguardano il tutto diverso versante dell’ammissibilità e della valutazione delle prove.

Pertanto, la Corte d’Appello ha correttamente ritenuto di non poter riconoscere le suddette voci di parcella non avendo il ricorrente raggiunto la prova sul punto; con ciò uniformandosi al principio (Cass. n. 24568 del 2013) secondo cui nei giudizi aventi per oggetto l’accertamento di un credito vantato dal professionista, relativamente al compenso dovutogli per le prestazioni professionali eseguite in favore del cliente, la prova, non solo dell’avvenuto conferimento dell’incarico, ma anche dell’effettivo espletamento dello stesso incombe al professionista: principio che vale non solo quando il giudizio si svolga a seguito di opposizione a decreto ingiuntivo (Cass. n. 5987 del 1994), ma anche quando questo tratta origine da un’azione di accertamento negativo, posto che, in tema di riparto dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c., l’onere di provare i fatti costitutivi del diritto grava sempre su colui che si afferma titolare del diritto stesso ed intende farlo valere, ancorchè sia con venuto in giudizio di accertamento negativo (Cass. n. 16917 del 2012).

  1. – Il ricorso va, dunque, rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla refusione delle spese di lite al controricorrente, che liquida in complessivi Euro __ di cui Euro __ per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater va ordinato il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2018

 

Cass_civ_Sez_II_Ord_19_11_2018_n_29812




Il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà, non è passato in cosa giudicata formale e sostanziale e non è opponibile al fallimento

Il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà, non è passato in cosa giudicata formale e sostanziale e non è opponibile al fallimento

Cassazione Civile, Sezione VI, Sottosezione 1, Ordinanza n. 29243 del 14/11/2018

Con ordinanza del 14 novembre 2018, la Corte di Cassazione Civile, Sezione VI Civile, Sottosezione 1, in tema di recupero crediti, ha stabilito che il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà, non è passato in cosa giudicata formale e sostanziale e non è opponibile al fallimento, neppure nell’ipotesi in cui il decreto ex art. 647 cod. proc. civ. venga emesso successivamente, tenuto conto del fatto che, intervenuto il fallimento, ogni credito deve essere accertato nel concorso dei creditori ai sensi dell’art. 52 della legge fall.


Cassazione Civile, Sezione VI, Sottosezione 1, Ordinanza n. 29243 del 14/11/2018

Il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà, non è passato in cosa giudicata formale e sostanziale e non è opponibile al fallimento

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Presidente –

Dott. __ – rel. Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso __ proposto da:

B. SOCIETA’ COOPERATIVA PER AZIONI, in persona del Dirigente Responsabile, elettivamente domiciliata in __, rappresentata e difesa dall’avv. __;

– ricorrente –

contro

CURATELA FALLIMENTO __ E DEL SOCIO ILLIMITATAMENTE RESPONSABILE V., in persona del Curatore, elettivamente domiciliata in __, rappresentata e difesa dall’avv. __;

– controricorrente –

avverso il decreto n. __ del TRIBUNALE di __, depositato in data __;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del __ dal Consigliere Relatore Dott. __.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La Corte rilevato

– che il Tribunale di __ ha rigettato l’opposizione proposta da B. soc. coop. p.a. avverso lo stato passivo dei Fallimenti __ e del socio illimitatamente responsabile V., in cui il credito da essa insinuato in via privilegiata ipotecaria per la somma di Euro __ giusto decreto ingiuntivo n. __ risultava ammesso con esclusione della somma di Euro __ e in via chirografaria, non essendo il decreto ingiuntivo munito di attestazione ex art. 647 c.p.c.; che il Tribunale ha ritenuto di dover condividere l’orientamento, consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità, in base al quale deve tracciarsi una linea di demarcazione tra l’impossibilità per il debitore ingiunto di far valere le sue ragioni di opposizione al decreto ingiuntivo non opposto nei termini di legge e l’attribuzione allo stesso decreto dell’efficacia di titolo esecutivo, di cui all’art. 647 c.p.c., che può derivare esclusivamente dal procedimento giurisdizionale di verifica della corretta notifica del decreto all’ingiunto da svolgersi in un periodo antecedente al fallimento;

– che avverso questa pronuncia ha proposto ricorso per cassazione la B. soc. coop. p.a., che ha inoltre depositato memoria illustrativa;

– che le intimate procedure fallimentari non hanno svolto difese; considerato che il motivo di ricorso si articola in una pluralità di censure che hanno ad oggetto una lettura dell’art. 647 c.p.c. diversa rispetto a quella sostenuta nel decreto impugnato, rilevandosi in particolare che la funzione del giudice in tale sede è meramente dichiarativa, che la esistenza del giudicato anteriore alla sentenza di fallimento ben può essere apprezzata dal giudice, che in ogni caso ben può attribuirsi efficacia retroattiva al visto di esecutorietà ex art. 647 c.p.c. apposto dopo la sentenza di fallimento, ovvero in ulteriore subordine equipararsi un decreto ingiuntivo non opposto ma non vistato ad una sentenza non impugnata sì da estendere a tale provvedimento monitorio la ammissione con riserva prevista dall’art. 96, comma 3, n.3 ritenuto che il primo motivo è manifestamente infondato alla luce dell’orientamento richiamato dal giudice del merito e confermato da questa Corte (Cass. 25191/2017) in virtù del quale ” il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà non è passato in cosa giudicata formale e sostanziale e non è opponibile al fallimento, neppure nell’ipotesi in cui il decreto ex art. 647 c.p.c. venga emesso successivamente, tenuto conto del fatto che, intervenuto il fallimento, ogni credito deve essere accertato nel concorso dei creditori ai sensi della L. fall. art. 52″;

– che, con riguardo alla doglianza subordinata relativa alla violazione della L. fall., art. 96, altrettanto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte è il principio (affermato già con riferimento alla analoga norma della L. fall. ante riforma, art. 95: cfr. ex multis: Cass. n. 3401/2013; n.9346/1997; n.7221/1998), della evidente diversità tra decreto ingiuntivo e sentenza impugnabile nella quale soltanto l’accertamento è avvenuto nel contraddittorio delle parti;

– che pertanto si impone la declaratoria di inammissibilità del ricorso;

– che non vi è luogo per provvedere sulle spese del giudizio, non avendo le intimate procedure svolto difese.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso, dando atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 25 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 14 novembre 2018

Cass_civ_Sez_VI_1_Ord_14_11_2018_n_29243




Avvocati: contrario al codice deontologico pubblicare sul sito web dello studio il nome dei propri clienti

Avvocati: contrario al codice deontologico pubblicare sul sito web dello studio il nome dei propri clienti

Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza n. 9861 del 19-04-2017

Con  Sentenza del 19 aprile 2017 2017 la Corte di Cassazione Civile, Sezioni Unite, in tema di responsabilità disciplinare degli avvocati, ha stabilito che continua ad essere proibita, in base al codice deontologico forense, la divulgazione dei nominativi dei clienti, nonostante il loro consenso, non potendo includersi tale dato, da cui potrebbero derivare indirette interferenze sullo svolgimento dei processi ancora in corso, nella pubblicità informativa circa le caratteristiche del servizio offerto, i cui divieti legislativi e regolamentari sono stati abrogati dall’art. 2, comma 1, lett. b), del d.l. n. 223 del 2006, conv., con modif., dalla l. n. 248 del 2006.

La forte valenza pubblicistica dell’attività forense spiega perché il rapporto tra il professionista ed il cliente (attuale o potenziale) rimanga in buona parte scarsamente influenzabile dalla volontà e dalle considerazioni personali (o dalle valutazioni economiche) degli stessi protagonisti e come possa pertanto non risultare dirimente – nel senso di escludere il relativo divieto – il consenso prestato dai clienti del medesimo avvocato alla diffusione dei propri nominativi a fini pubblicitari, tra l’altro evidenziando che le norme deontologiche relative alla pubblicità devono leggersi considerando la peculiarità della professione forense in virtù della sua funzione sociale la quale impone, conformemente alla normativa comunitaria, le limitazioni connesse alla dignità e al decoro della professione.


Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza n. 9861 del 19-04-2017

Avvocati: contrario al codice deontologico pubblicare sul sito web dello studio il nome dei propri clienti

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Primo Presidente f.f. –

Dott. __ – Presidente di Sez. –

Dott. __ – Presidente di Sez. –

Dott. DI IASI Camilla – rel. Presidente di Sez. –

Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –

Dott. BIELLI Stefano – Consigliere –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15850/2016 proposto da:

B., P., L., rappresentati e difesi da __ ed elettivamente domiciliati in __ presso lo studio dell’avv. __;

– ricorrenti –

contro

CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI __, PUBBLICO MINISTERO PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE;

– intimati –

avverso la sentenza n. __ del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata in data __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/11/2016 dal Presidente Dott. __;

udito l’Avvocato __.;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. __, che ha concluso per la cassazione senza rinvio.

Svolgimento del processo

Gli avvocati B., P. e L. hanno impugnato dinanzi al Consiglio Nazionale Forense la decisione del COA di (OMISSIS) che aveva irrogato loro la sanzione dell’avvertimento per avere riportato nel sito internet del proprio studio – col loro consenso – l’elenco dei principali clienti assistiti in via continuativa e dei principali clienti assistiti per progetti specifici in violazione degli artt. 6 e 17 del codice. Il C.N.F. ha respinto il ricorso, tra l’altro evidenziando che le norme deontologiche relative alla pubblicità devono leggersi considerando la peculiarità della professione forense in virtù della sua funzione sociale la quale impone, conformemente alla normativa comunitaria, le limitazioni connesse alla dignità e al decoro della professione.

Per la cassazione di questa sentenza gli avvocati B., P. e L. ricorrono con quattro motivi. Il Coa di __ non si è costituito.

Motivi della decisione

Col primo motivo si denuncia violazione del combinato disposto dell’art. 17 codice deontologico forense e D.L. n. 223 del 2006,art. 2, norma, quest’ultima, che ha abrogato tutte le disposizioni prevedenti divieti di pubblicità informativa, tra i quali è da ritenersi compreso quello di rendere noti i nomi dei clienti; col secondo motivo si denuncia violazione del combinato disposto del R.D. n. 1578 del 1933, art. 38 e art. 17 codice deontologico forense anteriore alla novella del 2014, non costituendo la pubblicazione dei nomi dei clienti attività contraria al decoro della professione; con il terzo motivo si denuncia violazione del combinato disposto dell’art. 6 codice deontologico e D.L. n. 233 del 2006, art. 2, non costituendo la pubblicazione dei nomi dei clienti attività contraria ai principi di legalità e correttezza; con il quarto motivo si censura la decisione del C.N.F. per eccesso di potere, attesa la carenza di potestà disciplinare in relazione alle modalità della pubblicità informativa degli avvocati salvo che essa non integri gli estremi della condotta lesiva del decoro professionale.

Le censure esposte, da esaminare congiuntamente perché logicamente connesse, non sono fondate.

Il D.L. n. 223 del 2006 (cd. Decreto Bersani) ha previsto, dalla data della propria entrata in vigore, l’abrogazione delle disposizioni legislative e regolamentari che prevedono il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni. Il C.N.F. ha ritenuto che il decreto Bersani non abbia abrogato la previsione del codice deontologico (allora vigente) secondo la quale l’avvocato non può rivelare al pubblico il nome dei propri clienti, ancorché questi vi consentano, previsione peraltro rimasta immutata anche nel codice deontologico successivo al citato decreto Bersani.

Tanto premesso occorre innanzitutto considerare che l’esclusione del divieto di rendere pubblici i nominativi dei propri clienti non è espressamente prevista dal decreto citato e pertanto essa può ritenersi rientrare nella richiamata previsione normativa solo in base ad un’ampia interpretazione del concetto di pubblicità informativa circa “le caratteristiche del servizio offerto”.

Di tale interpretazione deve tuttavia essere verificata la compatibilità con le peculiari caratteristiche dell’attività libero-professionale considerata, essendo in proposito da evidenziare che l’attività forense risulta disciplinata da una complessa normativa, anche processuale, ed è indubbiamente nell’ambito più generale di tale normativa complessivamente considerata che vanno inserite ed interpretate le disposizioni in materia di pubblicità informativa con riguardo alla professione forense.

Certo l’attività dell’avvocato, in quanto attività libero-professionale, non è sottratta al principio della ammissibilità della pubblicità informativa “circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni”, tuttavia l’ambito in concreto di tale principio va considerato e declinato alla luce delle peculiarità della suddetta attività, non essendo l’avvocato solo un libero professionista ma anche il necessario “partecipe” dell’esercizio diffuso della funzione giurisdizionale, se è vero che nessun processo (salvo i processi civili di limitatissimo valore economico) può essere celebrato senza l’intervento di un avvocato.

La forte valenza pubblicistica dell’attività forense spiega perché il rapporto tra il professionista ed il cliente (attuale o potenziale) rimanga in buona parte scarsamente influenzabile dalla volontà e dalle considerazioni personali (o dalle valutazioni economiche) degli stessi protagonisti e come possa pertanto non risultare dirimente -nel senso di escludere il relativo divieto- il consenso prestato dai clienti del medesimo avvocato alla diffusione dei propri nominativi a fini pubblicitari.

Il rapporto tra cliente e avvocato non è infatti soltanto un rapporto privato di carattere libero-professionale e non può perciò essere ricondotto puramente e semplicemente ad una logica di mercato, basti pensare che il legislatore processuale non ritiene “determinanti” le manifestazioni di volontà espresse dalle stesse parti neppure per quanto riguarda l’inizio o la cessazione del rapporto medesimo: nel processo penale è “imposto” all’imputato che non ne sia provvisto un avvocato d’ufficio, il quale, dal canto suo, salvo che non abbia valide ragioni per rifiutare, ha l’obbligo di accettare l’incarico; nel processo civile né la revoca né la rinuncia privano di per sé il difensore della capacità di compiere o ricevere atti, atteso che i poteri attribuiti al procuratore “alle liti” non sono quelli che liberamente determina chi conferisce la procura, ma sono attribuiti dalla legge al professionista che la parte si limita a designare, a differenza di quanto accade in relazione alla procura al compimento di atti di diritto sostanziale, per la quale è previsto che chi ha conferito i relativi poteri può revocarli e chi li ha ricevuti, dismetterli- con efficacia immediata (v. tra le altre Cass. nn. 17649 del 2010 e 11504 del 2016).

È proprio la stretta connessione tra l’attività libero-professionale dell’avvocato e l’esercizio della giurisdizione che impone dunque maggiore cautela in materia, non potendo tra l’altro ignorarsi che la pubblicità circa i nominativi dei clienti degli avvocati (in uno con la pubblicità informativa circa le specializzazioni professionali e le caratteristiche del servizio offerto dal legale) potrebbe finire di fatto per riguardare non solo i nominativi dei clienti del medesimo ma anche l’attività processuale svolta in loro difesa, quindi, indirettamente, uno o più processi, che potrebbero essere ancora in corso e, tra l’altro, in alcuni casi persino subire indirette interferenze da tale forma di pubblicità (si pensi, per esempio, a processi per partecipazione ad associazioni di tipo mafioso, in cui il cliente potrebbe autorizzare la diffusione del proprio nominativo non tanto per fare pubblicità al proprio legale quanto per lanciare messaggi ad eventuali complici circa la linea difensiva da seguire o il difensore da scegliere).

Né le considerazioni che precedono contrastano con la prevista “pubblicità” del processo e della sentenza, posto che quando si parla di “pubblicità” del dibattimento o della sentenza si intende che né il processo né la sentenza sono segreti ed è prevista quindi la possibilità di venirne a conoscenza (sia pure, talora, con particolari modalità e/o entro precisi limiti), mentre tutt’affatto diverso è ovviamente il significato del termine “pubblicità” quando viene usato per identificare la propaganda diretta ad ottenere dalla collettività la preferenza nei confronti di un prodotto o di un servizio.

Il ricorso deve essere pertanto rigettato. Nessuna statuizione va adottata in punto di spese del giudizio di legittimità non essendovi attività difensiva da parte del COA. Sussistono i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 15 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte a sezioni unite rigetta il ricorso.

Sussistono i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 15 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, il 22 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 19 aprile 2017

Cass_civ_Sez_Unite_n_9861_del_19_04_2017




La domanda di condanna del cliente al pagamento delle spettanze giudiziali dell’avvocato

La domanda di condanna del cliente al pagamento delle spettanze giudiziali dell’avvocato

Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza n. 4485 del 23/02/2018

Con  Sentenza del 23 febbraio 2017 la Corte di Cassazione Civile, Sezioni Unite, ha stabilito che, la controversia di cui all’art. 28 della legge n. 794 del 1942, tanto se introdotta con ricorso ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c, quanto se introdotta con ricorso per decreto ingiuntivo, ha ad oggetto la domanda di condanna del cliente al pagamento delle spettanze giudiziali dell’avvocato tanto se prima della lite vi sia una contestazione sull’an debeatur quanto se non vi sia e, una volta introdotta, resta soggetta (nel secondo caso a seguito dell’opposizione) al rito indicato dall’art. 14 del D.Lgs. n. 150 del 2011 anche quando il cliente dell’avvocato non si limiti a sollevare contestazioni sulla quantificazione del credito alla stregua della tariffa, ma sollevi contestazioni in ordine all’esistenza del rapporto, alle prestazioni eseguite ed in genere riguardo all’an. Soltanto qualora il convenuto svolga una difesa che si articoli con la proposizione di una domanda (riconvenzionale, di compensazione, di accertamento con efficacia di giudicato di un rapporto pregiudicante), l’introduzione di una domanda ulteriore rispetto a quella originaria e la sua esorbitanza dal rito di cui all’art. 14 comporta – sempre che non si ponga anche un problema di spostamento della competenza per ragioni di connessione (da risolversi ai sensi delle disposizioni degli artt. 34, 35 e 36 c.p.c.) e, se è stata adita la corte di appello, il problema della soggezione della domanda del cliente alla competenza di un giudice di primo grado, che ne impone la rimessione ad esso – che, ai sensi dell’art. 702-ter, comma 4, c.p.c., si debba dar corso alla trattazione di detta domanda con il rito sommario congiuntamente a quella ex art. 14, qualora anche la domanda introdotta dal cliente si presti ad un’istruzione sommaria, mentre, in caso contrario, si impone di separarne la trattazione e di procedervi con il rito per essa di regola previsto (non potendo trovare applicazione, per l’esistenza della norma speciale, la possibilità di unitaria trattazione con il rito ordinario sull’intero cumulo di cause ai sensi dell’art. 40, comma 3, c.p.c.).


Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza n. 4485 del 23/02/2018

La domanda di condanna del cliente al pagamento delle spettanze giudiziali dell’avvocato

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Primo Presidente –

Dott. __- Presidente di Sez. –

Dott. __ – Presidente di Sez. –

Dott. __- Consigliere –

Dott. __- Consigliere –

Dott. __- Consigliere –

Dott. __- Consigliere –

Dott. __- Consigliere –

Dott. __- rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3644/2016 proposto da:

D.;

– ricorrente –

contro

L.;

– intimata –

avverso l’ordinanza del TRIBUNALE di CIVITAVECCHIA, emessa il __ (r.g. n. 4__665/2014).

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __dal Consigliere Dott. __;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott. __, che ha concluso per la competenza del giudice collegiale di Roma;

udito l’Avvocato D.

Svolgimento del processo

  1. Nel dicembre del __ l’Avvocato D. adiva il Tribunale di Civitavecchia con ricorso ex art. 702-bis c.p.c. e assumeva di avere svolto attività professionale giudiziale su incarico e per conto di L.: a) sia nel primo che nel secondo grado del giudizio di separazione personale fra la stessa ed il coniuge A., rispettivamente davanti al Tribunale di Roma ed alla Corte d’Appello di Roma; b) sia richiedendo ed ottenendo vari decreti ingiuntivi dal Giudice di Pace di Roma per somme dovute dal coniuge a titolo di assegno mensile di mantenimento per i figli ed a titolo di contribuzione in spese straordinarie. Adducendo di avere inutilmente chiesto alla L. di provvedere al saldo delle relative competenze professionali, ne chiedeva la condanna a corrispondergli la somma di Euro __oltre accessori, nonché quella di Euro __a titolo di rimborso spese.
  2. Con decreto del __il Giudice designato alla trattazione fissava per la comparizione “l’udienza collegiale” (così è detto espressamente nel provvedimento) del __ (in tal modo mostrando implicitamente di considerare il procedimento introdotto ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14), ma, su istanza del ricorrente in data __- nella quale egli rappresentava di avere introdotto, come si evinceva dalle conclusioni del ricorso, un “ordinario” procedimento sommario ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c. e segg. (da trattarsi e decidersi, pertanto, dal Tribunale in composizione monocratica) – lo stesso Giudice, con decreto in pari data, revocava il precedente decreto e fissava l’udienza di comparizione per il __ai fini della trattazione in composizione monocratica.
  3. L., a seguito della notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza, si costituiva e chiedeva in principalità il rigetto della domanda e in subordine la rideterminazione in minor misura della somma dovuta, assumendo in primo luogo di avere “provveduto all’integrale pagamento delle competenze dell’avv. D. per l’attività dallo stesso svolta” ed eccependo inoltre che il compenso per l’attività professionale svolta negli anni 2010-2011 si doveva intendere prescritto ai sensi dell’art. 2956 c.c..
  4. All’udienza di comparizione il Tribunale si riservava e, quindi, con ordinanza del __, dichiarava l’inammissibilità del ricorso e compensava le spese, enunciando la seguente motivazione: “(….) a norma del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14, competente a decidere le controversie di cui alla L. n. 794 del 1942, art. 28, è “l’ufficio giudiziario di merito adito per il processo nel quale l’avvocato ha prestato la propria opera”; (….) che nel caso di specie l’avv. D. ha prestato la sua attività professionale nei confronti della L. dinanzi al Tribunale di Roma, alla Corte d’Appello di Roma e al Giudice di Pace di Roma; che inoltre la resistente ha eccepito la sussistenza di cause estintive dell’obbligazione; ritenuto che lo speciale procedimento di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14, non trovi applicazione laddove, anche a seguito delle eccezioni sollevate dal cliente convenuto in giudizio, si verifichi un ampliamento del thema decidendum oltre la semplice determinazione degli onorari forensi, come si desume sia dai lavori preparatori del citato testo di legge sia dalla giurisprudenza formatasi nel vigore della L. n. 794 del 1942, artt. 28 e 29, costantemente ritenuta applicabile anche al “nuovo” procedimento di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14 (cfr. in tal senso Cass. 17053/2011; Cass. 13640/10; Cass. 23344/2008; Cass. 17622/2007); rilevato, infine, che la convenuta risiede in Roma; ritenuto che ricorrono gravi ed eccezionali motivi per disporre l’integrale compensazione delle spese di lite tra le parti considerate le ragioni della decisione e il rilievo officioso dell’inammissibilità del ricorso e dell’incompetenza funzionale del giudice adito”.
  5. Avverso l’ordinanza il D. ha proposto ricorso per regolamento di competenza, chiedendo dichiararsi la competenza del Tribunale di Civitavecchia in composizione monocratica ed a sostegno adducendo: di avere introdotto il giudizio con un ricorso ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c., secondo il rito sommario ordinario e che ad esso era applicabile la regola di competenza di cui all’art. 18 c.p.c., la quale, essendo la L. residente in (OMISSIS) (come da certificato di residenza allegato al ricorso ex art. 702-bis), radicava il giudizio in Civitavecchia; che, pertanto, il Tribunale di Civitavecchia aveva errato, perché il D.Lgs. n. 150 del 2011, aveva lasciato inalterati gli strumenti ordinari di tutela utilizzabili dal difensore in alternativa al procedimento speciale già regolato dalla L. n. 794 del 1942 e, dunque, sia il procedimento di cognizione ordinario sia il procedimento sommario ordinario ex art. 702-bis c.p.c.
  6. Al ricorso per regolamento non vi è stata resistenza della L.
  7. La Sesta Sezione – 2 richiedeva al Pubblico Ministero presso la Corte di formulare, ai sensi dell’art. 380-ter c.p.c., le sue conclusioni scritte ed all’esito del loro deposito veniva fissata la trattazione in adunanza camerale, in vista della quale il ricorrente depositava memoria.

A seguito dell’adunanza la Sesta Sezione – 2, con ordinanza n. 13272 del 25 maggio 2017, ravvisata l’esistenza nella giurisprudenza delle sezioni semplici di un contrasto sulla ricostruzione dei limiti e dell’oggetto del giudizio di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14, nonché di discordi opinioni della dottrina e della giurisprudenza di merito, rimetteva il procedimento al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite.

  1. Il Primo Presidente ha fissata la trattazione davanti alle Sezioni Unite in udienza pubblica ed il ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

  1. Le questioni che le Sezioni Unite sono chiamate ad esaminare concernono: a) innanzitutto l’accertare se, per effetto dell’entrata in vigore della normativa di cui al D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 14 e del trasferimento in essa del procedimento già disciplinato della L. 13 giugno 1942, n. 794, artt. 28-30, che poteva, in ipotesi, giustificarne la trattazione con quel procedimento (com’è noto allora riconducibile alla figura generale del procedimento in camera di consiglio, di cui agli artt. 737 c.p.c. e segg.), la situazione quo ante riguardo ai procedimenti utilizzabili dall’avvocato per la tutela del credito le prestazioni indicate nella normativa del 1942, quale si presentava anteriormente, sia rimasta oppure no incisa e, in caso positivo, in che modo; b) in secondo luogo l’accertare se quel trasferimento sia stato realizzato dal legislatore lasciando inalterato la situazione giuridica che poteva essere azionata con il procedimento di cui alla legge del 1942, oppure, per il modo in cui si è realizzato, ne abbia comportato eventualmente un ampliamento ed eventualmente l’assunzione di forma di tutela esclusiva.
  2. Preliminarmente occorre verificare se l’istanza di regolamento di competenza è ammissibile.

2.1. Il giudice di merito, infatti, ha pronunciato un’ordinanza con cui, nel dispositivo, ha chiuso il processo con una declaratoria formale di inammissibilità e non di incompetenza.

La decisione è stata resa su un procedimento che risulta trattato formalmente come procedimento ai sensi degli artt. 702-bis c.p.c. e segg.: ciò è necessaria implicazione della circostanza che il Tribunale – di fronte alla prospettazione da parte dell’attore, a seguito della fissazione dell’udienza di comparizione in sede collegiale, che il giudizio era stato introdotto non già ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14 (che, nell’ipotesi di investitura del tribunale, impone secondo inciso del comma 2 – la decisione, ma non la trattazione, collegiale, peraltro in modo non diverso da quanto avviene sempre per le controversie di competenza collegiale di quel giudice), bensì ai sensi degli artt. 702-bis c.p.c. e segg. – ha revocato con proprio decreto il decreto precedente con cui aveva fissato l’udienza per la trattazione collegiale e disposto la trattazione in altra udienza in composizione monocratica, nella quale si è riservato ed all’esito ha pronunciato l’ordinanza impugnata.

L’essere stato trattato il procedimento come procedimento ai sensi degli artt. 702-bis c.p.c. e segg., comporta la conseguenza che la decisione quì impugnata si debba intendere resa secondo la disciplina di quel procedimento, nell’ambito della quale l’art. 702-ter c.p.c., comma 2, prevede che “se (il giudice) rileva che la domanda non rientra tra quelle indicate nell’art. 702-bis (….), con ordinanza non impugnabile, la dichiara inammissibile.”, mentre il primo comma prevede che il giudice, se ritiene di essere incompetente, lo dichiara con ordinanza.

Qualora l’ordinanza impugnata, come suggerirebbe il suo dispositivo, fosse da intendere pronunciata ai sensi dell’art. 702-ter, comma 2, cioè come decisione con cui il Tribunale di Civitavecchia ha ritenuto soltanto che la domanda proposta dall’Avvocato D. non rientrasse fra quelle indicate dall’art. 702-bis c.p.c., il rimedio del regolamento per competenza sarebbe stato proposto inammissibilmente, perché la pronuncia impugnata non sarebbe una pronuncia sulla competenza. Si tratterebbe solo di una pronuncia con cui il detto tribunale ha inteso affermare che il D. aveva proposto la domanda ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c., cioè secondo il procedimento sommario disciplinato dal codice di procedura civile, al di fuori delle ipotesi consentite. Il provvedimento sarebbe stato allora inimpugnabile ai sensi dell’art. 702-ter, citato comma 3.

2.2. Questa interpretazione del provvedimento supporrebbe, tuttavia, che il Tribunale abbia soltanto ritenuto che la domanda proposta dall’attore si sarebbe dovuta proporre necessariamente secondo un rito diverso.

Tuttavia, l’esame della motivazione – doveroso quanto in una pronuncia giurisdizionale dispositivo e motivazione siano coeve – non rivela affatto un convincimento espresso nel senso dell’adozione di un’ordinanza ai sensi dell’art. 702-ter c.p.c., comma 2, perchè: 1a) dopo una preliminare affermazione di inammissibilità del ricorso, il Tribunale formula un rilievo che attiene alla competenza stabilita dall’art. 14 citato escludendola e così mostrando di dare rilievo – pur avendo proceduto alla trattazione di un procedimento ai sensi del rito sommario codicistico – alla disciplina di cui a quella norma, quasi che al contrario (rispetto alla scelta espressa con la revoca del decreto che aveva disposto la trattazione collegiale) fosse stato investito o si fosse dovuto considerare investito di un procedimento ex art. 14; 1b) di seguito, sul rilievo che la resistente aveva eccepito cause estintive del credito, si colloca nuovamente su un piano che implica il dover decidere secondo il procedimento ai sensi dell’art. 14, perchè assume che esso, non diversamente da quanto accadeva per il rito di cui della L. n. 794 del 1942, artt. 28 e segg., non sarebbe stato applicabile in presenza di quelle eccezioni; 1c) in fine, rilevando che la convenuta risiedeva in Roma, sembrerebbe collocarsi al contrario sul piano della decisione relativa alla competenza su un procedimento ex art. 702-bis c.p.c. e segg., atteso che alla competenza secondo il procedimento di cui all’art. 14 ha alluso prima.

Poiché il tessuto motivazionale si sviluppa con due affermazioni, l’una iniziale e l’altra a chiusura, che esprimono o comunque implicano la negazione della competenza del tribunale adito e sono fra loro intervallate da una valutazione di “inammissibilità” del procedimento ricollegata all’atteggiarsi delle difese della convenuta, si deve ritenere che l’ordinanza impugnata debba interpretarsi come una decisione che ha inteso negare la competenza. E, pertanto, sulla base di questi rilievi si deve allora ritenere che il tribunale, pur avendo conclusivamente dichiarato il procedimento inammissibile, risulta, in realtà, avere declinato su di esso la propria competenza, come se avesse inteso negare la propria competenza sia ai sensi degli artt. 702-bis c.p.c. e segg. cioè secondo il procedimento sommario codicistico (con un’ordinanza ai sensi dell’art. 702-ter, comma 1), sia ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14.

Ne consegue che, avuto riguardo alla sostanza del decisum, risulta corretta la valutazione con cui il ricorrente ha ritenuto di assoggettare la pronuncia a regolamento di competenza, sicchè l’impugnazione con tale mezzo risulta ammissibile, perché la decisione non si può considerare come effettiva pronuncia ai sensi dell’art. 702-ter c.p.c., comma 2, ma si deve, invece, reputare pronuncia ai sensi del primo comma di quella norma.

Non può avere rilievo in senso contrario la circostanza che, negando la propria competenza sia ai sensi dell’art. 14 citato, sia ai sensi dell’art. 702-ter c.p.c., comma 1, il Tribunale di Civitavecchia si sia astenuto, dal fornire espressamente l’indicazione del giudice competente. In disparte che tale indicazione risulta nella motivazione expressis verbis per il procedimento ai sensi dell’art. 14 ed implicitamente per quello codicistico, in ogni caso, ove tale indicazione si considerasse mancata, il regolamento sarebbe stato ammissibile, perchè è esperibile quando il giudice di merito non indichi il giudice ritenuto competente (si veda già Cass. n. 777 del 1963; più di recente, Cass. n. 9515 del 1992 e Cass. (ord. interloc.) n. 27373 del 2005).

  1. Si può ora passare all’esame delle questioni esegetiche prospettate dall’ordinanza di rimessione, che appaiono rilevanti per decidere il regolamento di competenza.

Punto centrale in proposito è stabilire quale incidenza abbia avuto l’intervento legislativo di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, che, intervenendo sulle disposizioni di cui della L. n. 794 del 1942, artt. 28-30, ha sostituito l’art. 28 ed abrogato gli artt. 29 e 30, trasferendo la disciplina procedimentale nell’art. 14 del D.Lgs. e riconducendola alla figura del procedimento di cognizione sommario, ma non nella versione di cui al modello codicistico, bensì secondo un modello speciale.

3.1. Essendo l’intervento legislativo in questione avvenuto sulla base della delega di cui alla L. n. 69 del 2009, art. 54, mette conto di ricordare che il comma 4 di tale norma, nella lettera a), imponeva come principio e criterio direttivo e, quindi, di esercizio della delega, che dovessero restare “fermi i criteri di competenza, nonché i criteri di composizione dell’organo giudicante, previsti dalla legislazione vigente”.

Ne segue che, nell’esegesi del nuovo art. 28 e dell’art. 14 il criterio di interpretazione costituzionalmente orientata – per cui la norma delegata deve essere interpretata in conformità alla delega, cioè in modo da rispettarne i principi e criteri direttivi, essendo altrimenti di dubbia costituzionalità – impone di verificare se il disposto della norma abbia rispettato i criteri di delega ed in particolare il criterio della c.d. invarianza della competenza.

La verifica suppone, evidentemente, l’accertare come la competenza risultava regolata prima della riforma.

3.2. Il vecchio testo dell’art. 28, sotto la rubrica “Forma dell’istanza di liquidazione degli onorari e dei diritti” recitava: “Per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti nei confronti del proprio cliente l’avvocato (o il procuratore), dopo la decisione della causa o l’estinzione della procura, deve, se non intende seguire la procedura di cui all’art. 633 c.p.c. e segg., proporre ricorso al capo dell’ufficio giudiziario adito per il processo”.

Il nuovo testo dell’art. 28, sostituito del D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 34, n. 16, lett. a), sotto la stessa rubrica, dispone ora che: “Per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti nei confronti del proprio cliente l’avvocato, dopo la decisione della causa o l’estinzione della procura, se non intende seguire il procedimento di cui agli art. 633 c.p.c. e segg., procede ai sensi del D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 14”.

Il confronto fra le due norme evidenzia che la controversia oggetto del disposto normativo è rimasta individuata nei medesimi termini.

Si tratta – secondo un’esegesi consolidata – di una controversia e, quindi, di una correlata domanda, con cui l’avvocato (olim anche il procuratore, quando si differenziavano le due figure) chiede la “liquidazione” delle spettanze della sua attività professionale svolta in un giudizio civile o con l’espletamento di prestazioni professionali che si pongano “in stretto rapporto di dipendenza con il mandato relativo alla difesa o alla rappresentanza giudiziale, in modo da potersi considerare esplicazione di attività strumentale o complementare di quella propriamente processuale” (ex multis, in generale: Cass. n. 3744 del 2006; n. 13847 del 2007; per la transazione della lite, Cass. n. 25675 del 2009 e Cass. n. 5566 del 2001, per l’estensione anche all’ipotesi in cui la transazione non si sia verificata con conciliazione in sede giudiziale; Cass. n. 2282 del 1963 per l’estensione al difensore dell’avversario nella fattispecie disciplinata dal R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 68; Cass. n. 6402 del 1980 e n. 106 del 1981 per l’attività professionale relativa al precetto ed al pignoramento), restando, invece, esclusa l’attività professionale stragiudiziale civile che non abbia detta natura, quella svolta nel processo penale (anche in funzione dell’esercizio dell’azione civile in sede penale) e amministrativa, o davanti a giudici speciali.

3.3. Ora, se ci si riporta al momento in cui la formula identificativa delle dette controversie venne introdotta nell’ordinamento (per il momento si accantona il problema della sua esegesi), cioè quello dell’entrata in vigore della L. n. 794 del 1942, si constata che esso fu individuato della stessa L. 21 aprile 1942, art. 31 (e ciò con evidente singolarità, tenuto conto che la legge venne pubblicata sulla G.U. n. 172 del 27 luglio 1942). Ebbene, quella data coincise con la data di efficacia (di esecuzione, secondo la formulazione usata) del Codice di Procedura Civile del 1940, siccome disposta del R.D. 28 ottobre 1940, n. 1443, art. 1, recante l’approvazione di quel codice.

La coincidenza di entrata in vigore dell’art. 28 e del codice di rito escludeva che alla disciplina speciale contenuta nella L. n. 794 del 1942, potesse attribuirsi il valore di lex specialis sopravvenuta rispetto al codice, sì da giustificare l’applicazione del criterio esegetico per cui lex posterior specialis derogat legi priori generali o di quello esattamente contrario.

L’interprete, dunque, avrebbe dovuto interrogarsi sul se la contemporaneità dell’entrata in vigore delle due fonti non rivelasse in realtà una volontà del legislatore di attribuire alla L. n. 794 del 1942, l’effetto di individuare le modalità di esercizio dell’azione per le controversie introdotte dall’avvocato (ed allora dal procuratore) per la “liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti nei confronti del proprio cliente” in modo esclusivo, cioè come introducibili o tramite lo speciale procedimento da essa previsto o tramite le forme – in esso pure evocate – del procedimento per decreto ingiuntivo ex artt. 633 c.p.c. e segg., con la conseguenza dell’esclusione della possibilità di introdurre la controversia con le forme dell’ordinario processo di cognizione disciplinato dagli artt. 163 c.p.c. e segg.

L’uso da parte del legislatore nell’art. 28 testo originario del verbo “deve”, condizionato all’altra espressione “se non intende”, avrebbe dovuto convincere della bontà di tale esegesi, tanto più che della L. n. 794 del 1942, art. 30, per il caso in cui l’azione fosse stata esercitata con il rito monitorio, prevedeva nel primo comma la trattazione con il rito camerale e non con quello di cognizione piena, giacché al comma 2, rinviava all’art. 29, che regolava lo svolgimento del procedimento introdotto ai sensi dell’art. 28.

Nella logica del legislatore dell’epoca detta opzione si giustificava – stante la soggezione all’agile rito camerale – in funzione della garanzia al professionista di un mezzo rapido per ottenere le sue spettanze e, quindi, suonava come privilegiata, anche se, come contraltare vi era la previsione della inimpugnabilità del provvedimento e, prima ancora, il carattere deformalizzato o poco formalizzato delle regole del processo camerale, pur con le specificazioni di cui alle due citate norme.

Entrata in vigore la Costituzione, d’altro canto, la negatività della prima previsione risultava, poi, neutralizzata dall’art. 111, olim comma 2, che garantiva l’impugnazione per violazione di legge in Cassazione. Restava solo la seconda.

3.4. Com’è noto, sia la dottrina sia la giurisprudenza di questa Corte si posero, nei primi anni di applicazione della legge speciale, il problema della concorrenza con le due forme di azione previste dall’art. 28 e segg. (rispetto alla seconda delle quali non si poneva in dubbio, stante l’espresso dettato legislativo, che la trattazione dovesse comunque avvenire con il rito camerale ed anzi si sosteneva che, ove il provvedimento definitivo avesse avuto forma di sentenza e non di ordinanza, ciò non facesse aggio sulla esperibilità del solo rimedio del ricorso per cassazione straordinario) della possibilità per il difensore di esercitare la sua azione anche con le forme del processo di cognizione piena.

La giurisprudenza di questa Corte con la sentenza n. 2727 del 1950 lo escluse. Invece, con la sentenza n. 646 del 1958 e con la sentenza n. 614 del 1960 lo ammise (non altrettanto esplicitamente con la sentenza n. 678 del 1964). L’opzione esegetica che lasciava al difensore la possibilità di introdurre la lite individuata dall’art. 28 anche con un ordinario giudizio di cognizione risultò affermata, di seguito, da Cass. n. 152 del 1966 (presente in Italgiureweb, e secondo la quale: “L’espressione della L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 28 – a norma del quale per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti nei confronti del proprio cliente, l’avvocato o il procuratore, dopo la decisione della causa o l’Estinzione della procura, deve, se non intende seguire la procedura di cui all’art. 633 c.p.c. e segg., proporre ricorso al capo dell’ufficio giudiziario adito per il processo – va intesa nell’ambito della possibilità di addivenire, sulla base della parcella, alla sollecita creazione di un titolo esecutivo, e non esclude la facoltà di ottenere l’accertamento giudiziale del credito secondo le norme ordinarie.”). Successivamente la soluzione positiva non consta aver dato adito a contenzioso arrivato in Cassazione.

3.5. Ebbene, poiché in questa sede ci si deve interrogare sul se il criterio dell’invarianza della competenza sia stato rispettato con la sostituzione del testo dell’art. 28 e l’introduzione del procedimento di cui all’art. 14 e la questione esige che ci si debba chiedere se la permanenza o meno della possibilità di agire con il rito ordinario interferisca con quel criterio, è necessario individuare il giudice che prima delle modifiche legislative e stante il ricordato approdo della giurisprudenza di questa Corte – sarebbe stato competente sulla domanda identificata nella L. n. 794 del 1042, art. 28.

Chi avesse voluto individuare quella competenza avrebbe dovuto dare – limitando il discorso alla situazione ordinamentale esistente al momento della sopravvenienza dell’art. 14 – le seguenti risposte:

a1) l’azione avrebbe potuto essere introdotta con le forme della cognizione ordinaria, di cui agli artt. 163 c.p.c. e segg., nel qual caso, trattandosi di pretesa relativa a somma di danaro, operavano le ordinarie regole di competenza per valore, con la conseguenza che l’azione poteva incardinarsi davanti al giudice di pace o davanti al tribunale in composizione monocratica, mentre, sotto il profilo della competenza territoriale, avrebbero trovato applicazione i criteri generali di radicazione della competenza di cui agli artt. 18 e 19 e quello speciale ex art. 20 c.p.c.;

a2) l’azione si sarebbe potuta, inoltre, introdurre con le forme degli artt. 633 c.p.c. e segg., nel qual caso – ferma l’applicazione alla eventuale successiva opposizione del rito di cui della L. n. 794 del 1942, artt. 29 e 30 – la competenza risultava regolata dall’art. 637 c.p.c. e, quindi, secondo il testo vigente al momento dell’introduzione del procedimento di cui all’art. 14 (che era ed è quello sostituito del D.Lgs. n. 51 del 1998, art. 100), negli stessi termini indicati per l’azione introducibile con il procedimento di cognizione ordinaria (comma 1), giusta il disposto dell’art. 637, comma 1, ma anche, ferma sempre la successiva applicazione del rito camerale di cui agli artt. 28 e 29 citati: a2a) ai sensi del secondo comma della norma, con la previsione di un criterio concorrente di competenza per materia (nel quale la materia era rappresentata dall’essere il credito inerente a prestazioni svolte presso l’ufficio adito) e per territorio, quello dell’ufficio giudiziario cui il credito si riferiva (che in tal caso poteva essere il giudice di pace, il tribunale o anche la corte d’appello ed appariva sostanzialmente coincidente con quello individuato dalla L. n. 794 del 1942), art. 29; a2b) ai sensi del terzo comma della norma con quella del giudice competente per valore (giudice di pace o tribunale monocratico) del luogo sede del consiglio dell’ordine di iscrizione dell’avvocato;

a3) l’azione si sarebbe potuta introdurre con ricorso “al capo dell’ufficio adito per il processo” e, quindi, con attribuzione di una competenza per materia, secondo il procedimento ex artt. 28 e segg. della Legge del 1942 e si sarebbe dovuta trattare con il procedimento camerale previsto in relazione ad essa, giusta il disposto dell’art. 30;

a4) inoltre, a seguito della introduzione, con la L. n. 69 del 2009, del procedimento di cognizione sommario di cui agli artt. 702-bis c.p.c. e segg., qualora la domanda fosse stata introducibile ratione valoris davanti al tribunale in via ordinaria e, dunque, davanti al tribunale monocratico, essa avrebbe potuto essere introdotta – lo si osserva anche se non ne conseguiva un diverso profilo di competenza – secondo quel procedimento.

Al quadro descritto occorreva, tuttavia, aggiungere gli effetti della introduzione della disciplina del c.d. foro del consumatore, ricollegabili – com’è noto – dapprima all’introduzione dell’art. 1469-bis c.c., comma 3, n. 19 e, quindi, sopravvenuto il c.d. Codice del Consumo, di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, alla disciplina del suo art. 33, comma 2, lett. u), che veniva in considerazione allorquando il cliente contro il quale fosse stata proposta la domanda individuata dall’art. 28 avesse rivestito la qualità di consumatore: infatti, Cass. (ord.) n. 12685 del 2011 (risalente all’8 giugno 2011 e, quindi, a prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 150 del 2011, avvenuta il 16 settembre 2011) aveva statuito che: “In tema di competenza per territorio, ove un avvocato abbia agito, con il procedimento di ingiunzione, al fine di ottenere dal proprio cliente il pagamento di competenze professionali avvalendosi del foro speciale di cui all’art. 637 c.p.c., comma 3, il rapporto tra quest’ultimo ed il foro speciale della residenza o del domicilio del consumatore previsto dal D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, art. 33, comma 2, lett. u), va risolto nel senso della prevalenza del foro del consumatore, sia perché esso è esclusivo sia perché, trattandosi di due previsioni “speciali”, la norma successiva ha una portata limitatrice di quella precedente.”: il principio non poteva che valere per tutte le indicate ipotesi di possibile introduzione della domanda, con la conseguenza, nel caso di cliente “consumatore”, di fare aggio sui vari criteri di competenza ad esse ricollegati e di renderli praticabili solo se il foro del consumatore fosse stato coincidente con quello di ciascuna delle stesse.

  1. Tanto rilevato, può ora passarsi ad esaminare la prima questione proposta dall’ordinanza di rimessione, cioè il se l’introduzione del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14, abbia comportato l’esclusione della praticabilità dei riti che concorrevano con quelli (rito camerale introdotto direttamente e rito monitorio da evolversi in camerale dopo l’opposizione) di cui alla vecchia disciplina degli artt. 28 e segg. della L. del 1942.

Una risposta positiva sarebbe innanzitutto possibile soltanto se l’eventuale eliminazione della praticabilità di alcuni dei riti, che all’atto dell’entrata in vigore dell’art. 14 concorrevano con quello della L. n. 794 del 1942, ex artt. 28 e segg., risultasse non avere determinato effetti sulla competenza o meglio sulle competenze relative a detta controversia.

In tanto la riforma del 2011 non ha determinato alcun effetto sulla possibilità che l’azione venga introdotta con le forme del procedimento per decreto ingiuntivo ai sensi degli artt. 633 c.p.c. e segg., atteso che la L. n. 794 del 1942, art. 28, pur nel testo sostituito dal D.Lgs. n. 150 del 2011, la prevede e l’art. 14 la disciplina. Ne deriva che l’operatività della competenza ai sensi dell’art. 637 c.p.c. (secondo tutte le ipotesi colà previste) è rimasta immutata ed immutata è rimasta pure l’omologia di rito con l’introduzione diretta con il (nuovo) procedimento sommario speciale, poichè l’art. 14 dispone che a seguito dell’opposizione al decreto il giudizio si tratti con la forma speciale del procedimento sommario, non diversamente da quanto accadeva secondo vigente la disciplina della L. n. 794 del 1942.

Viceversa, ritengono le Sezioni Unite, non è sostenibile che sia rimasta praticabile – come invece aveva supposto la parte qui ricorrente – né la possibilità di esercitare l’azione di cui all’art. 28 citato con il rito sommario codicistico di cui agli artt. 702-bis c.p.c. e segg., né la possibilità di esercitarla con il rito ordinario di cognizione piena.

Prima di spiegare queste due affermazioni, mette conto di rilevare che esse non sono in contraddizione con il criterio di delega della c.d. invarianza della competenza.

E’ sufficiente osservare che:

  1. aa) escludere la possibilità di agire con il rito ordinario a cognizione piena non determina la soppressione di alcun criterio di competenza previgente, giacché la competenza in base alla quale poteva agirsi in via ordinaria, secondo l’orientamento giurisprudenziale prima riferito, era la stessa prevista (ai sensi dell’art. 637 c.p.c., comma 1) per la possibilità di agire con le forme del ricorso monitorio, destinate poi ad evolversi con il rito camerale, sicché, negare la possibilità di utilizzare il rito della cognizione piena determina soltanto la soppressione di una regola inerente ad uno dei riti esperibili prima della riforma, ma non di una regola di competenza, atteso che essa, sebbene tramite il rito monitorio, permane immutata;
  2. bb) escludere la possibilità di agire con il rito di cui agli artt. 702-bis e segg., una volta considerato che la competenza quanto ad esso è individuata con un riferimento all’essere la controversia attribuita al tribunale in composizione monocratica (art. 702-bis c.p.c., comma 1), non implica parimenti alcuna soppressione di una regola di competenza perché le cause che si sarebbero potute introdurre con quel rito restano comunque deducibili davanti al tribunale in composizione monocratica ancora una volta con il rito monitorio, sicché nessuna soppressione di competenza vi sarebbe, ma solo quella di un rito prima praticabile.
  3. Le due affermazioni di cui sopra non trovano un qualche ostacolo nella lettura della riforma di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, in modo conforme alla delega, perché:
  4. a) la L. n. 69 del 2009, art. 54, comma 1, indicava come oggetto della delega la “riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione che rientrano nell’ambito della giurisdizione ordinaria e che sono regolati dalla legislazione speciale”: è vero che sia la “riduzione”, sia la “semplificazione” erano riferite ai procedimenti regolati dalla legislazione speciale, sicché potrebbe pensarsi che l’oggetto delle prima non potesse essere il sopprimere l’applicabilità del processo di cognizione piena, quando fosse stata prevista in concorso con quella del procedimento speciale, ma non è discutibile che nell’esigenza di semplificazione potesse rientrare non solo la regolamentazione del singolo procedimento speciale, ma anche il renderlo eventualmente utilizzabile in via esclusiva e ciò tanto più considerando che dell’art. 54, comma 2, esigeva il “coordinamento con le altre disposizioni vigenti”;
  5. b) l’indicato valore dell’esigenza di semplificazione, coniugato con quello del coordinamento, trova conferma ove poi si correli al criterio di delega della invarianza della sola competenza, di cui alla lett. a) del comma 4 e alla mancanza di espressa previsione di una regola di invarianza del rito ordinario, eventualmente previsto nella legislazione esistente in concorrenza con quello speciale, nonché con la previsione del n. 2 della lett. b) del comma 4, che, per il caso di riconduzione di un vecchio procedimento al procedimento di cui all’art. 702-bis c.p.c., sanciva l’esclusione però della possibilità di conversione nel rito ordinario: previsione del tutto incompatibile con la permanenza di concorrenza del rito ordinario, che avrebbe ragionevolmente imposto invece la conservazione della regola della conversione.

La delega, dunque, non impediva al legislatore delegato di individuare il procedimento ai sensi dell’art. 14 più volte citato come esclusivo e non concorrente con quello ordinario e con quello codicistico di cui agli artt. 702-bis e segg.

  1. Raggiunta la conclusione che la delega non impediva affatto al legislatore di individuare nel procedimento sommario l’unica forma di tutela esperibile per la controversia di cui della L. n. 794 del 1942, artt. 28 e segg., si deve rilevare che effettivamente il tenore dell’art. 28 nel testo sostituito dal D.Lgs. n. 150 del 2011, evidenzia che la scelta è stata proprio in quel senso.

E’ vero che nell’art. 28 nuovo testo è scritto che l’avvocato “se non intende seguire il procedimento di cui agli art. 633 c.p.c. e segg., procede ai sensi del D.Lgs. 1 settembre 2011 n. 150, art. 14” ed è vero l’uso del verbo “procede” al posto di quello “deve”, che era presente nel vecchio art. 28 non parrebbe segnare una significativa differenza. Senonché, una volta ricordato che le ragioni storiche, che portarono all’affermazione, contro la tesi che aveva preso piede nell’immediato dopoguerra, della concorrenza elettiva del rito di cui agli artt. 28 e segg. della Legge del 1942, con quello ordinario, erano figlie della diffidenza a concepire un’applicazione del rito camerale necessaria ad una materia certamente contenziosa, per l’assenza in esso di regole circa i poteri del giudice e quelli delle parti (peraltro, ad avviso di Corte Costituzionale n. 1 del 2002 doverosamente ridimensionabile attraverso doverose prassi esegetiche improntate ad un’interpretazione costituzionalmente orientata), si deve, tuttavia, considerare: la) in primo luogo che l’utilizzo nell’attuale art. 28 di una forma verbale imperativa è ora avvenuto in un contesto di evoluzione dell’ordinamento tendente a semplificare le forme processuali e con esclusione della osmosi fra quella speciale di cui al procedimento sommario e quella ordinaria; 1b) in secondo luogo ed in stretta correlazione, che, come ha sottolineato parte della dottrina, il procedimento sommario, a differenza dell’antico procedimento camerale di cui agli artt. 737 c.p.c. e segg., presenta un corredo di norme negli artt. 702-bis e segg. e nel D.Lgs. n. 150 del 2011, artt. 3 e 4, che – per così dire – formalizzano le regole del suo svolgimento.

Appare allora coerente e giustificata – pur nella contemplazione che il “dovuto processo”, sul piano costituzionale della garanzia del diritto di azione e di difesa, di cui all’art. 24 Cost., esige tendenzialmente la garanzia del modello “ordinario” del processo di cognizione, con le sue puntuali garanzie – la conclusione che il modello del procedimento sommario, in quanto le sue regole sono formalizzate (e, quindi, stemperano la sommarietà in modo da assicurare uno svolgimento del procedimento secondo forme predeterminate e specificate, come accade nel rito ordinario), possa, senza alcun vulnus costituzionale essere il luogo di tutela non elettivo, ma esclusivo della situazione giuridica azionabile ai sensi della L. n. 794 del 1942, art. 28 e dell’art. 14 del D.Lgs.. Tanto più che il trattarsi di prestazioni giudiziali civili e, dunque, risultanti da attività formale è ragione che evidenzia un agevole accertamento della materia controversa.

Ne segue la conclusione che il “procede” di cui all’art. 28, coniugato con l’alternativa previsione del solo procedimento monitorio, destinato, però, ad evolversi nell’opposizione secondo il rito sommario, giustifica l’affermazione che la controversia di cui alla L. n. 794 del 1942, art. 28, deve necessariamente introdursi con le due alternative forme da tale norma previste, restando escluso, invece, che si possa introdurre con il rito ordinario e con quello sommario codicistico.

  1. Con riferimento all’ipotesi che la controversia venga introdotta ai sensi degli artt. 633 c.p.c. e segg., cioè con il ricorso per decreto ingiuntivo, ci si deve interrogare sulle implicazioni della previsione dell’art. 14 che l’opposizione proposta a norma dell’art. 645 c.p.c. è regolata dal rito sommario di cognizione, ove non diversamente disposto dallo stesso art. 14 e, occorre dire, dal D.Lgs. n. 150 del 2011, artt. 3 e 4.

Poiché la disposizione parla di opposizione “proposta a norma dell’art. 645 c.p.c.” si potrebbe essere indotti a ritenere che il legislatore abbia inteso, nel caso in cui la controversia sia stata introdotta con il rito monitorio, disporre che la forma dell’opposizione sia quella indicata dall’art. 645 c.p.c. e, dunque, che l’opposizione debba introdursi con citazione, con la conseguenza che in sostanza diventerebbe inapplicabile l’art. 702-bis anche per le modalità di costituzione del convenuto, che resterebbero quelle dell’ordinario processo di cognizione. Tale esegesi sembra contraria alla logica dell’adozione del rito sommario, che non giustifica l’esclusione della fase di introduzione dell’opposizione dall’efficacia regolatrice disposta dall’art. 14.

Ne discende che l’atto introduttivo del giudizio di opposizione si deve intendere regolato dall’art. 702-bis c.p.c. e così pure l’attività di costituzione dell’opposto. Peraltro, nel caso di introduzione dell’opposizione con la citazione, la congiunta applicazione del comma 1 del comma 4 del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 4, renderà l’errore privo di conseguenze.

Mette conto di precisare viceversa che, poiché sarebbe contraddittorio pensare che il legislatore, pur lasciando all’avvocato la possibilità di avvalesi del procedimento speciale per decreto ingiuntivo e, quindi, di un procedimento che esprime una forma di tutela differenziata e privilegiata, abbia, nel disporre la regolazione del giudizio introdotto con l’opposizione in base alle disposizioni del procedimento sommario, inteso escludere che i caratteri propri della differenziazione di tutela vengano meno, si deve ritenere che, pur nell’ottica dello svolgimento del giudizio di opposizione secondo le forme del procedimento sommario quei caratteri, siccome espressi nell’ordinaria disciplina del giudizio di opposizione a decreto ai sensi degli artt. 645 c.p.c. e segg., non vengano meno per il sol fatto che il giudizio di opposizione non si debba svolgere con il rito ordinario, ma con quello sommario. Poiché l’applicazione dei rito sommario lascia intatta la presenza del decreto opposto è giocoforza allora ritenere, in particolare, che siano applicabili comunque le norme degli artt. 648 e 649 c.p.c., nonché quella dell’art. 653 e quella dell’art. 654 c.p.c., fermo che la decisione deve avvenire con l’ordinanza inappellabile di cui dell’art. 14, u.c. e che, ai sensi del penultimo comma dell’art. 702-ter essa è sempre e comunque esecutiva.

  1. Si deve ora esaminare la seconda questione che è stata posta dall’ordinanza di rimessione.

Si tratta di stabilire quale contenuto si debba attribuire, nel nuovo regime di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14, alle controversie che dalla L. n. 794 del 1942, art. 28, come sostituito dal D.Lgs. n. 150 del 2011, sono identificate con un testo sostanzialmente rimasto immutato rispetto a quello originario. Il nuovo testo, infatti, ha conservato non solo la stessa rubrica, che allude alla “Forma dell’istanza di liquidazione degli onorari e dei diritti”, ma anche lo stesso tenore, che individua le controversie che (ne erano e) ne sono oggetto in quelle introducibili dall’avvocato “per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti nei confronti del proprio cliente (…) dopo la decisione della causa o l’estinzione della procura”.

E’ noto che per un lungo periodo, anche registrando l’eco di dibattiti dottrinali, la giurisprudenza della Corte aveva ritenuto che, nonostante l’espressione “liquidazione”, intesa alla lettera, sembrasse alludere all’attivazione del procedimento in casi nei quali la lite fra legale e cliente avesse riguardato solo la determinazione del quantum dovuto, il procedimento speciale potesse esperirsi utilmente o restare praticabile anche quando fosse sussistita già all’atto della introduzione o fosse insorta controversia non solo sul quantum, ma anche sull’an debeatur, restando escluso solo dall’insorgenza di una contestazione circa l’esistenza del rapporto di clientela, che di quella procedura costituisce l’indefettibile presupposto (Cass., Sez. Un. n. 2672 del 1966 e n. 301 del 1967; Cass. Sez. Un. n. 79 del 1968, secondo cui: “Il procedimento speciale previsto dalla L. 13 giugno 1942, n. 794, è applicabile anche quando il credito viene contestato nella sua sussistenza o vengono dedotte altre questioni di diritto sostanziale o processuale, pregiudiziali all’esame del merito, salvo che sia in contestazione l’esistenza del rapporto di mandato, nel qual caso la controversia deve seguire l’iter di un ordinario giudizio di cognizione”).

Successivamente però, salvo qualche eccezione (ad esempio Cass. n. 7957 del 2003 ritenne praticabile il procedimento in presenza di eccezione di prescrizione), la limitazione della impraticabilità all’ipotesi di contestazione del rapporto di clientela, venne superata, a partire sostanzialmente da Cass. n. 1920 e Cass. n. 12748 del 1993 (per la verità precedute qualche anno prima da una isolata prima pronuncia: Cass. n. 5081 del 1986). La prima decisione affermò, infatti, il seguente principio di diritto: “Lo speciale procedimento, previsto dalla L. 13 giugno 1942, n. 794, per la determinazione della misura del compenso spettante al patrono di un giudizio civile (nei confronti del cliente, o anche della parte avversa nel caso di definizione transattiva del giudizio), non è applicabile quando si controverta in ordine alla sussistenza del credito del legale, con la conseguenza che, in questa ultima ipotesi, la trattazione e la decisione della lite devono avvenire con il rito ordinario”. La seconda decisione enunciò che: “La disposizione della L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 30, che, in tema di onorari, diritti e spese di avvocato e procuratore, prevede, nel caso di opposizione proposta a norma dell’art. 645 cod. proc. civ. contro il decreto ingiuntivo riguardante le suddette spettanze, il rito camerale e la decisione con ordinanza non impugnabile (e, perciò, ricorribile in Cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost.), deve considerarsi, per la non appellabilità del provvedimento terminale e la eccezionale deroga del principio del doppio grado che essa comporta, di diritto singolare e perciò applicabile solo fino a quando l’oggetto della controversia rimanga limitata alle pretese che fanno capo al legale; pertanto, nei casi in cui l’opponente abbia introdotto, ampliando il thema decidendum, una eccezione di compensazione per credito non liquido o non esigibile o una eccezione o domanda riconvenzionale sulla quale il giudice investito della domanda del professionista ritenga di pronunciarsi, il giudizio di opposizione non può procedere con il rito semplificato previsto dalla predetta disposizione di diritto singolare e deve essere definito con sentenza impugnabile con i normali mezzi e non con il ricorso per cassazione di cui all’art. 111 Cost., che è previsto solo contro le sentenze (o i provvedimenti ad esse assimilabili, perchè decisori) non altrimenti impugnabili”).

Il nuovo principio che così si venne affermando (che riguardava anche l’opposizione proposta contro il decreto ingiuntivo, ove il legale avesse scelto la via monitoria) può essere riassunto evocando la massima di Cass. n. 7652 del 2004, secondo cui: “In tema di liquidazione degli onorari e dei diritti dovuti dal cliente per le attività giudiziali svolte dal difensore (nonché per quelle stragiudiziali strettamente correlate alle prime), lo speciale procedimento previsto dalla L. n. 794 del 1942, artt. 29 e 30, che deve essere adottato anche nel caso in cui il patrono si sia avvalso dell’ingiunzione di cui all’art. 633 c.p.c., trova applicazione soltanto se la controversia abbia ad oggetto la determinazione della misura del compenso e non si estenda ad altri oggetti di accertamento e decisione, quali i presupposti stessi del diritto al compenso, i limiti del mandato, l’effettiva esecuzione della prestazione, la sussistenza di cause estintive o limitative della pretesa rinvenienti da altri rapporti o le pretese avanzate dal cliente nei confronti del professionista. Ne consegue che la controversia deve essere trattata con il rito speciale, qualora il cliente, nell’eccepire l’estinzione totale o parziale del credito in considerazione dei pagamenti effettuati, non abbia esteso il thema decidendum”.

All’atto dell’intervento del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14, può dirsi che tale principio di diritto, che evidenziava un’incidenza preclusiva allo svolgimento del procedimento ex art. 28 indifferentemente attribuita alla generalità degli atteggiamenti difensivi del cliente sull’an, tanto che essi fossero consistiti in mere difese (cioè nella contestazione in iure o in facto) dei fatti costitutivi del rapporto di prestazione d’opera, tanto che si fossero concretati nella introduzione di fatti integratori di eccezioni, tanto che si fossero manifestati con la proposizione di vere e proprie domande (riconvenzionali o di compensazione o di accertamento di rapporti pregiudicanti).

Tale orientamento, dunque, leggeva il riferimento alla “liquidazione” come evocativo di una domanda diretta ad ottenere solo la quantificazione della pretesa, sull’assunto che il cliente non avesse contestato e non contestasse il rapporto di clientela estrinsecatosi nelle prestazioni giudiziali e nemmeno le prestazioni eseguite e la debenza di un corrispettivo, ma solo la sua quantificazione (in base al sistema tariffario allora vigente).

Si trattava di un orientamento che manifestamente risentiva degli echi del dibattito dottrinale, essenzialmente ispirato dalla diffidenza verso il modello camerale e dunque teso a ridurne l’ambito di applicazione a beneficio del rito di cognizione ordinario.

  1. Non è questa la sede per ripercorrere criticamente i termini della segnalata evoluzione giurisprudenziale e nemmeno del dibattito dottrinale, atteso che la questione in esame concerne la nuova disciplina del combinato disposto dell’art. 28 e dell’art. 14.

Tuttavia, mette conto di rilevare – anche perché le notazioni svolte torneranno utili nell’affrontare quella questione – che l’attribuzione alla formulazione usata dal legislatore del 1942 con il riferimento alla “liquidazione” del valore di restringere l’ambito di applicazione ai casi in cui si fosse trattato solo di un problema di determinazione del quantum del dovuto, una volta che quella formulazione si fosse vagliata correttamente secondo i criteri di identificazione della domanda, non si sarebbe dovuta reputare significativa in quel senso.

Innanzitutto, a stretto rigore, l’impostazione avrebbe comportato, venendo in rilievo la “domanda”, il restringere l’ambito di esperibilità del procedimento necessariamente all’ipotesi di prospettazione con il ricorso introduttivo della tutela camerale (o di quella monitoria), da parte del legale, di una situazione di deduzione dell’inesistenza di una contestazione sull’esistenza del rapporto di clientela e di fatti impeditivi, estintivi o modificativi del rapporto stesso e dell’esistenza di una contestazione solo sulla misura del compenso.

Si trattava, a ben vedere, di una impostazione che trovava ostacolo in primo luogo nella previsione dell’alternativa possibilità di far ricorso al procedimento monitorio: infatti, la domanda monitoria, identificabile in base alle norme degli artt. 633 e segg., non era certo, come non è, una domanda che deve necessariamente proporsi con l’allegazione di un bisogno di tutela giurisdizionale derivante da una mera contestazione sulla misura del dovuto e, quindi, dall’esigenza di ottenere un provvedimento giudiziale di quantificazione. Si tratta di una domanda con cui, nel presupposto che un credito non sia stato adempiuto, si chiede la condanna del preteso debitore al pagamento. Sicché, avendo il legislatore assoggettato alla trattazione con il rito camerale anche l’ipotesi alternativa di proposizione della domanda in via monitoria, tanto avrebbe dovuto suggerire – non essendo ragionevole che il contenuto delle domande fosse diverso – che anche nel caso di ricorso diretto ai sensi dell’art. 28 il legale bene potesse agire pur in presenza di contestazioni sull’an. Si deve, poi, rilevare, come ha osservato una dottrina, che l’ipotizzare che la domanda di cui all’art. 28 dovesse limitarsi a postulare la “mera” liquidazione di un credito avrebbe presupposto, perché essa fosse veramente di quel tenore, che il credito fosse stato previamente accertato mediante un titolo convenzionale o giudiziale. In mancanza di esso la domanda non avrebbe potuto mai essere una domanda di liquidazione “mera”, ma avrebbe necessariamente implicato la domanda di accertamento dell’esistenza del credito e ciò tanto se il legale avesse dedotto una mancata contestazione dell’an quanto se nulla avesse detto al riguardo.

In ogni caso, poi, la giustificazione della chiesta liquidazione avrebbe supposto l’allegazione dei fatti costitutivi del rapporto di clientela e del loro svolgimento come causa petendi e, conseguentemente, essa, quale ragione fondante della domanda, sarebbe stata oggetto comunque del chiesto accertamento giudiziale in non diversa guisa che se si fosse prospettata una contestazione dell’an debeatur.

L’orientamento giurisprudenziale affermatosi a partire dagli anni novanta nell’esegesi del riferimento dell’art. 28 all’agire per la “liquidazione” non aveva, dunque, un serio fondamento Non solo: appariva anche singolare, là dove attribuiva rilievo, per escludere che il procedimento, una volta introdotto, potesse comunque avere corso, all’atteggiamento del convenuto e ciò sia in presenza di un’azione esercitata dal legale invocando solo la c.d. mera liquidazione delle spettanze sull’assunto che non vi fossero state contestazioni sull’an, sia in presenza di un’azione esercitata senza quella evocazione, sia addirittura in presenza di un titolo convenzionale stragiudiziale pregresso (dato che la sua validità ed efficacia avrebbe potuto contestarsi dal cliente). In tal modo facendo dipendere dall’atteggiamento del convenuto la concreta praticabilità del procedimento, con la conseguenza di dover poi individuare la sorte del giudizio o in una pronuncia di rito di inammissibilità del procedimento o – in tempi in cui non erano presenti norme sulla conversione del rito – ipotizzando la continuazione con il rito ordinario (e, com’è noto, inferendone conseguenze, che non è qui il caso di ricordare anche sul regime di impugnazione dell’eventuale provvedimento finale adottato nonostante che quell’atteggiamento avesse determinato quella impraticabilità).

Pur nella consapevolezza che l’affermarsi dell’orientamento qui commentato fu ispirato dalle sollecitazioni critiche della dottrina e del foro a rivedere il primigenio orientamento in ragione delle criticità della deformalizzata disciplina del rito camerale, che trovava applicazione al procedimento, non sembra, dunque, dubitabile che, in linea teorica, il nuovo orientamento non avesse solide fondamenta.

10.1. A ben vedere si deve, peraltro, rilevare che anche l’orientamento iniziale – quello che reputava che il procedimento non potesse più aver corso con il modello camerale solo qualora il cliente avesse contestato in radice l’esistenza del rapporto di clientela – si prestava a critica, tanto quando tale contestazione fosse rimasta sul piano dell’eccezione e, dunque, l’oggetto del giudizio non fosse stato allargato, rimanendo incentrato sulla domanda originaria, quanto che si fosse concretata in una domanda, nella specie riconvenzionale di accertamento negativo dell’inesistenza del rapporto di clientela.

Invero, nel primo caso, attribuiva, ad un atteggiamento del convenuto non incidente sull’oggetto della domanda, ma introduttivo di una mera difesa o di un fatto impeditivo (diretti ad evidenziare l’inesistenza del rapporto di clientela) e, quindi, incidente solo sui fatti da giudicare per provvedere sulla domanda originaria e sull’originario oggetto del giudizio, l’efficacia di precludere che il procedimento potesse avere corso: tanto si poneva del tutto in contrasto con il fatto che, se il legislatore aveva ammesso che la domanda fosse esperita con il rito camerale, non risultava ragionevole attribuire alla difesa del convenuto rispetto a quella domanda un rilievo impeditivo alla trattazione del procedimento nella forma indicata dallo stesso legislatore. Nel secondo caso, implicando la domanda del legale necessariamente la richiesta di accertamento positivo del rapporto di clientela, quella di accertamento negativo parimenti in alcun modo allargava l’oggetto della domanda, cioè della res iudicanda, trattandosi del contraltare di quella del difensore e nulla ad essa aggiungendo, anche qui concretandosi solo nell’introduzione di mere difese e fatti impeditivi rispetto alla domanda di accertamento positivo.

  1. A diverse considerazioni, invece, tanto nell’ottica dell’orientamento originario, quanto in quella dell’orientamento più recente, si sarebbe invece prestata l’incidenza, sulla possibilità che il procedimento avesse corso con il rito camerale, di una difesa del cliente concretatasi in una domanda riconvenzionale o di compensazione o di accertamento di un rapporto pregiudicante: in tal caso l’oggetto del giudizio risultava infatti allargato a tale domanda rispetto a quello originario e si poneva il problema della sussistenza su di essa di un altro rito, quello ordinario (oppure, eventualmente di altro rito a cognizione piena), valendo la previsione del rito camerale speciale solo per la domanda contemplata nell’art. 28.

11.1. Prima dell’entrata in vigore dell’art. 40 c.p.c., commi 2, 3 e 4, senza che sia necessario qui diffondersi, si poteva ipotizzare che, se la domanda del convenuto non avesse posto un problema di modificazioni della competenza per ragioni di connessione, le strade fossero due: o quella della separazione, con la trattazione di ogni causa secondo il rito suo proprio, o, forzando il significato dell’art. 274 c.p.c., ed attribuendo valore alla prevalenza naturale del rito ordinario su quello camerale, il procedere alla trattazione con il primo di entrambe le cause. Questa soluzione si faceva preferire, perché l’altra comportava il rischio di una sospensione nel caso in cui fra la causa ex art. 28 e quella introdotta dal cliente si configurasse una pregiudizialità di quest’ultima, se del caso anche solo per c.d. nesso di incompatibilità.

In ogni ipotesi di domanda del convenuto estranea alla competenza del giudice (ufficio) adito ai sensi dell’art. 28 sarebbero state operanti le regole della c.d. modificazione della competenza per ragioni di connessione, di cui agli artt. 31 e segg. e particolarmente quelle degli artt. 34, 35 e 36 c.p.c..

11.2. Una volta introdotti dell’art. 40, i commi 3, 4 e 5, invece, per l’ipotesi che la causa introdotta dal convenuto fosse stata di competenza del giudice adito, questi avrebbe dovuto applicare tali norme ed adottare sempre il rito di quella causa se ordinario (comma 3 cod. proc. civ.), mentre, nell’ipotesi che fosse stato applicabile alla domanda il rito del lavoro, esso sarebbe prevalso perchè, essendo la specialità del rito degli artt. 28 e segg. della Legge del 1942 cod. civ., una specialità non relativa ad un rito a cognizione piena e prevalendo il rito del lavoro su quello ordinario era ragionevole che la prevalenza fosse giustificata anche rispetto al rito camerale.

11.3. Quando la domanda introdotta dal convenuto fosse stata estranea alla competenza del giudice adito ai sensi del procedimento speciale restava ferma l’operatività, con i loro limiti, delle norme sulla modificazione della competenza per ragioni di connessione.

Nel caso di adizione del giudice di pace con il procedimento speciale (o con quello monitorio) si sarebbe dovuto considerare poi operante dell’art. 40, u.c..

  1. Ferme tali considerazioni ormai retrospettive (ma che si riveleranno utili per l’attualità), si tratta ora di valutare, rispondendo alla sollecitazione dell’ordinanza di rimessione, se l’orientamento interpretativo sopra riferito e vigente all’atto dell’intervento del D.Lgs. n. 150 del 2011 – a prescindere dalla sua discutibilità – possa essere mantenuto con riferimento alla nuova disciplina.

La questione è stata risolta variamente in dottrina e lo stato della giurisprudenza di questa Corte, come prospettato dall’ordinanza di rimessione, parimenti non evidenzia risposte univoche.

12.1. In via preliminare è necessario rilevare che, supponendo che il legislatore delegante e quello delegato abbiano avuto consapevolezza dell’esistenza del detto orientamento e l’abbiano considerato come diritto vivente, in base al tenore della delega ed alla previsione in essa (come già evidenziato in precedenza) del criterio della invarianza della competenza e di quello della semplificazione, è da escludere che, con riferimento al nuovo procedimento di cui all’art. 28 – modellato ad instar del procedimento di cognizione sommario e, peraltro, secondo un modello speciale – l’approdo di quell’orientamento dovesse necessariamente essere rispettato.

Si deve, al contrario, ritenere che, se il legislatore delegato avesse scelto di superare detto orientamento, per un verso avrebbe rispettato, specie nel quadro di una riforma generale tendente a ridurre i riti praticabili, l’esigenza di semplificazione, e, per altro verso non avrebbe adottato una scelta in qualche modo incidente sulla competenza.

Infatti, nella logica dell’orientamento ante riforma più recente, la competenza sulla domanda del legale in presenza di una situazione stragiudiziale di contestazione della pretesa e, dunque, non postulante solo l’accertamento della misura del compenso, sostanzialmente spettava agli stessi giudici che in quella logica potevano essere aditi con il rito ordinario quando la domanda fosse contestata nell’an debeatur (e ciò con anche per la possibilità di adire la corte di appello, ai sensi dell’art. 637 c.p.c., comma 2).

Ne segue allora che una scelta del legislatore della delega di tornare per così dire all’orientamento più antico e addirittura di prevedere il rito speciale sommario (o fin dall’introduzione del procedimento, o, nel caso di attivazione del procedimento per ingiunzione, con riferimento all’opposizione) pur nel caso in cui vi fosse stata la stessa contestazione del rapporto di clientela, non avrebbe contraddetto in alcun modo i criteri di delega.

12.2. Ritengono le Sezioni Unite che la scelta del legislatore, giusta il tenore del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14, si debba leggere proprio in questo senso.

Ciò traspare da un dato che è presente nel D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14. In esso si dispone che la regolamentazione secondo il rito sommario di cognizione con le particolarità previste dallo stesso articolo (e, v’è da aggiungere, quelle emergenti dagli artt. 3 e 4 del D.Lgs.) concerne “le controversie previste dalla L. 13 giugno 1942, art. 28 e l’opposizione proposta a norma dell’art. 645 c.p.c., contro il decreto ingiuntivo riguardante onorari, diritti o spese spettanti ad avvocati per prestazioni giudiziali”.

Ora, è vero che la rubrica ha il seguente tenore: “Delle controversie in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti di avvocato”. Ma, il lettore della norma deve considerare che il legislatore delegato avrebbe potuto limitarsi, in coerenza con tale rubrica, alludente allo stesso concetto di “liquidazione” presente nell’art. 28 (e tanto nell’immutata rubrica, quanto nella disposizione), a riferirsi alle “controversie indicate nell’art. 28”, poiché una simile formulazione non avrebbe potuto che comprendere sia la controversia introdotta direttamente ai sensi dell’art. 14 stesso ed indicata dall’art. 28 con l’espressione “procede ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14”, sia la controversia introdotta con il ricorso monitorio ed indicata con l’espressione “se non intende seguire il procedimento di cui agli artt. 633 c.p.c. e segg.”. E tanto perchè la rubrica dell’art. 28, nel, riferirsi alla “forma dell’istanza”, attribuisce ad essa l’efficacia di accomunarle e di disciplinare direttamente appunto la forma di introduzione, che nel primo caso è quella diretta di cui all’art. 14 e nel secondo è invece quella degli artt. 633 c.p.c. e segg. (come si è in precedenza detto).

Un generico richiamo alle controversie indicate nell’art. 28, seguito dal precetto circa la regolazione secondo il rito sommario sarebbe, dunque, bastato a palesare all’interprete che entrambe le controversie indicate nell’art. 28 come introducibili nelle due distinte forme, dovevano intendersi regolate dal rito sommario. Del resto, per quelle di opposizione al decreto, tanto sarebbe stato sufficiente ad implicare che l’efficacia dispositiva della regolazione con il rito sommario dovesse riguardare appunto il relativo procedimento per quanto concerneva l’opposizione, giacché la forma dell’introduzione della controversie e ciò che ad esso era correlato risultano già disciplinate indirettamente dall’art. 28.

Il legislatore, invece, ha fatto riferimento alle controversie di cui all’art. 28 e alla “opposizione proposta a norma dell’art. 645 c.p.c., contro il decreto ingiuntivo riguardante onorari, diritti o spese spettanti ad avvocati per prestazioni giudiziali”.

Ebbene deve ritenersi significativo, secondo un’esegesi letterale, che si sia usata tale formulazione, omissiva di qualsiasi riferimento alla “liquidazione”, anziché una formulazione quale avrebbe potuto essere quella “decreto ingiuntivo riguardante la liquidazione di onorari, diritti o spese spettanti ad avvocati per prestazioni giudiziali”, con la quale il legislatore avrebbe chiaramente manifestato l’attribuzione di rilevanza al concetto di “liquidazione” e, quindi, avrebbe potuto avallarne l’esegesi nel senso dell’orientamento giurisprudenziale affermatosi quo ante, e tanto più avendo conservato il riferimento alla liquidazione nell’art. 28, una formulazione omissiva del detto riferimento.

Tale modus procedendi del legislatore, implicando che il “seguire” il procedimento di cui agli artt. 633 c.p.c. e segg., di cui all’art. 28, sottenda la proposizione di una normale domanda monitoria evidenziante una pretesa creditoria sic et simpliciter e non di una domanda monitoria soltanto “liquidatoria”, costituisce la cartina di tornasole di una oggettiva voluntas legis sfavorevole all’approccio ermeneutico valorizzante il concetto di “liquidazione”. Se il dato letterale si coniuga con le criticità che presentava quell’approccio e che si sono sopra indicate, la sua valorizzazione è doverosa per l’interprete e le Sezioni Unite intendono avallarla.

12.3. Nessuna delle controindicazioni che si sono volute evidenziare in senso contrario risulta fondata.

Tale non è quella emergente dalla relazione illustrativa al D.Lgs. n. 150 del 2011, la quale, com’è noto, a proposito dell’art. 14 enunciò testualmente: “Al riguardo, non è stato ritenuto necessario specificare che l’oggetto delle controversie in esame è limitato alla determinazione degli onorari forensi, senza che possa essere esteso, in queste forme, anche ai presupposti del diritto al compenso, o ai limiti del mandato, o alla sussistenza di cause estintive o limitative. Tale conclusione, ormai costantemente ribadita dalla giurisprudenza di legittimità, non viene in alcun modo incisa dalla presente disciplina, in assenza di modifiche espresse alla norma che individua i presupposti dell’azione, contenuta nella L. 13 giugno 1942, n. 794.”. In proposito si osserva che l’unico dato certo su cui si basa tale enunciazione è quello relativo all’orientamento giurisprudenziale, mentre l’affermazione che la nuova disciplina non avrebbe inciso su di esso “in assenza di modifiche espresse alla norma che individua i presupposti dell’azione” trova smentita in quanto appena enunciato e ciò anche senza che debba ricordarsi che “Ai lavori preparatori può riconoscersi valore unicamente sussidiario nell’interpretazione di una legge, trovando un limite nel fatto che la volontà da essi emergente non può sovrapporsi alla volontà obiettiva della legge quale risulta dal dato letterale e dalla intenzione del legislatore intesa come volontà oggettiva della norma (voluntas legis), da tenersi distinta dalla volontà dei singoli partecipanti al processo formativo di essa” (Cass. n. 3550 del 1988). D’altro canto, in sede di esame del decreto legislativo da parte dell’apposita commissione parlamentare era parso dubbio che la formulazione proposta fosse idonea a conservare l’orientamento giurisprudenziale limitativo ed era stato formulata nel parere reso dalla Commissione la proposta di un emendamento nell’art. 12 del testo allora in discussione (che recava la disciplina poi espressa dall’art. 14), il quale proponeva di dire espressamente che “quando la controversia (….) abbia ad oggetto non solo la liquidazione degli onorari e dei diritti dell’avvocato, si applicano le disposizioni di cui al Libro 2^ del codice di procedura civile”. Ma la proposta di emendamento contenuta nel parere non trovò accoglimento nel testo del decreto legislativo. Ed è evidente che tale mancato accoglimento, al contrario di quanto si è opinato, poiché evidenzia che in sede parlamentare si era dubitato che il disposto normativo fosse idoneo a consentire la conservazione dell’orientamento affermatosi per la vecchia disciplina, è elemento rafforzativo dell’esegesi qui sostenuta.

Si aggiunga che privo di rilievo è che nel procedimento ex art. 14, sia prevista la difesa personale, che sarebbe poco compatibile con la complessità di problemi che eccedano la liquidazione. In disparte che anche la liquidazione può essere “complessa”, si rileva che la difesa personale è solo una facoltà e non può assumere rilievo ai fini della delimitazione dell’oggetto del procedimento.

Deve, dunque, affermarsi che la disciplina dell’art. 28 della Legge del 1942 e dell’art. 14 va intesa nel senso che la domanda inerente alla liquidazione cui allude la prima norma e che dice introducibile ai sensi dell’art. 14 non ha un oggetto limitato alla richiesta di liquidazione del dovuto nel presupposto dell’allegazione che la conclusione e lo svolgimento del rapporto siano incontestati e il bisogno di tutela giurisdizionale affermato con essa debba essere solo quello della determinazione del quantum dovuto. Al contrario, detto oggetto si deve identificare nella proposizione di una domanda di pagamento del corrispettivo della prestazione giudiziale senza quella limitazione e dunque anche in presenza di contestazione del rapporto e dell’an debeatur. Sicchè, se l’azione ai sensi dell’art. 14 o con il ricorso monitorio poi opposto non lo sia stata con l’allegazione che il petitum è solo la liquidazione delle spettanze, essendo incontroverso l’an debeatur, non si deve far luogo all’applicazione – che dovrebbe avvenire, peraltro, indipendentemente dall’atteggiamento del cliente e, quindi, nel primo caso pure ove egli rimanga contumace – del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 4, comma 1 e, dunque, alla constatazione che il rito di cui agi artt. 28 e 14 è stato azionato erroneamente, con conseguente necessità di passare alla trattazione con il rito ordinario.

Questa conclusione, oltre ad essere supportata dalle sopra segnalate criticità che presentava il diverso orientamento giurisprudenziale esistente sulla normativa pregressa, è anche coerente con la finalità del D.Lgs. n. 150 del 2011, posto che la scelta di disporre l’applicabilità del rito sommario alla pretesa relativa al pagamento del dovuto per le prestazioni giudiziali civili senza limitazioni è conforme all’esigenza di semplificazione, dovendosi considerare che il rapporto di prestazione d’opera, essendo relativo a prestazioni giudiziali e, dunque, di cui, per così dire, vi è traccia ed evidenza, si presta naturalmente ad accertamenti rispetto ai quali il rito sommario – formalizzato al contrario di quello camerale – risulta adeguato.

  1. Raggiunta questa conclusione, nella disciplina vigente, conforme a quanto si doveva ritenere già nella disciplina precedente ed in questo caso senza le preoccupazioni che dava il deformalizzato rito camerale, a fronte del procedimento sommario, che invece è formalizzato, l’atteggiamento difensivo del cliente (quando l’avvocato avesse proposto la domanda o il ricorso monitorio adducendo l’esigenza di una sola liquidazione), tanto che si concreti nella contestazione del rapporto di clientela, tanto nel caso di contestazioni relative comunque all’an debeatur e non al quantum, purchè non si concreti nell’ampliamento dell’oggetto del giudizio con l’introduzione di una domanda, non determina alcuna incidenza sulla possibilità che il processo si svolga e si chiuda con il rito sommario e, dunque, non dà luogo ad una sorta di sopravvenuta inammissibilità del procedimento stesso, peraltro esclusa dal disposto del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 4, comma 1 e nemmeno all’esigenza di disporre il cambiamento del rito ed il passaggio alla cognizione ordinaria in applicazione di tale disposto.

Il procedimento sommario può senz’altro continuare con l’esame delle difese del cliente.

13.1. Qualora la difesa del convenuto si sia concretata invece nell’allargamento dell’oggetto del giudizio con una domanda ed essa non ponga problemi di competenza, nel senso che non esorbiti dalla competenza del giudice adito ai sensi dell’art. 14, viene in giuoco dell’art. 702-ter c.p.c., comma 4, il quale è applicabile al procedimento di cui allo stesso art. 14.

Ne segue che il giudice del procedimento deve vagliare se la domanda del convenuto possa essere trattata con il rito sommario, cioè non richieda un’attività istruttoria non sommaria. In questo caso procederà alla trattazione congiunta con il rito sommario. In caso contrario, la disciplina del detto quarto comma impedisce di prospettare l’applicazione di quella dell’art. 40 c.p.c., commi 3 e 4 (che sopra si è ipotizzata nel vecchio regime) e la strada è obbligata. La trattazione della domanda introdotta dal cliente dovrà avvenire, previa separazione, con il rito ordinario a cognizione piena (ed eventualmente con un rito speciale a cognizione piena: si pensi alla deduzione del cliente dello svolgimento delle prestazioni nell’ambito di un rapporto di coordinazione continuativa e continuata o di lavoro, ammesso che ne sia possibile la configurazione in relazione al regime della professione). E, qualora la decisione sulla domanda separata sia pregiudiziale rispetto a quella della domanda di pagamento degli onorari, verrà in considerazione – ancorché i processi restino davanti allo stesso giudice – l’art. 295 c.p.c..

Ove la domanda introdotta dal cliente convenuto non appartenga alla competenza del giudice adito ai sensi dell’art. 14 c.p.c., verranno invece in rilievo – in aggiunta al problema del rito – le norme sulle modificazioni della competenza per ragioni di connessione, che eventualmente potranno comportare lo spostamento della competenza sulla domanda ai sensi dell’art. 14 (salvo il caso che il giudizio sia partito con il procedimento monitorio, in cui, secondo l’interpretazione ancora consolidata non è possibile lo spostamento della competenza sul giudizio di opposizione e occorrerà separare le cause).

Tali evenienze, consentendo se del caso la possibilità del simultaneus processus, segnano una certa distonia rispetto alla mancanza di quella possibilità nel caso in cui la domanda del cliente non presenti problemi di competenza.

Nel caso in cui sia stata adita la corte d’appello, va considerato che del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 3, comma 3, prevede che resti ferma l’inapplicabilità del secondo e dell’art. 702-ter, comma 3 e dispone che per il resto si applichi (oltre all’art. 702-bis) quello stesso articolo. Se venga proposta una riconvenzionale occorrerà considerare che su di essa non sembra possibile immaginare che possa trovare applicazione dell’art. 702-ter, comma 4, che suppone evidentemente la competenza del giudice adito con il procedimento sommario su di essa. La corte d’appello, essendo di norma giudice competente in secondo grado, non può in alcun modo considerarsi competente sulla riconvenzionale (introdotta come domanda di primo grado) e, dunque, non si può ipotizzare che, qualora la riconvenzionale si presti ad un’istruzione sommaria, quella corte possa trattarla. Non resta che ipotizzare sempre la necessaria separazione della riconvenzionale e la rimessione al giudice competente in primo grado, con le conseguenti decisioni ex art. 295 c.p.c., sulla sorte del giudizio ex art. 14 ove la riconvenzionale abbia efficacia pregiudicante. Se la domanda abbia ad oggetto la deduzione di una richiesta di compensazione sarà possibile ipotizzare ai sensi dell’art. 35 c.p.c., l’eventuale condanna con riserva.

  1. Mette conto di precisare che l’azione di accertamento negativo (in tutto od in parte) dell’esistenza del credito per prestazioni professionali giudiziali di cui alla L. n. 794 del 1942, art. 28, che venga autonomamente esercitata dal cliente non risulta riconducibile all’ambito dell’art. 14 perché l’art. 28 della Legge del 1942 indica come soggetto attore solo l’avvocato. Essa è, dunque, soggetta alle ordinarie regole di competenza e, sotto il profilo del rito praticabile, o al rito di cognizione ordinaria o a quello codicistico di cui all’art. 702-bis c.p.c. e segg. (nel caso di competenza del tribunale monocratico).
  2. La prima questione posta dall’ordinanza di rimessione deve, dunque, risolversi con l’affermazione del seguente principio di diritto: “A seguito dell’introduzione del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14, la controversia di cui alla L. n. 794 del 1942, art. 28, come sostituito dal citato D.Lgs., può essere introdotta: a) o con un ricorso ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c., che dà luogo ad un procedimento sommario “speciale”, disciplinato dal combinato disposto dell’art. 14 e degli artt. 3 e 4 del citato D.Lgs. e dunque dalle norme degli artt. 702-bis c.p.c. e segg., salve le deroghe previste dalle dette disposizioni del D.Lgs.; b) o con il procedimento per decreto ingiuntivo ai sensi degli artt. 633 c.p.c. e segg., l’opposizione avverso il quale si propone con ricorso ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c. e segg., ed è disciplinata come sub a), ferma restando l’applicazione delle norme speciali che dopo l’opposizione esprimono la permanenza della tutela privilegiata del creditore e segnatamente degli artt. 648, 649 e 653 c.p.c.(quest’ultimo da applicarsi in combinato disposto con dell’art. 14, u.c. e con il penultimo comma dell’art. 702-ter c.p.c.). Resta, invece, esclusa la possibilità di introdurre l’azione sia con il rito di cognizione ordinaria e sia con quello del procedimento sommario ordinario codicistico, di cui agli artt. 702-bis c.p.c. e segg.”.

La seconda questione posta dall’ordinanza di rimessione va risolta con l’affermazione del seguente principio di diritto: “La controversia di cui alla L. n. 794 del 1942, art. 28, tanto se introdotta con ricorso ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c., quanto se introdotta con ricorso per decreto ingiuntivo, ha ad oggetto la domanda di condanna del cliente al pagamento delle spettanze giudiziali dell’avvocato tanto se prima della lite vi sia una contestazione sull’an debeatur quanto se non vi sia e, una volta introdotta, resta soggetta (nel secondo caso a seguito dell’opposizione) al rito indicato dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14, anche quando il cliente dell’avvocato non si limiti a sollevare contestazioni sulla quantificazione del credito alla stregua della tariffa, ma sollevi contestazioni in ordine all’esistenza del rapporto, alle prestazioni eseguite ed in genere riguardo all’an. Soltanto qualora il convenuto svolga una difesa che si articoli con la proposizione di una domanda (riconvenzionale, di compensazione, di accertamento con efficacia di giudicato di un rapporto pregiudicante), l’introduzione di una domanda ulteriore rispetto a quella originaria e la sua esorbitanza dal rito di cui all’art. 14 comporta – sempre che non si ponga anche un problema di spostamento della competenza per ragioni di connessione (da risolversi ai sensi delle disposizioni degli artt. 34, 35 e 36 c.p.c.) e, se è stata adita la corte di appello, il problema della soggezione della domanda del cliente alla competenza di un giudice di primo grado, che ne impone la rimessione ad esso – che, ai sensi dell’art. 702-ter c.p.c., comma 4, si debba dar corso alla trattazione di detta domanda con il rito sommario congiuntamente a quella ex art. 14, qualora anche la domanda introdotta dal cliente si presti ad un’istruzione sommaria, mentre, in caso contrario, si impone di separarne la trattazione e di procedervi con il rito per essa di regola previsto (non potendo trovare applicazione, per l’esistenza della norma speciale, la possibilità di unitaria trattazione con il rito ordinario sull’intero cumulo di cause ai sensi dell’art. 40 c.p.c., comma 3)”.

  1. Vanno a questo punto applicate le regole che si sono enunciate con riferimento alla controversia oggetto di regolamento ed alla decisione su di esso.

Si osserva che la domanda del ricorrente era stata introdotta espressamente con il rito dell’art. 702-bis c.p.c., codicistico, che, invece, non era praticabile. Peraltro, l’azione cumulava pretese inerenti prestazioni giudiziali svolte davanti a tre uffici diversi, cioè il Giudice di Pace di Roma, il Tribunale di Roma e la Corte d’Appello di Roma. A norma del combinato disposto dell’art. 28 della legge del 1942 e del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14, il ricorrente avrebbe potuto proporre tre distinte domande davanti a detti uffici ai sensi dell’art. 14, comma 2 e dunque non far luogo al cumulo. Sempre a norma del detto combinato disposto e dell’art. 637 c.p.c., avrebbe potuto: a) proporre le domande in cumulo con il rito monitorio ai sensi dell’art. 637 c.c., comma 1 e, dunque, davanti al tribunale competente secondo le regole della cognizione ordinaria; b) proporle separatamente davanti all’ufficio di espletamento delle prestazioni ai sensi del secondo comma della stessa norma; c) proporle cumulativamente davanti al tribunale del luogo indicato dell’art. 637 c.p.c., comma 3.

La possibilità di praticare detti fori, come quello che il ricorrente ha adito, doveva, però, misurarsi, sotto il profilo della competenza per territorio, con la posizione della cliente, che era qualificabile come consumatrice alla stregua della nozione indicata dal D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 3, comma 1, lett. a), con conseguente operatività in via prevalente del foro di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 33, comma 2, lett. u), sicchè ognuno dei fori di cui si è detto, in tanto avrebbe potuto essere azionato, in quanto sul piano territoriale fosse stato coincidente con quello della residenza della L., giusta quanto osservato sopra sub 3.5.

Si deve, infatti, ritenere che la giurisprudenza colà richiamata, non avendo la disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 150 del 2011, carattere innovativo sulla competenza, come sì è in precedenza rilevato, ha conservato piena validità una volta sopravvenuta detta disciplina.

L’inosservanza del foro della consumatrice sarebbe stata rilevabile d’ufficio se vi fosse stata, cioè se il foro di Civitavecchia non fosse stato quello di residenza della L..

Il Tribunale, di fronte alla proposizione della domanda con il non ammissibile rito sommario codicistico avrebbe dovuto provvedere ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 4, comma 1, alla trattazione con il rito sommario speciale di cui all’art. 14: tale possibilità si configura, perché, come si è veduto, tale rito è quello cui la controversia ex artt. 28 e 14 è soggetto.

Il tribunale avrebbe potuto interrogarsi sull’esistenza della sua competenza e rilevare che essa non si configurava alla stregua dell’art. 14, comma 2, non essendo state le prestazioni giudiziali svolte presso di sé, ma il criterio di competenza di cui a tale norma non è dichiarato inderogabile espressamente dal legislatore e non si può nemmeno considerarlo tale, in quanto legato alla funzione del giudice, per essere le prestazioni oggetto della domanda. Occorre, infatti, considerare che il cumulo di domande proposte dal qui ricorrente sarebbe stato eventualmente introducibile presso il Tribunale di Civitavecchia anche con il rito monitorio in presenza di un criterio di radicazione ai sensi dell’art. 637 c.p.c., commi 1 o 3. Il fatto che il qui ricorrente non avesse utilizzato la forma monitoria e, dunque, non avesse utilizzato uno dei due riti introduttivi possibili, non incideva sulla possibilità che il detto tribunale potesse essere competente, atteso che, se il legale rinuncia ad avvalersi del procedimento monitorio ed introduce la controversia ex art. 28, direttamente con il rito sommario, sebbene non davanti all’ufficio presso il quale le prestazioni sono state espletate, non si può ritenere che il giudice adito non sia competente, qualora la sua competenza fosse sussistita se fosse stato adito con il rito monitorio.

Tanto si giustifica, perché il criterio di competenza di cui all’art. 14, comma 2, concerne soltanto l’ipotesi in cui si utilizzi la forma di introduzione con il procedimento sommario e si adisca l’ufficio presso il quale sono state svolte le prestazioni. Invero, poiché l’art. 28, prevede l’azionabilità della domanda in via alternativa con il rito monitorio e dell’art. 14, comma 1, dice che è l’opposizione al decreto ingiuntivo ad essere regolata dalla norma per quanto non diversamente risposto, non si può dubitare, come, del resto si è in precedenza dato per scontato, che la competenza per l’introduzione con il ricorso monitorio sia disciplinata dall’art. 637 c.p.c.. Si deve escludere, in sostanza, che la forma monitoria di introduzione della domanda sia divenuta azionabile con il rito monitorio in subiecta materia solo davanti al giudice preso il quale le prestazioni sono state espletate.

Poiché la regola di competenza, una volta proposta l’opposizione non può mutare e l’esercizio dell’azione con il rito monitorio è, d’altro canto, una facoltà dell’avvocato alternativa a quella di introduzione della domanda ex art. 14, se l’avvocato non chiede il decreto ingiuntivo ed agisce con il ricorso ex art. 702-bis, direttamente utilizzando uno dei criteri di competenza di cui al comma 1 ed al comma 3 dell’art. 137 (non quello di cui al secondo comma, che coincide con quello di cui dell’art. 14, comma 2), l’azione resta comunque regolata dal rito sommario speciale di cui all’art. 14, salvo appunto che per il profilo di competenza.

Il Tribunale di Civitavecchia avrebbe allora potuto bene essere adito qualora fosse stato configurabile uno dei criteri di competenza di cui all’art. 637 c.p.c., commi 1 e 3.

Nella specie, tuttavia, non occorre verificare se esso sia competente alla loro stregua, non essendolo quale giudice dello svolgimento delle prestazioni.

E’ sufficiente rilevare che il qui ricorrente aveva allegato alla notificazione del ricorso e del decreto di fissazione di udienza un certificato di residenza della L. in (OMISSIS), cioè nell’ambito del circondario del Tribunale di Civitavecchia, sicché in ogni caso la competenza risultava ben radicata, in quanto operava in via prioritaria il foro di cui all’art. 33, comma 2, lett. u).

Tanto comporta che debba dichiararsi la competenza del Tribunale di Civitavecchia sulla controversia. A seguito della riassunzione, lo si precisa ai sensi dell’art. 49 c.p.c., esso tratterà la controversia con il rito di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14.

La novità delle questioni esaminate giustifica la compensazione delle spese del regolamento di competenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara la competenza del Tribunale di Civitavecchia, davanti al quale il giudizio andrà riassunto nel termine di cui all’art. 50 del codice di procedura civile. Compensa le spese del giudizio di regolamento di competenza.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 24 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2018

Cass_civ_Sez_Unite_23_02_2018_n_4485




In caso di opposizione all’ingiunzione di pagamento europea si applica l’art. 650 c.p.c.

In caso di opposizione all’ingiunzione di pagamento europea si applica l’art. 650 c.p.c.

Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza n. 7075 del 20/03/2017

Con Ordinanza del 20 marzo 2017 la Corte di Cassazione Civile, Sezioni Unite, in tema di ingiunzione di pagamento europea, ha stabilito che, il termine per la proposizione del riesame, nei casi di cui all’art. 20, comma 1, del Reg. CE n. 1896 del 2006, si identifica in quelli desumibili dall’art. 650 c.p.c., quale disposizione che disciplina il relativo procedimento in Italia, sicché esso va individuato nel termine previsto dall’ordinamento italiano per l’opposizione tempestiva a decreto ingiuntivo, qualora non sia iniziata l’esecuzione, ovvero, quale termine finale, in quello di cui al terzo comma del cit. art. 650, quando l’esecuzione sia iniziata.


Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza n. 7075 del 20/03/2017

In caso di opposizione all’ingiunzione di pagamento europea si applica l’art. 650 c.p.c.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. __ – Primo Presidente f.f. –

Dott. __ – Presidente di Sez. –

Dott. __ – Presidente di Sez. –

Dott. __- Consigliere –

Dott. __- Consigliere –

Dott. __- Consigliere –

Dott. __ – Consigliere –

Dott. __- rel. Consigliere –

Dott. __- Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso __proposto da:

F. GMBH, rappresentata e difesa dall’avv. __ per delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M., rappresentato e difeso dall’avv. __, per delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il  __;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del  __ dal Consigliere Dott. __;

uditi gli avvocati  __ ed  __;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott __, che ha concluso per il rigetto del ricorso, in subordine rilievo delle questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia.

Svolgimento del processo

  1. F. GmbH ha proposto ricorso per cassazione contro M. avverso la sentenza del __, con la quale la Corte d’Appello di Trieste ha rigettato il suo appello contro la sentenza del Tribunale di Udine del __.

Con quella sentenza era stata dichiarata inammissibile la richiesta di riesame, proposta da essa ricorrente ai sensi dell’art. 20 del Regolamento CE n. 1896 del 2006, con riferimento all’ingiunzione di pagamento Europea (in prosieguo: IPE), richiesta al Tribunale di Udine dal M. ed ottenuta il  __  per l’importo complessivo di Euro  __. Somma asseritamente dovuta dalla ricorrente, quale corrispettivo per una prestazione d’opera professionale, consistita nella progettazione relativa alla costruzione di un edificio realizzato nella Repubblica Federale Austriaca e precisamente in (OMISSIS).

  1. Come ragioni giustificative della richiesta di riesame la F. GmbH aveva dedotto la nullità della notificazione del decreto ingiuntivo per la mancata individuazione della sede legale della convenuta e per non essere stata rispettata la disciplina relativa alla notificazione all’estero dell’IPE, la nullità e/o inesistenza della notificazione sotto altri profili, ed inoltre il difetto di giurisdizione del giudice italiano sotto vari profili.
  2. Il Tribunale di Udine, nella costituzione del M., dichiarava inammissibile la richiesta di riesame, reputandola tardiva. Tanto perché alla sua proposizione trovava applicazione l’art. 650 c.p.c. ed essa risultava introdotta oltre il termine previsto da tale norma.
  3. La Corte territoriale, nella sentenza impugnata, ha ribadito la valutazione di inammissibilità del riesame per tardività, condividendo la tesi dell’applicabilità di quel termine.
  4. Al ricorso per cassazione, che è affidato a sei motivi, il quinto dei quali inerisce a difetto di giurisdizione del giudice italiano, ha resistito con controricorso l’intimato.
  5. La ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, “omesso esame dell’eccezione relativa alla nullità della notifica per mancata individuazione della sede legale di F. GmbH”.

Vi si lamenta che la sentenza impugnata avrebbe omesso qualsiasi decisione sulla questione, relativa all’essere stata la notificazione dell’IPE effettuata presso un indirizzo non corrispondente alla sede legale della società ricorrente, e vi si assume espressamente di voler riproporre la questione.

1.2. Il secondo motivo denuncia, sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, “omesso esame dell’eccezione relativa alla nullità della notifica per mancato rispetto della disciplina sulla notifica all’estero – mancata traduzione dell’atto”, dolendosi – pur con espressa affermazione che la questione sarebbe stata ritenuta assorbita – che la sentenza impugnata nulla abbia detto sulla nullità della notificazione dell’IPE, in quanto avvenuta in lingua italiana.

1.3. Il terzo motivo, anch’esso parametrato all’art. 360 c.p.c., n. 5, fa valere “omesso esame dell’eccezione relativa alla inesistenza/nullità della notifica per carenza e/o deficienza della relazione di notifica” e nuovamente dichiara di voler riproporre tale questione, che viene prospettata adducendo che la relazione di notificazione non sarebbe stata tradotta in lingua tedesca ed avrebbe presentato deficienze, avendo identificato l’atto solo come “ricorso per emissione di decreto ingiuntivo Europeo”.

1.4. Nel quarto motivo, dedotto in via subordinata rispetto ai precedenti, pur dichiarandosi espressamente che la Corte territoriale non si sarebbe pronunciata sul punto per avere ritenuto decisiva la questione della tardività della richiesta di riesame, si prospetta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione delle norme sulla notificazione dell’IPE, di cui agli artt. 13 e 14 e ss. del Regolamento CE n. 1896 del 2006, in quanto discendente dai fatti di cui nei motivi precedenti si è lamentato l’omesso esame.

1.5. Il quinto motivo deduce testualmente, ai sensi del n. 1 dell’art. 360 c.p.c., “difetto di giurisdizione – legge austriaca applicabile – prescrizione”, ma non vi si sostiene alcunché in punto di prescrizione, bensì vi si argomentano ragioni che, a dire della ricorrente, escludevano che l’IPE potesse essere emessa dal giudice italiano alla stregua del Regolamento CE del Consiglio n. 44 del 2001 e in base alla Convenzione di Roma del 19 giugno 1980, in quanto richiamata dalla L. n. 218 del 1995, art. 57.

1.6. Con il sesto motivo, in fine, si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, “violazione e falsa applicazione dell’art. 26 del Regolamento CE n. 1896/2006 in relazione all’art. 650 c.p.c.” e questa volta si impugna l’effettiva ratio decidendi della sentenza della corte triestina, svolgendo la tesi che non doveva applicarsi il termine di cui all’art. 650 c.p.c..

  1. I primi cinque motivi sono inammissibili, in quanto pongono questioni sulle quali la Corte territoriale non ha deciso, avendo ritenuto di condividere la decisione di primo grado riguardo al punto preliminare dell’inammissibilità della richiesta di riesame per la tardività della sua proposizione.

Ciò, ha comportato, come del resto afferma la stessa sentenza impugnata (e come, peraltro, la stessa ricorrente dice nell’illustrare il secondo ed il quarto motivo), il loro assorbimento.

La decisione su dette questioni sarebbe stata possibile solo se il giudice d’appello avesse accolto l’appello ed avesse ritenuto ammissibile la richiesta di riesame.

Tanto vale anche riguardo al quinto motivo, che pone la questione di giurisdizione e che ha giustificato la rimessione del ricorso all’esame delle Sezioni Unite, giacché quella questione era stata dedotta come ragione di ingiustizia dell’IPE e come tale sarebbe stata scrutinabile solo se la richiesta di riesame fosse stata ammissibile.

2.1. Peraltro, con specifico riferimento al quinto motivo, si deve rilevare che, quando pure in questa sede si dovesse reputare erronea la valutazione di inammissibilità della richiesta di riesame, assumerebbe rilievo il fatto che l’ipotetica circostanza che l’IPE sia stata emessa da un giudice carente di giurisdizione non rappresenterebbe – come ha ritenuto, di recente, questa Corte (Cass., Sez. Un. n. 10799 del 2015) una ragione deducibile con la richiesta di riesame ed in particolare (non essendo nemmeno astrattamente riconducibile al paradigma del comma 1 dell’art. 20 del Regolamento) ai sensi del comma 2 di tale norma.

  1. L’unico motivo di ricorso esaminabile è, dunque, il sesto ed è infondato, in quanto è da ritenere corretta la tesi, che entrambi i giudici di merito hanno fatto propria, cioè quella che la richiesta di riesame ai sensi dell’art. 20 del Regolamento n. 1896 del 2006, nel caso di specie, dovesse ritenersi soggetta al termine di cui all’art. 650 c.p.c., nella specie non rispettato.

Questa tesi è stata sostenuta dalla corte territoriale muovendo dalla premessa che il regolamento comunitario, con il suo art. 20, ammette il riesame “in casi eccezionali” e purché la parte “agisca tempestivamente”, ma non prevede un termine, a differenza di quello di trenta giorni, indicato dall’art. 16, comma 2, per l’opposizione, per così dire, “ordinaria” all’ingiunzione, il quale, del resto, secondo la corte giuliana non potrebbe ritenersi applicabile al riesame, perché una simile conclusione sarebbe impedita dal principio per cui ubi lex voluit dixit.

Sulla base di tale premessa, la corte giuliana: a) ha rilevato che “nel dubbio, per fornire una soluzione che dia certezza del diritto, non può che ricorrersi all’art. 26 del regolamento, secondo il quale “tutte le questioni procedurali non trattate specificamente dal presente regolamento sono disciplinate dal diritto nazionale”, nonché all’art. 29, che affida agli Stati membri la regolazione del procedimento di riesame.”; b) ha, conseguentemente, ritenuto applicabile il termine di cui all’art. 650 c.p.c. e, pur concedendo che “si tratta di un termine assai ristretto, dati gli ostacoli logistici e linguistici nel caso di ingiunzione Europea”, ha concluso che si tratterebbe di un termine applicabile ad un mezzo di tutela, il riesame, ammesso in casi eccezionali ed ha soggiunto che esso sarebbe l’unico che garantirebbe “coerenza e certezza al sistema”.

3.1. Mette conto di rilevare che la motivazione espressa dalla corte territoriale, peraltro, non chiarisce expressis verbis se essa abbia inteso riferire l’applicabilità del termine di cui all’art. 650 c.p.c. alla richiesta di riesame, tanto nelle ipotesi di cui al comma 1 quanto nelle ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 20.

3.2. Inoltre, dalla lettura della motivazione non emerge alcuna individuazione dell’atto che avrebbe segnato il dies a quo del termine di cui all’art. 650 c.p.c., comma 3, ma è chiaro che la corte territoriale ha ritenuto che un atto di quel genere, cioè un primo atto di esecuzione, vi fosse stato e, naturalmente, che vi fosse stato nell’ordinamento austriaco.

  1. La critica alla tesi della sentenza impugnata è stata svolta dalla ricorrente con i seguenti argomenti:

a) l’applicazione del termine di cui all’art. 650 c.p.c. sulla base dell’art. 26 del Regolamento e, quindi, il dare rilevanza al termine di dieci giorni dall’inizio dell’esecuzione forzata, che nella specie aveva avuto corso presso il Tribunale di Innsbruck con deposito di una Executionsantrag, si sarebbe concretata in una soluzione, che non avrebbe considerato le marcate differenze fra la legislazione austriaca e quella italiana, in punto di attività prodromica dell’inizio dell’esecuzione forzata;

b) tali differenze sarebbero date dal fatto che, mentre il nostro ordinamento prevede che, per iniziare l’esecuzione forzata, è necessario notificare al debitore, oltre al titolo esecutivo, anche l’atto di precetto, il che consentirebbe al medesimo di avere “un’ulteriore possibilità di conoscenza della volontà esecutiva del creditore”, viceversa la legge austriaca sull’esecuzione (ExeKutionsordnung) non contemplerebbe “atti similari al nostro atto di precetto ed il procedimento esecutivo austriaco” sarebbe “profondamente diverso da quello italiano”, giacché in Austria, a seguito della richiesta del creditore di autorizzazione all’esecuzione (Executionsantrag), di cui non si deve dare avviso al debitore, il Giudice autorizza l’esecuzione con un’ordinanza, che viene successivamente comunicata al debitore, di modo che è solo con tale notifica che costui viene a conoscenza dell’esecuzione;

c) che, anche avuto riguardo al principio affermato da Cass. n. 12155 del 1995 (erroneamente attribuita alle Sezioni Unite), circa l’identificazione, agli effetti del decorso del termine di cui all’art. 650 c.p.c., dal “primo atto esecutivo”, inteso come atto “normalmente percepito e conosciuto dal debitore, (che) lo immette nell’effettiva condizione di valersi dell’indicato rimedio”, l’Executionsantrag non potrebbe essere identificato come tale, atteso che esso non viene notificato al debitore, onde soltanto la notifica dell’ordinanza giudiciale potrebbe meritare quella identificazione;

d) la controparte avrebbe “confessato” (sic), come emergerebbe da una dichiarazione del legale del suo legale, indicata come doc. 10, che l’ordinanza del Tribunale di Innsbruck, autorizzativa dell’esecuzione era stata notificata il 17 maggio 2011, ma, a prescindere dal rilievo che con detta dichiarazione non avrebbe assolto all’onere di provare tale circostanza, in ogni caso bene si evidenzierebbe che la ricorrente avrebbe comunque avuto, anche a partire da quella data, un brevissimo lasso di tempo per reagire rispetto al momento del deposito del ricorso per riesame, avvenuto il 31 maggio 2011, e ciò tanto più perché all’ordinanza austriaca il titolo non era allegato e la conoscenza di esso si era potuta acquisire “solo a seguito di specifiche ricerche all’interno dei competenti uffici giudiziari”, tenuto che l’ordinamento austriaco non prevede né la previa notifica del titolo esecutivo né quella del precetto.

4.1. Per tali ragioni la scelta esegetica della corte territoriale sarebbe stata, ad avviso della ricorrente, erronea, ed inoltre si sarebbe risolta nell’attribuire al cittadino straniero oneri maggiori e più gravosi di quelli a carico di un cittadino italiano, con conseguente violazione del diritto di difesa.

Se ne fa derivare che il rinvio alla legge nazionale, di cui all’art. 26 citato, evocato dalla corte giuliana, dovrebbe essere inteso solo come relativo al rito ed alla procedura di cui all’art. 650 c.p.c. e non anche al termine da quella norma previsto.

Si sottolinea che nel breve termine di cui all’art. 650 c.p.c. la ricorrente, senza avere avuto conoscenza del titolo per la nullità e irregolarità della sua notifica e senza avere avuto conoscenza della Executionsantrag, si sarebbe dovuta attivare, una volta ricevuta l’ordinanza di suo accoglimento da parte del giudice austriaco, per far tradurre il titolo esecutivo dall’italiano e rivolgersi ad un legale in Austria, il quale a sua volta si sarebbe dovuto rivolgere ad un collega italiano, per la redazione ed il deposito della richiesta di riesame.

Sulla base di tali argomenti si sostiene che sarebbe allora più corretto individuare il termine in trenta giorni, come per l’ordinaria opposizione all’ingiunzione.

4.2. E’ opportuno rilevare che nemmeno la ricorrente precisa se la sua prospettazione riguardi oppure no tutte le ipotesi di riesame, cioè sia quelle di cui al comma 1, sia quelle di cui al comma 2.

4.3. Inoltre, è necessario osservare che parte ricorrente ragiona del termine di cui all’art. 650 c.p.c. con esclusivo riferimento a quello di cui al terzo comma della norma, senza considerare che quella norma, in realtà, non lo prevede come unico termine per l’opposizione tardiva, ma lo considera solo come il termine ultimo, di chiusura, che opera qualora non debba invece operare il termine nella misura prevista per la proposizione dell’opposizione in via ordinaria.

Tale termine, invece, a norma della previsione dettata dal primo comma della norma in via implicita, opera, allorquando la conoscenza del decreto – per irregolarità della notificazione, per caso fortuito o per forza maggiore – non sia stata acquisita dall’ingiunto in un momento utile per proporre l’opposizione tempestivamente, cioè nel termine apparentemente decorso dalla notificazione, in modo da poterne beneficiare interamente in quanto decorrente da essa, ma, tuttavia, sia stata acquisita successivamente a quel momento e ciò indipendentemente dall’inizio dell’esecuzione.

In questo caso, cioè se un’esecuzione no sia iniziata, l’opposizione – fermo il presupposto legittimante – deve essere proposta nell’osservanza del termine ordinariamente previsto e non in quello ridotto di cui al terzo comma, con la sola particolarità che esso decorre dal momento della effettiva conoscenza del decreto.

Il termine di cui all’art. 650, comma 3, invece, opera allorquando l’ingiunto abbia acquisito conoscenza dell’ingiunzione esclusivamente a seguito del compimento del primo atto di esecuzione.

Per riferimenti al riguardo si vedano Cass., Sez. Un., n. 9938 del 2005, Cass., Sez. Un., n. 14572 del 2007, nonché, da ultimo Cass. n. 17759 del 2011, secondo cui: “Nel caso di opposizione tardiva a decreto ingiuntivo, l’art. 650 c.p.c. prevede, al primo comma, il termine ordinario di quaranta giorni per la sua proposizione decorrente dalla conoscenza del decreto irregolarmente notificato, e distintamente, al comma 3, il termine di chiusura di dieci giorni dal compimento del primo atto di esecuzione; ne consegue che il termine stabilito dal comma 3 non esclude l’operatività di quello previsto dal comma 1”.

4.3.1. Ora, la prospettazione della ricorrente, ragionando dell’art. 650 c.p.c. solo nella contemplazione del termine di cui al suo terzo comma, implica che Essa non abbia inteso porre in discussione che nella specie vi sia stato un atto di inizio dell’esecuzione.

Esecuzione che ha avuto natura immobiliare, come si dice a pagina 4 del ricorso.

Ciò, è tanto vero, che Essa, dopo avere escluso che a quei fini possa avere avuto valore il deposito della richiesta di autorizzazione all’esecuzione (cioè, in definitiva, che l’esecuzione immobiliare inizi in Austria con il deposito di tale richiesta), fa riferimento in proposito alla successiva notificazione del provvedimento autorizzativo dell’esecuzione, per sostenere che da quel momento dovrebbe decorrere non il termine di dieci giorni, ma quello di trenta per l’opposizione “ordinaria” all’IPE. Non può, dunque, revocarsi in dubbio che la prospettazione della ricorrente è stata svolta nel senso che un primo atto di esecuzione evocato dall’art. 650 c.p.c., ultimo comma, si dovrebbe ravvisare nella notificazione dell’autorizzazione all’esecuzione.

La prospettazione è confermata dalla memoria, tanto che a pagina _ si allude all’inizio dell’esecuzione quantomeno dalla data del notifica dell’autorizzazione.

Dunque, lo scrutinio cui la Corte è sollecitata deve avvenire nel presupposto che nell’ordinamento austriaco, secondo la ricorrente, l’esecuzione forzata immobiliare inizi con la notificazione della l’ordinanza del tribunale autorizzativa dell’esecuzione.

  1. Prima di esporre le ragioni di infondatezza del sesto motivo è necessaria, a questo punto, una premessa.

La lettura dell’art. 20 del Regolamento evidenzia che le due ipotesi di ammissibilità del “riesame in casi eccezionali”, rispettivamente previste dal comma 1 e dal comma 2, hanno presupposto diversi.

5.1. Nel comma 1, le situazioni legittimanti sono due ed entrambe suppongono che circostanze estranee alla formazione dell’IPE abbiano reso impossibile rispettare il termine per la proposizione dell’opposizione “ordinaria”, di cui all’art. 16.

La prima, individuata dalla lettera a), ha due presupposti, indicati nelle lettere i) e ii).

Essi sono che la notificazione dell’IPE sia stata effettuata a norma dell’art. 14 del Regolamento, cioè, come recita la sua rubrica, “senza prova di ricevimento da parte del convenuto”, e che in relazione al momento della notificazione, che non si suppone necessariamente viziata, non sia stato possibile proporre l’opposizione “ordinaria” nel termine “per ragioni non imputabili” al convenuto ingiunto: pertanto i presupposti legittimanti sono che la notificazione sia stata fatta ai sensi dell’art. 14 e che, tanto se essa sia stata rituale (secondo le sue previsioni) quanto se non lo sia stata, si sia comunque verificato un fatto non imputabile all’ingiunto, che abbia impedito l’opposizione tempestiva ed abbia assunto tale idoneità in dipendenza del momento della notificazione (corretta o viziata che sia stata). Il riferimento al “tempo utile” sottende evidentemente, e ciò rileva comunque, cioè, quando la notifica sia stata corretta, che all’ingiunto la conoscenza diretta dell’IPE, ricevuta da altro soggetto, non si pervenuta effettivamente in un momento tale da consentirgli l’opposizione ordinaria tempestiva.

La seconda fattispecie legittimante ai sensi del comma 1 è indicata dalla lettera b) e, in primo luogo, essa si riferisce, come risulta implicitamente, ad ogni forma di notificazione dell’IPE e, quindi, anche a quella dell’art. 14. In secondo luogo, ha come presupposto legittimante “situazioni di forza maggiore o di circostanze eccezionali”, che abbiano impedito l’opposizione tempestiva “per ragioni non imputabili” all’ingiunto. Anche qui il presupposto non esige una notificazione non corretta, ma l’inserirsi di una causa ostativa non imputabile.

5.2. I presupposti legittimanti del riesame, di cui all’art. 20, comma 2, sono stati identificati dalle Sezioni Unite nella già citata sentenza n. 10799 del 2015, osservando che:

a1) l’ipotesi dell’ingiunzione Europea “emessa manifestamente per errore, tenuto conto dei requisiti previsti dal presente regolamento” “si riferisce ai soli casi di errore manifesto circa la sussistenza dei requisiti formali per l’emissione del provvedimento e, quindi, a vizi formali propri del procedimento idonei ad inficiare la possibilità per il debitore di contestare l’ingiunzione, quali (a titolo meramente esemplificativo): l’assoluta incertezza dell’autorità che ha emesso l’ingiunzione, l’omessa indicazione della somma ingiunta o, più in generale, la non corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ovvero anche tra l’identità di una o entrambe le parti, l’insussistenza di informazioni da riportare nel modulo standard all. A (quale ad es. la descrizione delle prove) o da indicare nell’IPE (quali ad es. l’indicazione delle possibilità spettanti al convenuto ai sensi all’art. 12, commi 3 e 4), l’uso di una lingua non ammessa davanti al giudice adito per l’ingiunzione”.

b1) l’ipotesi dell’ingiunzione Europea “emessa manifestamente per errore (….) a causa di eventi eccezionali” è “conseguente a circostanze eccezionali (evidentemente non assimilabili alle ipotesi di rimessione in termini previste dal comma 1, lett. b) (e) deve intendersi riferita, come suggerito anche dall’esempio fatto nel par. __ considerando, a vizi patologici intervenuti nella formazione del procedimento, simili a quelli che possono giustificare la revocazione straordinaria ex art. 656 c.p.c.”.

Sulla base di queste precisazioni le sezioni Unite hanno concluso che “Qualunque altra contestazione, sul merito e/o sull’ammissibilità del provvedimento” debba ricondursi “all’ambito di operatività dell’art. 16 del Regolamento e, quindi, al giudizio di cognizione ordinaria conseguente all’opposizione tempestiva (salvo i casi di rimessione in termine di cui all’art. 20, comma 1)”, il che ha appunto giustificato l’esclusione della questione di giurisdizione dall’ambito dell’art. 20, comma 2.

5.3. La richiesta di riesame oggetto di lite risultava pacificamente basata su ragioni, che, quanto a quelle che la ricorrente ha inteso riproporre con i primi quattro motivi, ne identificavano la riconducibilità alla fattispecie di cui al comma 1 dell’art. 20 e segnatamente a quella della sua lettera a) (come, del resto suggerisce l’espressa evocazione in essi dell’art. 14 del Regolamento e, in particolare, nell’illustrazione del primo l’espressa affermazione che l’IPE venne notificato ai sensi dell’art. 14), in quanto esse prospettavano “vizi” inerenti al procedimento di notificazione dell’IPE, i quali risultavano sostanzialmente addotti come determinativi di una situazione che le aveva precluso la proposizione di una tempestiva opposizione “ordinaria”.

Viceversa, la ragione esposta nel quinto motivo, relativa al difetto di giurisdizione, di per sé prospettava una doglianza che, non solo non implicava una circostanza idonea a determinare anche solo astrattamente una preclusione della possibilità di proporre tempestivamente l’opposizione di cui all’art. 16 alla stregua del comma 1 dell’art. 20, ma neppure poteva rilevare come motivo alla stregua del comma 2 della stessa norma.

  1. Ne consegue allora che la questione della tempestività o meno del ricorso per riesame deve qui esaminarsi con riferimento alla fattispecie di cui al comma 1 dell’art. 20, mentre non rileva la questione della tempestività riguardo all’ipotesi di cui al comma 2 della norma e ciò perché nessuna delle ragioni giustificative della richiesta di riesame era riconducibile ad essa.

Peraltro, mette conto di rilevare che l’individuazione del termine per il riesame nella fattispecie di cui al comma 1 dell’art. 20 deve, necessariamente, essere fatta unitariamente, giacché quella norma, nella sua ultima proposizione, dicendo che il diritto di chiedere il riesame sussiste, “purché in entrambi i casi (il convenuto) agisca tempestivamente”, impone di considerare il problema in modo unitario (e tanto rende anche irrilevante la riconduzione delle ragioni riproposte con i primi quattro motivi, alla lettera a) o alla lettera b) del comma 1.

  1. Tanto premesso, ritiene il Collegio, ancorché la ricorrente non l’abbia prospettata, di dover disattendere una tesi che, ai fini dell’individuazione del detto termine, è stata enunciata proprio facendosi leva sul riferimento al dovere il convenuto “agire tempestivamente”.

Si è creduto – in ragione della circostanza che tanto la situazione sub a) quanto quella sub b) implicano che in un certo momento l’impossibilità di proporre l’opposizione ai sensi dell’art. 16 del Regolamento, derivante dalle situazioni descritte dalle due lettere, ad un certo momento cessa, sì da rendere possibile la reazione contro l’IPE – di poter ipotizzare che il termine per il riesame decorra da tale cessazione e che l’imposizione del dover agire tempestivamente significhi che da quel momento decorra quello stesso termine di trenta giorni, che il convenuto avrebbe avuto per proporre l’opposizione “ordinaria”.

Senonché, questa ipotesi esegetica suppone innanzitutto che all’avverbio “tempestivamente” si dia il valore di individuare il termine, ma ciò è in manifesta contraddizione con il suo significato, che, essendo quello di riferirsi ad un’azione compiuta in tempo utile, non si preoccupa di definire quando essa sia tale, dovendo risolversi tale problema aliunde ed essendo l’avverbio soltanto descrittivo di una qualificazione dell’azione appunto aliunde da ricercarsi e che suppone, naturalmente, l’individuazione del dies a quo per la presentazione della richiesta del riesame.

Ne segue allora che la tesi in discorso pretende di risolvere il problema non tanto valorizzando il suddetto avverbio, quanto reputando che, poiché la disciplina dettata dal Regolamento per l’opposizione in via ordinaria prevede un termine di trenta giorni, tale termine debba applicarsi anche alla richiesta di riesame, una volta che la sua proposizione sia divenuta possibile per il convenuto.

Suppone, dunque, che la disciplina del termine del riesame, nell’ipotesi dell’art. 20, comma 1, sia stata dettata in modo implicito.

7.1. Questa tesi sarebbe certamente sostenibile e valida, se nello stesso Regolamento non trovasse decisivo ostacolo in una norma dello stesso regolamento, quella dell’art. 26, la quale in tema di “rapporto con le norme nazionali”, prevede un criterio esegetico delle norme del Regolamento stesso, che si risolve, in buona sostanza, nel divieto di ricercare la soluzione interpretativa di una questione procedurale, emergente nell’esegesi delle sue norme, facendo ricorso a criteri come l’interpretazione sistematica, l’interpretazione estensiva o l’interpretazione analogica.

L’art. 26 – correttamente evocato, dunque, dalla corte territoriale – disponendo, sotto la rubrica “Rapporto con le norme processuali nazionali”, che “Tutte le questioni procedurali non trattate specificamente dal presente regolamento sono disciplinate dal diritto nazionale”, si connota, infatti, come una metanorma, cioè come una norma con cui si è inteso regolare l’attività interpretativa delle norme del Regolamento stesso. Il principio che esso esprime è che, in tutte le ipotesi in cui una questione inerente il processo nella materia del Regolamento non sia “trattata specificamente”, cioè espressamente regolata, da una norma di esso, la disciplina deve ricercarsi nel diritto nazionale.

Ebbene, attribuire all’avverbio “tempestivamente” il significato voluto dalla tesi in discorso non è accettabile: poiché, come s’è veduto, non sarebbe direttamente l’espressione “agire tempestivamente” ad individuare l’applicabilità della disciplina del termine di trenta giorni, previsto per l’opposizione ordinaria, ma un’operazione esegetica di carattere sistematico, innestata sul valore teleologico dell’uso dell’avverbio, è indiscutibile che tale operazione risulta vietata dall’art. 26.

È appena il caso di rilevare che la questione concernente il termine di proposizione del riesame è, del resto, certamente una “questione procedurale”, giacché inerisce al momento in cui il procedimento di riesame deve iniziare. Poiché il termine per un rimedio esperibile concerne indiscutibilmente una previsione relativa al procedimento, è del tutto infondata la tesi della ricorrente, che vorrebbe espungere il problema del termine dal concetto da quella questione.

  1. Se non fosse decisivo già quanto osservato, peraltro, la tesi in esame risulterebbe impercorribile anche per la ragione che nella successiva norma dell’art. 29, al comma 1, lett. b), venne disposto che “entro il 12 giugno 2008, gli Stati membri comunicano alla Commissione (….) il procedimento di riesame e i giudici competenti ai fini dell’applicazione dell’art. 20”.

È palese che, sempre per l’inerire della questione del termine al “procedimento”, la devoluzione alla comunicazione concerneva anche l’individuazione del termine per il riesame.

Lo Stato Italiano ha fatto tale comunicazione nei seguenti termini, che concernono sia il riesame ai sensi del comma 1, sia il riesame ai sensi del comma 2 dell’art. 20: “Art. 29(1)(b) – Procedimento di riesame. Il giudice competente per il riesame di cui all’art. 20, paragrafo 1, del regolamento n. 1896/2006/CE, e il relativo procedimento, è lo stesso giudice che ha emesso l’ingiunzione, ai sensi dell’art. 650 c.p.c. italiano. Il giudice competente per il riesame di cui all’art. 20, paragrafo 2, del regolamento n. 1896/2006/CE, e il relativo procedimento, è lo stesso giudice ordinario competente per l’ingiunzione, da adire secondo le regole ad esso comunemente applicabili”.

Il significato di tale comunicazione è chiaro: quando, a proposito del comma 1 dell’art. 20, si dice che il procedimento è quello dell’art. 650 c.p.c. si è inteso fare riferimento anche al termine art. 650 c.p.c., ex comma 3, perché esso costituisce una previsione relativa al procedimento.

Qualora, dunque, dal combinato disposto dell’art. 26 e dell’art. 29 del regolamento, si volesse inferire che la questione dell’individuazione del termine per il riesame, pur non specificamente regolata, era stata dal legislatore comunitario sottratta all’operare della metanorma di cui all’art. 26, e ricondotta alla norma dell’art. 29, con la conseguente delega al legislatore nazionale del potere di individuare la disciplina procedimentale del riesame, evidentemente non vi sarebbe che da prendere atto che lo Stato Italiano ha individuato questa disciplina nell’art. 650 c.p.c. e, quindi, anche nel termine previsto da tale norma, che, si rileva, non è, come s’è sopra avvertito, solo quello di cui al comma 3, ma anche quello ordinario per l’opposizione al decreto ingiuntivo italiano, operante allorquando l’esecuzione non sia iniziata.

Mette conto di rilevare, per completezza ed a fini di nomofilachia: a1) che, con riferimento alle due ipotesi di riesame del comma 2, siccome individuate da queste Sezioni Unite, il termine per il riesame nelle ipotesi che si sono dette similari a quelle di cui all’art. 656 c.p.c. risulta individuabile in quello che opera con riguardo all’istituto disciplinato da tale norma, che deve ritenersi implicitamente evocato dalla comunicazione dello Stato Italiano; a2) con riguardo all’ipotesi dell’ingiunzione Europea “emessa manifestamente per errore, tenuto conto dei requisiti previsti dal presente regolamento” si deve ritenere che, una volta considerato che in tale ipotesi l’IPE è stato conosciuto, ma, per i suoi difetti intrinseci, i suoi vizi propri, è stata inficiata la possibilità per il debitore di contestare l’ingiunzione, risulta agevole, secondo il tenore della comunicazione fatta allo Stato Italiano, ritenere che il termine per il riesame decorra da quando l’IPE (non opposto in via ordinaria) venga utilizzato contro il convenuto e, dunque, dal primo atto di esecuzione, cui allude l’art. 650 c.p.c. e ciò perché la regola ivi dettata può reputarsi “comunemente applicabile” a maggior ragione quando si debba reagire pur essendosi conosciuta l’IPE, e restando, invece, inapplicabile il termine ordinario che rileva nel comma 1 della norma.

  1. Le considerazioni svolte bastano a giustificare il rigetto del sesto motivo, nella parte in cui sostiene che, in presenza di inizio dell’esecuzione sulla base dell’IPE non opererebbe il termine di cui all’art. 650 c.p.c., comma 3, dovendosi osservare che l’esegesi del Regolamento, cui si è proceduto, è talmente chiara che non si configura, come il Pubblico Ministero in udienza ha prospettato (peraltro solo in linea del tutto subordinata) alcuna questione interpretativa, che imponga una rimessione alla Corte comunitaria, vertendosi in definitiva in tema di c.d. acte claire.
  2. Si deve a questo punto rilevare che, risultando la questione del termine per il riesame risolta dall’esegesi delle norme del Regolamento e, segnatamente, dall’art. 26, nonché, in ogni caso, dalla norma dell’art. 29, comma 1, lett. b), le argomentazioni enunciate dalla ricorrente, nel senso che l’applicazione del termine di cui all’art. 650 c.p.c., comma 3 (si badi, prospettate, come s’è veduto, nel presupposto che un atto di inizio dell’esecuzione vi sia), si risolverebbe in una lesione del diritto di difesa in dipendenza della particolare regolamentazione dell’inizio dell’esecuzione forzata in Austria non potrebbero risultare rilevanti per giustificare una diversa interpretazione, ma soltanto – ancorché la ricorrente non si spinga a sostenerlo – l’ipotizzare una possibile questione di conformità al diritto comunitario, inteso come comprensivo della disciplina della Cedu, riguardo all’applicazione della normativa italiana sull’art. 650 c.p.c. con riferimento all’ipotesi di IPE notificato in un ordinamento di uno Stato membro, che, nella propria regolamentazione delle modalità di inizio dell’esecuzione forzata, non conosca un equivalente del nostro precetto, che, per la sua funzione di preavviso dell’esecuzione e di dilazione del suo inizio a dieci giorni dalla sua notificazione, assolva ad un’oggettiva funzione di assicurare uno spatium deliberandi prima di essa e, quindi, si risolva nell’assicurare un termine a difesa ulteriore rispetto a quello di dieci giorni dal primo atto di esecuzione di cui all’art. 650 c.p.c., comma 3.

Questa prospettazione, però, si fonderebbe su un assunto erroneo: quello che l’inizio dell’esecuzione cui allude l’art. 650 c.p.c., comma 3, nell’ordinamento italiano, sia sempre dilazionato a dieci giorni per effetto della notificazione del precetto. Assunto erroneo, sol che si rifletta sulla possibilità che, a norma dell’art. 482 c.p.c., il giudice possa autorizzare l’esecuzione immediata, senza l’osservanza del detto termine dilatorio. Possibilità che può certamente verificarsi anche con riguardo al primo atto di esecuzione, cui allude l’art. 650 c.p.c..

10.1. Si deve, inoltre, rilevare, a questo punto, che la prospettazione della ricorrente che, pur identificandosi l’inizio dell’esecuzione con la notifica dell’ordinanza del Tribunale di Insbruck autorizzativa dell’esecuzione, tale notifica non sarebbe stata dimostrata dalla controparte, che l’avrebbe solo allegata, introduce una questione di fatto, di cui non v’è traccia nella motivazione della sentenza impugnata, senza individuare dove e come era stata prospettata nelle fasi di merito e, particolarmente, al giudice d’appello.

Comunque, tale prospettazione non risulta nemmeno essere stata fatta oggetto di una specifica e chiara censura e parte ricorrente nemmeno ha replicato alle deduzioni svolte sul punto nel controricorso.

  1. Va, inoltre, considerato che, giusta il precetto del secondo inciso del comma 3 dell’art. 20 del Regolamento l’istituto del riesame è costruito dal legislatore comunitario come un rimedio che ha natura meramente rescindente e, soprattutto, come rimedio che esplica tale funzione rescindente, espressa con la previsione della nullità dell’IPE, sulla base del mero riconoscimento da parte del giudice dell’esistenza della stessa situazione legittimante il riesame ai sensi dell’art. 20.

E’ palese, dunque, che l’applicazione del termine di cui all’art. 650 c.p.c. non può apparire, per la sua brevità, riduttiva delle possibilità di esercitare il diritto di difesa da parte dell’ingiunto, giacché il contenuto delle difese, a differenza di quanto accade per l’istituto dell’art. 650 c.p.c. nell’ordinamento italiano, quando sia esperito contro un decreto ingiuntivo nazionale, si sostanzia nella sola deduzione della situazione legittimante di cui all’art. 20, il che, all’evidenza, non comporta che si debba prendere posizione sulla fondatezza dell’IPE. Ne segue che anche per tale ragione il diritto di difesa non subisce la benché minima menomazione e ciò anche se si confronta la situazione del richiedente il riesame con quella di chi si oppone tardivamente a un decreto ingiuntivo nazionale.

  1. Il sesto motivo – ribadito che nella specie esso sollecitava lo scrutinio della questione di diritto con riferimento all’ipotesi che l’esecuzione dell’IPE fosse stata iniziata – è, dunque, rigettato sulla base del seguente principio di diritto: “In tema di ingiunzione di pagamento Europea, il termine per la proposizione del riesame nei casi di cui all’art. 20, comma 1, del Regolamento (CE) n. 1896/2006, essendo il relativo procedimento disciplinato in Italia dall’art. 650 c.p.c., si identifica in quelli desumibili da tale norma e, dunque, nel termine previsto dall’ordinamento italiano per l’opposizione tempestiva al decreto ingiuntivo, quando non sia iniziata l’esecuzione, ed in quello di cui al comma 3 di tale norma, che costituisce il termine finale, quando l’esecuzione sia iniziata”.

L’inammissibilità dei primi cinque motivi ed il rigetto del sesto comportano il rigetto del ricorso.

L’assoluta novità della questione giustifica la compensazione delle spese del giudizio di cassazione. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13 cit., comma 1-bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 25 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2017

Cass_civ_Sez_Unite_Sent_n_7075_del_20_03_2017