Le rimesse effettuate dal terzo sul conto corrente dell’imprenditore, poi fallito, non sono revocabili quando risulti che il relativo pagamento non sia stato eseguito con danaro del fallito
Le rimesse effettuate dal terzo sul conto corrente dell’imprenditore, poi fallito, non sono revocabili quando risulti che il relativo pagamento non sia stato eseguito con danaro del fallito
Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 277 del 09/01/2019
Con sentenza del 9 gennaio 2019, la Corte di Cassazione, Sezione I Civile, in tema di azione revocatoria fallimentare, ha stabilito che le rimesse effettuate dal terzo sul conto corrente dell’imprenditore, poi fallito, non sono revocabili quando risulti che il relativo pagamento non sia stato eseguito con danaro del fallito e che il terzo, utilizzatore di somme proprie, non abbia proposto azione di rivalsa verso l’imprenditore prima della dichiarazione di fallimento, né che abbia così adempiuto un’obbligazione relativa ad un debito proprio.
Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 277 del 09/01/2019
Le rimesse effettuate dal terzo sul conto corrente dell’imprenditore, poi fallito, non sono revocabili quando risulti che il relativo pagamento non sia stato eseguito con danaro del fallito
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. __ – Presidente –
Dott. __ – Consigliere –
Dott. __ – Consigliere –
Dott. __ – rel. Consigliere –
Dott. __ – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso __ proposto da:
C. S.p.a., in amministrazione straordinaria, in persona del legale rappresentante pro tempore;
– ricorrente –
contro
Fallimento __ S.p.a., in persona del Curatore dott. __;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di __, del __;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del __ dal cons. __;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. __, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato __che ha chiesto si riporta;
udito, per il controricorrente, l’Avvocato __ che ha chiesto il rigetto.
Svolgimento del processo
- Nella pendenza della procedura concorsuale aperta nei confronti del Fallimento __ S.p.a. in data __, la curatela fallimentare conveniva in giudizio C. S.p.a. proponendo nei confronti di essa azione revocatoria a norma della L. Fall., art. 67, comma 3, lett. b), (R.D. n. 267 del 1942). Il giudizio aveva ad oggetto un’unica rimessa di Euro __, accreditata in data __ sul conto corrente che la società fallita intratteneva presso C. S.p.a. Il fallimento __ S.p.a. domandava pertanto che, in conseguenza dell’accoglimento dell’azione revocatoria, C. S.p.a. fosse condannata alla restituzione dell’importo di Euro __ quale differenza tra il massimo saldo passivo del conto nei sei mesi anteriori al fallimento e il saldo finale alla data di dichiarazione del fallimento.
Il Tribunale di __, avanti al quale si costituiva C. S.p.a., accoglieva parzialmente la domanda e condannava la convenuta al pagamento della somma di Euro __, oltre interessi legali.
- Proponevano gravame contro tale pronuncia sia la curatela fallimentare che l’istituto di credito.
L’impugnazione veniva definita dalla Corte di appello di __ con sentenza del __, con cui era respinto il gravame principale e, in accoglimento di quello incidentale, C. S.p.a. veniva condannata al pagamento della somma di Euro __.
- Contro la sentenza della Corte di appello di __ ricorre per cassazione C. S.p.a. con sette motivi, illustrati da memoria; resiste con controricorso la curatela fallimentare.
Motivi della decisione
- Per la continuità espositiva suggerita dalla contiguità delle questioni da affrontare possono trattarsi congiuntamente i primi quattro motivi di ricorso.
1.1. Mette conto di premettere che la Corte di merito, avendo riguardo alla disciplina introdotta dalla L. Fall., art. 67, comma 3, lett. b), nel testo risultante dalle modifiche apportate dal D.L. n. 35 del 2005, art. 2, comma 1, lett. a), convertito in L. n. 80 del 2005, ha sottolineato come il legislatore abbia inteso operare il superamento delle incertezze applicative correlate alla anteriore disciplina prescindendo dalla natura solutoria o ripristinatoria della singola rimessa. Ha poi evidenziato che la rimessa contestata era stata posta in essere sei mesi prima della dichiarazione di fallimento (in realtà pronunciata nemmeno tre mesi dopo il perfezionarsi della detta operazione) e aveva ridotto in modo consistente e durevole l’esposizione debitoria della società fallita, tanto che – ha precisato – in prime cure il Tribunale aveva osservato come, per effetto di quel pagamento, il saldo passivo non fosse stato solo ridotto, ma nella sostanza ripianato, giacché l’esposizione debitoria si era ridotta a soli Euro __. Secondo la Corte di appello, correttamente il giudice di prima istanza aveva valorizzato, in via esclusiva, ai fini della determinazione del quantum revocabile, il dato della massima esposizione debitoria, dalla quale andava detratto l’ammontare residuo della pretesa alla data di apertura della procedura concorsuale: la Corte distrettuale ha spiegato, al riguardo, come la L. Fall., art. 70, non richieda, ai fini dell’individuazione della massima esposizione debitoria, l’apprezzamento di elementi diversi variabili, quali operazioni intermedie, ovvero la causale di singole operazioni antecedenti successive alla rimessa, onde, a suo avviso, sarebbe “congruo e logicamente consequenziale ritenere che ai criteri di legge non (sia) possibile sovrapporre modalità diverse di determinazione di calcolo che finirebbero per rendere incerti gli importi revocabili”.
1.2. Il contenuto delle censure portate contro queste affermazioni della sentenza di gravame possono riassumersi nei termini che seguono.
Il primo motivo denuncia la violazione della L. Fall., art. 67, comma 2 e comma 3, lett. b), in combinato disposto della L. Fall.,art. 70, comma 3. Secondo l’istante il giudice di appello avrebbe errato nel ritenere irrilevante la natura ripristinatoria o solutoria del versamento impugnato, trascurando così di considerare che il conto corrente era assistito da un’apertura di credito di Euro __.
Col secondo motivo viene dedotta la violazione della L. Fall., art. 67, comma 2 e comma 3, lett. b), in combinato disposto della L. Fall., art. 70, comma 3. Lamenta C. S.p.a. ricorrente che il giudice distrettuale abbia determinato la somma oggetto di revocatoria sulla base della differenza aritmetica tra “massimo scoperto” e “saldo finale” alla data dell’apertura del fallimento, senza prendere in esame le singole operazioni di conto corrente e le loro causali.
Il terzo motivo prospetta la violazione di legge riferita alle norme di cui al primo e al secondo motivo. C. S.p.a. si duole, in sintesi, della ritenuta irrilevanza dei riutilizzi delle somme oggetto delle rimesse sul conto.
Col quarto motivo viene formulata una censura di violazione di legge concernente le disposizioni di cui ai motivi che precedono. C. S.p.a. istante lamenta l’inclusione, nella somma interessata alla pronunciata revocatoria, di importi versati da soggetti terzi.
1.3. Le indicate censure pongono questioni che ineriscono alla disciplina delle revocatorie delle rimesse bancarie nel quadro degli interventi sulla procedura fallimentare introdotti col D.L. n. 35 del 2005, convertito in L. n. 80 del 2005: prospettano, anzitutto, il problema della persistente rilevanza, nella vigenza della nuova legge, della tradizionale distinzione tra rimesse solutorie e rimesse ripristinatorie della provvista. Si tratta di un tema nuovo, che non risulta affrontato da precedenti sentenze di questa Corte, anche se si rinviene sul punto un’affermazione, in obiter, nella pronuncia di Cass. 7 ottobre 2010, n. 20834, ove si rileva che la nuova disciplina della revocatoria delle rimesse bancarie “rimuove dallo scenario esegetico il distinguo tra natura solutoria e ripristinatoria dei versamenti affluiti sul conto corrente”.
Sul punto, il Collegio non ritiene che la questione da ultimo menzionata, al pari delle altre, inerenti all’ambito di applicazione della L. Fall., art. 67, comma 3, lett. b), al contenuto precettivo dell’art. 70, comma 3, della stessa legge e al coordinamento che sia possibile operare tra le due disposizioni, giustifichino la trattazione della causa da parte delle Sezioni Unite, giacché la novità dei temi da affrontare non è da sola idonea a giustificare la rimessione richiesta dal ricorrente (che diversamente ogni questione nuova dovrebbe avere una tale sorte), mentre la particolare rilevanza delle questioni giuridiche stesse è stata correttamente apprezzata dalla Corte avviando la causa alla trattazione in pubblica udienza, in conformità di quanto prescritto dall’art. 375 c.p.c., comma 3.
1.4. Con riferimento alla precedente versione della L. Fall., art. 67 – che non conteneva alcuna specifica previsione per la revocatoria dei versamenti del correntista, poi fallito, sul conto corrente bancario – la giurisprudenza di questa Corte, da oramai quaranta anni (a partire dai fondamentali arresti di Cass. 11 dicembre 1978, n. 5836, Cass. 30 gennaio 1980, n. 709 e Cass. 18 ottobre 1982, n. 5413), è stata ferma nel distinguere le rimesse solutorie, afferenti a conti “scoperti”, non assistiti da apertura di credito, o con saldo eccedente l’affidamento concesso, che erano ritenute revocabili, da quelle ripristinatorie, riguardanti i conti solo “passivi”, in cui la rimessa valeva a ripianare una esposizione debitoria del cliente che si collocava al di sotto del tetto di finanziamento di cui il correntista stesso poteva godere attraverso la disposta apertura di credito. Si affermava, in particolare, che – venendo in questione un conto corrente bancario in cui la provvista fosse costituita da un’apertura di credito – per la revocatoria fallimentare, nei confronti della banca, dei versamenti sul conto, era necessario che dallo svolgimento di esso rimanesse accertato che, nel periodo “sospetto”, si fosse verificato, per l’utilizzazione fattane dal correntista, uno “scoperto” del conto (per avere la banca pagato, per conto del cliente, una somma superiore a quella postagli a disposizione) e che il successivo versamento fosse stato imputato dalla banca a pagamento del relativo debito sorto in capo al correntista (stante l’immediata esigibilità del corrispondente credito): ove tale “scoperto” non si fosse verificato, il versamento nel conto configurava un mero accreditamento di somme per la reintegrazione della somma posta dalla banca a disposizione del correntista che, in se stesso, non era atto nè gratuito, nè oneroso e non era quindi soggetto alla revocatoria fallimentare, consistendo, invece, in una mera operazione contabile (così Cass. 18 ottobre 1982, n. 5413).
Mette conto di rilevare come la giurisprudenza, di merito e di legittimità, abbia, nel tempo, elaborato aggiustamenti per escludere dall’area applicativa dell’azione revocatoria operazioni che, in base al portato astratto del criterio succitato, vi sarebbero state irragionevolmente ricomprese (è l’ipotesi delle partite bilanciate su conti scoperti, in cui la rimessa è eseguita dal cliente per fornire alla banca la provvista da destinare a un successivo esborso di pari importo), ovvero, al contrario, per includervi operazioni che, diversamente, ne sarebbero state altrettanto irrazionalmente estromesse (come nel caso del c.d. conto “congelato”: e cioè di quel conto che, benché assistito da apertura di credito, venga utilizzato solo per il rientro dal fido). E mette conto pure di ricordare come fosse diffusamente avvertita, dai diversi operatori, l’inidoneità della soluzione indicata a scongiurare, sul piano pratico, risultati talora ampiamente insoddisfacenti, come quello derivante dall’apprezzamento, ai fini della revocatoria, di plurimi versamenti solutori seguiti da reimpieghi delle somme da parte del correntista: evenienza, questa, che portava a ritenere inefficaci, nei confronti della massa, rimesse per somme superiori a quelle corrispondenti all’effettivo ripianamento dell’esposizione debitoria (tant’è che la giurisprudenza di merito, a partire da quella milanese, aveva elaborato, fin dagli anni settanta, il criterio del massimo scoperto, con cui veniva valorizzato il risultato complessivo, per l’abbattimento del debito, raggiunto dalle rimesse sul conto attraverso il calcolo del differenziale tra la massima esposizione del correntista nel periodo sospetto e il saldo di chiusura).
1.5. In tale quadro si colloca l’intervento legislativo del 2005 che, rimodulando la L. Fall., art. 67, prevede, al comma 3, lett. b), non essere soggette all’azione revocatoria “le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca”.
Della disposizione sono state date dalla giurisprudenza di merito due contrapposte letture: per una prima esegesi, che è seguita quasi unanimamente dalla dottrina, la norma attuerebbe il superamento della distinzione tra rimesse solutorie e ripristinatorie, sicché la revocatoria sarebbe oramai esperibile anche con riferimento a queste ultime. Per una seconda linea interpretativa, invece, il criterio discretivo basato sulla natura della rimessa manterrebbe valore anche a seguito della novella; la conclusione viene comunemente fatta discendere dal rilievo per cui le fattispecie elencate dalla L. Fall., art. 67, comma 3, costituirebbero pur sempre delle eccezioni al principio generale della revocabilità dei pagamenti di debiti liquidi ed esigibili: per il che, non potendosi considerare liquido ed esigibile il debito maturato dal cliente al di sotto della linea di affidamento, e non potendosi considerare atto estintivo di un tale debito la corrispondente rimessa, la revoca di quest’ultima andrebbe radicalmente esclusa.
1.6. Ritiene il Collegio che la prima soluzione si faccia preferire, e ciò per più ordini di rilievi.
Anzitutto, l’argomento testuale basato sul rapporto tra la regola della revocabilità dei pagamenti dei debiti liquidi ed esigibili (L. Fall., art. 67, comma 1, n. 2, e comma 2) e l’eccezione della non revocabilità delle rimesse bancarie (di quelle che non abbiano ridotto in modo consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito verso la banca) suppone nella formulazione della norma un rigore cartesiano che è smentito, nei fatti, dallo stesso legislatore. Se infatti fosse vero che tutte le ipotesi di pagamento individuate dal comma 3 dell’art. 67 concernono immancabilmente debiti liquidi ed esigibili, indipendentemente da una specificazione in tal senso, non si comprenderebbe la ragione per cui il legislatore abbia ritenuto necessario, alla lett. g) dello stesso articolo (nel disciplinare la revocatoria dei versamenti di corrispettivi per le prestazioni di servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali), seguire un diverso criterio, facendo espresso riferimento, per l’appunto, ai pagamenti di debiti che presentino siffatta connotazione.
Sono da rimarcare, semmai, due diversi dati letterali, che forniscono una prima indicazione circa l’effettiva irrilevanza, ai fini che qui interessano, della natura ripristinatoria o solutoria del versamento operato dal correntista. Infatti, l’espressione “esposizione debitoria”, di cui è parola nella lett. b) dell’art. 67 designa una situazione ben diversa, più ampia, di quella riconducibile al debito liquido ed esigibile, risultando compatibile sia col conto scoperto che col conto semplicemente passivo (col conto, cioè, in cui l’indebitamento è maturato entro il limite dell’affidamento concesso). Allo stesso modo, sarebbe riduttivo annettere al termine “rimesse”, pure presente nella cit. lett. b), il ristretto significato di pagamenti di debiti scaduti: occorre rilevare, in proposito, che la suddetta espressione è frutto dell’elaborazione giurisprudenziale e che, come si è detto, nella vigenza della disciplina ante-riforma si qualificavano “rimesse” sia i veri e propri atti solutori che quelli di ripristino della provvista: ed è palesemente incongruo opinare che il legislatore abbia mutuato quel termine dalle pronunce della giurisprudenza per poi conferirgli un significato diverso.
Ma a questi elementi se ne aggiungono altri, che giocano il loro ruolo sul piano dell’esegesi storica e della ratio legis.
Si è in precedenza fatto cenno sia alla giurisprudenza formatasi sul vecchio testo della L. Fall., art. 67 – la quale aveva tentato, negli anni, di far fronte a problemi applicativi collegati al criterio di selezione delle operazioni revocabili, e basato sulla distinzione tra rimesse solutorie e ripristinatorie -, sia agli effetti distorsivi che, nella pratica, quel criterio aveva mostrato di non saper arginare con la dovuta efficacia.
Il legislatore del 2005 era chiaramente avvertito di tali punti di criticità e ha direzionato il suo intervento verso il loro superamento.
Nella relazione illustrativa al provvedimento legislativo che introduce la modifica in esame è precisato che l’istituto della revocatoria fallimentare viene rimodulato, per un verso, meglio precisando i presupposti per l’esercizio dell’azione, “oggi sovente fonte di incertezze applicative e di contrasti giurisprudenziali”, e, per altro verso, introducendo nell’ordinamento una completa disciplina di esenzione della revocatoria “al fine di evitare che situazioni che appaiono meritevoli di tutela siano invece travolte dall’esercizio, sovente strumentale, delle azioni giudiziarie conseguenti all’accertata insolvenza del destinatario dei pagamenti” (recte: del loro autore).
Ebbene, la risposta a dette istanze è stata affidata a una disciplina delle rimesse bancarie che prescinde dalla finalità ripristinatoria o solutoria della rimessa, ma che è modellato su di un elemento normativo di novità, costituito dalla natura consistente e durevole della rimessa stessa.
È stato ricordato, in dottrina, come già prima dell’emanazione del D.L. n. 35 del 2005, la Commissione Trevisanato, istituita allo scopo di elaborare i principi e i criteri direttivi di uno schema di disegno di legge delega al Governo, relativo all’emanazione della nuova legge fallimentare, aveva predisposto un testo in cui l’esenzione dalla revocatoria delle rimesse in conto corrente era affidata al dato della “regolare movimentazione del conto”: il che, si è precisato, valorizzava non più gli effetti, di pura e semplice estinzione del debito, o di contestuale reintegrazione del credito disponibile, riconducibili al singolo versamento, ma conferiva piuttosto rilievo alla regolarità di flussi monetari in entrata e in uscita dal conto, attribuendo centralità al fatto che questo si autoalimentasse e svolgesse, quindi, una funzione di cassa, diversa da quella creditizia.
Se si guarda alla formulazione della norma odierna e agli scopi che lo stesso legislatore del 2005 dichiarava espressamente di prefiggersi, pare difficile sostenere che la L. Fall., art. 67, comma 3, lett. b.) segua una diversa logica. Prevedendo che l’esenzione dalla revocatoria non operi allorquando la rimessa riduca durevolmente (oltre che in maniera consistente) l’esposizione debitoria del correntista, l’art. 67, comma 3, lett. b), sposta il fuoco della disciplina dal dato formale dell’essere il versamento affluito o meno su di un conto affidato (e dall’essere il versamento stesso eseguito o meno in presenza di uno sconfinamento del correntista) a quello, sostanziale, da verificare in concreto, del prodursi, o del non prodursi, di una neutralizzazione degli effetti della rimessa in ragione di successive operazioni da conteggiarsi a debito dello stesso cliente (quali, ad esempio, i prelievi, i bonifici in favore di terzi, l’incasso, da parte di questi ultimi, di assegni tratti dal correntista in loro favore).
In tale prospettiva è evidente il superamento del criterio seguito della giurisprudenza formatasi sulla norma previgente, il quale era fondato sulla normale (ma, si badi, non indefettibile: cfr. infra) conseguenza generata dalla rimessa eseguita per ripianare, in presenza di un affidamento, un’esposizione debitoria contenuta nei limiti dell’affidamento stesso: vale a dire il non operare di tale rimessa quale atto solutorio. Sicché, in definitiva, il senso dell’intervento legislativo è da rinvenire proprio nella necessità di accertare, caso per caso, che il versamento sia stato riassorbito da successive operazioni di addebito, con un riutilizzo della somma rispondente alle finalità cui assolve il servizio di cassa che il conto corrente bancario è idoneo a svolgere per sua stessa natura (sul tema del servizio di cassa esplicato dalla banca cfr., tra le tante, Cass. 28 febbraio 2017, n. 5071 e Cass. 20 gennaio 2017, n. 1584).
Che la soluzione prescelta soddisfi le richiamate esigenze aventi ad oggetto la semplificazione della disciplina delle revocatorie fallimentari e la sterilizzazione dal rischio di possibili abusi è, poi, incontestabile.
Di certo, il criterio basato sulla durevolezza dell’abbattimento dell’esposizione debitoria consente di ribadire risposte già elaborate con riferimento ad alcuni problemi con cui la giurisprudenza aveva dovuto misurarsi in passato: così è, in particolare, per il caso delle partite bilanciate, non potendo di certo considerarsi durevole la rimessa che è seguita da un addebito per il cliente, e che si dimostra funzionale alla creazione della provvista per l’esecuzione di un successivo trasferimento di denaro dal correntista al terzo; nel caso delle operazioni bilanciate è del resto ben visibile la finalizzazione dell’operato della banca sul piano dello svolgimento del servizio di cassa di cui si è detto.
L’apprezzamento della durevolezza degli effetti della rimessa dovrebbe poi condurre, in uno col criterio del massimo scoperto di cui alla L. Fall., art. 70, comma 3, (su cui si tornerà a breve), al risultato di scongiurare l’effetto moltiplicatore delle revocatorie: il prodursi di una tale conseguenza (che penalizzava l’istituto di credito con revocatorie accolte per un ammontare che a volte era di gran lunga superiore alla differenza tra il picco più alto dell’esposizione del fallito e il debito residuo di questo risultante dall’ultimo saldo) trova infatti oramai ostacolo nella necessità di apprezzare gli effetti prodotti, nel tempo, dalla rimessa operata dal fallito; sicché, ove quell’effetto non sia durevole, per essere vanificato da successive operazioni da conteggiare a debito dello stesso correntista, la revocabilità della rimessa sarà da escludere.
Ma soprattutto – ed è il punto che qui più interessa, perché direttamente implicato nella trattazione della fattispecie oggetto di esame – la novella consente di porre rimedio alla dissonanza che, in base al sistema previgente, si produceva in presenza di pagamenti, operati dal correntista a fronte di una esposizione che si collocava al di sotto della linea di credito accordata, e non seguiti, in tutto o in parte, da successivi riutilizzi della somma fino alla chiusura del conto. La controversia portata all’esame della Corte prospetta, come si rilevava, questa particolare evenienza, giacché la rimessa eseguita dalla società fallita per Euro __ ha portato all’abbattimento del debito anche nella parte che si situava al di sotto del limite dell’affidamento (pari Euro __) e ha consentito alla banca di chiudere il conto con una esposizione che, secondo la sentenza impugnata, si aggirava poco al di sopra di Euro __. Ora, in base alla giurisprudenza radicatasi nella vigenza della precedente disciplina, le rimesse che incidevano sul conto passivo, non scoperto, erano per loro natura ripristinatorie e per ciò solo sottratte a possibili revocatorie. Si è in precedenza richiamato, al punto 1.4, il correttivo apportato dalla giurisprudenza stessa nell’ipotesi del conto congelato: ma si trattava, pur sempre, di un adattamento destinato a operare su dei casi-limite, assoggettato, oltretutto, all’apprezzamento di fatto del giudice del merito che, come tale, poteva variare di volta in volta. Riteneva infatti la Corte che l’accertamento del congelamento del conto, rimesso al giudice del merito, richiedesse la ricorrenza di specifiche circostanze, quali la chiusura anticipata del conto stesso o il diniego della concessione dei blocchetti degli assegni, ovvero condotte negoziali sintomatiche, in modo univoco, della natura solutoria dei versamenti (in tal senso: Cass. 20 novembre 2013, n. 26042; cfr. pure Cass. 2 luglio 2012 n. 11054 e Cass. 6 novembre 2007, n. 23107, ove si precisava che tali condotte non fossero tuttavia rinvenibili nel semplice fatto della mancata riutilizzazione della provvista). Per la verità, Cass. 18 ottobre 1982, n. 5413 – forse la più nota tra le pronunce con cui venne inaugurato il corso della giurisprudenza marcato dal discrimine tra rimesse solutorie e ripristinatorie – conteneva una indicazione, abbastanza ampia, sulla possibilità di attribuire valore estintivo del debito al versamento del correntista che incidesse su di un conto passivo: nella predetta sentenza, come accennato, la Corte faceva infatti comunque salva la possibilità di qualificare come solutoria la rimessa posta in atto sulla base di una imputazione dalla banca in tal senso. Era questo, però, un criterio di difficile applicazione, risultando finanche sfuggente la modalità con cui una tale imputazione avrebbe potuto accertarsi in concreto: e difatti esso risulta solo isolatamente richiamato nelle pronunce successive.
In termini generali, il sistema scontava innegabilmente la rigidità del criterio che distingueva le rimesse solutorie da quelle ripristinatorie: rigidità acuita dal principio secondo cui per accertare se le rimesse sul conto corrente bancario assistito da apertura di credito avessero avuto natura solutoria o ripristinatoria, occorreva porre in essere una valutazione che doveva operarsi con riferimento al momento dell’effettuazione dei singoli versamenti e non ex post, in relazione alla mancata riutilizzazione del credito da parte del cliente (Cass. 6 novembre 2007, n. 23107 cit.; Cass. 13 maggio 2005, n. 10122; Cass. 9 dicembre 2004, n. 23006).
Su questo specifico versante la novella – se interpretata nel senso fin qui indicato – consegna al giudice una modalità di accertamento della revocabilità della rimessa che è, rispetto al passato, più agile e sicuro, meno dipendente da verifiche dagli esiti incerti, e quindi in linea con la ratio di semplificazione cui appare preordinato l’intervento legislativo.
Ma l’esegesi che prescinde dalla annosa distinzione tra rimesse solutorie e ripristinatorie assicura pure lo strumento all’obiettivo, ad essa connaturato, di preservare adeguatamente la par condicio creditorum. Se infatti la norma impone di verificare, puramente e semplicemente, la durevolezza (oltre che la consistenza) della rimessa – sicché quel che rileva è, in ultima analisi, la persistenza dell’effetto estintivo del debito -, resta escluso che l’esenzione dalla revocatoria dipenda da un elemento (il mancato recesso della banca dal contratto di apertura di credito) che potrebbe dipendere da circostanze casuali o, peggio, da condotte strumentali dell’istituto di credito (interessato ad evitare che le rimesse operate dal correntista continuino ad affluire su di un conto assistito da una linea di credito, così da poterne opporre, in un secondo momento, la natura ripristinatoria).
1.7. Va pertanto affermato che ai fini della revocabilità, per come disciplinata, a seguito dell’intervento del D.L. n. 35 del 2005, convertito in L. n. 80 del 2005, dalla L. Fall., art. 67, comma 3, lett. b), è irrilevante che la rimessa posta in essere dal correntista fallito sia da qualificare rirpistinatoria o solutoria e cioè che afferisca a conto passivo o a conto scoperto, giacché quel che rileva è unicamente la consistenza e durevolezza degli effetti estintivi dell’esposizione debitoria.
In conseguenza, in base alla disciplina attuale, è possibile che la rimessa diretta a ripianare l’esposizione debitoria del conto passivo sia revocabile (come accade nel caso, da ultimo esaminato, in cui gli effetti solutori della rimessa permangano nel tempo); ed è possibile, all’inverso, che la rimessa attuata su conto scoperto non lo sia, non comportando essa un rientro durevole, perché neutralizzata da riutilizzi dell’importo da parte del correntista stesso.
Il primo motivo va dunque respinto.
1.8. Merita invece censura il metodo seguito dalla Corte di appello per accertare l’entità delle rimesse oggetto della revocatoria.
Come in precedenza osservato, il giudice distrettuale ha inteso non prendere in considerazione le operazioni poste in atto che si potessero considerare riutilizzi della somma versata, reputando che dovesse attribuirsi rilievo al solo dato della differenza tra la massima esposizione debitoria della società e l’ammontare residuo della pretesa creditoria alla data di apertura della procedura concorsuale. In tal modo ha ritenuto che l’ammontare da restituire andasse quantificato alla stregua del criterio di cui alla L. Fall., art. 70, nel testo in ultimo modificato dal D.Lgs. n. 169 del 2007, art. 4, comma 5, il quale dispone, al comma 3: “Qualora la revoca abbia ad oggetto atti estintivi di posizioni passive derivanti da rapporti di conto corrente bancario o comunque rapporti continuativi o reiterati, il terzo deve restituire una somma pari alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese, nel periodo per il quale è provata la conoscenza dello stato d’insolvenza, e l’ammontare residuo delle stesse, alla data in cui si è aperto il concorso. Resta salvo il diritto del convenuto d’insinuare al passivo un credito d’importo corrispondente a quanto restituito”.
Ora, il tema del coordinamento tra l’art. 67, comma 3, lett. b), e la L. Fall., art. 70, comma 3, è stato a lungo dibattuto: e in dottrina si è giustamente evidenziato come le due norme paiano obbedire a logiche diverse, giacché la prima di esse sembra considerare isolatamente le singole rimesse, mentre la seconda mostra di prendere in esame il rapporto nella sua complessità. E’ certo, comunque, che l’art. 70, comma 3, abbia riguardo alla somma da restituire una volta che si siano individuate, in base all’art. 67, comma 3, lett. b), le rimesse da revocare. Come precisato poi da questa Corte – ma l’approdo è condiviso dalla maggior parte dei commentatori – la L. Fall., art. 70, comma 3, pone un limite oggettivo all’obbligo di restituzione, che quindi non può superare la misura del richiamato differenziale (Cass. 9 dicembre 2015, n. 24868; Cass. 7 ottobre 2010, n. 20834). Tale limite si spiega in quanto le movimentazioni del conto (accrediti e addebiti) – che, succedendosi nel tempo, si bilanciano – sono indicative del fatto che nel periodo che interessa il correntista ha fruito di una elasticità di cassa, senza conseguire l’effetto pratico di un reale abbattimento della propria esposizione debitoria; la norma sembra quindi costituire un ulteriore presidio – eretto, questa volta, sul terreno dell’obbligazione restitutoria – volto ad evitare che l’esercizio di plurime revocatorie porti al conseguimento di un risultato non coerente con quanto ne dovrebbe costituire oggetto (facendo entrare nel computo della somma da ripetere anche i versamenti che non abbiano effettivamente ridotto il debito del correntista).
Peraltro, il dato aritmetico, valorizzato dalla Corte distrettuale, della differenza tra la massima esposizione debitoria nel periodo sospetto e il saldo negativo del conto al momento dell’apertura del concorso non è necessariamente indicativo dell’importo che va revocato, perché può essere influenzato da accrediti diversi da quelli da prendere in considerazione a norma della lett. b), comma 2, dell’art. 67: così accade ove vengano in questione le rimesse effettuate da terzi, di cui è parola nel quarto motivo di ricorso, le quali non sono ritenute revocabili quando risulti che il relativo pagamento non sia stato eseguito con danaro del fallito e sempre che il terzo, utilizzatore di somme proprie, non abbia proposto azione di rivalsa verso l’imprenditore prima della dichiarazione di fallimento o non abbia così adempiuto un’obbligazione relativa ad un debito proprio (Cass. 9 ottobre 2017, n. 23597; Cass. 7 dicembre 2012, n. 22247).
Il criterio del massimo scoperto, di cui ha fatto applicazione la Corte di appello, non esimeva pertanto la stessa dal prendere in esame le operazioni incidenti sul conto a seguito della rimessa di cui era stata domandata la revoca: e ciò al fine di apprezzare la durevolezza della riduzione dell’esposizione debitoria dipendente da essa, pervenendo, così, alla individuazione della somma oggetto di revocatoria. E’ ovvio, infatti, che l’adozione del criterio del massimo scoperto non possa mai portare alla quantificazione di una prestazione restitutoria eccedente l’effettivo importo delle rimesse revocabili: vale a dire delle rimesse che abbiano ridotto in maniera consistente e durevole il saldo a debito del correntista.
Vanno dunque accolti, per quanto di ragione, il secondo, il terzo e il quarto motivo che, da diverse angolazioni, contestano l’adozione, da parte della Corte di merito, del criterio del massimo scoperto quale metodo idoneo a individuare le rimesse revocabili.
- Il quinto mezzo oppone, ancora, la violazione della L. Fall., art. 67, comma 2 e comma 3, lett. b), in combinato disposto della L. Fall., art. 70, comma 3. C. S.p.a. si duole del fatto che la Corte di merito abbia calcolato la massima esposizione del conto sulla scorta del “saldo valuta”.
Col sesto motivo viene denunciata la insanabile contraddittorietà della motivazione in relazione all’adozione, quale “saldo disponibile”, del “saldo valuta”. All’affermazione di principio secondo cui l’esposizione debitoria massima della correntista non potesse essere individuata alla stregua del “saldo valuta”, era seguita, secondo la ricorrente, l’utilizzazione, in concreto, di tale criterio di quantificazione della differenza, nell’arco di tempo che interessava, tra il totale degli accrediti e quello degli addebiti.
2.1. I due motivi sono inammissibili.
La Corte di appello, prendendo in esame l’appello incidentale della curatela, ha sottolineato come entrambe le parti avessero dedotto che il saldo dovesse essere ricostruito avendo riguardo al momento dell’effettiva esecuzione degli incassi delle erogazioni da parte della banca, e quindi sulla base non già del saldo contabile, ritenuto inidoneo, al pari del criterio del saldo per valuta, ma a quello del saldo disponibile: in tal senso, secondo il giudice del gravame, il massimo scoperto andava quantificato prendendo in considerazione le date riportate nella colonna in cui erano ordinate le singole poste in ragione della “effettiva disponibilità da parte del correntista”. In tal modo veniva accertato che la massima esposizione debitoria per la società fallita era quella registrata alla data del __, quando ammontava a Euro __, mentre il saldo individuato dalla banca Euro __ al giorno __ costituiva la ricostruzione del conto corrente effettuata per data contabile.
Ciò posto, l’affermazione della Corte distrettuale secondo cui l’esposizione finale era stata calcolata attraverso i saldi disponibili si sottrae a censura, involgendo un accertamento rimesso al giudice del merito. Né l’istante potrebbe in questa sede lamentare il travisamento, da parte della sentenza impugnata, di un fatto assunto come incontrovertibilmente certo (l’appostazione, nella seconda colonna dell’estratto conto citato, dei saldi per valuta), giacché un tale vizio integrerebbe un errore revocatorio, da far valere con l’impugnazione ex art. 395 c.p.c., n. 4.
- Il settimo motivo contiene una doglianza di violazione della L. Fall., art. 67, comma 2 e comma 3, lett. b), in combinato disposto della L. Fall., art. 70, comma 3. Assume la ricorrente che la Corte di merito avrebbe impropriamente determinato il saldo infragiornaliero anteponendo un addebito (per Euro __) all’accredito di Euro __.
3.1. Il motivo è fondato.
Ricorda la ricorrente che nella propria comparsa di appello, di cui ha riprodotto lo stralcio che qui interessa (pagg. 16 e ss. del ricorso per cassazione) aveva rilevato come il saldo individuato dal Tribunale non tenesse conto di un addebito di Euro __ del __ (lo stesso giorno in cui aveva avuto luogo la rimessa oggetto della domanda revocatoria). La Corte di merito non ha smentito che il citato addebito fosse stato trascurato, né ha proceduto ad alcuna correzione con riguardo ad esso. Deve conseguentemente farsi applicazione della regola per cui in tema di revocatoria delle rimesse in conto corrente bancario effettuate da un imprenditore poi dichiarato fallito, nel caso di plurime operazioni di segno opposto nella stessa giornata in cui appaia uno scoperto di conto, il fallimento che chieda la revoca di rimesse aventi carattere solutorio in relazione al saldo infragiornaliero e non al saldo della giornata, ha l’onere di dimostrare l’esistenza di atti aventi carattere solutorio e, dunque, la cronologia dei singoli movimenti: cronologia che non può essere desunta dall’ordine delle operazioni risultante dall’estratto conto ovvero dalla scheda di registrazione contabile, in quanto tale ordine non corrisponde necessariamente alla realtà e sconta i diversi momenti in cui, secondo le tipologie delle operazioni, vengono effettuate le registrazioni sul conto; sicché, in mancanza di tale prova, devono intendersi effettuati prima gli accrediti e poi gli addebiti (Cass. 29 marzo 2016, n. 6042; Cass. 10 maggio 2012, n. 7158). In conseguenza, l’importo di Euro __, oggetto del motivo, avrebbe dovuto essere posposto, e non anteposto alla rimessa di Euro __.
- In conclusione, vanno accolti, per quanto di ragione, il secondo, il terzo e il quarto motivo, nonché il settimo; va rigettato il primo e sono da dichiararsi inammissibili il quinto e il sesto.
La sentenza è cassata e il giudice del rinvio dovrà fare applicazione dei seguenti principi di diritto:
“In tema di azione revocatoria fallimentare, il R.D. n. 267 del 1942, art. 67, comma 2, lett. b), (nel testo modificato dal d.l. n. 35/2005, convertito, con modificazioni, nella L. n. 80 del 2005), prescinde dalla natura solutoria o ripristinatoria della rimessa e quindi dal fatto che la stessa afferisca a un conto scoperto o solo passivo, ma impone al giudice del merito di accertare la revocabilità della rimessa stessa avendo riguardo, oltre che alla consistenza, alla durevolezza di essa: accertamento che non può essere surrogato dalla semplice quantificazione della differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle pretese della banca nel periodo per il quale è provata la conoscenza dello stato di insolvenza e l’ammontare residuo delle stesse alla data in cui si è aperto il concorso, come previsto dal successivo art. 70, comma 3 (nel testo novellato dal cit. D.L. n. 35 del 2005 e modificato, da ultimo, dalla L. n. 169 del 2008), giacché quest’ultima disposizione indica solo il limite massimo dell’importo che il convenuto in revocatoria può essere tenuto a restituire.
“In tema di azione revocatoria fallimentare, le rimesse effettuate dal terzo sul conto corrente dell’imprenditore, poi fallito, non sono revocabili quando risulti che il relativo pagamento non sia stato eseguito con danaro del fallito e che il terzo, utilizzatore di somme proprie, non abbia proposto azione di rivalsa verso l’imprenditore prima della dichiarazione di fallimento, né che abbia così adempiuto un’obbligazione relativa ad un debito proprio.
“In tema di revocatoria delle rimesse in conto corrente bancario effettuate da un imprenditore poi dichiarato fallito, nel caso di plurime operazioni di segno opposto nella stessa giornata in cui appaia uno scoperto di conto, il fallimento che chieda la revoca di rimesse aventi carattere solutorio in relazione al saldo infragiornaliero e non al saldo della giornata, ha l’onere di dimostrare l’esistenza di atti aventi carattere solutorio e, dunque, la cronologia dei singoli movimenti, cronologia che non può essere desunta dall’ordine delle operazioni risultante dall’estratto conto ovvero dalla scheda di registrazione contabile, in quanto tale ordine non corrisponde necessariamente alla realtà e sconta i diversi momenti in cui, secondo le tipologie delle operazioni, vengono effettuate le registrazioni sul conto, sicché in mancanza di tale prova devono intendersi effettuati prima gli accrediti e poi gli addebiti”.
Al giudice del merito spetterà di regolare le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie per quanto di ragione il secondo, il terzo e il quarto motivo, nonché il settimo; rigetta il primo e dichiara inammissibili il quinto e il sesto; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di __, che deciderà in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 1 Sezione Civile, il 12 settembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2019