Società in liquidazione: la valutazione giudiziale
Società in liquidazione: la valutazione giudiziale deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale
Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 24948 del 07/10/2019
Con ordinanza del 7 ottobre 2019, la Corte di Cassazione Civile, Sezione III, in tema di recupero crediti, in relazione alla società in liquidazione, ai fini dell’applicazione dell’art. 5, L.F. (R.D. n. 267 del 1942), la valutazione giudiziale deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali e non può non tener conto anche delle concrete possibilità di realizzo e della relativa tempistica, non essendo questione secondaria il ritardo spropositato nella realizzazione del proprio credito, da valutarsi a cura del giudice, con giudizio che – quando sia espressamente motivato – si sottrae al controllo in sede di legittimità.
Corte di Cassazione Civile, Sezione I, Ordinanza n. 24948 del 07/10/2019
Società in liquidazione: la valutazione giudiziale deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. __ – Presidente –
Dott. __ – rel. Consigliere –
Dott. __ – Consigliere –
Dott. __ – Consigliere –
Dott. __ – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso __ proposto da:
(OMISSIS) S.r.l. – ricorrente –
contro
C. – controricorrente –
contro
Fallimento (OMISSIS) S.r.l. – intimato –
avverso la sentenza n. __ della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il __;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del __ dal Pres. Dott. __.
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Milano ha respinto il reclamo proposto, ai sensi della L.F., art. 18, avverso la sentenza dichiarativa del fallimento della (OMISSIS) srl (poi (OMISSIS), dalla detta società nel contraddittorio con la Curatela del Fallimento e con il creditore procedente (C.).
La Corte territoriale ha affermato che, l’appello della società ricorrente non poteva trovare accoglimento in relazione a nessuno dei tre motivi di appello: a) il primo, costituente una mera esposizione difensiva, privo di censure alla motivazione, perché dal reclamo non era dato comprendere quale differenza di trattamento sarebbe scaturita per la società dalla fase di liquidazione sostanziale (così definita dal Tribunale), atteso che non era utile a tal proposito né l’avvenuta costruzione dell’immobile e né il finanziamento bancario, che si trovava ancora nella fase della istruttoria (per essere emersa soltanto una disponibilità della Banca a effettuare una nuova perizia sul cantiere, senza che ci fosse la certezza della percezione della somma richiesta in prestito); b) il secondo, perché articolato in una lunga esposizione della diversa lettura dei dati del bilancio della società relativo all’anno __, atteso che ove anche fondato nelle sue osservazioni, esso lasciava inalterato il dato incontrovertibile della non monetizzabilità degli attivi di bilancio con effetti non satisfattori sia per il creditore procedente e sia per la convenienza dell’eventuale sottoscrizione di una transazione. Infatti, il patrimonio immobiliare non era suscettibile di una liquidazione celere e, soprattutto, garantita nei tempi di un prevedibile pagamento dilazionato, anche a seguito di un accordo transattivo con i creditori; c) il terzo, poiché la reazione all’affermazione del Tribunale circa la mancanza o la garanzia di fondi utili alla proposta transattiva del creditore procedente è stata quella di una seconda ed ulteriore proposta inviata solo dopo la dichiarazione di fallimento.
Contro tale decisione la società (ora (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, illustrati anche con memoria.
Il Creditore procedente (C.) ha resistito con controricorso.
La Curatela fallimentare non ha svolto difese.
Motivi della decisione
Con il primo mezzo (Erronea applicazione delle norme di cui alla L.F., art. 18 e art. 118 disp. att. c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3), la ricorrente si duole della reiezione del reclamo senza l’indicazione della norma applicata, in violazione dell’art. 118 disp. att. c.p.c., nell’ipotesi che la Corte avesse applicato i principi sull’appello di cui all’art. 342 c.p.c., comma 1, sicuramente inapplicabili al reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, così come disciplinata dalla L.F., art. 18.
Secondo la ricorrente, infatti, ove avesse rigettato il reclamo ritenendolo inammissibile, la Corte avrebbe violato la L.F., art. 18, che attribuisce al reclamo effetto pienamente devolutivo, con esclusione del doveroso controllo sullo stato di liquidazione di Palco (peraltro, accertato in fatto dal Tribunale), verificando la capienza patrimoniale e la disponibilità dei mezzi per perfezionare la transazione con l’unico creditore istante, revocando la dichiarazione di fallimento del debitore.
Con il secondo (Erronea applicazione della L.F., art. 5 (art. 360 c.p.c., n. 3), la ricorrente si duole della violazione dei principi relativi all’accertamento dello stato d’insolvenza delle società in liquidazione, che esigerebbero unicamente la verifica in ordine alla valutazione degli elementi attivi e alla loro possibilità di un integrale soddisfacimento dei creditori sociali.
Affermando l’irrilevanza dell’accertamento in ordine alla sussistenza dello stato di liquidazione della società, la Corte territoriale avrebbe violato i quattro principi enunciati dalla Cassazione: a) la necessaria distinzione tra l’insolvenza dell’impresa operativa e di quella dell’impresa in liquidazione; b) tale distinzione sarebbe applicabile anche alle imprese che di fatto si trovino in stato di liquidazione (per quanto non formalizzato); c) per tutte le imprese in liquidazione (comprese quelle non formalizzate come tali) si applicherebbe l’unico criterio costituito dalla valutazione della consistenza delle attività, poste in raffronto con quella delle passività; d) a tali imprese non si applicherebbero le regole valevoli per quelle operative, compresi il rilievo della disponibilità del credito, delle risorse liquide e della facile e tempestiva monetizzabilità dei cespiti.
Il ricorso si compone di due mezzi di doglianza attinenti, in ordine successivo: a) il primo, all’ipotizzata surrettizia applicazione delle regole dell’appello a quelle dei reclami, con particolare riferimento al reclamo previsto e disciplinato dalla L.F., art. 18, con la sottintesa enunciazione del principio di specificità e causalità del mezzo di doglianza, che nella specie sarebbe stato implicitamente escluso dalla Corte territoriale, con violazione delle richiamate norme codicistiche; b) il secondo, in caso di superamento della prima censura, alla denuncia di un quadruplice errore commesso dal giudice del reclamo che, anziché verificare il certo stato di liquidazione della società debitrice, avrebbe omesso tale necessario passaggio (ritenendolo irrilevante, anche per le società in liquidazione di fatto) e avrebbe così applicato i contrari principi valevoli solo per le società operative che non versino in stato di liquidazione.
Il primo motivo, in disparte il carattere ipotetico della sua formulazione (che porterebbe alla sua dichiarazione di inammissibilità) è in realtà infondato, in quanto (al di là della utilizzazione non sorvegliata del termine appello in luogo di reclamo, in questo o quel passo della motivazione contenuta nel provvedimento impugnato) la Corte territoriale ha compiuto un esame pieno della doglianza, avendo ribadito – alla fine della propria argomentazione in ordine al carattere non specifico del motivo di reclamo – che non era utile, ai fini dell’accoglimento del mezzo, né l’avvenuta costruzione dell’immobile e né il finanziamento bancario, che si trovava ancora nella fase della istruttoria (con la disponibilità della Banca a effettuare una nuova perizia sul cantiere relativo alla costruzione), senza che ci fosse la certezza della percezione della somma richiesta in prestito.
In sostanza, la pur asserita non conducenza del primo motivo del reclamo, ha costituito solo una modalità dialettica di esame delle censure che, tuttavia, non si è fermata solo alla forma della sua esposizione e alla sua profilazione formale, ma ha anche esaminato quanto oggetto di doglianza, affermando – con accertamento fattuale – l’inesistenza di fonti utili ad una pronta liquidazione né in considerazione del mero fatto della costruzione immobiliare e né dell’istruttoria del finanziamento bancario, in corso.
Quanto al secondo mezzo, con il quale si deduce la mancata verifica dell’effettivo stato di liquidazione della società debitrice (ritenendolo irrilevante, per le società in liquidazione di fatto), causativa dell’applicazione dei contrari principi valevoli solo per le società operative che non versino in stato di liquidazione, va premesso che questa Corte non si è mai occupata della verificazione dello stato d’insolvenza delle società che versino in uno stato di liquidazione di fatto (secondo dei quattro principi che si assumono violati dalla Corte territoriale), tantomeno per assimilare tale tipo di imprese a quelle che si trovino in un deliberato stato di liquidazione (primo principio, che pure si assume violato).
Anche di recente la Corte (Sez. 1, Ordinanza n. 19414 del 2017), ha ribadito che “Quando la società è in liquidazione, la valutazione del giudice, ai fini dell’applicazione della L.F., art. 5, deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali, e ciò in quanto – non proponendosi l’impresa in liquidazione di restare sul mercato, ma avendo come esclusivo obiettivo quello di provvedere al soddisfacimento dei creditori previa realizzazione delle attività, ed alla distribuzione dell’eventuale residuo tra i soci – non è più richiesto che essa disponga, come invece la società in piena attività, di credito e di risorse, e quindi di liquidità, necessari per soddisfare le obbligazioni contratte”.
Ora è ben vero che tale principio è stato più volte ribadito da questa Corte e, tuttavia, in disparte la questione dell’assimilabilità della società che si trovi in stato di liquidazione de facto, rispetto a quelle che tale stato abbiano specificamente deliberato (questione che non sembra aver formato oggetto di reclamo davanti alla Corte territoriale, la quale non ha al riguardo espresso alcuna ratio decidendi), resta comunque la necessità di precisare che, la valutazione del giudice, ai fini dell’applicazione della L.F., art. 5, deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali anche tenendo conto, come – con apprezzamento di fatto insindacabile in questa sede mostra di aver fatto la Corte d’appello – delle concrete possibilità di realizzo e della relativa tempistica, non essendo questione secondaria il ritardo spropositato nella realizzazione del proprio credito.
Significativamente questa Corte, con un recentissimo arresto (Cass. Sez. 1 -, Sentenza n. 18137 del 2018), ha affermato il principio secondo cui “Ai fini della valutazione dello stato di insolvenza, l’accertamento degli elementi attivi del patrimonio sociale, idonei a consentire l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali, non può prescindere dalla valutazione della concretezza ed attualità di tali elementi, sicché non possono assumere rilievo le attribuzioni patrimoniali in favore della società condizionate all’ammissione di questa alla procedura di liquidazione coatta amministrativa, essendo tali attribuzioni non ancora efficaci al momento della valutazione dell’insolvenza, né potendo questa, quale presupposto fattuale di carattere storico (oltre che giuridico) dell’apertura della procedura, essere valutata come esistente al fine di determinare l’efficacia dell’attribuzione e, nel contempo, non più esistente a causa del meccanismo della retroattività della condizione, che è mera fictio inidonea a cancellare quel presupposto fattuale”.
In sostanza, ai fini dell’applicazione della L.F., art. 5, la valutazione del giudice che – quando la società è in liquidazione deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali – non può non tener conto anche delle concrete possibilità di realizzo e della relativa tempistica, non essendo questione secondaria il ritardo spropositato nella realizzazione del proprio credito, da valutarsi a cura del giudice, con giudizio che – quando sia espressamente motivato – si sottrae al controllo in questa sede.
Il ricorso, pertanto, va respinto con le conseguenze in ordine a: a) le spese processuali, a carico dei ricorrenti e liquidate come in dispositivo; b) il raddoppio del contributo unificato già assolto.
P.Q.M.
Respinge il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali che liquida in complessivi Euro __, di cui Euro __ per esborsi, oltre alle spese generali forfettarie ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara che sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 18 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2019